mercoledì 30 settembre 2009

feltri racconta

Andrea Marcenaro per "First", in edicola domani

L'Italia di inizio anni Novanta si era spaccata in due su Indro Montanelli. Intorno alla metà di settembre di quest'anno, è sembrata rispaccarsi in due su Vittorio Feltri. Due direttori del Giornale. Entrambi di destra. Montanelli, diventato infine eroe della sinistra perché Silvio Berlusconi era entrato in politica e lui lo aveva combattuto senza quartiere. Feltri, odiato dalla sinistra, e non solo da essa, perché non ha concesso quartiere agli avversari di Berlusconi. Inconsueti i motivi dello scontro di oggi.

L'attacco di Feltri si era rivolto infatti contro Dino Boffo, direttore di Avvenire e creatura culturalmente affine a Camillo Ruini, vale a dire una delle personalità religiose più avversate dalla sinistra di sempre. Poi contro Gianfranco Fini, l'ex fascista per cui la sinistra europea solo pochi anni fa rifiutava la mano ai membri del governo italiano. E adesso invece la sinistra lo applaude. L'Italia è d'altronde uno strano Paese. E questa a Feltri è una strana intervista.

Direttore, dov'è la nobiltà, nel lavoro di giornalista?
«Di nobile c'è poco. Può essere divertente, perfino appassionante, di nobiltà non parlerei».

Dice per sé?
«Per me e per gli altri».

Non tutti sono come lei.
«Vero. Gli altri sono disinteressati, altruisti e imparziali. Diciamo santi. E indipendenti, mi raccomando, scriva che sono indipendenti, non servili come me. Li invidio».

Ha una notizia che farebbe soffrire una persona che ama. La pubblica?
«Notizia come? Importante?»

Così così.
«Non la pubblico».

Ha una notizia, di pari peso, che farebbe soffrire una persona che non ama. La pubblica?
«Direi di sì. Può capitare che no, ma se può avere un minimo interesse tendo a pubblicarla».

Figli e figliastri.
«Faziosità, la mia, anzi, perfidia. Laddove gli altri, quelli nobili, menano a 360 gradi senza partigianeria. Le confesso un cosa?».

Prego.
«Personalmente trovo qualche difficoltà, ad astrarmi da me stesso. Sono fatto così, ho una premura più pronunciata verso quelli cui voglio bene o la cui opinione ho condiviso. Se poi la realtà chiede di arrendermi, lo faccio. Talvolta però mi sorprendo più comprensivo con loro e più intransigente invece con quelli che non conosco. Che mosca bianca, eh?».

Nera, dicono semmai.
«Già, nera».

Ha una notizia che può spingere una persona alla disperazione, o al suicidio. La pubblica?
«Come si fa a pensare che qualcuno possa ammazzarsi? Non puoi chiederti quali effetti produrrebbe una notizia nella sfera più insondabile di chi ne viene coinvolto».

Perché?
«Non scriveresti niente, mai più. Può essere una scelta, ma sarebbe la negazione del nostro mestieraccio».

Ha una notizia che danneggia il suo editore. La pubblica?
«Una notizia come?».

Importante, verificata.
«La pubblico».

Dubito.
«Lei dubiti, io la pubblico».

Per amor di verità?
«Anche. Di più per amor proprio».

Cioè?
«Un giornale è luogo di relazioni. Non avrei la faccia per affrontare gli altri il giorno dopo. E non si dirige un giornale nascondendo la faccia. Attutirei, forse, metterei bambagia, si conoscono mille modi di presentare le notizie imbarazzanti. Ma pubblicarla, la pubblico».

E poi si dimetterebbe?
«Nemmeno per sogno».

E il dovere di lealtà verso chi paga?
«Se ho scritto balle, merito il licenziamento. Se no, l'editore può cacciarmi, ma la lealtà non c'entra, né per dritto né per rovescio».

Ecco di nuovo il Feltri mosca bianca...
«...nera, avevamo detto...».

