martedì 29 dicembre 2009

perchè il giudice di pietro entrò in politica?

Ora: lo sanno anche i sassi che Di Pietro entrò in politica - o meglio lasciò la magistratura – perché sennò i citati episodi riguardanti Gorrini (più altri che non ho neppure citato) lo avrebbero sicuramente sputtanato e fatto travolgere, quantomeno, da una sanzione del Csm.
Lo sanno anche i sassi, ma Travaglio e Di Pietro fanno finta di nulla.
Dalla citata sentenza che è – ricordiamo ancora – passata in giudicato, pagine 154 e 156:
«I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato», trattasi insomma di «aspetti di indubbia discutibilità».
Pagine 151 e 152: Questi episodi «rischiavano di prospettare agli inquirenti un sistematico ricorso di Di Pietro ai favori di Giancarlo Gorrini, il quale, peraltro, alla data del novembre 1994 risultava già condannato per appropriazione indebita». «Ne viene fuori un quadro negativo del’immagine di Di Pietro… fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare».
Pag. 152: «In conclusione può quindi ritenersi che Di Pietro era particolarmente attratto fin dal maggio del ’94 da investiture politiche. La prova sul punto è fornita proprio da quella primitiva disponibilità espressa da Di Pietro rispetto alla proposta di Berlusconi, rivelandosi ciò non solo da dichiarazioni dell’imputato Previti, ma anche dalla circostanza dell’incontro a Roma. Un incontro personale, poco compatibile con un rifiuto indiscriminato e generalizzato a qualsiasi incarico politico… D’altronde, Di Pietro manifestò al collega Davigo, che aveva ricevuto per parte sua un’offerta per il ministero di Grazia e Giustizia, un’indecisione in merito alla proposta del Polo, significando, perciò, una disponibilità concreta ad accettare. Ma Di Pietro era interessato, in alternativa, anche all’assunzione di autorevoli e prestigiosi incarichi istituzionali, e infatti di una tale possibilità parla con Previti nel corso del precitato incontro… Una volta conosciuti da parte dei suoi colleghi gli interessi politici che andava coltivando e rafforzando, questi avrebbero potuto sospettarlo di duplicità per non aver condotto con la sua tradizionale veemenza la discussione e la decisione contro Berlusconi. Insomma, un’immediata partecipazione di Di Pietro al procuratore e agli altri colleghi delle prospettive che gli si aprivano… avrebbe potuto inquinare quella sua indiscussa leadership all’interno e all’esterno del pool, con consequenziali ripercussioni nell’immagine esterna, e avrebbe potuto indurre i colleghi a renderlo sempre meno partecipe dell’attività giudiziaria in vista di un suo preannunciato abbandono».
Pagina 150: «Il complesso della narrazione era tale da creare una qualche preoccupazione in tal senso in Di Pietro, e ciò anche per alcuni risvolti non certo trasparenti che a quelle vicende si erano accompagnati».
Tutta roba che secondo Di Pietro e Travaglio non si deve sapere: questa sentenza non l’hanno mai citata in vita loro. Anche se è l’unica che conta.
Il ventriloquo, Travaglio, nel suo intervento rtivolto ai grillini non fa che citare se stesso e lo stesso Di Pietro: la scia di balle e di omissioni, del resto, «è quello che ci aveva raccontato Di Pietro per il libro “Mani Pulite”», ha detto, e del resto «è probabile che lo ripubblicheremo e che lo distribuiremo insieme a Il Fatto». Il che spiega perché Di Pietro non farà mai un proprio organo di partito: ce l’ha già.
Se volete un altro esempio di quanto sia ballista Di Pietro – vabbeh, io ci ho scritto un libro intero – si torni al 25 marzo 2002, quando andò al Liceo Scientifico «Vittorio Veneto» di Milano a raccontare se stesso e l’inchiesta Mani pulite. Ecco, quel giorno un paio di studenti gli fece sempre la solita maledettissima domanda: perché ha lasciato la toga per fare politica? E lui, oltretutto con postura pedagogica:
«Vedete, nella formulazione stessa di questa domanda è implicita la manipolazione dell’informazione a cui tutti voi, vostro malgrado, siete stati e siete soggetti. Perché io non ho lasciato la toga per fare politica. Ho lasciato la toga per difendermi. E solo dopo essere stato assolto da ciascuna delle 27 accuse che erano state mosse a mio carico ho deciso di entrare in politica».
Ecco. Dopo una premessa falsa – quando lasciò la toga, infatti, non doveva difendersi da niente, le inchieste furono tutte successive, la prima fu sei mesi dopo che aveva lasciato – aveva nascosto loro che ben prima dell’ultima «assoluzione», che fu nel 1999, aveva già fatto il ministro con Prodi, era stato eletto al Senato, aveva fondato un gruppo parlamentare e di passaggio anche un partito, il suo. Nascondeva questo e dava di manipolati a dei ragazzi che gli avevano fatto una domanda normale. E’ la stessa tecnica che usa Travaglio coi grillini e coi vari fan amici suoi.

