sabato 31 ottobre 2009

parla la vedova borsellino

La vedova di Paolo Borsellino: «Mio marito abbandonato al suo destino di morte»

ROMA (18 ottobre) -Stranamente negli ultimi giorni che precedettero via d'Amelio, mio marito mi faceva abbassare la serranda della stanza da letto, perché diceva che ci potevano osservare dal Castello Utveggio». Cosi, in un'intervista inedita per "La storia siamo noi" (lunedì ore 23.30 su Raidue), Agnese Borsellino, la vedova di Paolo Borsellino, ha deciso di infrangere la regola del silenzio che si era imposta. Convinta che suo marito sia «stato abbandonato al suo destino di morte», ha parlato davanti alle telecamere per ricordare chi ha dato la vita per il magistrato: la scorta, gli angeli di Borsellino.

Claudio Traìna, 27 anni, agente scelto di polizia, Agostino Catalano, 43 anni, assistente capo di polizia; Emanuela Loi, 24 anni, agente di polizia; Vincenzo Fabio Li Muli, 22 anni, agente di polizia; Eddie Walter Cosìna, 31 anni, agente scelto di polizia. Sono gli angeli di Paolo Borsellino. I suoi agenti di scorta, massacrati insieme a lui nella strage di via D'Amelio, a Palermo, il 19 luglio 1992. Ad accompagnare il racconto di quei 57 giorni che intercorrono fra la l'uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, anche la testimonianza eccezionale dell'unico sopravvissuto al massacro della scorta di Borsellino, Antonio Vullo.

«Per me, come per mio marito, erano persone che facevano parte della nostra famiglia - dice Agnese Borsellino - e vivevano quasi in simbiosi con noi, condividevamo le loro ansie, i loro progetti. Un rapporto oltre che di umanità, di amicizia e di reciproca comprensione e rispetto». Come ha saputo della strage di Capaci? «Mio marito - racconta - si trovava dal barbiere e, come tutte le volte che usciva per fatti personali, era andato a piedi, da solo. E quando ha sentito dal barbiere che c'era stato l'attentato di Capaci, a piedi da solo era tornato a casa e da solo è andato a Capaci, senza scorta.Poi è andato in ospedale e Giovanni è morto tra le sue braccia. La sua vita è cambiata perché ha detto «adesso tocca a me».

Ma come era cambiato Paolo Borsellino dopo Capaci? «Non aveva perso la voglia di lavorare e credere nelle sue capacità, anzi lavorava 24 ore su 24 - dice Agnese Borsellino - Era una corsa contro il tempo, perché prima di morire voleva concludere una certa indagine che gli stava tanto a cuore. Stranamente, negli ultimi giorni che precedettero via d'Amelio, mio marito mi faceva abbassare la serranda della stanza da letto, perché diceva che ci potevano osservare dal Castello Utveggio».

Dopo Capaci, le misure di protezione sono state all'altezza della situazione? E' stato fatto quello che si doveva fare? «Ritengo che mio marito è stato abbandonato al suo destino di morte - dice la vedova del magistrato - Così come lui ha detto. C'erano stati tanti segnali».
Che effetto fa a voi familiari il fatto che non si sia messa ancora la parola fine su questa indagine? «Ho fiducia nel tempo. Io non voglio vendetta - risponde - Io voglio sapere la verità, perché è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perché lo hanno fatto e non voglio nient'altro. Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perché gli italiani come me vogliono sapere perché è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà».

Paolo Borsellino sapeva che per lui era iniziato il conto alla rovescia. Sapeva che la prossima vittima predestinata era lui. Ma con lui, lo sapevano anche gli agenti che lo proteggevano. «Mio marito non credeva al 100% che la scorta lo potesse salvare da un attentato. Non perché dubitava della loro attenzione o professionalità, ma quando avrebbero deciso di ucciderlo lo avrebbero fatto, come del resto è stato, con tecniche ultramoderne. Infatti mi diceva "quando decideranno di uccidermi, i primi a morire saranno loro". Per evitare che ciò accadesse, spesso e alle stesse ore usciva da solo per comprare il giornale, le sigarette, quasi a mandare un messaggio per i suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo per la strada e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Mio marito non si poteva rifiutare di farsi proteggere o di farsi accompagnare, le sue capacità finivano qui, non poteva fare altro per salvarli».

Un tentativo disperato, da parte di Paolo Borsellino, di proteggere i suoi ragazzi, da parte di chi sa che il suo destino è comunque segnato. E' una rivelazione clamorosa e inedita, quella di Agnese Borsellino, che riassume tutta la drammaticità e l'angoscia di quelle settimane. Ma la mafia, ormai, erano pronta. Per Paolo Borsellino e i suoi agenti, erano gli ultimi giorni.

Andrea Gorlero, agente di scorta Paolo Borsellino, ricorda: «Io mi ricordo quella volta che tornavamo dal Palazzo di giustizia e salivamo a casa del dottor Borsellino. Lui era molto pensieroso e ad un certo punto disse: "Mi dispiace che probabilmente ci sarete pure voì"». Emilia Catalano, madre di Agostino Catalano, a sua volta dice: «Agostino da allora non rideva più, non parlava, ed io gli dicevo: "Agostino cosa hai?" e lui: "No, niente"». E ancora Grazia Traina, madre di Claudio Traina: «Vedevo mio figlio più attaccato, spuntava la notte e veniva, la sera mi telefonava e di giorno mi chiedeva "Mamma hai bisogno?". Insomma era più vicino». Tiziana Li Muri, sorella di Vincenzo Fabio Li Muli, osserva: «Sono sicura che sono andati incontro alla morte con consapevolezza, lo sapevano il rischio che correvano, lo sapevano che avrebbero fatto la stessa fine, e poi in particolare Fabio, addirittura, qualche sera prima mi chiese di ricordargli come si recitava il Padre nostro».

Domenica 19 luglio 1992. Era una giornata normale - racconta Agnese Bosellino - Mio marito si sentiva molto stanco, voleva accontentare me ed i miei figli e fare una passeggiata a Villa Grazia, al mare. Alle 16.30, quando sono venuti gli altri sei uomini della scorta, è andato dalla sua mamma perché doveva accompagnarla dal medico. Ha baciato tutti, ha salutato tutti, come se stesse partendo. Lui aveva la borsa professionale, e da un po' di giorni non se ne distaccava mai. Allora mi è venuto un momento di rabbia quando gli ho detto "Vengo con te", e lui "No, no, io ho fretta". Ed io: "Non devo chiudere nemmeno la casa, chiudo il cancello e vengo con te". Lui continuava a darmi le spalle e a camminare verso l'uscita del viale, allora ho detto: "Con questa borsa che porti sempre con te sembri Giovanni Falcone...". Sono arrivata a dire queste ultime parole».

Sono circa le 16.30. Le tre macchine di Paolo Borsellino e della sua scorta lasciano Villagrazia di Carini, a 20 km da Palermo, e si dirigono verso via D'Amelio, a casa dell'anziana madre del magistrato. Antonio Vullo, agente di scorta di Paolo Borsellino e unico sopravvissuto, racconta: «Siamo arrivati in Via D'Amelio, mi sono soffermato perché ho visto tante auto parcheggiate. Sapendo che era l'abitazione della madre, ci siamo un pò preoccupati. Il giudice è entrato direttamente, ha parcheggiato l'auto proprio al centro della carreggiata, ed io ho fatto scendere i componenti della mia scorta per fare una bonifica all'interno dello stabile. Avrò fatto altri 5-6 metri con l'auto e sono stato investito da una nube caldissima. L'auto si è sollevata e si è spostata di qualche metro. Mi sono sentito schiacciato proprio all'interno dell'abitacolo e sballottato. Ho visto subito il corpo di un collega dilaniato dall'esplosione, non sapevo che fare e mi sono messo a correre, poi ho visto brandelli di carne, addirittura ero fermo sopra un piede di un collega».

L'eccidio di via D'Amelio, l'ennesima, clamorosa strage di mafia in meno di due mesi, scuote l'Italia intera. Ci si chiede se quella strage fosse evitabile, se le norme di sicurezza adottate fossero adeguate, perché in via D'Amelio non ci fosse la zona rimozione, e, soprattutto, cosa fare di fronte a questa terrificante escalation mafiosa. Nino Di Matteo, magistrato, dice: «La strage di via D'Amelio in un certo senso è stata una strage preannunciata, quello che fa rabbia è che, nonostante la previsione di questo rischio, ritengo e con me lo ritengono anche altre sentenze delle Corti d'assise, che sono passate in giudicato, che non è stato fatto tutto quello che si poteva per proteggere adeguatamente il giudice Borsellino». E Antonio Ingroia, magistrato, aggiunge: «Nessuno pensò di mettere zona rimozione sotto casa della madre, e questa fu la cosa più grave e inaudita, visto che Paolo Borsellino andava periodicamente, ogni domenica mattina a casa della madre».

Palermo intanto, in occasione dei funerali degli agenti di scorta, esplode nella rabbia incontenibile della popolazione e dei colleghi dei poliziotti uccisi. Una storia, dunque, questa di un magistrato e di cinque agenti di polizia che hanno dato la vita per lo Stato. Sei persone che, ogni giorno, hanno combattuto la mafia facendo semplicemente il proprio dovere e cercando la verità. E in questa ricerca, forse, c'è il senso ultimo del loro sacrificio. Due giorni prima che lui morisse, mi ha detto: "Io non vedrò i risultati del mio lavoro, li vedrete voi dopo la mia morte, perché la gente si ribellerà, si ribelleranno le coscienze degli uomini di buona volontà"».

A distanza di 17 anni dall'eccidio, Andrea Gorlero, agente di scorta di Paolo Borsellino, non ha dubbi: «Io penso che il sacrificio dei ragazzi delle scorte e dei giudici Falcone e Borsellino sia servito, perché ha cambiato la coscienza popolare». Ed Enza Li Muli, madre di Vincenzo Fabio Li Muli, osserva: «Le persone prima anche se sentivano dire mafia, non capivano cosa fosse, neanche io lo capivo». Spiega Emilia Catalano, madre di Agostino Catalano: «Sono andata a far visita al Carcere di Quagliarelli. C'erano tre reparti messi in fila che mi guardavano ed io raccontavo come era morto mio figlio e ho visto piangere qualcuno. C'era un ragazzo di venti anni, era venuto accanto a me e mi ha detto: "Mamma Emilia, le giuro che appena esco di qua, diventerò un bravo ragazzo"».

Racconta Edna Cosina, sorella di Eddie Walter Cosina: «Prima di addormentarmi, quando sono triste che sono giù, che mi crediate o non mi crediate, sento come una mano, come un soffio, un vento sulla mia faccia, ed è lui che mi aiuta tanto, moltissimo; io voglio solo che lui riposa in pace». Claudia Loi, sorella di Emanuela Loi: «La mafia non ha ucciso solo mia sorella, ma anche mio padre e mia madre, che dal dolore si sono ammalati, e la speranza che adesso tutti e tre: mia sorella, mio padre, mia madre, sono nell'altro mondo contenti e felici più di noi qua sulla terra». E ancora Giusi Traina, sorella di Claudio Traina: «Sono anni, da quando è morto mio fratello, che io in Chiesa ci vado, sono una credente, però se mi dicono di farmi la Comunione non riesco, perché io queste persone qua non le perdonerò mai, mai, perché non hanno diritto queste persone ad avere un perdono».

Per la strage di Via D'Amelio sono state condannate in via definitiva 47 persone di cui 25 all'ergastolo. Dal 1992 ad oggi, tuttavia, restano ancora aperti molti interrogativi. Chi ha collocato ed azionato il congegno esplosivo? E da dove? Chi ha sottratto l'agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé? che cosa aveva scoperto Borsellino sulla strage di Capaci? Perché, come accertato dalle sentenze, la mafia ha accelerato il progetto di uccidere Borsellino? Ci sono mandanti esterni? L'inchiesta è ancora aperta.

«Se mi dicono perché l'hanno fatto, se confessano, se collaborano con la giustizia, perché si arrivi ad una verità vera, io li perdono - assicura Agnese Borsellino - Devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perché l'hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire, di fronte al coraggio io mi inchino, da buona cristiana dire perdono, ma a chi?. Io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perché sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito».

by il mattino.it

via damelio parla il miracolato

l sopravvissuto alla strage di via D' Amelio

" ma i miei colleghi potevano salvarsi "

in un libro i ricordi dell' agente Vullo Antonio. il suo racconto e ' stato raccolto da un giovane giornalista palermitano Francesco Massaro autore di " la ragazza poliziotto. storia di Emanuela Loi "

------------------------- PUBBLICATO ------------------------------ TITOLO: "Ma i miei colleghi potevano salvarsi" IL SOPRAVVISSUTO In un libro i ricordi dell' agente Vullo "Da allora per me e' un lungo incubo Sono qui perche' rispettai le consegne" - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - PALERMO . Due anni di incubo, passati in silenzio a macerarsi nel ricordo della micidiale esplosione di via D' Amelio. Sei morti, il giudice Borsellino carbonizzato, cinque poliziotti dilaniati, Palermo che sprofonda negli abissi. Due anni di dolore e di amarezza. Lui, Antonio Vullo, e' l' unico superstite di quel massacro. Ha visto morire il magistrato e i colleghi ma se gli dicono che e' stato fortunato, sul suo viso cala un' ombra di tristezza. "Fortunato? Per niente. Vivere un' avventura del genere e' , comunque, allucinante. Forse sono un miracolato, questo si' , ma per favore, non chiamatemi fortunato". Vullo parla per la prima volta da quel giorno maledetto che segno' pesantemente la sua vita. Il suo racconto e' stato raccolto da un giovane giornalista palermitano, Francesco Massaro, autore del libro La ragazza poliziotto. Storia di Emanuela Loi (Edizioni Arbor), un volume che parte dalla vicenda umana della gente sarda per arrivare ai problemi e alle speranze di tanti ragazzi delle scorte buttati nella mischia, costretti a vivere a fianco a fianco con la morte, in una sorte di roulette russa dove nessuno sa mai chi riuscira' a salvare la pelle. Antonio Vullo ce l' ha fatta, un po' per la sua buona stella, ma molto perche' ha rispettato alla lettera le consegne: "Se anche gli altri poliziotti della scorta fossero stati prudenti . spiega ., sarebbero ancora qui, tra di noi". L' agente "miracolato" ricostruisce momento per momento le sequenze della strage. "Quel giorno andammo a prendere Borsellino a Villa Grazia di Carini, dove aveva pranzato con la famiglia e con alcuni amici... Io guidavo la prima Croma. Assieme a me viaggiavano Li Muli e Traina. Dietro c' era l' altra blindata con Catalano, Cusina ed Emanuela Loi... Sapevo che avremmo dovuto accompagnarlo dalla madre. Nell' aria si avvertiva qualcosa di strano... Claudio mi guardo' in faccia e mi disse: "Osserva il cielo. Sta diventando cupo". Era vero. Eppure quella era una giornata splendida... Io mi guardavo attorno come se presentissi qualcosa...". Il corteo d' auto taglia la citta' svuotata dalle ferie, arriva in via San Polo e svolta per via Autonomia Siciliana. Via D' Amelio e' distante 200 metri, in fondo alla strada. Ma arrivato all' incrocio, Vullo si ferma all' improvviso. "Li' non c' ero mai stato e non potevo immaginare che davanti all' abitazione della madre di Borsellino fossero posteggiate tutte quelle auto. Mi sembro' strano non trovare un divieto di sosta". Siamo ai momenti cruciali di quella domenica fatale. "Il giudice mi supera e va a piazzarsi davanti al cancelletto. Lo affianco, lascio scendere i colleghi, poi avanzo di una quindicina di metri. Il mio compito e' quello di posizionarmi a un' estremita' della strada per impedire l' accesso alle altre auto. Quando vedo che la parte che devo tener d' occhio non ha vie d' uscita, tiro un sospiro di sollievo. Faccio manovra, mi metto di traverso e aspetto che Borsellino entri nel portone". I macellai della mafia sono nascosti chissa' dove, con il telecomando in mano, pronti a scatenare l' apocalisse. Vullo ricorda: "L' altra auto di scorta era accanto alla Croma del magistrato. Sul momento non ci ho fatto caso, ma ripensandoci Catalano, Cusina ed Emanuela non avrebbero dovuto trovarsi la' . Loro dovevano chiudere l' altra estremita' di via D' Amelio, come insegnano al corso. Se l' avessero fatto, se fossero rimasti lontani da Borsellino, si sarebbero certamente salvati". Il boato scuote mezza citta' . "Una fiammata mi investe, l' auto viene sollevata da terra e rovesciata. Apro lo sportello e mi tiro fuori prima che la blindata esploda. Sento scoppi, esplosioni. Vedo fumo e morte. Prendo la pistola, istintivamente, e a un certo punto vedo sbucare dalla nebbia un poliziotto, uno delle volanti, il primo ad arrivare. Poi su di me scende il buio".