...il Feltri mosca nera che darebbe senza esitazione una notizia contro Silvio Berlusconi. Mentre i casi Boffo e Fini sono lì ad accusarlo dell'opposto.
«Da quale partiamo?».

Fini.
«Su molte cose, dal testamento biologico in giù, ero più d'accordo con lui che con Berlusconi. Nel processo di formazione del Popolo delle libertà ho sostenuto le sue ragioni più di quelle di Berlusconi, e l'ho scritto. Se di amicizia si potesse parlare, ero più amico suo che di Berlusconi».

Finché l'editore non le ha chiesto un favorino.
«Cretinate. Finché Fini non ha dettato alle agenzie di stampa che ero un killer politico».

Ha parlato di "killeraggio politico in voga", non si è riferito direttamente a lei.
«Già. E qui siamo tutti fessi. Repubblica linciava il premier da mesi e neanche una parola. Io attacco Dino Boffo con una sentenza pubblica, e il giorno stesso il presidente della Camera spara sul killeraggio politico. Be', killer lo vada a dire a sua sorella. Ho difeso il mio e reagito a una slealtà».

Che abbia reagito non si può negare.
«E cosa c'entra il favorino all'editore?».

C'entra col fatto che Berlusconi e Fini non erano culo e camicia.
«Non lo erano da mesi, forse da anni, e che Fini cercasse una visibilità politica a prescindere dai patti elettorali, e dalla stessa linea del Pdl, non era una novità».

Appunto, la brutalità dell'accelerazione antifiniana si spiega con il suo passaggio al Giornale, e coincide con le aspettative dell'editore, il quale l'ha chiamata per togliersi alcuni sassoloni dalle scarpe.
«No. Decisivo è stato quello che le ho detto. Quanto a ciò che ho scritto di Fini, l'ha confermato lui stesso con le prese di posizione successive. E non credo di aver fatto un favore a Berlusconi. Che poi io consideri Fini una specie di Follini, destinato a rompere i coglioni sempre, per nulla concludere mai, questo è un fatto e un libero convincimento, non è il precipitato di un complotto».

Ne circolano di notevoli, sul suo ingaggio per trasferirsi al Giornale. Siamo arrivati a 15 milioni di euro.
«Ne sarei lusingato. Facciamo così. Se qualcuno dimostra che ho preso 15 milioni, ma anche 2, e mi voglio rovinare, 1, mi impegno a versargli una parte del malloppo».

Quanto?
«Il dieci per cento».

Mica molto.
«Su 15 milioni balla un milione e mezzo. Su un milione, centomila. Buttali via».

Quanto le hanno offerto, invece?
«Cinquantamila euro l'anno in più di quello che prendevo a Libero».

Vale a dire?
«750 mila euro l'anno. Mica niente, no?».

Più che a me. Chissà come si saranno incazzati gli Angelucci. Dicono che i suoi vecchi editori di Libero la strozzerebbero.
«Un po' sì. Quando gliel'ho detto, Gianpaolo c'è rimasto male. E mi ha controproposto delle cifre che non è stato facile rifiutare. Ma ormai avevo firmato per il Giornale».

Sta dicendo che prima ha firmato col Giornale e solo dopo l'ha detto agli Angelucci?
«Sì».

E non poteva avvisarli prima?
«Potevo, non l'ho fatto».

Gad Lerner le ha disegnato il seguente profilo: «È il senso comune conservatore, politicamente scorretto, con le dovute spruzzatine reazionarie».
«Perfetto, mi riconosco».

Spruzzatine reazionarie comprese?
«Ma sì, non mettiamoci a guardare il capello».

La ricordavo di più per il suo aspetto rivoluzionario. Con Berlusconi è diventato garantista, ma i suoi entusiasmi per Mani pulite e per la rivoluzione contro i ladroni della Prima repubblica restano indimenticabili.
«Colpito».

In che senso?
«Ho scritto cose che non riscriverei».

Per esempio?
«Su Bettino Craxi. Ne avevo stima, ma contribuii a massacrarlo, a dipingerlo come il cinghiale nababbo e ladrone, e non lo era».