pag 169 – 180: «In conclusione può quindi ritenersi che Di Pietro era particolarmente attratto fin dal maggio del ’94 da investiture politiche. La prova sul punto è fornita proprio da quella primitiva disponibilità espressa da Di Pietro rispetto alla proposta di Berlusconi, rivelandosi ciò non solo da dichiarazioni dell’imputato Previti, ma anche dalla circostanza dell’incontro a Roma.
Un incontro personale, poco compatibile con un rifiuto indiscriminato e generalizzato a qualsiasi incarico politico, ben collima con la prospettazione dei fatti da parte di Previti. D’altronde, Di Pietro manifestò al collega Davigo, che aveva ricevuto per parte sua un’offerta per il ministero di Grazia e Giustizia, un’indecisione in merito alla proposta del Polo, significando, perciò, una disponibilità concreta ad accettare.
Ma Di Pietro era interessato, in alternativa, anche all’assunzione di autorevoli e prestigiosi incarichi istituzionali, e infatti di una tale possibilità parla con Previti nel corso del precitato incontro. Accetta di buon grado l’offerta del collega Ghitti, prima giudice delle indagini preliminari di Milano e già dalla seconda metà del 1994 componente del Consiglio superiore della magistratura, di verificare la disponibilità di incarichi, anche all’estero, per un collocamento fuori ruolo della magistratura. Altri eventi si allineano con una strategia personale della parte offesa di uscire dalla magistratura.
La ferma presa di posizione di Di Pietro sul provvedimento varato dal ministro Biondi in materia di custodia cautelare e le proposte avanzate al convegno di Cernobbio sui modi per definire Tangentopoli evidenziano chiaramente questo sempre più marcato orientamento di Di Pietro ad assumere iniziative e posizioni più confacenti a un esponente politico che a un magistrato. In definitiva, Di Pietro sente su di sé il ruolo assunto nell’opinione pubblica, ruolo che va oltre i limiti della stretta funzione giudiziaria, essendo sempre più forte la sua rappresentazione, anche attraverso la stampa, come quella di un leader; ha piena consapevolezza del vasto consenso popolare che riscuote la sua azione e di quanto sia ascoltata la sua voce, in qualsiasi ambiente manifesti il proprio pensiero, soprattutto quando affronta i temi della corruzione: ha coscienza che qualsivoglia tentativo di aggressione nei confronti della sua correttezza professionale avrebbe dovuto fare i conti, innanzitutto, con i movimenti di piazza, sicché sarebbe stato destinato al fallimento.
Questi presupposti rendevano legittime le aspirazioni di Di Pietro a un ruolo corrispondente al consenso popolare, e un tale ruolo non poteva che essere politico, ovvero un prestigioso incarico nell’ambito della pubblica amministrazione. Non è un caso che la stampa dibattesse sulla sua candidatura in occasione delle competizioni elettorali di quel periodo, come non è un caso che lo stesso Di Pietro fosse vaticinato come futuro leader della destra. I nuovi interessi che si affacciavano all’orizzonte del magistrato, resi concreti da quei fattori storici di indubbia verità, acquisivano gradualmente corpo, in una sorta di escalation senza soluzione di continuità;è quindi particolarmente arduo separare una condotta antecedente alle preannunciate dimissioni del 6 dicembre da una condotta a queste successiva.
Pertanto aumentano progressivamente i contatti, i colloqui e gli incontri di di Pietro con gli esponenti di tutte le forze politiche, le collaborazioni a settimanali e quotidiani, lanciando il suo programma del partito degli onesti, le iniziative per la costituzione di un nuovo movimento politico, che gran risalto ottiene sulla stampa, la successiva decisione di ritardare l’impegno attivo nella politica fino alla definizione delle inchieste condotte dal pubblico ministero Salamone, infine l’accettazione dell’incarico governativo di ministro dei Lavori pubblici nella compagine dell’Ulivo. Contrafforte di questa scelta è la presa di distanza della parte offesa dalla sua precedente attività giudiziaria.
Il riferimento è al contenuto del colloquio intercorso tra Silvio Berlusconi e Di Pietro nel febbraio 1995. In particolare, nel corso della trasmissione televisiva «Tempo reale», Silvio Berlusconi dichiarò che in occasione di quell’incontro Di Pietro gli aveva manifestato il suo dissenso rispetto alla decisione, assunta dai componenti del pool della Procura di Milano, di inviargli l’invito a comparire notificato nel novembre 1994. Immediata fu la reazione del procuratore Borrelli, che contattò telefonicamente Di Pietro per un chiarimento sul punto e per l’assicurazione di una futura smentita, che in effetti ci fu nei giorni successivi.
La vicenda, però, non esaurì i suoi strascichi perché da un lato ci fu un inasprimento dei rapporti tra Di Pietro e gli altri componenti del pool, a cui si cercò di porre riparo con una cena pacificatrice che però non risolse tutti i dubbi sui reali contenuti del colloquio Di Pietro / Berlusconi, dall’altro ci fu l’interruzione dei rapporti tra Di Pietro e i maggiori rappresentanti del Polo, fino a quel momento idilliaci. A ogni buon conto in sede processuale Antonio Di Pietro ha smentito di aver detto a Silvio Berlusconi quanto da lui riferito, perché, sostiene, il colloquio ebbe a oggetto soltanto il suo eventuale schieramento politico. In ordine all’episodio si impongono alcune brevi osservazioni. Preliminare è la verifica dell’atteggiamento assunto da Di Pietro nel corso delle riunioni del pool finalizzate alla decisione se procedere o meno nei confronti del presidente del Consiglio Berlusconi nell’ambito delle indagini su fatti di corruzione ascritti al gruppo Fininvest.
Orbene, ritiene il Collegio che non possa dubitarsi che Di Pietro fu uno dei principali sostenitori dell’idoneità degli elementi d’accusa raccolti nei confronti di Silvio Berlusconi, e non solo per iscriverlo nel registro degli indagati, ma anche per otenerne il rinvio a giudizio e la futura condanna. La questione era stata oggetto di alcune riunioni… Più precisamente nelle riunioni di maggior rilievo, svoltesi il 14 e il 18 novembre e precedute dalla distribuzione da parte di Di Pietro di un faldone contenente tutti gli atti riguardanti Berlusconi, si trattò sia la questione se vi fossero elementi per l’iscrizione (ma sulla bontà degli elementi raccolti per procedere a un’iscrizione non vi erano dubbi), sia le modalità procedurali da seguire.
In proposito Di Pietro, motore dell’azione perché meglio di tutti gli altri conosceva gli atti d’indagine, unitamente a Davigo, sosteneva che occorresse procedere, contestualmente all’iscrizione nel registro degli indagati, all’invio di un invito a comparire, dal momento che l’iscrizione nel registro non sarebbe rimasta segreta per molto tempo e la divulgazione anticipata della notizia avrebbe potuto pregiudicare l’inchiesta. Altri, come il procuratore aggiunto D’Ambrosio e il dottor Greco, erano più prudenti e ritenevano opportuno attendere (era in corso di dibattito, appunto, la legge finanziaria), preoccupati per le fughe di notizie e le scontate accuse di strumentalizzazioni.
Alla fine Di Pietro riuscì a convincere tutti i componenti del pool di procedere all’iscrizione e all’invio dell’invito a comparire, perorando con vivacità la propria tesi e comprovando, in una sorta di interrogatorio simulato, la fondatezza dell’accusa. Si decise anche che all’interrogatorio di Berlusconi avrebbero proceduto Borrelli, Di Pietro, Davigo, e Colombo, mentre Greco avrebbe interrogato contemporaneamente l’avv. Berruti. In ogni caso era scontato, hanno concordemente riferito i testi, che il rappresentante dell’accusa in un eventuale dibattimento sarebbe stato Di Pietro.
I fatti che seguirono appartengono alla storia nazionale più recente: il 21 novembre Silvio Berlusconi venne iscritto quale indagato e il 22 novembre gli fu notificato l’invito a comparire. Ciò posto, la valutazione successiva è la verosimiglianza delle affermazioni di Berlusconi alla precitata trasmissione televisiva. Osserva il Tribunale che risultano acquisti al dibattimento elementi univocamente convergenti nel senso di una veridicità di quanto dichiarato da Berlusconi. Intanto gli stessi colleghi di Di Pietro non hanno mai ricevuto da questi una risposta satisfattiva, nonostante le pressanti richieste di chiarire una volta per tutte il reale contenuto di quel colloquio e, soprattutto, se aveese mai detto di non aver condiviso la scelta della Procura di inviare a Silvio Berlusconi l’invito a comparire.
Si rammenti che la cena organizzata, presso l’abitazione del dottor Colombo, nella primavera del 1995, al fine specifico di chiarire la situazione creatasi dopo quelle dichiarazioni pubbliche, non sortì l’effetto sperato perché non vennero sciolti i dubbi iniziali e rimase il sospetto della veridicità di quanto affermato da Berlusconi. E proprio questo difetto di chiarezza di Di Pietro sul punto avvalora indiziariamente quanto sostenuto, in altre sedi, da Silvio Berlusconi. In secondo luogo, il teste Cossiga ha riferito anch’egli di aver percepito, da ciò che gli disse di Pietro nel corso di un colloquio avuto nel gennaio del 1995, un suo disagio a condurre l’interrogatorio di Berlusconi, e comunque che non aveva gradito che fosse stato designato a condurre il precitato interrogatorio.
La deposizione del senatore Cossiga conferma, a livello indiziario, un atteggiamento di Di Pietro di allontanare da sé, subito dopo l’uscita dal pool e nella fase transitoria prima di entrare operativamente nell’attività politica, l’idea che l’invito a comparire fosse da attribuire principalmente a una sua iniziativa. E’ vero che l’interessato ha in sostanza smentito quanto detto dal teste, ma la risposta è incerta e vaga ( ci si limita a contestare il corretto uso del termine “costrizione“ usato da Cossiga), e comunque vale ribadire la minor valenza probatoria di queste dichiarazioni, sia perché provenienti da un soggetto citato ai sensi dell’art. 210 c.p.p., e perciò valutabili secondo il criterio di cui all’art. 192 c. 3 c. p. p., sia e soprattutto perché il dichiarante ha rifiutato di sottoporsi all’esame, con ciò sottraendosi al contraddittorio processuale delle parti e del giudice… In conclusione, gli elementi indicati sono univoci per ritenere che in quel’occasione Di Pietro manifestò a Silvio Berlusconi una sorta di strisciante dissenso o, comunque, di non piena adesione a quell’atto giudiziario che tante polemiche aveva suscitato.
Si può certo ipotizzare un’accentuata enfatizzazione dell’episodio da parte dell’interlocutore Berlusconi, ma le risultanze probatorie dibattimentali non consentono di negare il fatto in radice. E la motivazione del magistrato per l’assunzione di un tale attegiamento, chiaramente in antinomia con la realtà dei fatti, è spiegabile proprio nell’ambito di quel crescente attivismo politico, di cui si è detto, e della ricerca iniziale delle probabili alleanze. Sulla base delle risultanze dibattimentali sopra analizzate, può legittimamente e fondatamente affermarsi che Di Pietro, vuoi per la stanchezza fisica e psicologica maturata a causa deglia anni di intenso lavoro e degli attacchi ormai ripetuti nei suoi confronti, vuoi soprattutto per un crescente desiderio di divenire soggetto protagonista della vita politica o, quanto meno, di acquisire iniziali posizioni verticistiche di organi istituzionali (posizioni che, comunque, per la delicatezza del ruolo e delle funzioni avrebbero richiesto il beneplacito delle forze politiche governanti), aveva maturato nell’autunno del 1994 il preciso proposito di abbandonare l’attività giudiziaria all’interno del pool, se non addirittura la magistratura. E si trattava di un proposito maturato, nella prospettiva professionale dell’interessato, già da qualche tempo, e precisamente dalla primavera del 1994.
Innanzitutto è la moglie di Di Pietro a collocare nella primavera del 1994 i primi discorsi del marito sull’uscita da quelle indagini appena dopo la fine del processo Enimont, e la teste conferma quale causa di questa decisione tutte le motivazioni in vario modo esposte da Di Pietro (stanchezza, pesante coinvolgimento della famiglia e così via). Ma ancor più significativo risulta in proposito il colloquio avvenuto nell’aprile del 1994 tra Di Pietro e Ghitti, all’epoca ancor giudice per le indagini preliminari di Milano, allorquando al preannuncio di Ghitti di una sua possibila canditatura per il Consiglio superiore della magistratura, Di Pietro gli consigliò di accettare, essendo anch’egli intenzionato ad andarsene dopo il processo Enimont.
Di Pietro giustificò questa sua futura scelta con la fine di Mani pulite, intendendo dire, come più chiaramente in seguito si esprimerà con i colleghi del pool, che la fine dell’inchiesta era conseguente alla conclusione del processo (Enimont, ovviamente) che aveva visto tra gli imputati tutti i maggiori rappresentanti politici di quella che ormai, con linguaggio giornalistico, è denominata Prima Reppublica. Questi concetti saranno ribaditi nella riunione del 30 novembre o del 1 dicembre 1994, presenti Borrelli, Davigo, Colombo e Greco, nel corso della quale verrà ufficializzata la decisione delle dimissioni anche agli altri componenti del pool, e nell’occasione risulterà vana la dura presa di posizione di Borrelli nei confronti di Di Pietro per convincerlo a desistere da quell’intenzione. In quella riunione Di Pietro riaffermò che Mani pulite era finita, l’acqua non arrivava più al mulino, intendendo l’esaurimento delle fonti informative, e che occorreva scendere da cavallo prima di essere disarcionati, addirittura invitando tutti i colleghi ad assumere decisioni analoghe alla sua. Quest’ultima affermazione, poi, rende palese il desiderio di lasciare l’incarico giudiziario nel momento di massima popolarità, e ciò non poteva che essere funzionale e strumentale a un successivo sfuttamento di questa popolarità che avrebbe raggiunto l’apice con la requisitoria del processo Enimont.
L’intento manifestato già ad aprile trova un riscontro nell’accelerazione che Di Pietro impresse al processo Enimont nel periodo immediatamente successivo, invitando anche Ghitti a una sollecita fissazione dell’udienza preliminare. Certo, la deposizione del teste Ghitti non risolve il nodo se Di Pietro all’epoca avesse maturato l’idea di uscire dall’inchiesta oppure dalla magistratura. Il teste ha affermato più volte che con lui si parlò sempre di uscire dall’inchiesta, tanto che in seguito si interesò per individuare un incarico fuori ruolo, e questa circonstanza era incompatibile con una decisione di dimettersi all’ordine giudiziario. Tanto che, dice sempre il teste, quando il 6 dicembre Di Pietro gli mostrò le missive indirizzate al procuratore, lui gli fece presente che l’espressione «lascio l’ordine giudiziario» non corrispondeva alla sua effetiva volontà, ma la replica del collega fu che ormai quelle erano le lettere e con quel contenuto le avrebbe trasmesse. Ad aviso del Collegio può ritenersi che da un’iniziale ipotesi di semplice dimissione dell’incarico all’interno del pool Di Pietro abbia via via sempre coltivato l’ipotesi di uscire dalla magistratura.
D’altronde la concretezza di eventuali incarichi politici o istituzionali si consolida successivamente (l’incontro con Previti e Silvio Berlusconi è del maggio 1994), e i motivi di insofferenza e disagio si accentuano nell’autunno caldo del 1994…Unico serio elemento che cartolarmente contrasterebbe con l’anticipazione ad aprile della decisione di dimettersi deriva dalla posizione assunta da Di Pietro nell’ambito delle riunioni del pool in cui si trattò della posizione di Silvio Berlusconi nelle indagini sulla Guardia di Finanza. Si è acclarato in precedenza che gli univoci elementi probatori sul punto hanno dimostrato che Di Pietro nell’occasione si presentò come l’assertore più convinto della bontà del materiale d’accusa a carico di Berlusconi (materiale, peraltro, da lui stesso organicamente raccolto), e il più determinato e il più irruento nel sostenere non solo che si sarebbe ottenuto il rinvio a giudizio, ma anche una futura vittoria in sede dibattimentale, nella quale lui si riprometteva di sostenere il ruolo dell’accusa. Tuttavia un siffatto atteggiamento non si spiega con le ormai prossime dimissioni che, in quel periodo (seconda metà del mese di novembre), dovevano essere già ampiamente maturate e in fase di imminente attuazione (era prossima la requisitoria, e quindi la sentenza Enimont). Non può disconoscersi che questo è un argomento di forte impatto, ma è ugualmente incontestabile, per l’estrema serietà delle fonti, che la decisione delle dimissioni era ben anteriore.
L’unica spiegazione che il Collegio ritiene di poter proporre, a fronte di tale insanabile contraddizione dei dati processuali, consiste nel timore di Di Pietro che, una volta conosciuti da parte dei suoi colleghi gli interessi politici che andava coltivando e rafforzando, questi avrebbero potuto sospettarlo di duplicità per non aver condotto con la sua tradizionale veemenza la discussione e la decisione contro Berlusconi. Insomma,un’immediata partecipazione di Di Pietro al procuratore e agli altri colleghi delle prospettive che gli si aprivano, dei contatti e colloqui politici di quel lungo periodo della seconda metà del 1994 a partire dall’incontro del maggio, delle riflessioni che portava avanti circa la necessità di un suo nuovo e differente impegno in altra sede (politica propriamente ovvero istituzionale), avrebbe potuto inquinare quella sua indiscussa leadership all’interno e all’esterno del pool, con consequenziali ripercussioni nell’immagine esterna, e avrebbe potuto indurre i colleghi a renderlo sempre meno partecipe dell’attività giudiziaria in vista di un suo preannunciato abbandono delle funzioni inquirenti».