Mignosi Enzo

Pagina 9
(18 luglio 1994) - Corriere della Sera

il sopravvisuto

martedì, maggio 23, 2006

L'autista dimenticato...

PALERMO - C'era anche Giuseppe Costanza alle 16:58 del 23 maggio 1992 nella Croma blindata quando l'asfalto dell' autostrada Mazara del Vallo-Palermo si squarciò per l'esplosione del tritolo mafioso prima dello svincolo di Capaci, proiettando l'altra auto con i poliziotti ad una distanza di oltre cento metri e uccidendo Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo. Costanza era l'autista del magistrato. Un uomo fidato, che serviva lo Stato con lo stipendio che non aveva avuto ritocchi nonostante lui portasse in giro l' uomo più blindato d'Italia dopo il presidente della Repubblica.Quando Falcone aveva lasciato l'ufficio della direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia a Roma per una scappata a Palermo era andato lui con i poliziotti della scorta all'aeroporto di Punta Raisi a prendere il magistrato per portarlo in città."Falcone volle guidare - dice Costanza - e io mi misi dietro. La moglie era accanto a lui nel sedile del passeggero". Costanza oggi ha 60 anni, è in pensione da un anno, dopo essere stato messo a lavorare in ufficio e dopo le polemiche che lui stesso sollevò sull' assicurazione sulla vita degli autisti giudiziari e sul risarcimento per incidenti in servizio. "Valgo meno di un' auto blindata", denunciò."Anche quest' anno - dice - non ho ricevuto inviti per le manifestazioni che commemorano Falcone, Morvillo e Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, i ragazzi della sua scorta. Ma sono stanco anche per polemizzare. I vivi non entrano nella memoria della gente, come se la strage io l'avessi evitata volutamente".Un miracolo ha salvato la vita di Giuseppe Costanza: la deflagrazione ha smembrato la Croma in cui era con Falcone e la moglie ma la sua posizione nel sedile posteriore dell'auto lo ha salvato, mentre ha condannato i due magistrati. "La morte di Giovanni Falcone - aggiunge Costanza - non va ricordata solo oggi 23 maggio, ma sempre. L'antimafia va fatta ogni giorno da ciascuno di noi, ci vuole un impegno quotidiano.È inutile fare cortei e dibattiti in pompa magna se il giorno dopo tutti scordano ciò che significa la mafia e i morti e le tragedie familiari che ha causato. E a soffrire non sono solo le famiglie dei morti....".
23/05/2006
Fonte: La Sicilia


23 maggio - 19 luglio 1992: 57 giorni (parte 2)

Scritto da Marco Bertelli
Lunedì 02 Giugno 2008 20:12


Un giorno tra giugno e luglio 1992

Giancarlo Caselli, presidente di corte d´assise a Torino, viene avvicinato durante una manifestazione pubblica da un ufficiale delle forze dell´ordine che si fa latore di un messaggio da parte di Paolo Borsellino il quale chiede a Caselli di “aspettare ad andare in pensione perché c´é ancora molto lavoro da fare” [1].



Lunedì 1 giugno 1992

Il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara invia una serie di lettere al procuratore Giammanco, all’aggiunto Borsellino, ai sostituti Lo Voi e Natoli ed al presidente della corte di assise Pasquale Barreca in cui ritratta tutte le accuse fatte ai mandanti dell’omicidio Lipari.

Alla sera qualcuno suona al campanello della casa di Borsellino in via Cilea a Palermo. E’ una processione di carabinieri e poliziotti che vogliono chiedere al giudice una “raccomandazione” per essere annessi alla sua scorta. Ad aprire la porta di casa è Lucia, mentre Borsellino è ancora al lavoro in ufficio. Lucia fa accomodare tutti in salotto. Quando il giudice torna a casa ha però una reazione inaspettata: vede questi estranei in casa, chiama i famigliari nella stanza più lontana e comincia a gridare contro di loro perché colpevoli di aver fatto entrare queste persone, non sopporta di vedere gente in casa, è stanchissimo. Solo dopo qualche minuto i famigliari riescono a spiegargli il perché di quella inconsueta visita. Borsellino fa in tempo a bloccare il gruppo che, capita l’antifona, sta per andarsene. Il giudice chiede scusa e dà l’appuntamento per l’indomani in procura: “Parliamone lì ragazzi”, acconsente.[2]


Martedì 2 giugno 1992

All´indomani della strage di Capaci, per Borsellino e´ scattato il piano di protezione. In prefettura si studiano le abitudini del Magistrato e si scopre che durante la settimana ha tre appuntamenti fissi: il Palazzo di giustizia, la chiesa di Santa Luisa di Marillac e la visita all´anziana madre. Viene rafforzata la vigilanza in via Cilea, davanti all´abitazione di Borsellino, dov´e´ impossibilie posteggiare, cosi´ come davanti alla chiesa. Al magistrato viene assegnata un´altro auto di scorta. Ma gli agenti di scorta sollecitano invano l´istituzione di una zona rimozione in via D´Amelio, dove il magistrato va spesso a trovare la madre. In quella strada, un budello chiuso tra due palazzi, restano parcheggiate tre file di auto: ai bordi dei due marciapiedi e persino al centro della carreggiata.
E quella mattina di giugno, affacciata al balcone del quarto piano di via Mariano D´Amelio, dove abita con la figlia Rita, Maria Lepanto, l´anziana madre del giudice Borsellino, si accorge di movimenti sospetti di "gente strana" nel giardino adiacente al palazzo, oltre un muro di cinta non molto alto. Con una telefonata avverte il figlio Paolo che invita la polizia a dare un´occhiata. All´alba del giorno dopo arriva sul posto una squadra di agenti guidati dal capo della mobile Arnaldo La Barbera. Scoprono alcuni cunicoli nascosti sotto il manto stradale con tracce di presenze recenti.
L´allarme in via D´Amelio e´ costante, i famigliari di Borsellino, nei giorni successivi all´attentato di Capaci, vivono in tensione, sono preoccupati, stanno all´erta. Ricorda Rita Borsellino: "Subito dopo la strage Falcone, io stessa avevo avvertito le forze dell´ordine della presenza in via D´Amelio di una macchina abbandonata, con i finestrini abbassati; dovetti segnalarlo due o tre volte prima che venisse un carro attrezzi a portarla via.[3]

La terza commissione del CSM accetta la disponibilità offerta dai due magistrati Carmelo Petralia e Francesco Paolo Giordano di affiancare il procuratore di Caltanissetta Celesti ed il sostituto Polino che stanno indagando su Capaci.


Mercoledì 3 giugno 1992

Antonino Caponnetto ricorda al Piccolo Teatro di Milano l’amico Falcone e punta il dito contro Corrado Carnevale: “Quante volte Carnevale ha cancellato il nostro lavoro. Io, lo confesso, ho pianto quando una sezione non carnevalesca ha riportato almeno una parte del maxi-processo nel suo alveo originario, già impoverito in appello. Ma a quanto pare, soltanto per Carnevale la mafia non esiste. E ora aspetto soltanto che mi quereli, sono vecchio, ho diritto anch’io a qualche attimo di divertimento.” [4]

Con l´eco del tritolo di Capaci ancora nelle orecchie, il CSM si spacca sulla riapertura dei termini del concorso a superprocuratore. Ma prima di affronatre la questione,magistrati e laici si scambiano accuse roventi sulla precedente bocciatura a superprocuratore di Falcone, e sulla scelta di Agostino Cordova. Una scelta che il governo chiede adesso di mettere in discussione. Due sostanzialmente gli schieramenti: i togati garantisti, contrari alla riapertura, accusati di non aver voluto Falcone perche´ "troppo vicino ai centri di potere." Ed i laici, pronti a sostenere le scelte del governo. Al termine del dibattito, che si esaurisce solo a tarda sera, il plenum, per mancanza del numero legale, rinvia ogni decisione. [5]



Giovedi´ 4 giugno 1992


Dopo l´uccisione dell´eurodeputato Salvo Lima, per "capire", per esplorare le informazioni di coloro che all´interno di Cosa Nostra hanno vissuto per anni, la Procura della repubblica di Palermo decide di interrogare negli Stati Uniti i pentiti Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia. Giammanco decide che due sostituti procuratori, i cui nomi non vengono resi noti, partiranno alla volta degli USA, dove Buscetta e Mannoia sono sotto regime di protezione da parte delle autorita´ federali. La decisione assunta in procura, finalizzata non soltanto ad un tentativo di lettura del delitto "dall´interno" del sistema di relazioni di Cosa Nostra, ma anche alla ricognizione di come questo sistema si rapporti con la politica, si concretizza dopo la strage di Capaci. Ma poi subisce uno stop improvviso. Borsellino si propone a Giammanco per effettuare personalmente la rogatoria. L´obiettivo e´ superare le reticenze di don Masino sui rapporti tra mafia e politica. Il procuratore di Palermo inizialmente esita: Borsellino, formalmente, ha solo la competenza per indagare sulla mafia di Trapani ed Agrigento. Ma l´aggiunto insiste: e´ convinto che don Msino ha da raccontare molte cose utili sull´uccisione del proconsole di Andreotti in Sicilia. Poi, ad un tratto, Giammanco cede: una mattina di inizio giugno chiama Borsellino, e lo autorizza alla partenza. Lui e´ stupito di aver ottenuto la possibilita´ di partecipare alla rogatoria. Prenota il volo per le prime pre del pomeriggio dell´indomani, fissa la camera in albergo, si prepara per il viaggio. La sera, a casa, riempie una valigia, appronta una serie di appunti, legge, si documenta. Il giorno dopo, pero´, si ferma tutto. Borsellino torna a casa all´ora di pranzo e chiede ad Agnese: "Che si mangia?" Lei resta interdetta: "Ma come? Stai per partire e vuoi sederti a tavola?" E lui, laconico: "Non parto piu´". Non dice nient´altro, non fornisce spiegazioni. "Mio marito - ricorda Agnese - si sedette a tavola, e guardando il TG che dava gia´ la notizia della sua partenza per gli Stati Uniti, sorrise amareggiato". La rogatoria negli USA per sentire Buscetta si fara´ molti mesi piu´ tardi, quando Borsellino sara´ gia´ morto, Giammanco non sara´ piu´ procuratore, e a Palermo si sara´ insediato ormai Giancarlo Caselli. Ancora una volta, l´intuizione di Borsellino si rileverá esatta: le nuove dichiarazioni di don Masino verranno considerate “esplosive” ed apriranno uno squarcio sul connubio mafia-politica, dando roigine all´inchiesta giudiziaria su Giulio Andreotti. [6]

Il plenum del CSM boccia definitivamente a larga maggioranza la proposta del ministro dela giustizia Martelli di riaprire i termini per il concorso alla guida della superprocura nazionale antimafia.[7] L´unica strada aperta per il governo rimane quella di un decreto ad hoc che riapra i termini.


Venerdi´ 5 giugno 1992

Sono giorni plumbei, Borsellino li trascorre con il cuore in pena, sempre alla ricerca di tracce che possano portarlo sulla pista piu´ vicina alla verita´ della strage di Capaci. Eppure, di tanto in tanto, qualcosa lo conforta, ed e´ la sensazione che la gente di Sicilia sia dalla sua parte, dalla parte dei giudici onesti, dalla parte di chi cerca, disperatamente, di salvare il paese dalla deriva del terrore, di restituirlo alla legalita´. Racconita Ingroia che uan sera, durante una cena a Terrasini, organizzata dai carabinieri, il calore delle gente lo raggiunge in pieno.
"Si parlava di Falcone, delle indagini su Capaci, dei nuovi equilibri dentro Cosa Nostra. Terminiamo di cenare, ed il proprietario del locale si avvicina a Paolo, gli sussurra in un orecchio che il cuoco vorrebbe conoscerlo, nulla di piu´. Paolo mi sembra imbarazzato dalla insolita richiesta, ma dice di si´. Si alza, va incontro al cuoco, un uomo anziano, dal viso buono. Appena gli stringe la mano, questi si mette a piangere come un bambino. Paolo resta pietrificato per pochi secondi. Poi, commosso, lo abbraccia. I due escono dal ristorante, cominciano a passeggiare parlando fitto fitto, come vecchi amici, in palermitano stretto. "Sai Antonio", mi racconta in auto mentre rientriamo a Palermo, "stavo per mettermi a piangere anch´io. Ha voluto dirmi che i palermitani onesti, i padri di famiglia, sono al nostro fianco." Quella cena con i carabinieri, Borsellino, la ricordera´ per sempre. La chiamera´ "la cena degli onesti". [8]

Il Pds si schiera a favore della proposta del ministro Claudio Martelli di riaprire i termini per il concorso a capo della Dna ed appoggia la candidatura di Paolo Borsellino: “la candidatura di Paolo Borsellino alla guida della Superprocura é seria e potrá diventare attuale se si riapriranno i termini del concorso”. [9]

Durante un´operazione condotta dalla squadra mobile di Milano vengono arrestati nel capoluogo lombardo Vesna Turk e Brisa Basic, 25 e 23 anni, di Belgrado, incensurati e Wilson Palokaj, un albanese di 25 anni con precedenti penali. Nell´abitazione dei tre vengono sequestrati due pani di esplosivo al plastico ed una bomba anticarro, mentre nell´autovettura del Palokaj vengono recuperati 25 candelotti di dinamite. Sempre nell´abitazione viene rinvenuta una piantina in cui sono evidenziati sette luoghi della cittá: tre stazioni ferroviarie (la Centrale, Porta Garibaldi e Porta Vittoria), Piazza Duomo, le sedi della Sip in via Melchiorre Gioia e in via Gallarate, il carcere di San Vittore. Gli inquirenti si mostrano molto cauti nell´avanzare ipotesi e nell´accreditare una voce circolata poco dopo l´operazione secondo la quale uno dei possibili obiettivi avrebbe potuto essere il PM Antonio Di Pietro, che in quei giorni frequentava assiduamente il carcere di San Vittore per condurre degli interrogatori. Fra gli atri documenti sequestrati gli investigatori rinvengono anche un numero telefonico che porta ad una "famiglia" corleonese con base a Milano. Un sottufficiale delle forze dell´ordine si lascia scappare: "Un circolino su piazza Duomo, tre sulle stazioni... Luoghi privilegiati da chi ha in mente una strage". [10]