Gliel'ha detto?
«Sono andato a Hammamet, ne abbiamo parlato».

Cosa gli raccontò?
«La verità. Ero all'Indipendente, dovevo vendere copie, il clima era quello, e su quello il giornale aveva preso a tirare come una bestia. Mi adeguai per convenienza. Ne ho crocifissi parecchi. Me ne dispiace, così sono andate le cose».

Non le pare, con Berlusconi, di essere diventato garantista a senso unico? Di nuovo perché così vanno le cose?
«No, non mi pare. Ma voglio aggiungere un nome che ho qui, sullo stomaco».

Prego.
«Severino Citaristi, l'amministratore della Democrazia cristiana. Era di Bergamo come me, lo conoscevo per onesto. Ha avuto più processi di tutti, i democristiani scaricavano su di lui ogni colpa, le procure lo martoriavano e lui ne soffriva. Non solo non l'ho difeso, l'ho messo nel tritacarne. Me ne vergogno, ma insomma, quel che ho fatto ormai l'ho fatto».

Una cosa ancora, quella sua stima per Di Pietro.
«Mi aveva garantito: non guarderemo in faccia nessuno, verrà anche il tempo del Pci. Non era vero. Non c'era nemmeno una giustizia, nell'ingiustizia. Sposò anche lui la politica dei due pesi e delle due misure. E ragionai di quale stoffa fosse fatto».

Perché ha attaccato in quel modo il direttore di Avvenire?
«Perché la notizia era quella e parlava da sola».

Perché in quel momento?
«Se il momento fosse stato un altro, lei mi chiederebbe: perché proprio in quell'altro momento? La risposta è semplice: perché in quel momento ho avuto la fotocopia del decreto penale che riguardava Dino Boffo».

Da chi?
«Da persona affidabilissima e molto al di sopra di ogni sospetto. Moltissimo».

Oh Madonna, Eugenio Scalfari?
«Acqua».

Avrebbe dato la notizia se si fosse trattato, mettiamo, di Paolo Bonaiuti?
«L'Espresso, Repubblica, la Stampa, il Corriere, il Messaggero, il Gazzettino, e potrei continuare, l'avrebbero data loro da anni, gli atti del processo sarebbero pubblici, avrebbero trovato il modo di dire che Berlusconi era complice e ci avrebbero costruito sopra 10 domande. Certo che l'avrei data, non foss'altro perché non avrei potuto non darla».

Dino Boffo ne ha avuto l'immagine distrutta. È contento?
«No, non sono contento».

Ridarebbe la notizia?
«Sì».

Conosceva Boffo?
«Incrociato un paio di volte».

Aveva motivi di risentimento personale nei suoi confronti?
«Risentimento è una parola forte. Però sì».

Quali?
«Nel 2000 venni radiato dall'Ordine dei giornalisti di Milano per aver pubblicato su Libero alcuni nomi di pedofili e alcune foto sulla pedofilia. Feci ricorso. Due furono i colleghi che si accanirono particolarmente affinché l'Ordine respingesse quel ricorso, invece accolto: Boffo e un giornalista romano».

Chi è il giornalista romano?
«Lasciamo perdere».

Non vorrei essere nei suoi panni.
«E perché?»

Come perché?
«Io non faccio rappresaglie. Mi limito a ricordare che quel tipetto si comportò da stronzo».

Come sono i rapporti con Maurizio Belpietro, che l'ha sostituita a Libero?
«Buoni».

Buoni?
«Buoni. Avevo fatto su di lui quella battuta stupida: "Belpietro arriverebbe secondo anche se corresse da solo". Non solo non è vero, com'è ovvio, ma mi dispiace molto di averla fatta».

È la giornata delle scuse.
«Di quelle giuste, che non sono troppe».

«Vittorio Feltri era un grande giornalista. Peccato», dice Claudio Sabelli Fioretti.
«Giuseppe D'Avanzo scrive tutti i giorni su Repubblica che sono un assassino. Quello di Sabelli Fioretti, in confronto, è un complimento da esibire».