il giudice di pietro si fa prestare 100 milioni da un suo inquisito tle gorrini della assicurazione maa.......complimenti tonino

In realtà a Brescia, come alle pagine 140, 141 e 142 della citata sentenza, fu stabilito quest’altro:
«Di Pietro ammette di aver usufruito del prestito di cento milioni… fu reso edotto dell’identità dell’erogatore del prestito (Gorrini, nda) quanto meno sin dal 1992. E’ Di Pietro stesso a dirlo: “Io ho avuto modo di parlare con Gorrini della vicenda dei 120 milioni (100 più i 20 della Mercedes) nel 1992, allorché venne a trovarmi in ufficio…” Di Pietro ebbe coscienza e consapevolezza della persona che aveva provveduto all’esborso di cento milioni fin dall’inizio… Non si spiegherebbe, seguendo l’impostazione di Di Pietro, la telefonata di ringraziamento a Gorrini dopo la restituzione».
Ma chi è questo Giancarlo Gorrini?
Travaglio lo descrive solo così: «Un assicuratore che conosceva Di Pietro», uno che «era con l’acqua alla gola e aveva passato quell’estate del ‘94 alla ricerca di aiuto e, naturalmente, si era rivolto anche all’entourage di Berlusconi». Basta.
Non dice, Travaglio, che Gorrini fu l’uomo a cui Di Pietro scroccò cento milioni, una Mercedes sottocosto poi rivenduta, pratiche legali per la moglie, ombrelli, agende, penne e cartolame, stock di calzettoni al ginocchio, viaggi in jet privato, infine un impiego per il figlio Cristiano.
E non lo diciamo solo noi, è a sentenza alle pagine 151 e 152:
«E’ indubbio che i fatti raccontati da Gorrini si erano radicalmente verificati», ossia «la prestazione di attività lavorativa di Cristiano Di Pietro a favore della Maa, l’assegnazione di alcune cause a Susanna Mazzoleni da parte della Maa, l’erogazione di un prestito a Di Pietro, la cessione a Di Pietro di un’autovettura recuperata dalla Maa e trasformata da Di Pietro stesso in prestito».
Ecco, appunto, e la famosa Mercedes? Travaglio la racconta ai poveri grillini in questo modo:
«Di Pietro aveva fuso la sua automobile, una Ritmo, e Rocca gli aveva dato una Mercedes usata di quelle che stavano lì nei magazzini, nei parcheggi dell’assicurazione e che poi Di Pietro aveva utilizzato per un certo periodo e poi l’aveva venduta al suo avvocato».
Allora. Anzitutto non era una Fiat Ritmo, ma una Fiat Regata; poi non la rivendette «al suo avvocato», ma all’amico Giuseppe Lucibello che all’occorrenza era anche avvocato, ma non il suo; poi non gliela diede Rocca, ma pure questa Gorrini; la «Mercedes che stava lì nei magazzini», poi, era solamente una Mercedes 300 Ce blu notte di poco tempo prima (sessantasette milioni di listino) a margine di una tresca che la magistratura, nella citata sentenza, ha messo come segue.
Pagina 153: «Di Pietro vende sostanzialmente un’auto che non gli appartiene, trattenendo i soldi»… Di Pietro vendette la Mercedes a Lucibello… con ogni probabilità non al prezzo di favore a lui accordato, cioè venti milioni, ma al reale valore di mercato, ovvero cinquanta milioni… ciò che in origine era un’iniziativa per l’acquisizione a buon prezzo di un’autovettura, diviene, senza soluzione di continuità, un’operazione per l’acquisizione a titolo di prestito della somma conseguita dalla vendita dell’auto medesima… Di Pietro cercò di occultare il prezzo reale dell’auto».
Ma tutte queste cose il grillino medio – in sostanza quel target travagliesco che all’epoca dei fatti era ancora poppante – non le deve sapere. Se lo dice Travaglio, allora sarà vero.
by http://ripley-wallstreetclima.blogspot.com


jfk le solite bufale scandalistiche.diteci chi l ha ucciso ?

Usa, l'imbarazzante foto di Jfk
con quattro donne nude è falsa

«Avrebbe cambiato la storia». Ma in Rete prima circola l'idea che sia una bufala poi Tmz ammette l'errore

La foto incriminata (da Tmz.com)
La foto incriminata (da Tmz.com)
MILANO - La foto di Jfk su uno yacht in compagnia di quattro giovani ragazze nude è un falso: lo sostiene il sito web The Smoking Gun, specializzato in questioni giudiziarie americane e generalmente considerato attendibile. La foto in questione, pubblicata con ampio rilievo dal sito di gossip Tmz, non sarebbe stata scattata nell'agosto 1956 nel corso di una crociera nel Mediterraneo, ma sarebbe soltanto la riproduzione in bianco e nero di una foto a colori scattata nel 1967 alle isole Grenadine, nei Caraibi, e pubblicata come paginone centrale sul numero di novembre di quell'anno della rivista per soli uomini Playboy. L'uomo che dovrebbe essere Kennedy, secondo Smoking Gun, che cita il fotografo di Playboy Larry Dale Gordon, altro non era che un modello. John Fitgerald Kennedy, eletto presidente degli Stati Uniti nel 1960, è stato assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas.

IL PRESUNTO VIAGGIO - Nella foto (finta) che per un giorno ha fatto impazzire gli States, il presidente è sdraiato e prende il sole a occhi chiusi. Intorno a lui c'è gran movimento e le signorine sono sveglie: una si sta tuffando, un'altra risale in barca e altre due prendono il sole in cima all'imbarcazione. Per i giornalisti di Tmz, il sito che per primo diede la notizia della morte di Michael Jackson, si sarebbe trattato di un'immagine «che avrebbe potuto cambiare la storia» soprattutto se fosse stata pubblicata prima delle elezioni del 1960. Proprio dieci anni prima il futuro presidente degli Stati Uniti, con il fratello Ted e con il senatore George Smathers, avrebbe partecipato a questa crociera nel Mediterraneo, fatto che troverebbe riscontri in libri e articoli dell'epoca. La foto avrebbe fatto riferimento proprio a quel viaggio. All'epoca Jackie Kennedy era incinta: mentre la crociera sarebbe stata in corso fu ricoverata di corsa in ospedale e perse il bambino. Ma sono tutte considerazioni inutili: l'immagine è falsa.

AUTENTICA? NO - E pensare che secondo esperti di fotografia forense, interpellati da Tmz, non si sarebbe trattato di un falso: luce e carta avrebbero confermato il periodo. Anche il volto dell'uomo sull'imbarcazione era stato confrontato con quello di una foto vera scattata nell'agosto del 1956 del futuro presidente che sarebbe stato poi ucciso a Dallas. I risultati avrebbero confermato che si tratterebbe proprio di John Fitzgerald Kennedy. L'immagine sarebbe stato in mano a un concessionario d'auto che viveva nella East Coast. L'uomo per decenni si sarebbe vantato con i conoscenti di avere una foto compromettente di Jfk. Dieci anni fa, alla sua morte, un figlio sarebbe entrato in possesso dell'immagine e solo ora avrebbe deciso di renderla pubblica. Un grande pesce d'aprile fuori tempo massimo però. Il sito Tmz alla fine della lunga giornata ha ammesso l'errore: «La foto di Jfk con quattro ragazze nude su uno yacht è un falso».

chi ha rapito una innocente?