Sabato 6 giugno 1992

Un rogo distrugge a Palermo un capannone del cantiere navale di proprietá dell´ingegner Alberto Cambiano, cognato di Giovanni Falcone. Non si esclude la matrice dolosa dell´incendio. “Non sono per nulla turbato anche se é inquietante questa coincidenza con la morte di mio cognato – afferma l´ing. Cambiano – non é una cosa grave l´incendio. Al danno delle cose si puó provvedere. Alla vita perduta da mio cognato, purtroppo, no. Per i danni si finisce di lavorare un po´ di piú e si ripara ogni cosa, tanto piú se l´assicurazione ti dá una mano. Ma per le vite perdute non si puó far nulla. Quando ieri mi hanno interrogato in questura, sono passato davanti alla lapide delle vittime della mafia e del proprio dovere. Ragazzi che conoscevo, che erano amici di Giovanni, che venivano con lui in cantiere, a casa mia in campagna, con i quali avevo finito per diventare amico. Mi ha dato fastidio leggere quei nomi perché non si sta facendo nulla per impedire che ci siano altri morti. É questa la ragione della mia rabbia. A cosa serve fare sacrifici? Ma serve poi a qualcosa? Non sono un politico, faccio l´imprenditore, ragiono con un metro delle cose da fare e da realizzare senza indugi; invece per varare la legge Rognoni-Le Torre sono morti lo stesso Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa; per entrare nelle banche é morto Rocco Chinnici, ora per pensare di mandare i boss su un´isola ed approvare leggi piú efficienti c´é voluta la morte di mio cognato. É come scoprire l´acqua calda. Ma fa rabbia vedere sempre uno Stato sulla difensiva, mai all´attacco. Lo chiedevo sempre a Giovanni: “Tu te stai chiuso in bunker mentre gli altri stanno fuori. Dovreste passare all´attacco. Sono gli altri che devono difendersi, non voi.” Io sono deluso, anche se stavolta mi sembra che la gente abbia capito che bisogna voltare pagina”. [11]


Domenica 7 giugno 1992

Ai funerali di Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta c´é stato un grande assente: il presidente del consiglio Giulio Andreotti. Lo fa notare il deputato del Pri Giuseppe Ayala, ex pm di Palermo, nel corso di una cerimonia di commemorazione di Falcone, organizzata a Milano. Il senatore Claudio Vitalone, sottosegretario agli esteri, non perde tempo e lo attacca: “Ayala ha inspiegabilmente dimenticato che proprio quel giorno il presidente Andreotti era impegnato davanti al parlamento per rispondere alle interrogazioni di tutti i gruppi politici sul criminale agguato. Ma quel che piú addolora e sorprende é che proprio Ayala, nell´odiosa sortita, abbia mostrato di dimenticare quanto l´opera di Falcone sia stata sostenuta, incoraggiata e valorizzata dal governo Andreotti che a essa ha legato numerosissime iniziative per la lotta alla criminalité mafiosa, affidando a Falcone nel medesimo ambito compiti e responsabilitá di primario rilievo anche sul piano internazionale.” [12]

Sempre il sottosegratario Vitalone, ex magistrato della procura di Roma ed ex vicepresidente della commissione antimafia, si autocandida a sorpresa alla guida della Superprocura. In un´intervista al settimanale Panorama dichiara: “Per dirla tutta la Superprocura l´ho inventata io una decina di anni fa. In un disegno di legge dell´aprile 1981 sulle misure penali e processuali relative al terrosrismo, teorizzavo giá la necessitá e l´urgenza di un unico ufficio giudiziario per dare nuovo impulso e miglior coordinamento all´azione degli organi di polizia. Oggi si tratta di mafia e non di terrorismo ma il principio ispiratore é lo stesso.” [13]

Nella notte un attentato intimidatorio viene compiuto contro gli uffici di polizia del quartiere San Lorenzo, il "regno" della famiglia Madonia. Una Citroen "Dyane" rubata poco prima nei pressi della Fiera del Mediterraneo viene incendiata all'ingresso del commissariato. Qualche secondo dopo una telefonata al 113 chiarisce ulteriormente il significato di quell'avvertimento incendiario: "Se non la finite vi diamo pugni in testa". Gli investigatori sembrano escludere che Cosa Nostra sia l´autrice dell´attentato e puntano l´attenzione verso la piccola criminalitá dello Zen di Palermo, ma la tensione resta comunque alta.[14]

Lunedì 8 giugno 1992

La Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Carnevale annulla i mandati di cattura per Mario Battaglini e Francesco La Ruffa affermando che l’articolo 416-bis non è applicabile nel caso un cui sia accertato solo uno scambio di voti fra mafia e politica senza che questo si sia tradotto in un concreto aiuto dei politici per le cosche.


Il Consiglio dei ministri approva il Decreto antimafia Scotti-Martelli:

- Il tempo massimo delle indagini preliminari viene portato ad un anno (prolungabile di altri 12 mesi per le inchieste più complesse) per i delitti di mafia ed i reati connessi.

- Vengono inasprite le pene per chi si rende colpevole di falsa testimonianza di fronte alla AG.

- Vengono introdotte le norme di attuazione di una legge sui pentiti del gennaio 1992 sulla protezione di chi abbandona l'organizzazione criminale. Altre norme del decreto-legge consentono di evitare, salvo che sia assolutamente necessario, ripetute audizioni dello stesso testimone nei vari processi collegati. Saranno acquisiti i verbali di testimoni ascoltati all' estero e quelli di altri procedimenti.

- Vengono limitati i permessi per i detenuti di mafia.

- La polizia giudiziaria deve riferire senza ritardo all’AG una notizia di reato acquisita e non più entro 48 ore, può accogliere successivamente altri elementi utili alle indagini anche senza l’autorizzazione del PM.

- Non sarà più necessario dimostrare in ogni processo di mafia l’esistenza dell’associazione criminale Cosa Nostra in quanto ci si potrà rifare a sentenze già passate in giudicato che abbiano riconosciuto tale organizzazione.

- Viene introdotto nell´ordinamento penitenziario l´articolo 41bis, il regime di carcere duro riservato ai detenuti per reati di mafia: "Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica anche a richiesta del ministro degli interni, il ministro di grazia e giustizia ha altresi´ la facolta´ di sospendere, in tutto od in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell´articolo 416 bis, l´applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza." Ma non solo. Il testo limita notevolmente i diritti dei detenuti protagonisti di atti eversivi. A parte i collaboratori di giustizia, tutti gli altri potranno ottenere i benefici "solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalita´ organizzata o eversiva." Esclusa ovviamente qualsiasi possibilita´ di concessione delle misure "quando il procuratore nazionale antimafia od il procuratore distrettuale comunica, d´iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l´ordine e la sicurezza pubblica, l´attualita´ di collegamenti con la criminalita´ organizzata."

Dopo aver elencato alcune nuove disposizioni in materia di colloqui a fini investigativi con detenuti di ufficiali di polizia giudiziaria, del procuratore anzionale antimafia e di funzionari dell´Alto commissariato per la lotta alla mafia, il decreto stabilisce l´aumento di duemila unitá dell´organico del Corpo di polizia penitenziaria. Con questo provvedimento, che contiene fra l´altro l´aumento di duemila unita´ dell´organico del Corpo di polizia giudiziaria, il governo pone le premesse per un duro giro di vite nelle carceri, che scattera´, tuttavia, solo dopo il sacrificio di Paolo Borsellino.[15]

I primi risultati concreti del decreto governativo non sono incoraggianti: complessivamente vengono ricondotti in carcere 240 soggetti che per la maggior parte godevano dell’istituto della semilibertà (52 in Calabria, 37 in Sicilia, 32 in Sardegna e 39 in Lombardia). Si tratta quasi esclusivamente di “soldati”, nessun boss di spicco compare nella lista.

Il decreto non contiene nulla in merito alla riapertura dei termini per il concorso a Superprocuratore nazionale antimafia, problema che verrá affrontato sotto forma di emendamento al decreto stesso quando sara' discusso in Parlamento per la conversione in legge. Nel frattempo, il 30 giugno, la Corte costituzionale affrontera' il conflitto sorto tra Csm e ministro della Giustizia e la soluzione giuridica che verra' trovata sara' utilizzata per allargare anche ad altri giudici, oltre a Cordova e Lojacono, la rosa dei candidati alla carica di Superprocuratore antimafia. Il quotidiano Corriere della Sera indica ancora Paolo Borsellino come candidato prescelto dal governo.[16]

Dagli USA arrivano in Italia i riconoscimenti al lavoro di Falcone. Da Washington giugne a Roma il direttore del FBI William Sessions, che incontra il ministro Martelli e poi visita l´ufficio al ministero che fu del direttore generale degli Affari penali assassinato nella strage di Capaci. Il direttore del FBI annuncia che l´amministrazione Bush senior ha deciso di dedicare a Falcone una lapide commemorativa; verra´ sistemata nello stesso ufficio di Washington dove, proprio alla presenza di Falcone, fu istituito il gruppo di cooperazione italoamericano per la lotta alla criminalita´ mafiosa.[17]

Si insedia a Caltanissetta il pool di magistrati che collaborera' alle indagini sulla strage di Capaci. Si tratta dei sostituti Paolo Giordano e Carmelo Petralia, provenienti dalla Procura della Repubblica di Catania, e di Pietro Vaccaro, che prestava servizio in quella di Messina: affiancheranno il collega Francesco Polino, unico sostituto rimasto a Caltanissetta, sotto le direttive del Procuratore Salvatore Celesti, titolare dell' inchiesta. Uno dei sostituti sara' inviato a Palermo per seguire da vicino gli sviluppi dell' indagine.

Martedì 9 giugno 1992

Paolo Borsellino e´ Roma: in mattinata va alla Dia, e poi all´alto commissariato antimafia, di pomeriggio vede il sociologo Pino Arlacchi. Alla sera, alle 19, rientra a Palermo. Qui, un gruppo di cittadini, organizza una prima resistenza civile antimafia. Nasce il comitato dei lenzuoli, un´associazione di persone che espongono alle finestre ed ai balconi di casa lenzuoli bianchi con scritte antimafia. E´ un movimento sorto spontaneamente dopo la strage di Capaci per evitare "che il tragico evento venga riassorbito nella normalita´ e nell´indifferenza". Dietro la sua organizzazione c´é Giuliana Saladino, ex giornalista a "L´Ora" in pensione, scritttrice di libri inchiesta, spirito battagliero ed appassionato.

Il Comitato chiede che l´arcivescovo di Palermo, Salvatore Pappalardo, alle 17.58 del 23 giugno, ad un mese esatto della strage, faccia suonare a lutto le campane di tutte le chiese di Palermo; che il sindaco, in occasione del Festino, il 15 luglio, modifichi il percorso del carro della patrona con una sosta davanti al palazzo di giustizia; che il ministro delle poste disponga l´emissione di un francolbollo commemorativo; che l´Universita´ di Palermo nell´anno accademico 1992-93 organizzi un seminario sul tema "Il silenzio e la rimozione". Il comitato propone anche la realizzazione a proprie spese di tre spot contro la mafia da trasmettere alla Rai ed alla Fininvest, oltre che alle tv locali, da mandare in onda nelle fasce di ascolto dei bambini ed inventa un piccolo logo da apporre sulle magliettte e sulle automobili per ricordare la strage. [18]

Roberto Scarpinato, PM di Palermo, commenta con queste parole il decreto Scotti-Martelli: “Questa è una legge sporca di sangue. Non mi sembra che tutto questo segni un salto di qualità nella lotta alla mafia, sono leggi che noi chiediamo da anni. Come avevamo chiesto la legge La Torre, la legge sui pentiti dopo l’omicidio del giudice Livatino, non è che noi giudici abbiamo cominciato a riflettere su queste cose solo dopo la strage di Capaci. Ecco perché dico che queste leggi sono sporche di sangue, sono profondamente indignato…Condannare o sbattere in galera 30, 40, 50 persone significa che noi cerchiamo di svuotare il mare con un secchiello. Se davanti ad un massacro come quello di Capaci, che rappresenta il punto massimo di tensione che può raggiungere questo paese, questo è il massimo che riusciamo a produrre, allora vi dico che sono scoraggiato. Su un piatto della bilancia c’ è la vita, sull’altro piatto ci deve essere qualcosa che valga il rischio della vita, non vedo in questo pacchetto un impegno straordinario da parte dello Stato, ad esempio non vedo nulla di straordinario sulla caccia e la cattura dei grandi latitanti.” [19]

Scarpinato chiede anche la rimozione del questore di Catania che aveva inviato a Palermo il giorno successivo alla strage di Capaci una segnalazione fatta il 21 maggio su un possibile attentato dinamitardo da effettuarsi su un’autostrada siciliana. “La cosa che mi scandalizza di più” dice Scarpinato ”è che questa persona resti al suo posto, qui nessuno paga per qualcosa, ci troviamo di fronte a persone assolutamente incapaci e queste restano al loro posto”.

Cicala, presidente dell’ANM, afferma: ”E’ necessaria una sistematica trasformazione degli strumenti repressivi, non è sufficiente la frettolosa elaborazione, dopo ogni omicidio, di un pacchetto di misure da esporre in televisione.” [20]

Giuseppe Di Lello, GIP di Palermo: ”Sono provvedimenti incisivi per chi è già detenuto, ma il problema non sta qui. Ci si aspettava non solo modifiche del codice di procedura penale, ma anche qualcosa che incidesse sull’accumulazione mafiosa, sulla trasparenza…abbiamo fallito con il codice Rocco, ma torniamo proprio a quello, si accentua la repressione ma il problema non è la repressione. E dopo l’ondata repressiva quelli sono più forti di prima.” [21]

Ma anche il giudizio dell´intera magistratura italiana é negativo. "La positiva valutazione di singole disposizioni contenute nel recente decreto antimafia non puo´ far dimenticare le responsabilita´ di chi ha atteso una strage per assumere iniziative da tempo suggerite dagli operatori del settore" affermano Mario Cicala, Franco Ippolito e Giovannni Tamburrino, rispettivamente presidente, segretario generale e vicepresidente dell´Associazione nazionale magistrati (Anm), in un comunicato diffuso dalla stampa. Secondo la linea del sindacato dei magistrati, il "necessario presupposto di un´efficace lotta alla mafia e´ la rescissione degli intrecci tra settori politici, affari e criminalita´ organizzata." L´Anm parla sulla base "delle concrete sperienze dei magistrati impegnati in processi di criminalita´organizzata" e sottolineando che "tale giudizio e´ oggi autorevolmente ribadito dal Parlamento europeo", ricorda che l´Associazione, "sin dalle assemble seguite all´uccisione di Rosario Livatino e di Antonio Scopelliti, ha elaborato un insieme di puntuali proposte, di cui solo una parte viene oggi recepita nel decreto legge.” [22]


La manovalanza criminale, pero´, manifesta gia´ tutto il suo scontento. La falange armata, sigla che gia´ rivendico´ la strage di Capaci, riappare in una misteriosa intimidazione ai direttori delle carceri. Una telefonata anonima giunge alla redazione dell´ANSA di Palermo. Un uomo, con uno spiccato accento catanese, riferendosi ai provvedimenti adottati dal governo, dice: "Quelli della Falange armata, i politici, hanno ottenuto quello che volevano, noi no."
Alla domanda "Noi chi?", l´anonimo risponde: "E ora lei lo capisce; certe cose non sono state rispettate, percio´ noi non rispettermo piu´ i loro interessi."
L´anonimo aggiunge che il carcere non si doveva "toccare" e quindi rivolge una minaccia a quattro direttori di carceri. Gli investigatori non attribuiscono particolare importanza alla telefonata. E forse, stavolta, sbagliano. Le restrizioni carcerarie, quelle che non sono ancora operative e che diventeranno (ma solo piu´ avanti) la materia del 41bis, sono, da subito, lo spauracchio che gli strateghi occulti dello stragismo, in combutta con i capi di Cosa Nostra, agitano davanti agli occhi dei manovali mafiosi per manipolarli, farli infuriare e spingerli a portare avanti l´offensiva di sangue.
Ma alcuni interrogativi meritano di essere qui posti: a cosa si riferisce l´anonimo telefonista quando allude alle "cose" che "non sono state rispettate", ovvero il carcere che non si doveva "toccare"? A quale patto? Siglato tra quali interlocutori? Chi aveva promesso qualcosa? E che cosa? Chi aveva promesso che il carcere non si doveva toccare, e cioe´ che dopo la strage di Capaci non vi sarebbe stato un trattamento piu´ duro per i mafiosi detenuti? E a chi era stata fatta questa promessa? [23]

Martelli sollecita il CSM a sospendere il giudice Di Pisa dopo che questi è stato condannato in primo grado come “il corvo” di Palermo. In realtà la data per la discussione del caso al CSM è già stata fissata da tempo.[24]

Due auto rubate con a bordo ciascuna tre individui vengono intercettate da un vigile di fronte al palazzo di giustizia di Catania. Quando il vigile si avvicina per un controllo le auto fuggono. Poco prima era entrato il magistrato Felice Lima con la scorta.