Chi assumerebbe al volo?
«Giampaolo Pansa, da sempre, lo assumerei subito».

È appena andato a Libero.
«Bel colpo».

Poi?
«Emanuela Audisio di Repubblica».

La odia?
«Perché?».

Così le stronca la carriera.
«Infila la politica anche nel nuoto, ma mi piace. E Giancarlo Perna, ma quello ce l'ho già».

Ci sono più ruffiani a sinistra o a destra?
«Prima a destra, adesso se la battono».

Chi le sta davvero sulle scatole, a destra?
«Quasi tutti».

Quasi tutti è quasi nessuno. Più Dell'Utri o più Scajola?
«Dell'Utri mi è simpatico».

Poco tempo fa, dichiarò: «A Silvio sto sulle balle. Se non gli stessi sulle balle, mi chiederei perché». Pare che sia arrivato il momento di chiederselo.
«Perché sto al Giornale?».

E certo.
«Continuo a stargli sulle balle. E lo capisco. Gli ho fatto la fronda a Libero per nove anni...».

E il dolore è stato tale che l'ha assunta.
«Appena arrivato al Giornale gli ho fatto saltare l'incontro col segretario di Stato Tarcisio Bertone, e, chiacchiere o no, non l'ha presa bene. Poi Fini, e, chiacchiere o no, non ha preso bene nemmeno quella».

Chiacchiere, chiacchiere, non saranno tutte chiacchiere.
«Senta, io ho una scorta, non sono mai solo. Chieda a loro se sono mai andato a palazzo Grazioli, o a palazzo Chigi, o ad Arcore, o dove vuole. E autorizzo Telecom, o chi per essa, a mostrare i tabulati delle mie telefonate. Se ne trovano una di Berlusconi, mi dimetto».

Ha sempre pagato le tasse sul prezzo pieno, per le case che ha acquistato?
«Prima non si poteva, esisteva l'Invim, l'imposta sul maggior valore che la casa aveva acquisito nel tempo, e chi vendeva non tollerava di vendere formalmente al prezzo reale».

Prima. E poi?
«Adesso c'è la tassa se vendi una casa prima di cinque anni da quando l'hai comprata. La considerano speculazione. Negli ultimi anni io ho venduto e ho pagato quella».

Non sapevo che fosse amico di Furio Colombo.
«Lavoravamo insieme all'Europeo, teneva una rubrica che si chiamava Camera con vista. Amici non so, ma abbiamo buoni rapporti».

Scriveste un libro insieme.
«Il titolo era Fascismo e antifascismo, io scrissi la parte sull'antifascismo».

Guarda tu la vita.
«Sul fascismo era più documentato lui di me».

«Avevo il massimo di visibilità, ero molto di moda, così avevo tutte le donne che volevo». Chi l'ha detto, Silvio Berlusconi o Alberto Sordi agli esordi?
«Berlusconi è di moda anche adesso, sulle donne si trova nella bufera tuttora, perciò era Sordi».

Errore, fu Michele Santoro.
«Tu guarda la vita».

Quel messaggio trasversale sul Fini a luci rosse è stato imperdonabile.
«L'ho chiarito: nessuna minaccia, semmai un timore e una messa in guardia. Non lancio messaggi mafiosi. I bergamaschi ruvidi, teppisti e bestie come me, non conoscono il ghirigori del messaggio obliquo. Siamo gente che urla».