Le rivelazioni di Maurizio Abatino, uno dei pentiti storici della Banda della Magliana

Emanuela Orlandi nei manifesti diffusi ai tempi della scomparsa (Ansa)
Emanuela Orlandi nei manifesti diffusi ai tempi della scomparsa (Ansa)
ROMA - Furono Enrico De Pedis e i suoi uomini a sequestrare Emanuela Orlandi. Lo ha rivelato oggi Maurizio Abbatino, uno dei pentiti storici della Banda della Magliana, durante l'audizione resa a piazzale Clodio davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, titolare dell'indagine sul rapimento della 15enne cittadina vaticana avvenuto nel giugno del 1983.

RACCONTI E CONFIDENZE - Abbatino, collaboratore di giustizia da decenni, ha precisato che quanto è a suo conoscenza sul caso Orlandi è frutto di confidenze raccolte da altri componenti della Banda. Al magistrato ha detto che il sequestro avvenne nell'ambito dei rapporti che «Renatino» aveva con alcuni esponenti del Vaticano - ultimamente si è tornati a parlare del fatto che il boss dell'organizzazione criminale che controllava Roma negli anni Settanta e Ottanta sia stato sepolto all'interno della basilica di Sant'Apollinare - e che ad aiutare il boss, poi ucciso nel febbraio del '90 in via del Pellegrino, furono diversi uomini di sua fiducia, alcuni ancora in vita, altri deceduti da tempo. Abbatino avrebbe citato una serie di nomi su cui ora il procuratore aggiunto farà i dovuti riscontri.


28 dicembre 2009

by corriere.it

bettino craxi vittima di un paese di ladri?

Andrea Garibaldi per il Corriere della Sera

Il bisticcio, il battibecco, la controversia tra Stefania Craxi e Bobo Craxi è argomento stucchevole, come ogni cosa che duri per troppo tempo, troppo uguale. Un po' D'Alema contro Veltroni, Berlusconi e Di Pietro, Boldi-De Sica. Stavolta, però, c'è di mezzo un tentato omicidio.

«Una volta mia sorella tentò di uccidermi in culla», ha rivelato Bobo in una lunga intervista a Libero. Da Sri Lanka, dove si trova in vacanza, Stefania rifiuta di giustificarsi davanti all'atto di accusa. Bobo invece precisa che «si trattava solo di una battuta». Deve essere vero, dato che, quando lui stava in culla, Stefania aveva 4 anni.

craxi-signorile-formica

Solo che fratello e sorella continuano a far dispute, e fra venti giorni scatta il decennale della scomparsa di Craxi ad Hammamet, dove il leader socialista si autoesiliò, inseguito da Tangentopoli.

Bobo si dice sicuro che il presidente Napolitano invierà un messaggio al Senato il 19 gennaio, per la commemorazione ufficiale. L'entourage di Stefania fa sapere che il presidente della Repubblica dovrebbe ricevere i vertici della Fondazione Craxi, cioè il presidente Stefania Craxi, al Quirinale. «Non so se sia vero - dice Bobo -. L'unica cosa che mi preme, ora, è non mettere in imbarazzo il Presidente». Bobo sostiene che dalla Fondazione lui è stato emarginato, «cacciato».

Bobo accusa la sorella di non aver voluto «una gestione condivisa della figura di mio padre». Poi, ricorda che Stefania ha rotto «un patto morale»: Bobo, l'uomo di casa, avrebbe fatto politica, Stefania avrebbe curato la memoria.

Dall'Estremo Oriente, Stefania fa sapere «che non c'era alcun patto morale». E fa sapere: «Rapporti con mio fratello non ne ho. Ma non voglio creare contrapposizioni. Ognuno a casa sua fa quello che vuole». Insomma: Bobo insiste con questa bega familiare, io lavoro. «E voglio solo celebrare i dieci anni dalla morte di mio padre». Così, per una volta la grintosa Stefania fa la figura della "buona" e il gentile Bobo fa la parte di chi non molla il punto, "cattivo".

C'è una foto, tenera, primi anni 2000: Stefania e Bobo abbracciati, congresso del Nuovo Psi, lei appoggia la testa sulla spalla di lui. A separarli sono stati i caratteri, più che gli episodi. Sempre riguardo a tanti anni fa- i due ragazzi nascono nei '60- c'è la questione di chi fosse più il "cocco" di papà.

Secondo Bobo, Bettino aveva «più complicità» con lui. Secondo Stefania, era lei ad aver ereditato il «carattere forte». Nella sua, precedente, intervista a Libero, lei ricorda che seguiva «con tigna» Bettino presidente del Consiglio e riusciva a infilarsi negli incontri con Gorbaciov, Reagan, Rockfeller. Bobo rammenta con nostalgia una partita del Milan vista assieme al papà e poi due uova al tegamino nella cucina di casa...

CRAXI FAMILY

Nella diaspora socialista lei finì a destra, lui a sinistra. «Mio padre - disse Stefania - ci ha insegnato a riconoscere i nostri avversari: post-comunisti, cattolici integralisti, grande finanza e grandi giornali e stanno tutti a sinistra » . Replicò Bobo: «Nel centrodestra ci sono gli avversari più feroci di generazioni di socialisti: fascisti, post-fascisti, leghisti». Stefania, quando può, rammenta al fratello che fu eletto deputato nel Polo della Libertà (FI più An), anno 2001.

A metà gennaio si troveranno ad Hammamet per i dieci anni dalla fine di Bettino (lui, vivente, non aveva mai permesso litigi e baruffe fra i figli). Magari non si parleranno ma staranno l'uno al fianco dell'altra (o viceversa), come è già capitato, laggiù.

2 - RINO FORMICA, "L'ERRORE DI BETTINO FU L'ESILIO"
Fabio Martini per La Stampa

Il dibattito su Bettino Craxi, che Napolitano ricorderà al Senato, è ripartito in questi giorni. Ecco la testimonianza di Rino Formica, che di Craxi fu ministro.

Non sempre le sue battute micidiali mettevano di buon umore il suo amico e compagno Bettino Craxi, ma di quegli anni in prima linea Rino Formica ha mantenuta intatta l'indipendenza di giudizio. E infatti non è rituale neppure la previsione sulle parole che il suo amico Giorgio Napolitano pronuncerà in occasione delle cerimonie che si svolgeranno in occasione dei 10 anni dalla scomparsa del leader socialista: «Conoscendo il suo proverbiale equilibrio e la profonda onestà intellettuale, credo che dirà parole di verità. E se va al fondo delle cose, esprimerà anche un giudizio educativo sul presente».

i figli di craxi

Nel presente, Silvio Berlusconi si difende dai processi, cambiando continuamente leggi, mentre Craxi se ne andò dall'Italia. Non fu una colpa, tanto più per un uomo che aveva guidato l'Italia?
«Gli dissi: commetti un errore grave verso la comunità che ti ha voluto bene e anche verso te stesso».

E lui?
«Lui mi rispose che non resisteva all'ingiustizia di cui era vittima. Proprio lui, che per carattere e per cultura era abituato a lunghe lotte minoritarie non colse un elemento decisivo: gli altri non avrebbero fatto una rivoluzione. Quella di Tangentopoli era soltanto una rivolta».

Vuol dire che non avrebbero arrestato Craxi?
«Dico che quella non era una rivoluzione, perché le rivoluzioni cambiano l'ordine sociale. All'inizio degli anni Novanta l'ordine sociale era da restaurare e infatti quella fu soltanto una rivolta di Palazzo per restaurare l'ordine».

Insomma, lei pensa che se Craxi fosse restato in Italia, non sarebbe stato «umiliato»?
«Quel che contava era la distruzione della forza del Psi. Una volta raggiunto quel risultato, la guerra finisce».

Craxi è personaggio che resta divisivo, ma negli anni un minimo comun denominatore sembra essersi consolidato: il sistema era corroso, lui ne era uno dei leader ma alla fine il capro espiatorio fu lui. Condivide?
«La sua fu una liquidazione necessaria. Craxi era il punto debole di un nuovo ressemblement che sarebbe nato dalla crisi di direzione politica della Dc e di direzione sociale del Pci. Vedemmo arrivare personaggi dall'America, vedemmo alcuni magistrati che non avevano in mente progetti politici, ma che furono spalleggiati da forze interne ed esterne».

bebo e bettino craxi

Lei tende a «nobilitare» la caduta di Craxi: ma perché in voi non ci fu mai una rivolta verso l'illegalità diffusa, perché cavalcaste questo male italiano, fino ad allora così poco socialista?
«Ma guardi che non è stato l'uso distorto, "improduttivo" dei finanziamenti ai partiti a determinare la catastrofe, la crisi della Prima Repubblica...».

No? Mica bisogna esser giustizialisti per ricordare che allora l'illegalità era diffusa e che i partiti erano onnivori...
«Proviamo a metterla così: se fosse vero che allora la crisi fu determinata da quel problema, negli ultimi 15 anni e ancora oggi il finanziamento degenerato e l'uso personale di finanziamenti illegali avrebbe dovuto portare alla distruzione del sistema non una, ma mille volte!».

In certe pulsioni Berlusconi ricorda Craxi. Fu Bettino, nel 1993, a consigliare a Silvio di entrare in politica, o no?
«Ognuno si racconta la storia a modo suo. Bisogna sempre vedere in che stato d'animo e in che circostanze si dicono certe cose. Magari si dicono a tavola e restano proverbiali. Quel che conta sono i processi reali...».

