martedì 26 gennaio 2010

MOGGI PRENDE A CALCI LA JUVE (MA PREPARA IL RITORNO) – “TORNEREI DI CORSA CON ANDREA AGNELLI. SQUALIFICATO FINO AL 2011? NESSUN PROBLEMA, POTREI FARE IL CONSULENTE” - “BLANC PENSAVA DI SAPERE TUTTO DI CALCIO. ELKANN SA MENO DI LUI. IN 3 ANNI HANNO SPESO 250 MILIONI. CON NOI LA SOCIETÀ NON HA CACCIATO UN SOLDO” “BETTEGA? NON LO STIMO”…

Filippo Grassia per "Il giornale"
vlj38 triadejuve moggi giraudo bettega Moggi e Giraudo

Juventus sconfitta per la sesta volta nelle ultime otto partite, sesta in classifica, a quattro punti dalla Champions League, senza gioco e identità. Cosa succede, Moggi?
«Succede quello che avevo previsto da tempo. La società non esiste, guidata da gente che non sa di pallone. E la squadra fa acqua. Dopo un anno che era arrivato a Torino, Blanc ebbe il coraggio di dire che il calcio è più semplice di quanto pensasse. Poveretto. Cosa ne sa lui di questo mondo?».
GIANNI AGNELLI A SPASSO - Copyright Pizzi

L'arrivo di Bettega non ha prodotto buoni risultati?
«E come poteva? Ci vorrebbe un progetto che non c'è. E poi lui non è adatto a tenere il timone di un'azienda. È un bravo ragazzo, un operativo. Se lo mandi in giro fa il suo dovere. Ma ha bisogno di qualcuno che gli stia sopra, come ai tempi miei e di Giraudo».
y 2bag41 john elkann

Ma si aspettava che rientrasse nello staff?
«Non lo stimo più, Bettega. Anzi, sa cosa le dico? Non lo saluterò neanche se me lo ritrovassi a un passo. Ma come? Al Tribunale sportivo di Roma gli azionisti, certi azionisti almeno, ci scaricano e ci tirano addosso. Alla Procura di Torino ci denunciano per infedeltà patrimoniale. E lui rientra in società, dentro questa società? Ci vuole anche la faccia come il c... per richiamarlo. Bettega farà la fine di Ferrara, glielo garantisco. A Ciro gli hanno fatto accettare un gruppo senza capo né coda, a lui rinfacceranno di non aver rimesso a posto la squadra».

E Secco, che lavorava con lei? Non va bene neppure lui...
«È fuori posto, non è un direttore sportivo, di quelli che sanno fare le squadre. Lui può fare il team manager, lavorare dentro lo spogliatoio, fare da intermediario fra società e squadra. Allora sì che potrebbe essere utile».
Jean Claude Blanc e Alessio Secco

Cosa fare allora se il manico non funziona?
«Bisognerebbe cambiare la dirigenza. Blanc è al posto sbagliato. E John Elkann sa di calcio ancora meno. In 3 stagioni hanno speso 250 milioni, lo raccontano gli aumenti di bilancio. Antonio (Giraudo, ndr) ed io non abbiamo fatto spendere una lira o un euro agli azionisti in oltre 10 anni di onorata attività. Su questo nessuno può permettersi di dire il contrario».

Scusi l'insistenza. E come si può modificare un consiglio d'amministrazione?
«A metà degli Anni '90, Gianni Agnelli lasciò il testimone al fratello Umberto. Adesso John Elkann dovrebbe fare altrettanto con Andrea Agnelli, il figlio di Umberto e Allegra. Lui sì che conosce i meccanismi del calcio, è sempre stato vicino al padre, ci ha accompagnato in tante situazioni. Con lui tornerei di corsa nella Juventus per rifare una grande società e una grande squadra, in qualsiasi momento. Ci saranno novità dopo il processo di Napoli».
4sm33 ciro ferrara

Ma lei è squalificato fino al 2011.
«E cosa significa? Vorrà dire che ricomincerei da consulente di Andrea. Dov'è il problema?».
ANDREA AGNELLI

E se oggi la richiamasse Blanc?
«E chi gli risponderebbe? In un'intervista a Le Monde il signor Blanc ha raccontato che già nel 2004 John Elkann gli aveva detto di voler fare fuori la vecchia guardia e quindi di tenersi pronto. L'affermazione fa scopa con la testimonianza di un generale della Finanza che in tempi non sospetti mi confessò: guarda che Montezemolo ne dice di tutti i colori su di te e Giraudo, vi vogliono togliere di mezzo. Alla fine ne hanno approfittato tutti. Ma chi fa del male, si ritroverà in mezzo al male».