Mercoledì 10 giugno 1992

Il ministro degli interni Scotti dichiara: “Trovo che dire che il nostro decreto sia sporco di sangue sia un’accusa volgare e soprattutto ingiusta. Questi provvedimenti sono il completamento di una strategia inaugurata un anno e mezzo fa……Si, lo so, qualche questore e qualche prefetto vanno cambiati……ma non è possibile buttare per aria prefetti e questori ad ogni piè sospinto. Gli uomini sono importanti fino ad un certo punto se non si cambia cultura e metodo di lavoro…Avevamo l’obiettivo di portare dentro 300 persone, ci siamo riusciti per 240.” [25]

Il CSM archivia due procedimenti disciplinari: uno a carico di Pasquale Barreca, accusato dal ministro Martelli di aver ritardato l’applicazione del decreto “manette ai mafiosi” ed aver così favorito la fuga del boss Vernengo dall’ospedale. Un altro a carico di alcuni magistrati palermitani che si erano occupati dei cosiddetti delitti eccellenti e che, secondo la denuncia di Leoluca Orlando al presidente Cossiga, non avevano fatto abbastanza per perseguire alcuni politici.



Giovedì 11 giugno 1992

Il CSM suggerisce una depenalizzazione dei reati minori per smaltire i fascicoli che rubano tempo alle grandi inchieste. L’ANM protesta per la mancata attuazione della legge sui pentiti (approvata nel marzo 1991) e la lunga anticamera della superprocura.


Venerdì 12 giugno 1992

Paolo Borsellino incontra il collega Vittorio Aliquo´, anche lui procuratore aggiunto a Palermo, fuori dall´orario di lavoro, alle 20.30, e soprattutto fuori dall´ufficio: lo va a trovare a casa, per una chiaccherata a quattr´occhi. Di cosa parlano? Dice Aliquo´: "Solo di ferie. Si approssimava il periodo delle vacanze e dovevamo metterci d´accordo sui turni. Paolo mi disse: parti tu, e quando torni, vado in ferie io."
Proprio in quei giorni, intanto, ha annunciato la sua decisione di collaborare Leonardo Messina, l´ex picciotto di San Cataldo, che nei mesi successivi svelera´ ai magistrati il piano di un golpe messo a punto da una cupola di corleonesi, esponenti della massoneria deviata, e uomini dei servizi, per trasformare l´Italia, dopo il crollo dei partiti tradizionali, in una federazione di regioni asservita ai poteri criminali. I due aggiunti vengono incaricati di incontrare il detenuto per raccoglierne le dichiarazioni. Aliquo´ ricorda: "Con Paolo, quella sera, parlammo anche degli imminenti interrogatori del nuovo pentito, cercando di stilare un calendario." Borsellino segna l´incontro sulla sua agenda .[26]

Il Viminale apre un’inchiesta sulla gestione della questura di Catania e toglie al vice-questore Vincenzo Roca l’indagine sul mancato allarme della strage di Capaci affidandola ad un pool di investigatori provenienti da Palermo e da Roma.

Vincenzo Calcara conferma le sue accuse alla mafia di Castelvetrano. Descrive una seconda volta il progetto per uccidere Paolo Borsellino con un fucile di precisione o con un’autobomba sull’autostrada Trapani-Palermo. Ed aggiunge: “Le cosche non perdoneranno mai al giudice Borsellino di aver messo in ginocchio una della famiglie piú potenti di Trapani”. Calcara insiste sul pentimento e sugli incontri con il giudice Borsellino: “Ogni volta che me trovo davanti, penso: guarda un po´, proprio io dovevo ucciderlo e ricordo le parole che mi disse quando gli chiesi se non avesse paura. Rispose: é bello morire per ció in cui si crede”. [27]

Sabato 13 giugno 1992

Ore 17 Falcone (Cossiga) (dall´agenda grigia di Paolo Borsellino).

Agnese Borsellino non ricorda bene cosa accadde quel pomeriggio di sabato. E quando, anni dopo durante il processo Borsellino Ter, le viene chiesto di commentare l´appunto con il nome di Cossiga, ritrovato sull´agenda grigia, si limita a formulare un´ipotesi: "Quel giorno mio marito si doveva incontrare con il presidente della Repubblica Cossiga. Forse era incerto, non sapeva se si sarebbe incontrato o meno, allora l´ha messo tra parentesi."
Francesco invece quell´incontro se lo ricorda bene. Lui, che da sole tre settimane aveva smesso i panni di capo dello stato, quel pomeriggio é a Palermo per visitare, in forma strettamente privata, la tomba di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, nel cimitero di Sant´Orsola. Cossiga, accompagnato dal prefetto Mario Jovine, depone prima un mazzo di fiori sulla tomba dei due magistrati, quindi su quella dell´agente Vito Schifani. Qui si inginocchia a pregare accanto alla vedova del poliziotto ucciso, Rosaria Costa, che ad un certo punto gli dice: "Presidente preghi forte, voglio sentir cosa dice..." poi, insieme, ad alta voce, recitano il De Profundis, un Pater ed un´Ave Maria.
Cossiga si reca poi in visita a casa dei parenti di Falcone, dove lo attendono anche quelli di Francesca Morvillo. Prima di lasciare Palermo, per rientrare a Roma, l´ex presidente della Repubblica si trattiene per trenta minuti a Villa Paino, che e´ la sede della prefettura, ma anche la residenza del governo a Palermo. Li´alle 17, incontra Borsellino. I due si stringono la mano, si accomodano su un divanetto, scambiano alcune considerazioni sull´attacco stragista che ha colpito il paese. E soprattutto, sull´antimafia dopo Falcone.
"Glielo dissi chiaro e tondo - ricostruisce oggi Cossiga - e´ inutile che si agiti: lei é il successore e l´erede di Falcone. Lei e nessun altro." Borsellino, tornando a casa, segna l´appuntamento sull´agenda.[28]

Domenica 14 giugno 1992

Nel carcere di Sollicciano (Firenze) ha luogo una rivolta di detenuti per protestare contro l´inasprimento delle condizioni carcerarie atteso dopo l´approvazione del decreto anti-criminalitá presentato dal governo. Un agente di custodia viene sequestrato. La rivolta termina nel giro di tre ore dopo una trattativa con le forze dell´ordine.[29]

Lunedì 15 giugno 1992

Il boss Giovanni Zichittella cade vittima di un agguato mafioso nel centro di Marsala. Un killer a volto scoperto lo uccide con 4 colpi di pistola ed un colpo di grazia alla nuca. Poi si rivolge ai testimoni e grida: ”Avete capito? Qui comandiamo ancora noi!”.[30]

Il segretario regionale del SIULP siciliano Pietro Ivan Maravigna denuncia in una lettera aperta al questore di Catania l’inadeguatezza dei mezzi e lo scarso coordinamento dello Stato nella lotta alla mafia in città.

Martedì 16 giugno 1992

Antonino Caponnetto scrive un articolo per il periodico agrigentino Sudovest in cui rivela che la decisione di trasferire precipitosamente Falcone e Borsellino all’Asinara nel 1985 fu dovuta ad un grave ed incombente pericolo di attentato ai loro danni segnalato da una persona di assoluta fiducia e credibilità. Quella persona è un alto ufficiale dei carabinieri che, nell’estate dell’85, si precipitò nell’ufficio del Consigliere Istruttore: “Abbiamo intercettato una cartolina in partenza dall’Ucciardone - gli disse - C’è un piano della mafia per uccidere prima il giudice Paolo Borsellino, poi Giovanni Falcone.” Caponnetto non ci pensò due volte ed ordinò che i due magistrati e le loro famiglie fossero immediatamente trasferiti al sicuro, all’isola dell’Asinara. “Per lungo tempo – afferma Caponnetto – quest’episodio rimase sconosciuto ai più e quando la notizia trapelò riuscimmo a mantenere il segreto sulla drammatica motivazione di quell’improvviso trasferimento che la stampa ha sempre attribuito alla decisione dei due colleghi di appartarsi in un luogo sicuro ed isolato per meglio dedicarsi alla stesura della sentenza-ordinanza. In realtà – continua Caponnetto – avendo lasciato Palermo con la massima urgenza a poche ore dalla segnalazione ricevuta, Falcone e Borsellino non avevano alcuna possibilità di portare con sé alcuna parte dell’immenso materiale raccolto con la conseguenza che, per quindici giorni, dovettero sospendere il loro lavoro. Ogni giorno insistevano per poter tornare al lavoro, ma glielo consentimmo solo quando fummo tranquilli sul cessato pericolo. Per quel soggiorno all’Asinara – commenta amaramente Caponnetto – Falcone e Borsellino dovettero persino pagare le spese di soggiorno per loro e le loro famiglie.” [31]

Caponnetto infine scrive: “Ora, dopo la strage, mi piace ricordare l´unica occasione in cui lo vidi veramente sereno: quel pomeriggio d´estate in cui, quasi di nascosto, alla presenza dei soli testimoni, Giovanni si uní in matrimonio a Francesca.” [32]

In vari tribunali d´Italia inizia uno sciopero di tre giorni da parte degli avvocati penalisti che vogliono protestare contro il decreto animafia Scotti-Martelli. Non condividiamo il principio di fondo - dichiara l´avvocato Mario Casalinuovo, vicepresidente dell´unione camere penali - secondo il quale si pretende di far fronte all'incapacita' di porre in essere interventi seri e incisivi sul piano della politica criminale e dell'ordine pubblico, attraverso lo stravolgimento dei principi processuali, com'e' ora avvenuto con il recente decreto legge, cosi' alimentando, tra l'altro, l'equivoco che sia possibile sconfiggere in sede giudiziaria la criminalita' organizzata, senza tenere nel debito conto l'esigenza di iniziative di risanamento sociale e istituzionale e di un effettivo coordinamento delle forze di polizia e dell' adozione di metodi veramente scientifici di investigazione. Piu' nel dettaglio si puo' dire - prosegue Casalinuovo - che i penalisti italiani contestano tutte le norme che sconvolgono la procedura penale, riportandoci indietro nel tempo, addirittura molto piu' indietro dello stesso codice Rocco, visto che questo codice era stato mitigato e quasi generalmente riformato da una serie di leggi e leggine che lo avevano sostanzialmente gia' modificato prima della entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale. Ora si rischia di ripiombare nel Medio Evo del diritto; certo siamo in pieno clima di controriforma rispetto alla riforma del codice di procedura penale che era entrato in vigore solo da pochi anni e che non aveva ancora potuto neanche minimamente dispiegare i suoi effetti".[33]

Giovedì 18 giugno 1992

Giuliano Amato riceve da Scalfaro l’incarico di formare il nuovo governo.

Durante una conferenza con la stampa estera Scotti dichiara che “la decisione e l’organizzazione dell’attentato di Capaci non furono effettuate unicamente a Palermo, ma è stata un’operazione messa in atto dalla mafia e da organizzazioni criminali di altri paesi: non esistono molti al mondo in grado di organizzare questo tipo di attentato. Il tipo di delitto, le modalità di realizzazione, la scelta dei tempi non consentono di limitare tutto ciò ad un caso esclusivamente palermitano. Gli interessi della mafia sono troppo grandi“ (dichiarazioni riportate dall‘agenzia di stampa spagnola Efe). [34]

In serata Scotti precisa che non voleva dire che “i mandanti della strage di Capaci sono all’estero, ma solo che la mafia non può essere considerata un problema solo italiano. E’ invece un problema internazionale perché internazionali sono i rapporti di cosa nostra, i suoi interessi, le sue complicità ed operazioni di riciclaggio…le indagini non possono chiudersi soltanto a Palermo. Abbiamo il dovere di considerare qualsiasi pista ed orizzonte investigativo”.


Il Ministero di Grazia e Giustizia dispone, con un provvedimento del 17 giugno, l’immediato trasferimento del magistrato Alberto Di Pisa al tribunale di Messina, presso il quale dovrà prendere possesso entro il 20 giugno. Resta aperto il procedimento disciplinare del CSM per la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio.