[30-09-2009]
by dagospia

giovedì 24 settembre 2009

villa castelli elezioni da rifare


Villa Castelli (Br) – Elezioni da rifare. Tutto da ripetere per la scelta del primo cittadino dopo la pronuncia dei giudici del Tar chiamati in soccorso dal candidato “sconfitto”: la carta del ricorso per chiedere l’azzeramento del risultato di giugno è stata giocata e vinta da Vitantonio Caliandro, “il maestro” di animo socialista, dopo aver perso nel duello familiare con Francesco Nigro, il nipote, ex delfino, approdato al Comune con uno scarto di 336 voti (3.305 rispetto a 2.969). Scacco elettorale. Quel numerino a tre cifre la differenza l’ha fatta sul piano della giustizia amministrativa e ha portato alla “defenestrazione” del sindaco con il ritorno alle urne. Praticamente un colpo di scena dal sapore politico-elettorale con un retrogusto casalingo che qualcuno ha voluto paragonare a una soap per l’intensità dell’effetto sorpresa. Da infarto visto lo scossone nel comune che conta poco più di novemila anime, settemila delle quali aventi diritto al voto. Il provvedimento con cui è stato proclamato sindaco di Villa Castelli Nigro è stato annullato: non è più il primo cittadino dopo il dispositivo consegnato dai magistrati amministrativi per i quali la parola deve essere data di nuovo ai cittadini, salvo il ricorso al Consiglio di Stato con annessa richiesta di sospensiva, che rappresenta il secondo e ultimo grado di giudizio.
E che, naturalmente, sarà azionato dal detronizzato non appena saranno depositate le motivazioni.   I giudici del Tribunale amministrativo regionale, sezione di Lecce, hanno annullato il verbale della proclamazione, accogliendo in toto il “reclamo” depositato da Vitantonio Caliandro contro Francesco Nigro che all’indomani della cerimonia ufficiale ha iniziato a lavorare per il suo “bis” nel Palazzo, in cui arrivò grazie allo zio, un veterano della politica, capace di governare per due lustri Villa Castelli.  La puntata forse più tribolata della saga politico-casalinga in scena negli ultimi tre anni, è arrivata ieri. Ed è destinata ad avere ripercussioni tali da prefigurare una battaglia ancora più dura rispetto a quella vista sinora tra i due, entrambi determinati a scrivere la parola vittoria.
Leggi l'articolo completo sull'edizione di Senzacolonne oggi in edicola
ULTIMO AGGIORNAMENTO ( GIOVEDÌ 24 SETTEMBRE 2009 08:42 ) by senzacolonne.it

DOLORI PER PRODI! IL PENTITO DELLA ‘NDRANGHETA RIVELA "TUTTI SAPEVANO DI VIA GRADOLI" - CHIAMATO DALLA DC DI DE MITA PER SCOPRIRE IL COVO DELLE BR, SOSTIENE DI AVER PRESTO CAPITO CHE LA BANDA DELLA MAGLIANA SAPEVA CHE MORO ERA IN VIA GRADOLI - "A ROMA I POLITICI HANNO CAMBIATO IDEA. DICONO CHE DOBBIAMO FARCI I CAZZI NOSTRI" - QUANDO STAVA NEL CARCERE DI OPERA CON MARIO MORETTI, IL CAPO DELLE BR RICEVEVA OGNI MESE UNA BUSTA CON UN ASSEGNO CIRCOLARE DAL VIMINALE