Lei allude al colpo di grazia che a Craxi diedero la Lega di Bossi, i missini di Fini, il Feltri che coniò "il cinghialone"?
«Sì, ma penso soprattutto ai Tg di proprietà di Berlusconi. Ma lì giocò la paura. All'inizio di Tangentopoli Mediaset fu colta da una crisi logistica. Stava perdendo i punti di riferimento politico-sociali che gli avevano garantito la presenza sul mercato. E si schierarono con quelli che pensavano potessero diventare i vincitori. Oggi quasi tutti scomparsi...».

Mica tanto, la Lega è più che mai in campo...
«Sì, ma ha fatto dimenticare il ruolo che ebbe allora».

Anche Di Pietro è più che mai in campo...
«Sì, ma la sua non è ancora una storia finita...».

In che senso?
«Ho sempre pensato che lui sia un "utilizzato" e che non sia mai stato un "generatore" degli eventi di cui è stato protagonista. Ogni tanto emerge, entra in sonno, poi riemerge. Ora per esempio è attivissimo e si potrebbe immaginare che questo stia a cuore a chi lo muove in qualunque parte del mondo esso si trovi. Ma sono solo supposizioni...».

[28-12-2009]
by dagospia

lunedì 28 dicembre 2009

bettino craxi vittima di un paese di ladri

Andrea Garibaldi per il Corriere della Sera

Il bisticcio, il battibecco, la controversia tra Stefania Craxi e Bobo Craxi è argomento stucchevole, come ogni cosa che duri per troppo tempo, troppo uguale. Un po' D'Alema contro Veltroni, Berlusconi e Di Pietro, Boldi-De Sica. Stavolta, però, c'è di mezzo un tentato omicidio.

«Una volta mia sorella tentò di uccidermi in culla», ha rivelato Bobo in una lunga intervista a Libero. Da Sri Lanka, dove si trova in vacanza, Stefania rifiuta di giustificarsi davanti all'atto di accusa. Bobo invece precisa che «si trattava solo di una battuta». Deve essere vero, dato che, quando lui stava in culla, Stefania aveva 4 anni.

craxi-signorile-formica

Solo che fratello e sorella continuano a far dispute, e fra venti giorni scatta il decennale della scomparsa di Craxi ad Hammamet, dove il leader socialista si autoesiliò, inseguito da Tangentopoli.

Bobo si dice sicuro che il presidente Napolitano invierà un messaggio al Senato il 19 gennaio, per la commemorazione ufficiale. L'entourage di Stefania fa sapere che il presidente della Repubblica dovrebbe ricevere i vertici della Fondazione Craxi, cioè il presidente Stefania Craxi, al Quirinale. «Non so se sia vero - dice Bobo -. L'unica cosa che mi preme, ora, è non mettere in imbarazzo il Presidente». Bobo sostiene che dalla Fondazione lui è stato emarginato, «cacciato».

Bobo accusa la sorella di non aver voluto «una gestione condivisa della figura di mio padre». Poi, ricorda che Stefania ha rotto «un patto morale»: Bobo, l'uomo di casa, avrebbe fatto politica, Stefania avrebbe curato la memoria.

Dall'Estremo Oriente, Stefania fa sapere «che non c'era alcun patto morale». E fa sapere: «Rapporti con mio fratello non ne ho. Ma non voglio creare contrapposizioni. Ognuno a casa sua fa quello che vuole». Insomma: Bobo insiste con questa bega familiare, io lavoro. «E voglio solo celebrare i dieci anni dalla morte di mio padre». Così, per una volta la grintosa Stefania fa la figura della "buona" e il gentile Bobo fa la parte di chi non molla il punto, "cattivo".

C'è una foto, tenera, primi anni 2000: Stefania e Bobo abbracciati, congresso del Nuovo Psi, lei appoggia la testa sulla spalla di lui. A separarli sono stati i caratteri, più che gli episodi. Sempre riguardo a tanti anni fa- i due ragazzi nascono nei '60- c'è la questione di chi fosse più il "cocco" di papà.

Secondo Bobo, Bettino aveva «più complicità» con lui. Secondo Stefania, era lei ad aver ereditato il «carattere forte». Nella sua, precedente, intervista a Libero, lei ricorda che seguiva «con tigna» Bettino presidente del Consiglio e riusciva a infilarsi negli incontri con Gorbaciov, Reagan, Rockfeller. Bobo rammenta con nostalgia una partita del Milan vista assieme al papà e poi due uova al tegamino nella cucina di casa...

CRAXI FAMILY

Nella diaspora socialista lei finì a destra, lui a sinistra. «Mio padre - disse Stefania - ci ha insegnato a riconoscere i nostri avversari: post-comunisti, cattolici integralisti, grande finanza e grandi giornali e stanno tutti a sinistra » . Replicò Bobo: «Nel centrodestra ci sono gli avversari più feroci di generazioni di socialisti: fascisti, post-fascisti, leghisti». Stefania, quando può, rammenta al fratello che fu eletto deputato nel Polo della Libertà (FI più An), anno 2001.

A metà gennaio si troveranno ad Hammamet per i dieci anni dalla fine di Bettino (lui, vivente, non aveva mai permesso litigi e baruffe fra i figli). Magari non si parleranno ma staranno l'uno al fianco dell'altra (o viceversa), come è già capitato, laggiù.

2 - RINO FORMICA, "L'ERRORE DI BETTINO FU L'ESILIO"
Fabio Martini per La Stampa

Il dibattito su Bettino Craxi, che Napolitano ricorderà al Senato, è ripartito in questi giorni. Ecco la testimonianza di Rino Formica, che di Craxi fu ministro.

Non sempre le sue battute micidiali mettevano di buon umore il suo amico e compagno Bettino Craxi, ma di quegli anni in prima linea Rino Formica ha mantenuta intatta l'indipendenza di giudizio. E infatti non è rituale neppure la previsione sulle parole che il suo amico Giorgio Napolitano pronuncerà in occasione delle cerimonie che si svolgeranno in occasione dei 10 anni dalla scomparsa del leader socialista: «Conoscendo il suo proverbiale equilibrio e la profonda onestà intellettuale, credo che dirà parole di verità. E se va al fondo delle cose, esprimerà anche un giudizio educativo sul presente».

i figli di craxi

Nel presente, Silvio Berlusconi si difende dai processi, cambiando continuamente leggi, mentre Craxi se ne andò dall'Italia. Non fu una colpa, tanto più per un uomo che aveva guidato l'Italia?
«Gli dissi: commetti un errore grave verso la comunità che ti ha voluto bene e anche verso te stesso».

E lui?
«Lui mi rispose che non resisteva all'ingiustizia di cui era vittima. Proprio lui, che per carattere e per cultura era abituato a lunghe lotte minoritarie non colse un elemento decisivo: gli altri non avrebbero fatto una rivoluzione. Quella di Tangentopoli era soltanto una rivolta».

Vuol dire che non avrebbero arrestato Craxi?
«Dico che quella non era una rivoluzione, perché le rivoluzioni cambiano l'ordine sociale. All'inizio degli anni Novanta l'ordine sociale era da restaurare e infatti quella fu soltanto una rivolta di Palazzo per restaurare l'ordine».

Insomma, lei pensa che se Craxi fosse restato in Italia, non sarebbe stato «umiliato»?
«Quel che contava era la distruzione della forza del Psi. Una volta raggiunto quel risultato, la guerra finisce».

Craxi è personaggio che resta divisivo, ma negli anni un minimo comun denominatore sembra essersi consolidato: il sistema era corroso, lui ne era uno dei leader ma alla fine il capro espiatorio fu lui. Condivide?
«La sua fu una liquidazione necessaria. Craxi era il punto debole di un nuovo ressemblement che sarebbe nato dalla crisi di direzione politica della Dc e di direzione sociale del Pci. Vedemmo arrivare personaggi dall'America, vedemmo alcuni magistrati che non avevano in mente progetti politici, ma che furono spalleggiati da forze interne ed esterne».

bebo e bettino craxi

Lei tende a «nobilitare» la caduta di Craxi: ma perché in voi non ci fu mai una rivolta verso l'illegalità diffusa, perché cavalcaste questo male italiano, fino ad allora così poco socialista?
«Ma guardi che non è stato l'uso distorto, "improduttivo" dei finanziamenti ai partiti a determinare la catastrofe, la crisi della Prima Repubblica...».

No? Mica bisogna esser giustizialisti per ricordare che allora l'illegalità era diffusa e che i partiti erano onnivori...
«Proviamo a metterla così: se fosse vero che allora la crisi fu determinata da quel problema, negli ultimi 15 anni e ancora oggi il finanziamento degenerato e l'uso personale di finanziamenti illegali avrebbe dovuto portare alla distruzione del sistema non una, ma mille volte!».

In certe pulsioni Berlusconi ricorda Craxi. Fu Bettino, nel 1993, a consigliare a Silvio di entrare in politica, o no?
«Ognuno si racconta la storia a modo suo. Bisogna sempre vedere in che stato d'animo e in che circostanze si dicono certe cose. Magari si dicono a tavola e restano proverbiali. Quel che conta sono i processi reali...».

Lei allude al colpo di grazia che a Craxi diedero la Lega di Bossi, i missini di Fini, il Feltri che coniò "il cinghialone"?
«Sì, ma penso soprattutto ai Tg di proprietà di Berlusconi. Ma lì giocò la paura. All'inizio di Tangentopoli Mediaset fu colta da una crisi logistica. Stava perdendo i punti di riferimento politico-sociali che gli avevano garantito la presenza sul mercato. E si schierarono con quelli che pensavano potessero diventare i vincitori. Oggi quasi tutti scomparsi...».

Mica tanto, la Lega è più che mai in campo...
«Sì, ma ha fatto dimenticare il ruolo che ebbe allora».

Anche Di Pietro è più che mai in campo...
«Sì, ma la sua non è ancora una storia finita...».