Si estende la protesta al carcere di Sollicciano (Firenze) dove domenica 14 giugno quattro detenuti avevano preso in ostaggio per tre ore un agente di custodia per protestare contro la limitazione dei benefici della legge Gozzini prevista dal decreto anti-mafia Scotti-Martelli: i 700 detenuti fiorentini iniziano uno sciopero della fame rifiutando non solo il vitto carcerario, ma anche quello "privato". E soprattutto rifiutano il lavoro: bloccate le cucine e i servizi di pulizia, la direzione e' dovuta ricorrere all' esterno per appaltare a una ditta i pasti (che devono essere garantiti) e per chiedere alla stessa di distruggerli dopo che vengono rifiutati.[35]

Venerdì 19 giugno 1992

Il generale dei carabinieri Antonio Subranni, comandante del ROS, invia un rapporto al comando generale dei carabinieri in cui si riporta che numerose fonti, mafiose e non, hanno parlato di una decisione di Cosa Nostra di eliminare fisicamente Paolo Borsellino. Altri possibili obiettivi sono il maresciallo Canale, il Ministro della Difesa Andò e l’ex-ministro Calogero Mannino. Il rapporto numero 541 intitolato “Minacce nei confronti di personalità ed inquirenti” afferma che nell’ultimo anno gli organi dello Stato hanno esercitato un’indiscutibile pressione sulla criminalità organizzata, sia in termini di inasprimento normativo, che in termini di positivo impegno investigativo…nelle ultime settimane abbiamo proceduto ad una analisi dei dati disponibili, con l’obiettivo di ottenere un quadro delle strategie operative di Cosa Nostra e di individuare il movente e gli esecutori di eclatanti delitti di mafia riconducibili anche ad una precisa strategia di attacco allo Stato. Il documento cita l’uccisione del maresciallo Guazzelli, di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e degli uomini della scorta, dell’eurodeputato Salvo Lima. Poi il rapporto prosegue delineando un panorama molto preoccupante: le informazioni raccolte sia in ambienti estranei al crimine organizzato sia all’interno di quel mondo hanno consentito di ottenere da più fonti di fiducia notizia sull’esistenza di una volontà dei vertici di Cosa Nostra di opporsi con determinazione all’offensiva dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti. Il primo consiste nel fare pressioni, in forme indirette, su esponenti politici per ridurre l’impegno dello Stato contro la criminalità. Il secondo invece consiste nell’eliminare fisicamente alcuni inquirenti che si sono messi in evidenza nella recente proficua attività di repressione di Cosa Nostra. Poi il rapporto prosegue mettendo in rilievo le caratteristiche dei possibili obiettivi: gli onorevoli Calogero Mannino e Salvo Andò potrebbero essere future vittime di Cosa Nostra…il maresciallo Canale potrebbe correre pericolo per la sua incolumità poiché si è distinto in operazioni antimafia e per avere in particolare contattato alcuni esponenti di spicco della criminalità siciliana successivamente colpiti da provvedimenti della magistratura. Il Cap. Umberto Sinico correrebbe pericolo di vita per l’attività di contrasto di una delle maggiori famiglie mafiose palermitane…il Procuratore aggiunto Paolo Borsellino correrebbe seri pericoli per la sua incolumità a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità ai vertici di Cosa Nostra. Del contenuto del documento furono subito informati i diretti interessati prima ancora che fosse completato e spedito al comando generale dei carabinieri e da questo alla Procura di Palermo, alla Prefettura, alla Questura ed all’Ufficio dell’Alto Commissariato.[36] Ai due politici fu rafforzata la scorta, il Cap. Sinico ricevette l’invito di lasciare la Sicilia, il maresciallo Canale ricevette un analogo invito ma decise di restare per motivi familiari e professionali e cominciò a girare con un’auto blindata. Borsellino vide raddoppiata la sua scorta.[37]


Sabato 20 giugno 1992

Il questore di Catania Bonsignore trasferisce d’ufficio l’ispettore capo Maravigna dalla squadra volanti ad un commissariato periferico. Il Maravigna in qualità di segretario regionale del SIULP aveva di recente denunciato in una lettera aperta le inefficienze dei vertici della questura nel coordinamento della lotta alla mafia.

Giuseppe Ayala rivela durante un convegno a Genova che Falcone teneva un diario in cui aveva annotato tutto della sua recente vita professionale a Palermo: “Ho deciso quasi d’impeto, io non voglio alzare polveroni, ma non voglio neanche essere reticente. C’e’ una cosa che forse verrà fuori: Giovanni scriveva tutto. Aveva un diario puntualissimo, del quale ha messo a conoscenza – che io sappia – me ed episodicamente Paolo Borsellino. E’ una cronaca molto dettagliata del Palazzo di Giustizia di Palermo…Conoscerla, se il dischetto verrà fuori, sarebbe un ulteriore modo per rendere giustizia a Giovanni. Io non so se il dischetto è stato trovato, non ho, come è ovvio, nessuna veste per interferire nelle indagini, spero tuttavia che venga trovato e che venga letto. Io mi impegno formalmente a confermare tutte le circostanze che vi sono annotate e con me – ne abbiamo già parlato - ci sono altri magistrati di Palermo pronti a farlo. Se il diario saltasse fuori, la parola di Giovanni non resterebbe isolata perché un dovere morale ci imporrà di dire che Giovanni ha scritto la verità, che quel diario è una cronaca di storia vera, vissuta. Io spero che il dischetto salti fuori.”[38] Dal materiale sequestrato dall’autoritá giuddiziaria negli uffici e nella casa di Falcone per ora del diario non vi è ancora traccia.

Ma il diario purtroppo non salta fuori. Del dischetto di cui parla Ayala ha ricevuto notizie, subito dopo la strage, il magistrato titolare dell´inchiesta, Salvatore Celesti. Ma le ricerche fatte nell´ufficio di Falcone al ministero, e nelle abitazioni di Palermo e di Roma, nel corso delle perquisizioni formali, non hanno dato alcun risultato.
Tra i collehgi, le parole di Ayala provocano scetticismo: "Non ho mai sentito parlare di questo diario - afferma Gioacchino Natoli, che di Falcone fu collaboratore all´ufficio istruzione - i diari sono sempre fatti privati. Andrei molto cauto nel fare certe affermazioni. A meno che non si vogliano scambiare appunti di carattere professionale per appunti privati." E Giacomo Conte, che ha lavorato con Falcone a partire dal 1985, aggiunge: "Non sono al corrente dell´esistenza di un diario, se vi fosse potrebbe essere una validissima chiave di lettura delle drammatiche vicende cominciate con la nomina del consigliere istruttore nel 1987 e conclusesi con la strage di Capaci."
Altri, invece, confermano, aprendo uno scenario di veleni nei rapporti tra Falcone e le forze investigativer palermitane.
"Confermo le dichiarazioni del giudice Ayala sull´esistenza della memoria storica del giudice falcone in cui venivano annotate le percezioni od i segni della sua vita di magostrato e le percezioni ed i segni del malessere esistente nella citta´ di Palermo", dichiara il senatore Maurizio Calvi (Psi), gia´ vicepresidente della commissione antimafia. "Me lo disse - precisa Calvi - lo stesso Falcone in occasione del viaggio della commissione a Vienna. Mi parlo´ dell´intreccio tra mafia, citta´ di Palermo e pezzi importanti delle istituzioni nel senso che lo stesso non si fidava in alcun modo della questura di Palermo ne´ del comando dei carabinieri di Palermo ne´ tantomeno di alcuni pazzi importanti all´interno della prefettura di Palermo."
Calvi e´ un fiume in piena: "Gia´ in quell´epoca, prima dell´importante attenatto nella sua villa al mare, il giudice Falcone presentiva sensi del suo malessere e della sua morte; di un giudice cioe´ che sarebbe saltato in aria a seguito dell´esistenza di questi intrecci. Falcone asseriva in quell´occasione che qualsiasi operazione nella citta´ di Palermo doveva avvenire all´oscuro di questi apparati e la stessa gestione del pentito Contorno avveniva al di fuori di quell´ambiente". Calvi sostiene anche che "il giudice Falcone, proprio per la delicatezza ella situazione, ogniqualvolta aveva la necessita´di assumere informazioni andava direttamente presso gli uffici della questura o dei carabinieri a ritirare personalmente fascicoli proprio perche´ non si fidava in alcun modo di questi apparati."
Il delitto Falcone "e´ potuto avvenire all´interno di questi intrecci e di questo sistema." "Sono a disposizione - conclude Calvi - per chiarire i termini di queste delicate questioni che possono parire spaccati importanti di verita´, qualora si rintracciasse questo memoriale."
E Borsellino? per ora non si sbottona: "Non conosco le dichiarazioni di Ayala nei suoi esatti termini, l´eventuale esistenza di appunti riservati di Giovanni Falcone non puo´ in senso assoluto essere oggetto di mie dichiarazioni. Se si trattasse di appunti personali solo i suoi famigliari potrebbero decidere di renderli pubblici. Se si trattasse di appunti utili alle indagini solo l´autorita´ giudiziaria procedente sarebbe arbitra della loro pubblicazione."
E a Calvi replica cosi´: " Mi auguro che Calvi e tutti quelli che sono a conoscenza di elementi utili alle indagini vadano a riferirli al procuratore della Repubblica di Caltanissetta Salvatore Celesti, invece di rilasciare dichiarazioni alla stampa." [39]

Domenica 21 giugno 1992

Scotti è molto indeciso se accettare l’incarico di vice-presidente del consiglio con incarico agli interni ad interim. Questa pare essere la proposta di Amato e dei colleghi DC. Ma Scotti appare indeciso. “Sono convinto, e lo vado ripetendo da mesi, che il calvario non è finito, che la mafia colpirà ancora e colpirà ancora più in alto, tanto più in alto quanto più efficace sarà l’azione dello Stato. Non tutti vogliono capirlo, c’è chi fa orecchie da mercante, chi ha la tentazione di sottovalutare il mio allarme, chi sussurra che la mia apprensione è soltanto allarmismo che nasconde voglia di potere. Bene, a questi signori io ho già detto che io non andrò più a Palermo ad accogliere insulti e monetine al loro posto. Nessuno può pensare che, dinanzi alla guerra che bisogna scatenare alla mafia, di lavarsi pilatescamente le mani. Sia ben chiaro, soltanto con un esecutivo forte, legittimato nei tempi e nei consensi può proseguire il lavoro iniziato da me e da Martelli. E’ una politica che va confermata ed una legittimazione di quella politica passa per la riconferma di entrambi.” [40]

I capitoli di questa strategia antimafia comprendono l’istituzione della DIA, della DNA, delle procure distrettuali, le disposizioni anti-riciclaggio, il provvedimento anti-racket, le norme sullo scioglimento dei consigli comunali inquinati dal malaffare, la legge sui collaboratori di giustizia, la riforma di alcuni articoli del codice penale per l’istituzione del cosiddetto doppio binario per processi di mafia ed ordinari. Molte di questi strumenti non sono però a regime: la legge sui pentiti manca di un regolamento attuativo, gli scioglimenti dell’amministrazione locale non hanno ancora toccato i grossi centri del mezzogiorno, la DIA tarda a decollare, la DNA ancora non c’è. Scotti avverte intorno a sé l’indifferenza della maggioranza che si prepara ad appoggiare il governo Amato e lancia un messaggio piuttosto ambiguo ai suoi colleghi di partito che a suo parere non lo sosterrebbero nella lotta alla criminalità organizzata.


Un giorno tra il 22 ed il 28 giugno 1992

Borsellino concede al giornalista Lamberto Sposini l’ultima intervista filmata della sua vita. Afferma tra le altre cose che le misure di sicurezza per lui e per la sua famiglia sono state notevolmente appesantite a causa del grave pericolo che lui corre. Nonostante tutto Borsellino conferma la sua determinazione nel proseguire il proprio lavoro, anche se ha la certezza che il prezzo da pagare sarà molto alto.



Lunedì 22 giugno 1992

Continuano le indiscrezioni sui diari di Falcone. Sia l’Espresso che La Repubblica riportano episodi che Falcone avrebbe raccolto nel diario. Si tratta della cronaca dettagliata degli ultimi mesi di Falcone al Palazzo di Giustizia di Palermo e dei suoi contrasti con il Procuratore capo Giammanco. Il senatore socialista Maurizio Calvi, ex vicepresidente della commissione antimafia, conferma l’esistenza dei diari di Falcone. Inoltre afferma che Falcone durante un viaggio a Vienna gli parlò dell’intreccio a Palermo tra la mafia e pezzi importanti delle istituzioni, nel senso che Falcone non si sarebbe fidato in alcun modo né della questura di Palermo, né del comando dei carabinieri di Palermo, né tanto meno di alcuni personaggi importanti della prefettura di Palermo.[41] Ayala esprime forti dubbi sulle dichiarazioni di Calvi. Nella polemica interviene anche Scotti con un articolo pubblicato sul Popolo, in cui esprime “tristezza per il diffondersi di veleni allo scopo di confondere ciò che ancora non è chiaro sulla strage di Capaci, quasi ad alimentare, secondo un’antica ed abusata tradizione, immotivatamente e con cattiveria, speculazioni e polemiche sulle Istituzioni dello Stato preposte a combattere la mafia ed ogni forma di crimine organizzato. Mi chiedo a chi e a che cosa tutto questo giovi e se non sia controproducente per l’attività investigativa degli apparati di sicurezza sapere che a loro carico si nutrono sospetti e si gettano ombre in uno scenario nel quale essi si aspetterebbero fiducia, comprensione, stimoli, collaborazione per proseguire nel loro dovere alla ricerca della verità. Fa piacere leggere, secondo le testimonianze di altri, che pure sono stati legati al giudice palermitano da strettissimi e quotidiani rapporti di collaborazione, che Giovanni Falcone era soprattutto un giudice e che tutti i suoi segreti di giudice erano e sono agli atti processuali. Occorre fare come lui, assorbire con il sorriso contrasti e polemiche, ma restare fermi e convinti che occorre continuare a percorrere la strada che, proprio anche grazie a lui, è stata tracciata nella lotta al crimine mafioso e che ora occorre rendere operativa.” [42]

Vengono depositate le motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione sul maxi-processo. Viene pienamente riconosciuta la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra. Fra l’altro viene rigettata la richiesta dei difensori che invocavano la nullità della sentenza perché le dichiarazioni dei pentiti dovevano essere confermate da prove concrete: per la Cassazione il riscontro può anche essere costituito da dichiarazioni incrociate di più collaboratori di giustizia. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno poi messo sullo stesso piano l’appartenenza e la partecipazione all’associazione per delinquere di stampo mafioso. Per la suprema corte “è l’associazione nel suo insieme che deve concretare gli estremi della fattispecie penale, bastando per il partecipe l’appartenenza, con la consapevolezza che l’associazione agisce anche grazie al suo apporto.”

Inizia a circolare in ambienti istituzionali palermitani una lettera anonima di otto pagine che avvelena l’aria di Palermo ponendo pesanti domande sull’attività delle forze dello stato nella lotta alla mafia in Sicilia. Il documento spiega che Lima muore per mandare un messaggio ad Andreotti mentre un altro gruppo sta scalando i vertici della politica siciliana. Si descrivono incontri tra big della DC e boss di Cosa Nostra, si afferma che Totò Riina era contrario alla uccisione di Falcone, si mischiano molti elementi palesemente falsi a mezze verità. Il risultato è quello di ammorbare l’aria della città perché si vede che l’autore del documento è comunque qualcuno che conosce attentamente la materia della quale si parla.

Il Ministro Martelli rilancia la pista estera per l’indagine sulla strage di Capaci durante una visita in Sudamerica: “Cerco legami tra l’assassinio di Falcone e la mafia americana o la mafia colombiana”.[43]

Martedì 23 giugno 1992

Ad un mese dalla strage di Capaci si svolge a Palermo una grande manifestazione antimafia alla quale partecipano diecimila persone. Un cordone umano unisce il Palazzo di Giustizia e la casa del giudice Falcone in via Notarbartolo. Alla sera si svolge una fiaccolata per le vie della città. Borsellino parla alla parrocchia di Sant’Ernesto, ricorda l’amico Giovanni e gli anni del pool:


(Fonte: inositolo)

“Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità.” [44]


Il procuratore di Caltanissetta Celesti afferma che non c’è alcun mistero relativo al diario di Falcone, ma tra le carte ed il materiale sequestrato non compare ancora nulla che sia riconducibile alle dichiarazioni di Ayala, Borsellino, Guarnotta, La Licata e Lodato. Anche nella borsa che il giudice aveva con sé al momento della strage questo diario o meglio qualche sua traccia non sono stati trovati. Fra l’altro la borsa di Falcone è stata consegnata alla procura di Caltanissetta solo il 27 maggio dopo le proteste del procuratore Celesti. La borsa era in mano alla magistratura palermitana ed il giudice che per primo ne aveva esaminato il contenuto era stato Alberto Di Pisa insieme al collega Giuseppe Pignatone e a personale della DIGOS, stando a quanto riferito dal Di Pisa stesso.[45]

Aldo Rizzo, già giudice, parlamentare del PDS e vicesindaco della giunta Orlando nel 1987, si prepara a presiedere la nuova giunta comunale di Palermo. Si tratta di un pentapartito con Dc, Psi, Pli, Psdi e Pri. La candidatura di Rizzo era stata fatta da Calogero Mannino. La Rete di Orlando si oppone nettamente. Il PDS ed i movimenti dicono pure di no ma si preparano ad una “opposizione costruttiva”.