img
1 - CASO MORO, UN PENTITO RIVELA "TUTTI SAPEVANO DI VIA GRADOLI"...
E. V. per "la Repubblica"
«Tutti sapevano di via Gradoli». Francesco Fonti, il pentito della ‘ndrangheta che ha permesso di individuare le "navi dei veleni" nei fondali della Calabria, fa nuove clamorose rivelazioni. Stavolta sul caso Moro, l´ex presidente della Dc sequestrato e ucciso dalle Br nel 1978. Una testimonianza raccolta da Riccardo Bocca de L´espresso, registrata con un video, che accompagna un lungo articolo pubblicato sul sito del settimanale.
ALDO MOROALDO MORO
Fonti racconta di essere stato inviato dalla ‘ndrangheta a Roma nel marzo del ‘78, chiamato daRiccardo Misasi, ex braccio destro di DeMita, e dall´onorevoleVito Napoli. Il suo boss, SebastianoRomeo, gli dice che bisogna dare una mano per scoprire il covo delle Br e di mettersi in contatto con «l´amico» dei Servizi. Il pentito riferisce di un incontro con l´ex segretario della Dc BenignoZaccagnini, sostiene di aver presto capito che diversi personaggi della banda della Magliana sanno che Aldo Moro e i suoi rapitori stanno in via Gradoli, sulla Cassia.
MORO PZ 009
«Come è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sappia dove si trova il covo delle Br?». Fonti - scrive L´Espresso - ha riscontri anche dai rappresentanti della ‘ndrangheta nella capitale, dove incontra la sua fonte nel Sismi, un certo Pino. È lui che lo porta dall´allora direttore del Servizio, Giuseppe Santovito, il 4 aprile 1978.
MORO COSSIGA
«Pino mi porta dal capo a Forte Braschi. Santovito mi chiede se ho notizie su un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che ho sentito questo indirizzo da amici. E lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare Moro"». Ma tornato in Calabria, il suo boss lo gela: «A Roma i politici hanno cambiato idea. Dicono che dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri».
Fonti decide di chiamare la questura capitolina: «Via Gradoli 96, lì troverete i carcerieri di Moro». Pochi giorni dopo il covo di via Gradoli viene scoperto per una "strana" perdita d´acqua. Dei brigatisti non c´è traccia.
MORO RAPIMENTO1978
«Non c´è stata la volontà di agire», afferma il pentito. Una conferma l´uomo ritiene di averla avuta nel 1990, quando stava nel carcere di Opera con Mario Moretti: il capo delle Br riceveva ogni mese una busta con un assegno circolare. «Qualche tempo dopo un brigadiere che credo si chiamiLombardo mi confida che, per recapitare i soldi (del ministero dell´Interno), lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale Moretti viene retribuito. L´ennesimo mistero tra i misteri».
MORO PZ 014
Il Pdci chiede una verifica. Cautela in procura a Roma: il video sarà visionato, tra oggi e domani si deciderà che fare.
2 - "IO BOSS, CERCAI DI SALVARE MORO"
Testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca per "l'espresso.it"
(http://espresso.repubblica.it)
Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome in queste settimane rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre scorso, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive.
MORO PZ 007
Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici).
MORO PZ 008
E sempre Fonti, in queste ore delicate, decide di rivelare al nostro giornale un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane.
MORO FUNERALI MOGLIE PZ 018
Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese, ndr), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.
MORO CAD VIACAETANI 8578
Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della 'ndrangheta.
MORO PZ 013
Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.
MORO AMINTORE FANFANI PZ 006
Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto.
MORO PZ 012
Specificando: "In mano devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente". Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti.
Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me.
MORO01 BR
"Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".
MORO PZ 011MORO FUNERALE PZ 015
La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.
A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei carcerieri di Aldo Moro.
COSSIGA MORO VIA CAETANIMORO PZ 010
"So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini".
Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente.
Ci vediamo il 25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.
ALDO MORO PRIGIONIERO VISTO DA TULLIO PERICOLICOPERTINA LEFT ALDO MORO
Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti.
Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo.
MARIO MORETTI
Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c'entra con Moro".
A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di Giovannone, ndr).
MORETTI MARIO BRIGATE GALERA
"Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima", dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto.
BENIGNO ZACCAGNINI
In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br,dove l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati, ndr)". In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.
È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato.
DEMITA CIRIACO01
Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999, ndr); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.
Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevoleCazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora, "che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio'.
ZRIF47 PRODI
Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica.
PRODI DA SPIAGGIA DAILMATTINO
Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone", ndr).
È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Sansovito, numero uno (piduista, ndr) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade.
Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi, "teniamoci in contatto tramite Pino".
La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro.
Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca: "Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l'intera classe politica.
BASE VIA GRADOLI
Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un 'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell'organizzazione, ndr), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte.
Dopo l'incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96", scandisco, "e troverete i carcerieri di AldoMoro". "Da dove sta chiamando?", domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.
RICCARDO MISASI
Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano, ndr) con il capo delle Br MarioMoretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica.
I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno".
Frase che all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi aMoretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica.

 
[23-09-2009]
by dagospia