In che senso?
«Ho sempre pensato che lui sia un "utilizzato" e che non sia mai stato un "generatore" degli eventi di cui è stato protagonista. Ogni tanto emerge, entra in sonno, poi riemerge. Ora per esempio è attivissimo e si potrebbe immaginare che questo stia a cuore a chi lo muove in qualunque parte del mondo esso si trovi. Ma sono solo supposizioni...».

[28-12-2009]
by dagospia

domenica 27 dicembre 2009

le crociate

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

(Reindirizzamento da Crociate cristiane)
Soldati crociati in una illustrazione di Pierre Larousse del 1922
Crociate in Terra Santa
Prima1101SecondaTerzaQuartaQuintaSestaSettimaOttavaNonaAlessandrina

Crociate minori: PoveriFanciulliPastori

Le crociate furono una serie di guerre, combattute tra l'XI e il XIII secolo fra eserciti raccolti da regni cristiani europei ed eserciti musulmani prevalentemente sul terreno dell'Asia minore e nel Mediterraneo orientale. Poiché esse furono benedette, e spesso invocate dal Papato e motivate da un sentimento eminentemente religioso che intendeva liberare la terra ove nacque, predicò e morì Gesù Cristo dall'occupazione musulmana, vengono definite "guerre di religione". Tuttavia, esse ebbero di fatto anche non trascurabili moventi politico-economici all'interno del mondo feudale medievale europeo e bizantino, e come concreto fine la difesa dei Cristiani in Terra Santa contro i musulmani. Sono altresì considerate da molti storici come la risposta della Cristianità al jihad islamico del VII secolo. Le terre della Palestina (come anche del Nord Africa) erano terre cristiane dal II/III secolo fino alla vittoriosa avanzata islamica. Per molti altri studiosi, si trattò invece di una serie di cruente aggressioni armate che miravano a conseguire un personale arricchimento materiale e d'immagine. Malgrado il giudizio di questi ultimi e l'uso negativo del termine quando si voglia sottolineare un conflitto i cui moventi siano deprecabilmente ideologici (come sinonimo quindi di guerra santa), la parola conserva nondimeno in gran parte la sua originaria valenza semantica positiva, quando ad esempio viene usato per raccomandare alcune campagne caratterizzate da un forte afflato culturale o sociale (crociata contro il fumo, contro le droghe o contro l'alcol).

Numerose crociate furono caratterizzate da violenze insensate. La più veemente tra esse fu probabilmente la quarta crociata, che portò alla devastante conquista di Costantinopoli, a dispetto della comunanza di fede religiosa, che indebolì in modo notevole la solidità dell'Impero bizantino anche grazie alla nascita dell'Impero latino di Costantinopoli, avviando un inarrestabile declino che culminerà con il suo definitivo annichilimento da parte ottomana nel 1453.

La prima crociata fu quella che ottenne i maggiori successi e portò alla nascita degli stati crociati d'Outremer che sopravvissero fino al 1303. Alla prima crociata seguirono altre spedizioni (8 crociate ufficiali) nel corso del XII e XIII secolo che però quasi mai raggiunsero gli obiettivi che si erano prefissate.

Indice

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Etimologia [modifica]

Un mantello da crociato esposto ad una rievocazione al Ricetto di Candelo

La parola spagnola cruzada risale alla metà del XIII secolo, allorché l'epoca di quelle che oggi chiamiamo Crociate era praticamente conclusa. L'uso storiografico della parola "crociata" fu affare della fine del XVIII secolo. Il nome deriva dalla croce che i partecipanti alla crociata avevano cucita sulle vesti, che simboleggiava il loro pellegrinaggio e i voti contratti. Nelle fonti antiche si può semmai trovare l'espressione cruce signati riguardo ai crociati anche se i soldati bizantini chiamarono loro stessi "Soldati della Croce" già all'epoca di Eraclio. Per indicare le Crociate veniva usata anche l'espressione negotium crucis.

Crociate in Terra Santa [modifica]

Contesto storico [modifica]

Espansione musulmana (Jihad) [modifica]

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Espansione musulmana.

██ Espansione sotto il profeta Maometto, 622-632

██ Espansione durante il califfato elettivo, 632-661

██ Espansione durante il califfato omayyade, 661-750

Negli ultimi anni di vita di Maometto, dopo aver sottomesso le vicine tribù pagane, i musulmani si volsero verso la vicina provincia bizantina di Tabuk. Il loro scopo era la conquista di nuove terre e il dominio sugli infedeli[1]. Lo stesso Maometto, secondo una tradizione, quasi certamente priva di fondamenta storiche, avrebbe scritto all'imperatore bizantino Eraclio. «Il Profeta di Allah ha scritto a Cosroe (re di Persia), a Cesare (imperatore di Roma, cioè Eraclio), a Negus (re di Abissinia) e a tutti gli altri sovrani per invitarli a convertirsi ad Allah il Magnifico» [2]. Li esortò quindi ad abbracciare l'Islam, se volevano essere risparmiati [3]. Ovviamente nessuno accettò la proposta e poco tempo dopo la morte di Maometto i musulmani attaccarono l'Impero bizantino infervorati dalle parole del Profeta che prometteva il perdono di qualsiasi loro peccato a quanti avrebbero conquistato Costantinopoli.[4]

Nel 636 i musulmani Arabi ottennero una schiacciante vittoria sull'esercito bizantino nella battaglia del Yarmuk e completarono in tal modo la conquista dell'intera Siria. Lo stesso 'Umar ibn al-Khattāb, successore di Maometto, ricordò le istruzioni relative alle alternative poste agli infedeli: la conversione, la sottomissione (dimmitudine concessa solo ad ebrei e cristiani ma poi estesa anche a induisti e buddisti) o la morte per i pagani [5]. Caddero poi in breve tempo Antiochia, Gerusalemme (che fu saccheggiata) e tutta la Mesopotamia bizantina. Da qui gli Arabi si diressero in Armenia mentre contemporaneamente cominciava l'avanzata in Egitto. Alla flebile resistenza bizantina i musulmani, guidati da ʿAmr b. al-ʿĀṣ, risposero con feroce efficienza. Durante l'occupazione dell'isola di Nikiou le donne e i bambini stessi, rifugiati nelle chiese, furono uccisi[6].

L'Armenia cristiana non sfuggì alla conquista e si parla della riduzione in schiavitù di circa 35.000 persone)[7]. Le armate islamiche giunsero poi in Cilicia e Cappadocia:


« Essi invasero la Cilicia e si procurarono molti prigionieri, e quando arrivò Mu‘awiya ordinò che tutti gli abitanti fossero passati a fil di spada; [...] Quindi, dopo aver raccolto tutte le ricchezze della città presero a torturare i capi affinché mostrassero i tesori nascosti. In quel disgraziato paese essi ridussero in schiavitù l'intera popolazione[8]. »


In breve tempo le armate arabe conquistarono ampie regioni e arrivarono alle porte dell'Europa cristiana, assediandola sia da est sia da ovest: occuparono infatti Cipro, Rodi, Creta e la Sicilia, portandosi via ricchi bottini e migliaia di schiavi; invasero quindi la Spagna e organizzarono più spedizioni volte al saccheggio della Francia meridionale, come successe nel 792 quando Hishām, emiro di al-Andalus, chiamò tutti i musulmani al jihad (l'appello alle armi fu di natura religiosa, ben 3 secoli prima delle crociate.
Nell'827 ai combattenti del jihad fu presentata una nuova spedizione religiosa: la Sicilia. Gli arabi la invasero depredando e saccheggiando i villaggi accanendosi in particolare contro le chiese[senza fonte]. La loro dominazione sull'isola durò fino al 1091 quando essa venne conquistata dai normanni. Contemporaneamente l'esercito bizantino fu annientato dai turchi selgiuchidi a Manzicerta, spianando la strada all'occupazione musulmana dell'Asia Minore.

L'obbiettivo ultimo delle guerre di conquista arabe (jihad) venne illustrato dallo stesso Profeta che incitava i suoi seguaci


« a combattere contro gli infedeli finché essi non avessero ammesso che non vi era altro Dio al di fuori di Allah e che Maometto era il suo messaggero[9]. »


Situazione nel Vicino Oriente [modifica]

L'edicola del Santo Sepolcro (La tomba di Cristo)

Con la conquista islamica di Gerusalemme (638) la situazione dei cristiani conobbe alcune obiettive difficoltà, anche se non si verificarono vere e proprie persecuzioni iniziarono le violenze ai danni dei sudditi non-musulmani (i cristiani in particolare, ma anche gli ebrei) costretti allo stato di dimmitudine.
Infatti, mentre i pagani subirono dall'Islam politico una conversione forzata, agli ebrei e ai cristiani, chiamati dal Corano Gente del Libro, fu concesso di rimanere a vivere nelle loro terre, continuando a professare liberamente la propria fede, malgrado conoscessero alcune discriminazioni rispetto ai sudditi musulmani e fossero costretti a sottostare ad alcune condizioni socialmente restrittive. Non era loro concesso infatti costruire, ma solo restaurare, luoghi di culto. Dovevano vestire in modo particolare (era teoricamente obbligatorio il zunnār - una fascia di tessuto stretta alla vita - che nei fatti non fu però quasi mai indossato). Non potevano avere armi né cavalli, non potevano vendere alcolici o mangiare carne di maiale, non potevano esporre le croci in pubblico o recitare a voce alta la Torah e il Vangelo; infine era loro imposta una tassa sulla persona (gizya) che veniva inizialmente riscossa mediante un cerimoniale particolare: l'esattore colpiva il dhimmi sul capo e sulla nuca affinché ricordasse di essere un cittadino di grado inferiore[10]. Ovviamente non era concesso ai dhimmi fare opera di proselitismo tra i musulmani, pena la condanna a morte, né testimoniare contro un musulmano in un procedimento giudiziario, venendo quindi ad essere potenzialmente assoggettati agli eventuali abusi di qualche prepotente musulmano.