Prosegue l´inchiesta condotta dal PM Francesco Messina della procura di Trapani sulle attivitá condotte tra il 1987 ed 1989 dal “Centro Scorpione”, una delle 5 sezioni operative della VII divisione del Sismi, la stessa da cui dipendeva "Gladio". Punto di partenza dell' inchiesta, la "base" trapanese del "Centro Scorpione", un appartamento al terzo piano di una palazzina al civico 123 della via Virgilio a Trapani. Responsabile dell' ufficio Vincenzo Li Causi, 40 anni. L' uomo, con moglie e due figli, abito' nell' appartamento per un paio di anni. Poi, all' improvviso, come era arrivato, se ne ando' . Il magistrato ha a disposizione anche notizie relative ad un piccolo aereo da turismo che in quei due anni avrebbe "battuto" la zona Nord-occidentale della provincia di Trapani, in particolar modo l'area di San Vito Lo Capo. Ma della presenza del velivolo cosi' come di Li Causi non esiste alcuna documentazione: l'uomo sembra volatilizzato nel nulla se si eccettua la copia fotostatica di una tessera ferroviaria rilasciata dalla presidenza del Consiglio. L' aspetto piu' misterioro della vicenda riguarda comunque il "Piper", al punto che si sospetta che potesse avere addirittura la sua base tra le montagne di San Vito Lo Capo, dove sarebbe stato ricavato un piccolo aereoporto. Ma anche di questo, finora, non e' stata trovata prova.[46]

Mercoledì 24 giugno 1992

Il Sole 24 Ore pubblica un articolo a firma di Liana Milella in cui viene riportato il contenuto di alcune pagine del diario di Falcone. Il magistrato gliele consegnò personalmente intorno alla metà di luglio del 1991. Viene citata tutta una serie di episodi che testimoniano le difficoltà che Giammanco aveva creato a Falcone nello svolgimento delle indagini all’interno della procura di Palermo. Sono riportati fatti accaduti tra la fine del 1990 e l’inizio del 1991 (Falcone si trasferisce a Roma nel mese di marzo 1991):

Primi di dicembre 1990: si è lamentato col maggiore Inzolia di non essere stato avvertito del contrasto fra PS e CC a Corleone su Riina.

7 dicembre 1990: ha preteso che Rosario Priore gli telefonasse per incontrarsi con me e gli ha chiesto di venire a Palermo anziché andare io da lui.

Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea (Roma) per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ancora ad alcun sostituto.

10 dicembre 1990: sollecitato la definizione di indagini riguardanti la regione al capitano De Donno (procedimento affidato ad Enza Sabatino), assumendo che altrimenti la Regione avrebbe perso finanziamenti. Ovviamente qualche uomo politico gli ha fatto questa sollecitazione ed è altrettanto ovvio che egli prevede un’archiviazione e che solleciti l’ufficiale dei CC in tale previsione.

13 dicembre 1990: nella riunione del pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi infastidito per il fatto che io e Lo Forte ci eravamo alzati per andare a fumare una sigaretta, rimprovera aspramente il Lo Forte.

18 dicembre 1990: dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è l’istanza della parte civile nel processo La Torre (Pci) di svolgere indagini sulla Gladio. Ho suggerito, quindi, di richiedere al G.I. di compiere noi le indagini in questione, incompatibili con il vecchio rito, acquisendo copia dell’istanza in questione. Invece, sia egli, sia Pignatone, insistono per richiedere al G.I. soltanto la riunione riservandosi di adottare una decisione soltanto in sede di requisitoria finale. Un modo come un altro per prendere tempo.

19 dicembre 1990: altra riunione con lui, con Schiacchitano e con Pignatone. Insistono nella tesi di rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante io mi opponga, egli sollecita Pignatone a firmare la richiesta di riunione dei processi nei termini di cui sopra.

Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio.

Ho appreso per caso che qualche giorno addietro ha assegnato un anonimo su Partinico, riguardante tra gli altri l’On. Avellone, a Pignatone, Teresi e Lo Voi, a mia insaputa (gli ultimi due non fanno parte del pool).

10 gennaio 1991: I quotidiani riportano la notizia del proscioglimento da parte del G.I. Grillo dei giornalisti Bolzoni e Lodato, arrestati per ordine di Curti Giardina tre anni addietro con inputazione di peculato. Il G.I. ha rivelato che poteva trattarsi soltanto di rivelazione di segreti di ufficio e che l’imputazione di peculato era cervellotica. Il PM Pignatone aveva sostenuto invece che l’accusa in origine era fondata ma che le modificazioni del codice penale rendevano il reato di peculato non più configurabile. Trattasi di altra manifestazione di furbizia di certuni che, senza averne informato il pool, hanno creduto, con una “ardita” ricostruzione giuridica, di sottrarsi a censura per un’iniziativa (arresto di due giornalisti) assurda e faziosa di cui non può non esser ritenuto responsabile certamente il solo Curti Giardina, procuratore capo dell’epoca.

16 gennaio 1991: apprendo oggi che, durante la mia assenza ha telefonato il collega Moscati, sost. Proc. della Rep. a Spoleto, che avrebbe voluto parlare con me per una vicenda di traffico di sostanze stupefacenti nella quale era necessario procedere ad indagini collegate; non trovandomi, il collega ha parlato col capo che, naturalmente, ha disposto tutto ed ha proceduto all’assegnazione della pratica alla collega Principato, naturalmente senza dirmi nulla. Ho appreso quanto sopra solo casualmente telefonando a Moscati.

17 gennaio 1991: solo casualmente, avendo assegnato a Scarpinato il fascicolo relativo a Ciccarelli Sabatino, ho appreso che Sciacchitano aveva proceduto alla sua archiviazione senza dirmi nulla. Ho riferito quanto sopra al capo che naturalmente è caduto dalle nuvole. Sul Ciccarelli, uomo d’onore della famiglia di Napoli, il capo mi ha esternato preoccupazioni derivanti dal fatto che teme di contradddirsi con le precedenti, note, prese di posizione della Procura di Palermo in tema di competenza nei processi riguardanti Cosa Nostra.

26 gennaio 1991: apprendo oggi, arrivato in ufficio, da Pignatone, alla presenza del capo, che egli e Lo Forte quella stessa mattina si erano recati dal cardinale Pappalardo per sentirlo in ordine a quanto riferito al processo Mattarella da Lazzarini Nara. Protesto per non esser stato preventivamente informato sia con Pignatone sia con il capo, al quale faccio presente che sono prontissimo a qualsiasi diverso mio impegno ma che, se si vuole mantenermi al coordinamento delle indagini antimafia, questo coordinamento deve essere effettivo. Grandi promesse di collaborazione e lealtà per risposta.

6 febbraio 1991: oggi apprendo che Giammanco segue personalmente un’indagine affidata da lui stesso a Vittoria Randazzo e riguardante dei CC di Partinico coinvolti in attività illecite. Uno dei CC è stato arrestato a Trapani e l’indagine sembra abbastanza complessa.[47]


La prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annulla la sentenza della Corte d'assise d'appello di Palermo che nel '91 aveva condannato all'ergastolo Paolo Alfano, Salvatore Montalto, Salvatore Rotolo e Vincenzo Sinagra. I quattro erano accusati di aver ucciso nel 1982 durante la guerra di mafia i due boss Cesare Manzella e Ignazio Pedone. Gli imputati comunque rimarranno in carcere perche' condannati all' ergastolo in altri processi. I giudici della suprema corte, dopo circa tre ore di camera di consiglio, hanno poi dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale e quelli di altri sette imputati. I magistrati hanno inoltre respinto i ricorsi di altri diciassette accusati tra cui Salvatore Badalamenti e Giuseppe Gambino.

Il maxi-ter, che ha visto tra gli imputati boss come Michele Greco, Pippo Calo' e Salvatore Riina, era cominciato il 21 aprile dell' 88 ed era stato istruito come stralcio del primo processo alla mafia degli anni ' 80. Durante il dibattimento i giudici palermitani erano andati piu' volte negli USA e a Roma per ascoltare i "pentiti" Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno e Antonino Calderone. La sentenza della Corte d'assise d'appello, dopo aver inflitto i quattro ergastoli che sono stati annullati oggi, aveva confermato anche l'assoluzione di boss come Michele Greco detto il "Papa", del fratello Salvatore e di altri presunti appartenenti alla "cupola" come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calo', Francesco Madonia, Bernardo Brusca e Giovanni Scaduto. La Corte aveva anche confermato la condanna a 22 anni di carcere per il "pentito" Vincenzo Sinagra, omonimo del primo, e ridotto le pene per altri imputati tra cui Vincenzo Milazzo, presunto esponente di spicco della mafia trapanese.

Sempre nell'ambito di uno stralcio del maxiprocesso, ma per fatti legati a un traffico di droga tra USA e Sicilia, la prima sezione presieduta da Carnevale dispone un nuovo dibattimento per Alfredo Bono, condannato in secondo grado a otto anni. I giudici della suprema corte hanno poi annullato, sempre nei confronti del presunto esponente di Cosa Nostra, un'altra sentenza della corte di Assise di Palermo che nell' 87 lo aveva condannato a diciotto anni e un'ordinanza di rinvio a giudizio che il giudice istruttore della Procura di Palermo aveva spiccato sempre nei suoi confronti nell' 85.[48]

Caponnetto rilascia un’intervista a La Repubblica in cui afferma che “Giovanni Falcone cominciò a morire il 18 gennaio 1988, quando il CSM gli preferì Meli alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo. E non si può negare che c’è stata una campagna, cui hanno partecipato in parte i magistrati, che lo ha delegittimato. Non c’è nulla di più pericoloso per un magistrato che lotta contro la mafia che l’essere isolato…Ed è molto grave che ancora oggi continui ad imperversare la giurisprudenza di Carnevale.” [49]

In mattinata una telefonata raggiunge la redazione de L´ESPRESSO: Massimo Ciancimino chiede di poter parlare con il giornalista Giampaolo Pansa al quale dice: “Mio padre ha bisogno di vederla. Vuole chiederle una cosa. Puó andare a trovarlo domani mattina?”. Pansa replica: “Sta bene, verró verso le dieci.” [50]



Giovedì 25 giugno 1992

Gianpaolo Pansa incontra Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo. Ciancimino comunica a Pansa di aver iniziato a scrivere un libro con le sue memorie: “Quando hanno ucciso Falcone, volevo interromperlo. Ma poi ho visto alla tivú il dottore Borsellino che, in una chiesa di Palermo, diceva: chi ha criticato Falcone, oggi non ha piú diritto di parola. Allora mi sono infuriato. Io non avrei piú il diritto di parola? Cosí ho deciso di continuare.”

Ciancimino durante il dialogo con Pansa parla degli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone e cerca di allontanare le responsabilitá da Cosa Nostra: “Chi ha ucciso l´uno e l´altro si é opposto in qualche modo al progetto dei due padroni d´Italia (Giulio Andreotti e Bettino Craxi ndr). Quei due delitti possono essere stati fatti entrambi dalla mafia. Ma io non credo che sia stata la mafia ad uccidere Lima e Falcone.” Ciancimino passa poi a diffamare Giovanni Falcone: “Il dottore Falcone era soprattutto un uomo di potere. Intelligentissimo, furbissimo, sapeva tutto. E arrivava lá dove nessuno sapeva arrivare. Era un giudice che voleva comandare. Se fosse stato soltanto un magistrato, non si sarebbe fermato a me ed ai cugini Salvo, gli esattori. Sarebbe andato avnti. Invece, quando ha visto che la DC faceva quadrato attorno a Rosario Nicoletti, il segretario regionale, che dopo di noi era il suo obiettivo, allora lui si é fermato. Il dottor Di Pietro, che é solo un magistrato, mica si ferma, no? Falcone voleva il potere. E s´era trasferito a Roma per conquistarlo. Se fosse riuscito a realizzare la superprocura, sarebbe stato anche lui un padrone d´Italia, perché diventava il capo vero di tutti i giudici, piú importante del ministro della giustizia. I ministri passano, ma il superprocuratore resta in carica per quattro anni, quattro anni! E puó essere riconfermato per altri quattro. Adesso la superprocura non la faranno piú. Non avrebbe senso farla, visto che il dottor Falcone é morto.”

Ciancimino mostra poi tutto il suo livore contro i rappresentanti dello Stato che hanno affrontato e che combattono Cosa Nostra a viso aperto: “Falcone mi ha martirizzato. Ha fatto di me un capo espiatorio. Lui spasimava di interrogarmi. E, dopo lunghe trattative, alla fine mi trovai di fronte a lui. Falcone mi chiese: "E allora, signor Ciancimino?" Lo fissai e gli dissi: "Non intendo risponderle, dottor Falcone." Quasi gli venne un colpo.”

“Ed il dottor Borsellino?” prosegue Pansa. “Lui vale meno del dottor Falcone”, borbottó Ciancimino. “Ed il dottor Ayala?”, chiede nuovamente Pansa. “Intelligente, ma debole. Sapeva molte cose. E capiva. Peró non aveva la forza per essere un protagonista.” “E Giammanco?” Ciancimino fece un gesto come per dire: non merita neanche parlarne! “E Caponnetto?” incalza Pansa. “Non contava nulla. Il vero capo é sempre stato Falcone” ribatte il Ciancimino. Infine Ciancimino attacca Tommaso Buscetta: “Gli hanno messo in bocca quello che volevano. È sempre stato soltanto uno degli ultimi, non un capo. Come poteva sapere tutte quelle cose?”

Quando Giampaolo Pansa chiede: “Ci saranno altri delitti dopo Lima e Falcone?”, Ciancimino risponde: “E chi puó dirlo? Certo ai due padroni d´Italia gli hanno tagliato le dita, peró...”


Borsellino convoca[51] in una sede segreta (caserma Carini, Palermo) due ufficiali dei carabinieri, il capitano Giuseppe De Donno ed il colonnello Mario Mori, autori di un voluminoso rapporto sul tema mafia-appalti in Sicilia. Questo rapporto essi lo avevano già consegnato al procuratore Giammanco il 20 febbraio 1991, ma gli sviluppi investigativi erano stati scarsi. “La convocazione segreta – ricorda il PM Luca Tescaroli - era dovuta al fatto che il magistrato voleva mantenere il massimo riserbo, ad ulteriore dimostrazione della situazione di disagio e tensione che già caratterizzava i suoi rapporti con Giammanco. Ai due ufficiali Borsellino propose la costituzione presso il ROS di un gruppo coordinato da De Donno, che avrebbe dovuto riferire unicamente a lui.”[52]

De Donno ha nel frattempo avviato un contatto con Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. [53] Lo scopo è quello di indurre Vito Ciancimino a collaborare con la giustizia. Vito Ciancimino é libero ma in attesa di giudizio per associazione a delinquere, abuso d´uffico e truffa.