Nel sistema questa Juve conta qualcosa?
«Il potere è in mano alle milanesi, l'avevo detto tre anni fa che sarebbe finita così. Fate attenzione al volemose bene di Galliani. Quando Adriano dice a Blanc: siete bravissimi, intende dire, siete co... Lui il giochino lo conosce alla perfezione. E l'Inter s'è trasformata in una potenza quando ha acquistato Ibrahimovic dalla Juventus per 25 milioni, salvo venderlo praticamente a 100. Questo volevano e questo hanno ottenuto».
JUVE DIEGO

Intanto i tifosi contestano a muso duro. L'Europa è così a rischio?
«La squadra non è forte come si pensava la scorsa estate, ma può ancora farcela a guadagnare i preliminari di Champions League, a patto che lasci da parte ogni ambizione e giochi con umiltà».

Come si comporterebbe con Ferrara? Lo caccerebbe o no?
«Se fossi nella Juve, lo lascerei al suo posto perché sarei in grado di guidarlo io. Ma io non ci sono. Lascerei da parte le situazioni a tempo, tipo Zoff, che è fermo da troppi anni. Hiddink va benissimo. A meno di aspettare Wenger, il manager dell'Arsenal, un grande. Mi piace anche Magath».

Sbagliato cacciare Ranieri?
«Ma certo. Claudio è una persona seria, competente, conosce il calcio in profondità. Di più non poteva fare. Ma quelli che pensavano di vincere tutto e subito l'hanno attaccato e fatto attaccare a piè sospinto. Con il risultato di mettere Ferrara in panchina, un debuttante. Ma si può?».

Il Milan s'è affidato a Leonardo...
«Ma i suoi dirigenti l'hanno sostenuto sempre e comunque. Anche nei momenti peggiori».
Roma - Juve

La Juve ha sbagliato mercato?
«Certo. Di tutti quanti avrei preso solo Cannavaro che, a essere sincero, mi sta deludendo. Vuol dire che la carta d'identità vale qualcosa. Non avrei mai preso in considerazione Grosso, un mezzo giocatore, non so perché Lippi ci tenga tanto. Su Felipe Melo e Diego hanno sbagliato valutazione.

Pensavano che il brasiliano fosse un regista? Ha dovuto dire lui che è un mediano difensivo. Diego non ci azzecca nulla in questa squadra. Nel Werder giocava da seconda e qualche volta anche da prima punta, qui sta a 30-40 metri dalla porta, non gli va di prendere colpi alle gambe. Vi raccomando poi Poulsen, uno come lui è da Juve?».

Consigli per gli acquisti?
«Ne parleremo in futuro. Nel frattempo Blanc deve chiedere a Grande Stevens, uno dei più illustri legali al mondo, di invitare Mezzaroma, il nuovo proprietario del Siena, a rimandare indietro un giocatore che è della Juventus: Paolucci. Una cortesia costata 800mila euro. Con il cavolo che noi buttavamo via i soldi così».



[25-01-2010]
by dagospia

domenica 24 gennaio 2010

intervista a luciano moggi

http://www.ju29ro.com
Redazione Sabato 10 Gennaio 2009 23:59
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Luciano Moggi
E' da tempo che volevamo fare un'intervista a Luciano Moggi. Abbiamo volutamente aspettato la prima sentenza dei procedimenti che lo riguardano. Da tifosi della Juventus sappiamo bene che Moggi innocente vuol dire Juventus innocente.
Non è stata un'assoluzione, ma è una condanna che ha il sapore di una vittoria. Soprattutto per tutto quello che era stato detto e scritto su Moggi e la GEA.
Ieri, subito dopo la sentenza del Processo GEA, uno dei nostri redattori lo ha raggiunto al telefono mentre tornava a casa:

"Moggi: 6 anni". Che pensa del giornale rosa e dei suoi titoli a nove colonne?
Penso che presto smetteranno di chiamarla Moggiopoli, tra l'altro creata da loro, e faranno una bella figura a chiamarla Farsopoli.
Vede, sin dall'inizio di queste tristi vicende, ho sostenuto l'esistenza di un disegno criminoso, atto a far scomparire Moggi e solo Moggi dal sistema e, in parte, ci sono riusciti, grazie anche alla complicità dei media e di quel giornale rosa in primis.

Non le pare di notare un filo di aria nuova sui media? Stanno cominciando a capire che la 'loro' cupola sta scricchiolando?
Come sostengono i miei avvocati, questa è una vittoria, perché non esisteva nessuna associazione a delinquere, cosa che verrà provata anche a Napoli, vista la stretta "parentela" tra i due procedimenti, avendo avuto gli stessi inquirenti e le stesse prove. E' chiaro che anche i media dovranno adeguarsi se vorranno essere vicini alla realtà.