La situazione dei pellegrini non era certo migliore.
All'inizio dell'VIII secolo ne furono crocifissi 60 che provenivano da Amorium[senza fonte]; altri furono giustiziati dal governatore musulmano di Cesarea con l'accusa di spionaggio mentre, con la minaccia di saccheggiare la Chiesa della Resurrezione, veniva estorto denaro ai viandanti. Alla fine dello stesso secolo fu proibita l'esposizione della croce all'interno di Gerusalemme, fu incrementata la tassa sulla persona (gizya) e fu impedito ai cristiani di impartire insegnamenti religiosi ad altri, anche ai figli stessi. Nel 789 furono saccheggiati diversi monasteri tra cui quello di San Teodosio a Betlemme mentre, all'inizio del IX secolo, le persecuzioni si fecero così dure che cristiani molti fuggirono a Costantinopoli e nei territori bizantini. Nel 937 toccò alle Chiese del Calvario e della Resurrezione essere saccheggiate e distrutte [11].

Con l'intento di riconquistare la Siria, perduta nel VII secolo, l'Impero bizantino decise di intervenire nella seconda metà del X secolo con un esercito affidato al domestikos bizantino Niceforo Foca, che condusse una serie di fortunate campagne contro i musulmani di Siria-Palestina, riassumendo il controllo della Cilicia e di parte della Siria. Nel 974 i Bizantini furono accusati di aver occupato le terre appartenenti all'Islam e il Califfo abbaside di Baghdad invocò il jihad al quale risposero combattenti provenienti anche dall'Asia Centrale. Tuttavia i contrasti tra Sciiti e Sunniti portarono alla sconfitta dei musulmani e nel 1001 il basileus di Costantinopoli, Basilio II, concluse una tregua decennale con il califfo. Nel 1004 Abu ‘Ali al-Mansur al-Hakim (985-1021) imam fatimide considerato pazzo da diversi storici,[12] volendo convertire tutti i suoi sudditi all'Ismailismo, prese a perseguitare ebrei e cristiani e gli stessi musulmani sunniti, nell'intento probabile di convertirli tutti all'Ismailismo. Stracciò quindi improvvisamente il trattato coi Bizantini, ordinando di devastare le chiese, bruciare le croci e impossessarsi dei beni ecclesiastici. In seguito a ciò si disse che fossero rase al suolo 3000 chiese (un numero troppo alto per essere anche lontanamente verosimile, viste le restrizioni di cui s'è detto precedentemente), molti cristiani si convertirono all'Islam per avere salva la vita e le stesse chiese del Santo Sepolcro in Gerusalemme e della Resurrezione furono distrutte. Tale evento fece così scalpore nel mondo cristiano che ancora ottanta anni dopo esso fu agitato come un improbabile casus belli da parte della Chiesa di Roma, laddove la Crociata ebbe invece diverse e non meno convincenti concause. Infine l'Imam fatimide ordinò a cristiani ed ebrei di convertirsi all'Islam o di lasciare i suoi domini[13].

In seguito il sovrano fatimide allentò la sua stretta sugli "infedeli", restituendo buona parte dei beni confiscati alla chiesa e concesse ai Bizantini la possibilità di ricostruire la Chiesa del Santo Sepolcro, in cambio della costruzione di una moschea a Bisanzio. Tale patto fu onorato da ambo le parti ma la situazione dei cristiani continuò a essere precaria, tanto che nel 1056 fu proibito loro di entrare nella Chiesa del Santo Sepolcro e, con l'arrivo dei turchi selgiuchidi dall'Asia, ebbe inizio un nuovo periodo di terrore.

Nel 1077 Gerusalemme fu conquistata dai turcomanni e, nonostante il loro capo, l'avventuriero Atsız ibn Uvaq, avesse assicurato che non avrebbe colpito gli abitanti, furono uccise oltre 3000 persone[14]. Dopo la conquista di questi territori da parte dei turchi selgiuchidi, si iniziò a parlare di rapine, sequestri, uccisioni, stupri a danno dei pellegrini diretti in Terra Santa e di come questi fossero costretti a viaggiare sotto scorta armata (cosa assai improbabile, vista l'impossibilità che uomini armati non musulmani si aggirassero per le strade di una qualsivoglia contrada islamica). Certi storici credono tuttavia che le vessazioni subite dai pellegrini siano state ingigantite e moltiplicate con l'obiettivo di stimolare una convinta reazione armata dei cristiani latini, e che fosse in realtà la montante potenza selgiuchide a spaventare il mondo cristiano che, dopo la disastrosa disfatta di Romano IV Diogene a Manzicerta (conseguenza del grave periodo di crisi che stava attraversando l'impero bizantino), temeva che si stesse profilando un terribile cataclisma anche per la Cristianità latina e che il Sultanato selgiuchide avrebbe potuto realizzare la conquista islamica dell'Europa. Il nuovo imperatore bizantino Alessio I, nonostante le divergenze tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma, mise da parte l'orgoglio e si decise a chiedere aiuto per la minacciata sorte della Cristianità d'Oriente. Fu così che, come risposta, nacque la Prima Crociata.

Situazione in Europa [modifica]

Guglielmo Embriaco detto "testa di maglio" fu un crociato inviato in Terra Santa dalla Repubblica marinara di Genova. Così è raffigurato sul frontale di Palazzo San Giorgio

Intanto la società europea dell'XI secolo era in piena crescita economica e demografica, secondo una tendenza iniziata tra il VIII e il IX secolo. Il mondo europeo aveva saputo riorganizzarsi di fronte agli attacchi subiti dalle invasioni di musulmani, ungari, normanni ecc. Esisteva tuttavia un certo disagio sociale dovuto all'organizzazione feudale che faceva sì che i figli cadetti delle famiglie nobili avessero come uniche scelte le carriere o ecclesiastica o militare; c'era quindi una forte fetta di nobili armati in cerca di fortuna che, soprattutto dalla Francia, rispose con zelo alle richieste di aiuto provenienti dai regni cristiani di Leon, Castiglia, Navarra e Aragona impegnati nella Reconquista.

La stessa Chiesa romana, impegnata nella lotta per le investiture contro gli Imperatori germanici, incoraggiò la guerra come una reazione giusta all'invasione musulmana sollecitando l'aiuto della cavalleria europea; tuttavia, a differenza degli islamici, non erano garantiti benefici della guerra santa ai soldati morti in battaglia. L'intervento della Chiesa aveva anche la finalità politica di trovare appoggi e farsi riconoscere come fonte di legittimità a governare in un momento in cui era fortemente provata e messa in discussione dal contenzioso con l'Impero e dall'applicazione della riforma gregoriana.

Anche al di fuori della penisola iberica si registrò un rinnovato slancio, da parte del mondo occidentale, per la riconquista dei territori occupati, come in Sicilia, nelle Baleari e in brevi incursioni in Corsica e Sardegna. Spesso il motore di queste spedizioni erano le città portuali affacciate sulle coste tirreniche, adriatiche, provenzali e catalane, che accanto a un commercio col mondo bizantino e arabo (nonostante i divieti), accostavano dall'XI secolo brevi spedizioni militari, come quella unita di Genova e Pisa nel 1015-1016, il sacco di Palermo da parte dei pisani nel 1067, o quello della città tunisina di al-Mahdiya, sempre ad opera dei pisani (1087). Il successo di queste spedizioni venne preso a modello per le successive grandi imprese in Oriente.

L'esercito Crociato [modifica]

Goffredo di Buglione e alcuni cavalieri della prima crociata

All'appello del Papa Urbano risposero nella prima crociata 40.000 persone di cui solo una piccola minoranza erano cavalieri. Tuttavia, a differenza di quanto si pensa oggi, non partirono solamente avventurieri in cerca di fortuna o cadetti delle famiglie che non avevano diritto alla successione, la maggior parte dei cavalieri crociati erano infatti signori nobili che vendevano i propri possedimenti per permettersi l'armatura e il viaggio in Oriente per sé e per i propri cavalieri fedeli: a partire per la croce non fu chi aveva meno da perdere ma chi possedeva di più. Anche se qualcuno sperava di fare bottino, il papa aveva decretato che le conquiste sarebbero spettate al “principe” (Alessio Comneno nel caso della prima crociata).

Per capire cosa spingeva migliaia di cavalieri a intraprendere una missione tanto onerosa e pericolosa non bisogna dimenticare che si trattava di uomini medioevali, i quali la pensavano in maniera molto differente dall'uomo moderno e soprattutto avevano un fortissimo senso religioso. Nell'XI la cultura dei nobili prevedeva la dimostrazione pubblica di pietà; inoltre essi erano conosciuti tanto per le imprese militari quanto per l'amore che dimostravano verso Dio: era dovere di un aristocratico rendere i frutti dei suoi servigi alla Chiesa e al popolo. La crociata era un ulteriore mezzo per dimostrare la loro carità: difendendo la Chiesa, difendevano tutto quanto vi era di buono e giusto nel loro mondo. Si può quindi affermare che (secondo quello che sappiamo sulla mentalità medievale) la maggior parte dei Crociati era spinta dal sincero amore di Dio. Anche tra i ranghi inferiori è probabile che prevalessero i principi che muovevano i signori più ricchi ma non vi è dubbio che chi aveva di meno sperava di guadagnarci qualcosa.

Lo stesso Pontefice pensava alla Crociata non come ad una guerra santa, ma come a un dovere caritatevole nei confronti dei confratelli orientali ed era giusto che costoro si adoperassero per rivendicarne le terre e le proprietà. Non va comunque dimenticato che da circa mezzo secolo si era avuto il famoso scisma tra Chiesa d'Occidente e d'Oriente e che, avendovi il romano pontefice notevolmente perso in influenza (in quanto il patriarca di Costantinopoli aveva rivendicato l'indipendenza del clero bizantino) egli ebbe anche ragioni prettamente politiche per voler aiutare l'Imperatore Alessio I, sperando che ciò avrebbe agevolato un riavvicinamento (che, effettivamente, in un momento iniziale ci fu, prima che i bizantini si accorgessero che i crociati apportavano più danni che benefici).