Mario Mori ha collocato temporalmente il primo contatto tra il cap. Giuseppe De Donno e Massimo Ciancimino nel periodo tra il 23 maggio ed il 25 giugno, cioé prima dell´incontro alla caserma Carini di Palermo con Paolo Borsellino. Dopo il 25 giugno sarebbe arrivata la risposta da parte di Vito Ciancimino che si sarebbe detto disponibile ad aprire un canale di comunicazione. Successivamente il cap. Giuseppe De Donno avrebbe incontrato Vito Ciancimino 2-3 volte nel mese di luglio 1992 nella casa romana di proprietá del Ciancimino.[54]

Il cap. Giuseppe De Donno ha confermato la ricostruzione fatta dal suo superiore Mori, ma ha collocato i 2-3 incontri con Vito Ciancimino nella casa romana di quest´ultimo in un periodo di tempo piú largo, cioé quello compreso fra la strage di Capaci e quella di via D´Amelio.[55]

Di questi colloqui il De Donno parlerà solo con il suo diretto superiore colonnello Mori e questi con il generale Antonio Subranni, non con Paolo Borsellino.


L´incontro alla caserma Carini di Palermo verrá descritto dagli ufficiali Mori e De Donno il 27 marzo 1999 durante un´udienza del processo BORSELLINO TER.

Il magistrato Antonio Ingroia riguardo a tale incontro ha espresso alcune perplessitá.
Il 28 febbraio 1999 Ingroia ha dichiarato al settimanale AVVENIMENTI: “So che Borsellino aveva buoni rapporti investigativi con i carabinieri, ma non mi risulta che attorno a quel rapporto (il rapporto mafia-appalti del ROS di Palermo ndr) sia andato mai oltre incontri ricognitivi e per capire. Non ebbe sul punto, per quanto ne so, incontri investigativi.” “Dunque Borsellino non si occupava di quel rapporto?” chiede l´intervistatore. “Per quanto ne so é cosí. E dunque mi pare improprio che Borsellino si sia convinto di quella pista come del movente della bomba di Capaci. Lo dico per cognizione diretta: negli ultimi giorni prima di morire Borsellino si occupava di altro... Se si fosse occupato di quel rapporto del ROS me lo avrebbe detto. Ed invece quel rapporto e quella veritá sul movente di via D´Aemlio esce fuori adesso. Mi chiedo: perché, se c´era quella veritá giá nel 1992 si é atteso tanto tempo per tirarla fuori? E le mie diffidenze su questa storia aumentano.”

Anche alla luce di un dato inedito: nella pagina dell´agenda grigia di Borsellino, relativa al 25 giugno 1992, quell´incontro non é segnato. C´é su quell´agenda, la radiografia di ogni sua giornata, di ogni suo spostamento e di ogni suo incontro, ma su quella pagina il magistrato annotó un normale pomeriggio in procura, iniziato alle 16 e concluso alle 20 con il rientro a casa. [56]


Gli ufficiali Sinico e Baudo dei carabinieri di Palermo si recano con il collega maresciallo Lombardo al carcere di Fossombrone per interrogare Girolamo D’Adda sulle circostanze inerenti la strage di Capaci ed i possibili sviluppi futuri. Sinico e Baudo non partecipano al colloquio, ma apprendono dal maresciallo Lombardo che “negli ambienti carcerari si dà il Dott. Borsellino per morto”. Non appena rientrato a Palermo il Cap. Sinico riferisce la notizia a Borsellino il quale afferma di essere a conoscenza del progetto di attentato ai suoi danni, ma fa capire che preferisce accentrare su di sé i pericoli per risparmiarli alla propria famiglia.[57]

Il quotidiano L’Unità prendendo spunto da una nota dei diari di Falcone pubblica un’inchiesta sulla mancata cattura di Riina nel 1990 in seguito ad un contrasto nelle indagini tra polizia e carabinieri: questi ultimi stavano raccogliendo notizie sulla rete di favoreggiatori della latitanza di Riina quando la polizia si sarebbe intromessa con un’improvvida indagine patrimoniale che avrebbe allertato il boss di Cosa Nostra, vanificando i risultati raggiunti.


Alla biblioteca comunale di Palermo si svolge in serata un pubblico dibattito organizzato dalla rivitsa MICROMEGA a cui partecipa anche Borsellino:



(Fonte: dOOnLoL)

“Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro.

In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.


Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura."

[58]


Quella sera, nell´atrio della biblioteca comunale, il Procuratore aggiunto di Palermo si definisce apertamente un testimone, e rivela di essere a conoscenza di "alcune cose" che riferira´ direttamente "a chi di competenza", all´autorita´ giudiziaria. Sono elementi utili a chiarire l´intreccio criminale che in quei giorni minaccia la tenuta delle Istituzioni democratiche in Italia? Non lo sapremo mai. Oggi Rita Borsellino sottolinea come mai, nella sua lunga carriera di magistrato, il fratello Paolo avesse lanciato "un avvertimento cosi´ esplicito". A chi? E perche´? La moglie Agnese, che da casa segue l´intervento della biblioteca comunale su un´emittente locale, impallidisce e salta sulla sedia: "Ma che dice Paolo?" mormora con un filo di voce: "Se fa cosi´, lo ammazzano..."[59]

Mentre Borsellino parla, il silenzio del pubblico é assoluto. Ma quando il magistrato ricostruisce la vicenda della mancata nomina da parte del CSM a Consigliere Istruttore di Palermo nel 1988 e parla apertamente di un qualche Giuda che si impegnò subito a prendere in giro Falcone un lungo applauso lo interrompe. Il cronista del Corriere della Sera scrive il giorno successivo: “Chi e' Giuda? La gente, in piedi ad applaudire, lo identifica subito in Vincenzo Geraci, allora componente del Csm”. [60]

Anche il Fbi, come Scotti e al contrario di Charles Rose, crede che la strage sia stata decisa da un grumo di interessi mafiosi non solo siciliani. Lo si apprende nell´ambito della trasferta americana dei pubblici ministeri Carmelo Carrara e Giusto Sciacchitano, volati negli Stati Uniti per interogare il pentito Francesco Marino Mannoia e suo padre Rosario nel quadro dell´indagine in corso per individuare altri forzieri delle cosche siciliane e colombiane, oltre che i loro collegamenti operativi. Gli affari tra mafiosi e colombiani furono disegnati per la prima volta nel 1990 da Giovanni Falcone che raccolse la deposizione di un oriundo siciliano, Joe Cuffaro, di Miami, arrestato dalla Dea e convinto a collaborare. Secondo un´agenzia di stampa, il lavoro di Carrara e Sciacchitano potrebbe avere punti di contatto con le indagini sulla strage di Capaci, che esula pero´ dalle competenze dei giudici palermitani.[61]


Venerdì 26 giugno 1992

Dopo la denuncia della biblioteca, Paolo Borsellino si rituffa nelle indagini, che per l´area ristretta delle sue competenze sono quelle delle cosche di Trapani ed Agrigento. "In quei giorni accade una cosa mai verificatasi a casa nostra - racconta Agnese Borsellino - Paolo non riesce a trovare il tempo per occuparsi della famiglia. Carte, solo carte. Finisce in ufficio e torna a casa con la borsa piena di documenti da leggere, telefonate da fare, appuntamenti da riordinare. Con me e con i figli parla solo di notte, quando tutti gli altri dormono. E´ diventato quasi una macchina. No, nessuno di noi gliene fa una colpa. Se trascura moglie e figli, ha motivi gravissimi, lo sappiamo bene. Si e´ reso conto, pur nella sua umilta´, che in quel momento e´ l´unico ad avere la capacita´ e la volonta´ di lavorare con questi ritmi massacranti." Lucia ricorda lo sforzo di mantenere alto il livello del suo impegno contro la mafia, nonostante i mille ostacoli messi sulla sua strada dal procuratore capo Giammanco. "Pur di continuare il suo lavoro e´ disposto ad accettare certi limiti che gli pone sempre piu´ spesso Giammanco. Gli costa un sacrificio doppio sapere che per motivi gerarchici e´ tenuto a raccontare al suo superiore i passi delle sue indagini, senza pero´ ricevere in cambio, ne e´ convinto, lo stesso flusso di informazioni. Capisce che gli vengono nascoste conoscenze acquisite dall´ufficio, episodi che potrebbero interessarlo, anche fatti gravi”. [62]


Borsellino incontra per la prima volta negli uffici della procura di Roma Gaspare Mutolo, il quale fa mettere a verbale la sua decisione di iniziare a collaborare con la giustizia, parlando peró “solo con il giudice Paolo Borsellino, sotto la tutela del dottor Gianni De Gennaro”.

Mutolo aveva già espresso il suo desiderio di collaborare il 15 dicembre 1991 chiedendo di parlare con Giovanni Falcone, ma questi gli aveva spiegato di non poter esaudire la sua richiesta in quanto non svolgeva più funzioni inquirenti. Falcone aveva comunque convinto Mutolo a svolgere un colloquio investigativo con l’allora vice-direttore della DIA Gianni De Gennaro. Inoltre aveva informato della decisione di Mutolo i vertici della procura di Palermo. Passano i mesi, c’è la strage di Capaci. Mutolo fa un nome: “Voglio parlare con Paolo Borsellino, mi fido solo di lui.” La segnalazione arriva ai vertici della procura di Palermo mentre Borsellino è in Germania per le indagini su Palma di Montechiaro. Giammanco aveva deciso di assegnare il collaboratore all’aggiunto Aliquò ed ai sostituti Lo Forte e Natoli mettendo a rischio il proseguio del rapporto. Quando Borsellino venne a conoscenza dei fatti vi fu una tesa riunione in procura al termine della quale Giammanco assegnò il fascicolo ad Aliquò, Lo Forte e Natoli con l’impegno di coordinarsi con Borsellino. Mutolo accettò la proposta, ma non fece mai mistero di considerare come vero interlocutore solo Borsellino. Quest’ultimo decide di non uscire allo scoperto e scontrarsi con Giammanco per non aprire un nuovo fronte di polemiche: i pentiti, le indagini in corso non possono aspettare. “Dopo, solo dopo, se sarà il caso, affronteremo di petto Giammanco” confida Borsellino ai colleghi più fidati della procura.[63]

Mutolo comunica a Borsellino che intende verbalizzare le sue dichiarazioni seguendo un percorso ben preciso: prima la descrizione completa delle famiglie mafiose, componente per componente, mandamento per mandamento. Terminata questa prima parte, Mutolo si dice disposto a verbalizzare i nomi dei referenti di Cosa Nostra all´interno delle Istituzioni. “Bisogna prima mettere fuori gioco il corpo armato – dice Mutolo - poi passeró ai nomi dei generali. Non serve che io spari subito le grandi rivelazioni, se c´é un esercito pronto a mettere a tacere me e tutti i giudici che cominceranno ad indagare... É troppo pericoloso scrivere tutto da subito, le aule del Tribunale di Palermo non sono affatto sicure. Le informazioni circolano ed i rischi che arrivino ai diretti interessati sono alti”. [64]

"Sento di dover escludere che Falcone tenesse un diario del tipo di quelli di Chinnici o di Insalaco". Borsellino, conversando con i giornalisti a margine di un convegno di Magistratura indipendente, che si tiene a Giovinazzo, in provincia di Bari, torna a parlare del diario di Falcone, e di nuovo conferma l´autenticita´ degli scirtti pubblicati dal Sole24ore, anche se precisa che non si tratta di un vero e proprio diario, bensi´ di appunti "con date e riferimenti a fatti di natura processuale o comunque legati al lavoro del suo ufficio." Il Magistrato ricorda di aver letto quegli appunti in occasione del trasferimento di Falcone al ministero di grazia e giustizia e conclude di non volere esprimere nel merito alcun giudizio "perche´ se dovro´ farlo, lo faro´ all´autorita´ giudiziaria." [65]

Il CSM sospende dalle funzioni e dallo stipendio Alberto Di Pisa, il magistrato condannato in primo grado per essere il Corvo di Palermo.

Il ministro Scotti parla alla cerimonia di chiusura dell’anno accademico della scuola interforze di Roma. Parla agli allievi dirigenti delle 5 forze di polizia e difende l’azione intrapresa dal governo nella lotta alla criminalità organizzata. “Lo Stato non è in ginocchio - dichiara Scotti - esso ha i mezzi, la volontà, la determinazione per vincere la battaglia contro l’antistato, contro quella criminalità che è diventata un grande potere pericoloso per le istituzioni e la vita democratica dell’intero paese…Collaborino anche i servizi d’informazione, cui la nuova legislazione ha attribuito poteri in materia di caccia ai latitanti, dimostrino dedizione ed impegno, oltre che la loro professionalità…Faccio appello al senso di responsabilità di tutti perché nessuno partecipi direttamente od indirettamente alla strategia della criminalità di indebolire, di disunire le istituzioni e gli uomini delle istituzioni. Credo che nessuno che assumerà cariche di governo potrà deflettere di fronte all’assalto barbaro di una criminalità che è diventata un grande potere pericoloso, un Antistato fornito di grande potere politico di orientamento, inquinamento, intossicazione. Il problema tocca da vicino tutti perché il flusso della ricchezza del crimine sta ormai penetrando e corrompendo la vita economica, sociale, politica istituzionale in tanti paesi del mondo.” [66]

Si accendono i riflettori del Parlamento sulla procura di Palermo e sulla gestione Giammanco. Con una interpellanza al presidente del consiglio, al ministro di grazia e giustizia ed al ministro degli interni, alcuni deputati del Pds, tra cui Luciano Violante e Pietro Folena, prendendo spunto "dal testo degli appunti del diario di Giovanni Falcone pubblicati dal Sole24ore", chiedono di sapere "quali informazioni il governo disponga sull´episodio della mancata cattura di Toto´ Riina e quali iniziative intenda assumere per chiarire la situazione della procura della repubblica di Palermo, compresa l´azione disciplinare da parte del ministro di grazia e giustizia nei confronti del procuratore capo della repubblica, Pietro Giammanco." Nell´interpellanza i parlamentari affermano che "da tali brani si evincono episodi inquietanti che segnalano uno stato di malessere e di isolamento di Giovanni Falcone nel periodo tra il dicembre 1990 ed il febbraio 1991 dovuto ai comportamenti del procuratore capo di Palermo Giammanco, tra cui una lamentela di Giammanco per una mancata informazione su un contrasto tra polizia e carabinieri a Corleone sul latitante Toto´ Riina. Emerge inoltre - continua l´interpellanza - l´indisponibilita´ di Giammanco ad estendere per i grandi delitti politico-mafiosi le indagini sulla Galdio, come chiesto dalla parte civile nel processo La Torre, e la sua spinta ad una rapida definizione di indagini cui sarebbe poi seguita l´archiviazione, riguardanti la regione." [67]




Sabato 27 giugno 1992

A Palermo si svolge una grande manifestazione antimafia alla quale partecipano centomila persone. La manifestazione é promossa dai sindacati Cgil, Cisl e Uil. Nella sua cronaca dalla manifestazione Corrado Stajano scrive:

É una giornata di sole e sembra persino bella, Palermo, un tempo chiamata Felicissima. Ma guardando e mirando con attenzione il mare e Monte Pellegrino ci si rende conto della gigantesca colata di cemento della speculazione edilizia e della mafia che dalla fine degli anni Cinquanta in avanti ha calcificato e sconciato la citta' , basta guardare i blocchi delle case oltre via Liberta' , dalla parte di viale Lazio e giu' giu' verso l' aeroporto. Un cemento impastato di sangue. A ogni nome, a ogni targa stradale corrisponde infatti un morto ammazzato. Non solo morti qualunque - quelli sono centinaia ogni anno - ma morti di rango. Perche' non c' e' citta' in Europa, neppure nel mondo, forse in Colombia, dove in pochi anni sono stati assassinati tutti, proprio tutti gli uomini dello Stato, il presidente della Regione, il capo dell'opposizione, il consigliere istruttore, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il capo della mobile, i magistrati, i commissari, i medici legali, i poliziotti, i carabinieri. Ecco, l'elicottero che lascia la sua ombra proprio sulla via Carini dove dieci anni fa furono uccisi il generale Dalla Chiesa, sua moglie, l'agente di scorta. Ecco l'elicottero che lascia la sua ombra sulla via Cavour dove davanti alla bancarella di libri fu assassinato il procuratore della Repubblica Costa. Una geografia di lapidi, Palermo. [68]


Domenica 28 giugno 1992

Di ritorno da Bari, a Fiumicino, Borsellino con la moglie Agnese e Liliana Ferraro aspettano di imabarcarsi per Palermo nella saletta vip. Ad un tratto, arriva il ministro della difesa Salvo Andó, socialista, che lo saluta, gli si avvicina e gli dice che deve parlargli. Borsellino si allontana e si apparta con Andó , che subito gli racconta preoccupato dell´informativa del Ros, stavolta spedita alla procura di Palermo, che li indica entrambi come possibili bersagli di un attenato mafioso.

Un terzo obiettivo indicato dal Ros é il pm di Milano Antonio Di Pietro. Andó gli chiede informazioni ulteriori, pareri, consigli. Borsellino impallidisce, poi va su tutte le furie: non ne sa nulla. É persino imbarazzato, ma deve confessare ad Andó di essere totalmente all´oscuro dell´informativa.

Il procuratore Pietro Giammanco, destinatario ufficiale della nota riservata del Ros, non gli ha comunicato niente.[69]


Giuramento del nuovo governo Amato. Martelli è confermato alla Giustizia, Scotti va agli Esteri mentre Nicola Mancino al Viminale, Salvo Andó alla difesa.

Sul perché dell’avvicendamento al ministero degli Interni non c’è molta chiarezza. Lo stesso Scotti sembrava poco propenso a chiedere una conferma nonostante tutti i proclami fatti sulla necessità di continuare sulla linea tracciata insieme a Martelli nella precedente legislatura. Scotti dichiara: ”A Forlani e De Mita avevo detto subito e chiaramente che secondo me non era giusto, per motivi istituzionali, che il ministro dell’interno – che deve guidare tutte le forze di polizia ed ha responsabilità enormi – non fosse un parlamentare. E così sabato sera sono andato a dormire sapendo di non essere più ministro. Poi in nottata è successo qualcosa che mi ha cambiato la vita…”[70] (nb: nella DC era passata la proposta Forlani di chiedere ai ministri di rinunciare al mandato parlamentare nel caso essi risultassero fra gli eletti). Secondo la ricostruzione de La Repubblica Forlani e De Mita insistono con Scotti perché resti al governo e gli propongono la Farnesina. Scotti dice di parlarne con Gava che dà il via libera all’operazione che porta Scotti appunto agli Esteri, Mancino agli Interni e se stesso alla guida dei senatori DC.


Antonio Pappalardo, 25 anni, poliziotto addetto al servizio scorta della Questura di Catania, viene sorpreso in un appartamento in cittá a banchettare in compagnia di due presunti mafiosi del clan Cappello: Rosario Mascali, 40 anni ed un altro pregiudicato, Francesco Ficarra, 27 anni. Con loro anche due donne, Nunzia Lo Re, 41 anni, e Anna Agatina Pisano, 20 anni. Nel corso della perquisizione viene trovato un revolver calibro 45 con matricola cancellata, mentre nell´abitazione del Pappalardo vengono trovate circa cento cartucce calibro 9 parabellum e di altro calibro, detenute illegalmente. Il Pappalardo, agente di scorta del magistrato Antonino Ferrara, dell' avvocato e deputato regionale della Rete, Enzo Guarnera, e dell' attuale ministro della Difesa Salvo Ando', viene messo in ferie forzate e successivamente sospeso dal servizio.[71]


Comincia a crollare il codice del silenzio? Se lo chiede il “New York Times” in un lungo servizio sulla grande manifestazione del giorno prima a Palermo contro la mafia “e contro la corruzione ufficiale”. La protesta “sembra avere fatto crollare il mito che la mafia sia accettatadai siciliani come parte immutabile della loro cultura”, scrive il giornale di New York ricordando la strage di Capaci.

Per il giornale statunitense, la protesta di Palermo “ha dimostrato quanto gli italiani considerino la mafia un male dell´anima della nazione, che ha eroso la dignitá e le istituzioni del paese.”

“Dall´uccisione di Falcone non é trascorso giorno senza che a Palermo non vi sia stata una qualche forma di protesta”, fa notare il quotidiano statunitense, ricordando la catena umana, le veglie alla luce delle fiaccole, i fiori inviati ogni giorno alla casa del giudice assassinato.[72]


Lunedí 29 giugno 1992

Appena arrivato a Palermo, Borsellino si precipita nell´ufficio di Giammanco, e protesta: “Lo so bene che da una minaccia ci si puó difendere poco, ma é mio diritto conoscere tutte le notizie che mi riguardano.” Urla, si indigna. Per la rabbia, sferra un gran pugno sul tavolo, e si ferisce la mano.
E Giammanco? “Farfugliava, farfugliava qualcosa”, racconterá la sera Borsellino ai familiari. “Farfugliava. Diceva: ma che c´entra, la competenza é di Caltanissetta.”
Ricorda Lucia Borsellino: “Quando papá ci parla di quell´episodio, sfoga tutta la sua amarezza. Raccontandoci di Giammanco, si chiede mille volte il motivo di quel silenzio, giungendo peró alla conclusione che niente potrá giustificarlo.” [73]

Paolo Borsellino ha in programma un viaggio a Roma per interrogare alcuni collaboratori di giustizia ma prima di partire rilascia un´intervista a Gianluca di Feo, inviato del Corriere della Sera:

"Ci sono alcuni pentiti che possono diventare un' arma importante. Falcone stava cercando di fare il possibile per sfruttarli. Ma qualcuno lo ostacolava. Ora tocca a noi. Se a Roma ci aiutano. Altrimenti...". Sono le prime ore del mattino di pochi giorni fa. Paolo Borsellino e' nello studio della sua casa, non molto lontano dal luogo della nuova strage. Palazzine tutte uguali, abitate da funzionari statali. Fuori il blindato e le auto degli agenti. Non sembrano tesi ma piu' stupiti di vedere un visitatore di primo mattino. L' uomo della scorta che mi accompagna nell'ascensore e' molto triste. Commentiamo il caldo, ma i suoi pensieri sono rivolti altrove. Ha gia' ricevuto l'ordine di prepararsi ad uno spostamento: dovra' difendere il suo magistrato verso l' aeroporto, lungo quella autostrada dove gia' tre suoi colleghi hanno trovato la morte. Borsellino viene incontro fuori dall'ingresso dell' appartamento. Sono solo le 7.30 ma sembra in piedi da molte ore. Si scusa per il mancato appuntamento del giorno prima. Un pomeriggio di attesa nell'atrio del palazzo di Giustizia, tra il rabbioso carosello delle vetture blindate e la routine dei carabinieri di guardia. Invano. Solo a tarda notte risponde al telefonino: "Sono rammaricato, altri impegni. Ma se ce la fa le dedico le prime ore di domani. Le migliori". E cosi' e' stato. Mi fa accomodare nello studio buono, quello non ingombrato dalle carte dei procedimenti. Arredamento semplice ma con gusto. C'e' l' aria di una residenza precaria che una mano femminile ha voluto addolcire. Iniziamo subito la conversazione. Il tema e' di quelli che scottano: mafia e traffico d' armi. E i possibili legami con l'assassinio di Falcone. Ma immediatamente si scontrano due punti di vista. Quello del giornalista in cerca della grande trama e quello siciliano piu' attento alla realta' dell'isola. Con l'enorme esperienza di chi ha sezionato la vita di Cosa Nostra. "Commercio di droga e di armi hanno caratteristiche simili - sosteneva Borsellino - richiedono investimenti enormi e danno grandi profitti. Ecco perche' possono esistere canali finanziari comuni per questi traffici. Ma non mi risulta che uomini della mafia agiscano in prima persona nel business delle armi. Non e' il loro campo, non hanno competenza. Preferiscono affidarsi ad altri. Che talvolta cercano anche di truffarli". E tutta la conversazione e' continuata lungo questi binari. Ogni volta il procuratore riporta la discussione in un'ottica siciliana. Alle domande su banche, partiti e grandi gruppi finanziari collusi risponde riconducendo la materia sul piano dei fatti, anche minimi. Ma sempre nell'isola. Sembrava quasi volere ignorare la dimensione mondiale delle cosche. In realta' il suo era un metodo di lavoro. Pareva voler dire: inutile sprecare energia in inchieste troppo difficili e a vasto raggio, dove e' complicato trovare elementi di prova. Meglio lavorare sul piccolo, sulla struttura e l'attivita' diretta delle famiglie. E soprattutto meglio concentrare la lotta in Sicilia, dov'e' il cuore del problema. Emergeva un'impostazione del confronto con la mafia diversa da quella suggerita da Falcone. A tratti era una scelta piu' disillusa, dettata da una profonda conoscenza delle difficolta' che si incontrano. I suoi discorsi erano velati da un diffuso pessimismo. Ma non voleva mollare. Ecco perche' pareva deciso ad abbassare il tiro pur di avere i mezzi per lottare contro le cosche. Senza nessuna certezza di vittoria. Conservava troppe memorie di amici e colleghi sacrificati invano: non voleva dare battaglia a dei mulini a vento quando c' erano tanti mostri da combattere. E tanta amarezza sulla sorte di Giovanni Falcone, tradito e abbandonato. "Non bisogna cercare lontano le cause della strage di Capaci. I mandanti sono qui in Sicilia. E i motivi sono piu' tecnici di quello che si dice. Giovanni aveva contattato alcuni pentiti che potevano essere preziosi. Ma veniva ostacolato in tutti i modi. Con le rivelazioni di quelle persone si poteva fare molto. Alcune erano ai margini di Cosa Nostra. Ma erano lo stesso in grado di infliggerle un colpo durissimo. Ecco perche' lo hanno ucciso". "Ora questo compito spetta a noi. A me soprattutto. Stiamo facendo il possibile. Hanno promesso una legge sui pentiti: tra poche ore volo a Roma per discutere di questo. Senza, ogni tentativo sara' inutile". Ma chi erano questi collaboratori che facevano tanta paura alle cosche? Borsellino non ha fatto nomi. Pero' ha parlato a lungo di Giuseppe Lottusi, il cassiere dei Madonia e dei narcos colombiani. Un finanziere milanese che aveva trasferito i fiumi di dollari della cocaina. Lottusi e' stato preso grazie a un pentito americano, un'inchiesta realizzata dall' Fbi e coordinata da Falcone. "Lottusi - sottolineava Borsellino - non e' un affiliato, e' un esterno alla mafia che ha gestito il piu' grande business criminale degli anni Ottanta. Ma per questo e' un anello debole nella catena dell'omerta' ". A questo punto la discussione viene interrotta dall'arrivo della moglie. Per un attimo i grandi temi si sciolgono nel familiare. L'assegno, il documento, il conto da pagare. Poi la realta' della vita blindata riemerge. Con aria malinconica Paolo Borsellino dice: "Non so se rientro stasera...". La moglie non lo lascia neanche finire: "Lo so, non ti preoccupare per me". Negli occhi della donna tanta paura: si vede che farebbe di tutto per tenerlo con se' , ma sa che nulla potrebbe trattenere il giudice dal suo dovere. Ormai e' tardi. Anche la nostra intervista e' al termine. Lascio il magistrato con l' appuntamento a reincontrarci quando sara' superprocuratore. Come risposta ricevo un sorriso, l' unico di quelle ore. Per pochi attimi il suo volto si illumina, poi torna ad essere teso. Preso da una tempesta di pensieri terribili.[74]

Nel primo pomeriggio Borsellino si imbarca da solo su un Super80 diretto a Roma. Sull´aereo incontra l´inviato dell´UNITÀ Saverio Lodato. I due si siedono accanto.
Ecco il racconto del giornalista: “Chiaccherammo di quella sera alla biblioteca comunale [...]. Mi disse che a settembre i giornali avrebbero avuto di che scrivere. Ma precisó che non si tsava occupando della strage di Capaci. Confermó ancora una volta l´autenticitá dei diari di Falcone. E tornammo a parlare della superprocura. Intende accettare la candidatura? Gli chiesi. Non me losogno neanche, rispose.” [75]


Il giudice Vincenzo Geraci scrive una lettera di replica al Corriere della Sera che in una corrispondenza del 27 giugno (Borsellino: “Distrutto da qualche Giuda”) aveva indicato in Geraci il Giuda che avrebbe tradito Giovanni Falcone il 18 gennaio 1988, giorno della nomina da parte del CSM di Antonino Meli a Consigliere Istruttore di Palermo: “Per la consuetudine d´intimitá avuta con il Dottor Borsellino (e per la conseguente conoscenza dei fatti che me ne é derivata), credo che egli non intendesse fare riferimento a me accennadno al Giuda che si sarebbe impegnato a prendere in giro Falcone allorquando questi decise di concorrere alla successione di Caponnetto. Avendo tuttavia Borsellino taciuto il nome di questo “Giuda”, contestulamente accennando alla decisione del CSM in favore di Meli, é stato inevitabile che, a causa della posizione da me assunta all´epoca in seno al CSM di cui facevo parte, sia stato io identificato nel traditore cosí genericamente evocato. Non posso dolermi dell´equivoco in cui é incorso l´uditorio che ascoltava Borsellino alla biblioteca di Palermo né del cronista che lo ha fedelmente riportato. Debbo dolermi invece del fatto che Borsellino, non dando un nome al “Giuda”, abbia “detto” e “non detto”, cosí propiziando l´equivoco e mostrando un´inclinazione culturale di segno diametralmente opposto al carattere proprio dell´occasione antimafia in cui egli é intervenuto.” [76]

Martedì 30 giugno 1992

In un appartamento segreto a Roma Paolo Borsellino, Vittorio Aliquò ed Antonio Manganelli iniziano a stilare un verbale delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina. Questi illustra la centralità degli appalti pubblici nel sistema che lega in Sicilia i mafiosi, i politici e gli imprenditori. In questo settore un ruolo chiave è rivestito da Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”. Inoltre Messina cita esplicitamente il gruppo Ferruzzi come uno dei punti referenti imprenditoriali di Cosa Nostra: “Riina è interessato alla Calcestruzzi spa, che agisce in campo nazionale.” [77]

Aldo Rizzo viene eletto sindaco di Palermo alla guida di una giunta pentapartito. Il PDS annuncia un’opposizione seria ma costruttiva a livello comunale, mentre a livello regionale appoggia direttamente la giunta formata dai tradizionali partiti di governo.

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