Urbano II sapeva però che non era sufficiente fare appello al cuore degli uomini per convincerli all'azione; così la riconquista della terra Santa (che fino a quel momento era stata considerata nient'altro che una conseguenza) divenne l'obiettivo ufficiale della missione.

Tuttavia questo idealismo non fece comportare i crociati in modo particolarmente pio durante il viaggio: erano guerrieri devoti ma altrettanto arroganti e brutali, e non mancarono atti di violenza e azioni riprovevoli. Chi voleva intraprendere il viaggio doveva fare "il voto del pellegrino" "prendendo la Croce". Quindi con mezzi propri doveva raggiungere la terra Santa; il suo giuramento non era vincolato né al papa né a nessun altro uomo, ma direttamente al Signore. La massa di pellegrini quindi erano tutt'altro che un esercito; l'unico aspetto che la teneva coesa erano i legami feudali e familiari al suo interno anche perché, il titolo di “comandante in capo”, era solamente onorario. Ciò rese estremamente difficile mantenere il controllo della spedizione: un esercito crociato era in realtà una massa organizzata di soldati, sacerdoti, servi e altri individui al seguito che si dirigevano più o meno nello stesso posto per scopi analoghi. Una volta partito, non lo si poteva più controllare.

Prima crociata [modifica]

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi le voci Prima crociata e Guerra tra Crociati e Selgiuchidi.
I quattro comandanti della prima crociata, tra cui Goffredo di Buglione

La richiesta di aiuto che l'imperatore bizantino Alessio Comneno aveva inviato tramite una lettera al conte di Fiandra, tornò a favore di Papa Urbano II, il quale, secondo il cronista Bernoldo di Costanza, avrebbe fatto riferimento esplicito all'aiuto da portare ai Cristiani d'Oriente nel concilio di Piacenza, precedente l'accorato appello finale di Clermont. Quindi, anche se fu l'imperatore bizantino a domandare aiuto, l'appello alle Crociate fu fatto ufficialmente per salvare i cristiani d'Oriente dalla loro situazione drammatica[15].

Quando Papa Urbano II indisse un pellegrinaggio armato al concilio di Clermont (1095) al grido di Deus vult ("Dio lo vuole"), nessuno pronunciò la parola "crociata", si pensava infatti ad una sorta di pellegrinaggio di massa a Gerusalemme[15][16]. La croce rossa che i pellegrini portavano sul mantello infatti stava a significare che erano pronti a versare il loro sangue per un viaggio redentore ma di certo nessuno si aspettava una simile risposta da parte dei fedeli. Papa Urbano II sperava, una volta aiutato Alessio Comneno, di ristabilire la sua autorità in una nuova riconciliazione e riunificazione tra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente nella lotta contro i musulmani.

La reazione del popolo fu però incontrollata e molti partirono immediatamente, male armati e poco equipaggiati. Tale spedizione, che sarà poi chiamata "crociata dei Pezzenti", fu guidata da Pietro l'eremita e si concluse con il massacro delle forze cristiane ad opera dei musulmani presso Nicea. Oltre a mancare completamente l'obiettivo della Terra Santa, degenerò nei primi pogrom contro gli Ebrei.

La prima vera crociata, detta "dei nobili", avvenne solo due anni dopo e fu guidata fra gli altri da Goffredo di Buglione. Essa portò i maggiori successi dal punto di vista territoriale, i terreni conquistati però non furono tutti restituiti a Bisanzio, ma alcuni portarono alla nascita degli stati crociati d'Outremer. Tuttavia spesso le azioni dei crociati si riveleranno incontrollate e fin dal loro arrivo a Gerusalemme nel 1099, dopo aver proceduto ad un massacro degli abitanti della città (cosa tuttavia che non differiva dalle abitudini dell'epoca), gli storici parlano di soprusi non solo nei confronti dei musulmani, ma anche nei confronti degli ortodossi.

Crociata del 1101 [modifica]

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La cosiddetta "crociata del 1101" fu in realtà l'insieme di tre diverse imprese, organizzate in seguito al successo della prima crociata, alla fine della quale si era levata la richiesta di rafforzare il neonato regno di Gerusalemme, cosicché papa Urbano II lanciò l'appello per una nuova crociata.

Seconda crociata [modifica]

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi le voci Seconda crociata e Guerra tra Zengidi e Crociati.

Fu solo con la seconda crociata (1147-1149), causata dalla caduta di Edessa (1144), che il fine bellico divenne esplicito.

Il teologo san Bernardo di Chiaravalle teorizzò, in risposta alla difficoltà per un cristiano di conciliare la guerra non difensiva con la parola di Dio, la teoria del malicidio: chi uccide un uomo intrinsecamente cattivo, quale è chi si oppone a Cristo, non uccide in realtà un uomo, ma il male che è in lui; dunque egli non è un omicida bensì un malicida.

Questa episodica giustificazione, in risposta a un espresso quesito dei cavalieri templari, non assunse tuttavia il carattere di giustificazione generalizzata di quella che fu, in effetti, una campagna per la ripresa di Antiochia.

La seconda crociata venne condotta con un'eccessiva spavalderia dal re di Francia Luigi VII, alleato al solo Corrado III del Sacro Romano Impero, ignorando le possibili alleanze con alcuni potentati musulmani che avrebbero permesso di riprendere la contea di Edessa. Egli, ascoltando le perorazioni di alcuni cattivi consiglieri abbagliati dalle ricchezze di Damasco, cinse d'assedio la capitale siriana senza nemmeno cercare l'aiuto del re normanno di Sicilia né del basileus bizantino, riportando una disastrosa sconfitta nel 1148.

Esempio di arte crociata: chiesa di sant'Anna (1140 circa) a Gerusalemme

Terza crociata [modifica]

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La terza crociata (1189-1192), detta anche la "crociata dei Re", fu un tentativo, da parte di vari sovrani europei, di strappare Gerusalemme e quanto perduto della Terra Santa, al Saladino. Vi parteciparono Federico Barbarossa, che morì in Anatolia pare per un arresto cardiaco o annegò in un fiume in Cilicia chiamato Salef a causa della pesantezza della sua armatura, mentre lo guadava, Filippo II Augusto, re di Francia e Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra.

Grazie agli sforzi di Riccardo d'Inghilterra, fu ottenuto almeno un risultato positivo, la riconquista di San Giovanni d'Acri, che divenne la nuova capitale del Regno. Dopo la battaglia di Arsuf fu siglata col Saladino la pace di Ramla del 1192.

Quarta crociata [modifica]

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La quarta crociata fu indetta da Papa Innocenzo III all'indomani della propria elezione al soglio pontificio nel 1198, e fu diretta contro i musulmani in Terra Santa. Nella prima enciclica di Innocenzo III dell'agosto 1198 la liberazione di Gerusalemme era vista come necessaria.

I crociati in realtà non arrivarono mai in Terra Santa, perché l'astuto doge veneziano Enrico Dandolo sfruttò le divisioni nella dinastia regnante bizantina per catalizzare tutte le forze crociate, riunitesi a Venezia in attesa di imbarco, nell'impresa della conquista di Costantinopoli. L'impero bizantino venne spartito tra i crociati, con un'importante parte e le principali piazzeforti commerciali a Venezia stessa, dando inizio al cosiddetto impero latino di Costantinopoli, uno dei momenti più gravi dell'intera storia bizantina.

Quinta crociata [modifica]

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Sotto il pontificato di papa Innocenzo III il Concilio Lateranense IV aveva deciso d'indire di una nuova crociata, la quinta (1217-1221). Federico II, in occasione della sua incoronazione a Rex romanorum, nel 1215, giurò solennemente di prendervi parte, ma poi rimandò più volte, il che provocò tensioni con il papa. Papa Onorio III stabilì infine che la crociata dovesse aver inizio il 1º giugno 1217. Si tentò una nuova via, quella di prendere il porto strategico di Damietta in Egitto e scambiarlo a giocoforza con Gerusalemme, ma la spedizione si rivelò un fallimento. Vi partecipò anche san Francesco d'Assisi.

Sesta crociata [modifica]

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Dopo il fallimento della quinta crociata, l'imperatore Federico II, con il trattato di San Germano (1225), si era impegnato a guidare la sesta crociata in Terra Santa ma, per motivi politici, ne aveva più volte ritardato l'inizio. Quando nel 1227, a causa di una malattia, fu costretto a rimandare la crociata ancora una volta, venne scomunicato da papa Gregorio IX. Ciononostante, l'anno successivo, Federico si recò a Gerusalemme, mentre il Papa lo definiva "Anticristo".

Questa crociata fu l'unica pacifica: Federico, che era in buoni rapporti diplomatici col sultano e, avendo sposato l'erede alla corona di Gerusalemme Isabella di Brienne, si presentò come valido successore al titolo regale e trattò col sultano la cessione di Gerusalemme, che venne accordata a patto che la città rimanesse smantellata e sguarnita, praticamente indifendibile.

Settima crociata [modifica]

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La settima crociata si svolse fra il 1249 e il 1250. Fu diretta contro l'Egitto e guidata dal re di Francia Luigi IX il Santo. È probabile che l'invasione di Napoli e Palermo da parte di Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX, fosse finalizzata a creare una "testa di ponte" franca per le crociate.[15]

Ottava crociata [modifica]

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L'ottava crociata fu anch'essa diretta contro i domini musulmani in Africa settentrionale e fu sempre guidata da Luigi IX.

Nona crociata [modifica]

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La nona crociata è solitamente considerata l'ultima crociata medievale ad essere stata condotta contro i musulmani in Terra Santa. La maggior parte degli storici, tuttavia, non la considera come una crociata a sé, ma come la seconda parte dell'ottava.