La battaglia per venire a capo di Farsopoli è ancora lunga e noi e i nostri lettori, juventini veri, facciamo affidamento sulla sua voglia di battersi. Qual è oggi il suo stato d'animo?
Direi buono, in sostanza, seppure con una condanna alla quale mi appellerò immediatamente. E’ stato sentenziato che non esisteva un sistema, quello che da sempre ho sostenuto. Questo è importantissimo.

Direttore, Lei è stato condannato per violenza privata nei confronti di Amoruso e Blasi. Ci può dire, ora, che tipo di "violenza" ha perpetrato nei confronti dei due per essere condannato?
Sono stato condannato nelle vesti di Direttore Generale della Juventus, non come collaboratore GEA. Nei confronti di Blasi perché il suo presunto agente, tale Antonelli, mi chiamò per un adeguamento del contratto al giocatore che veniva da 8 mesi di squalifica per doping. Per questo motivo dissi al giocatore di non farmi più telefonare da questa persona, che tra l'altro non conoscevo, e che avremmo parlato di adeguamento solo in un secondo momento, cioè dopo che avesse giocato e meritato. Ricordo a tutti che stiamo parlando di un calciatore sotto contratto, per cui niente è dovuto. Vorrei precisare che in tutto questo, Blasi, non c'entra; era il suo presunto agente che pressava per chiedere soldi alla Juventus.
Per Amoruso, il discorso cambia: il suo contratto era di 3,5 miliardi di vecchie lire all'anno. Dopo una stagione di sole 9 presenze e nessuna rete, decidemmo in sintonia con l'allenatore (Ancelotti) di cederlo in quanto non c'era spazio per lui nella Juventus, che aveva operato altri acquisti; ci fu una telefonata nella quale gli prospettai Perugia; lui non voleva saperne e fu allora che gli feci questa violenza privata: gli dissi che sarebbe andato in tribuna, e che, quindi, non avrebbe più giocato. Ma vi rendete conto?

Non trova strano che l'abbiano condannata per violenza su Blasi, quando questa non è stata confermata dal giocatore che, a sentire quello che ha detto lo stesso pm, rischia anche l'imputazione per falsa testimonianza?
Ci sono molte cose strane da due anni a questa parte e voi, meglio di chiunque altro, ve ne siete accorti.

La maggior parte dei giornali e dei siti web hanno scritto che Lei potrebbe non scontare la pena grazie all'indulto. Vuole spiegare perché questa affermazione è una grave menzogna? E secondo Lei tutti i giornalisti sportivi sono a digiuno di Procedura Penale o qualcuno è in malafede?
E' una grave menzogna perché io sono incensurato, cioè in 71 anni non ho mai avuto una condanna, quindi, come tutti i cittadini italiani sono beneficiario di 2 anni della cosiddetta "condizionale"; il giudice è stato chiaro nel leggere la sentenza, 1 anno e 6 mesi con i benefici di legge, pena sospesa; l'indulto lo chiede il difensore, che non lo ha mai chiesto e nè io voglio che lo chieda, essendo innocente su tutti i fronti. Nella migliore delle ipotesi i giornalisti in questione sono "disinformati". Ma in alcuni casi c’è il sospetto che lo scrivano apposta.

Come pensa avrà preso la sentenza Franco Baldini, le cui accuse si sono sgretolate miseramente?
Penso male, dato che presto lo denuncerò sia penalmente che civilmente.

Visto che durante il dibattimento Baldini e il Capitano Auricchio sono stati accusati, dalle difese, di aver detto il falso, ci sarà un seguito con qualche denuncia?
L’ho già detto, Baldini sarà denunciato. Certe cose devono essere chiarite in maniera ufficiale.

Cosa pensa di quelli che dicevano che la GEA tramite Lei e il figlio di Lippi condizionava le convocazioni in nazionale?
Che erano e che sono dei poveracci, se pensate che tali affermazioni erano riferite a Chiellini. Lippi aveva visto lungo, dato che ora penso sia uno dei difensori più forti al mondo.

E di quelli che continuamente parlavano dei condizionamenti che lei tramite la GEA avrebbe esercitato sul mercato dei calciatori?
Vengo condannato per l'esatto contrario; Amoruso era della GEA ed io non guardavo in faccia a nessuno, nemmeno a mio figlio. E proprio voi del Team mi avete fatto notare come in alcuni casi, per proteggere le trattative della Juventus, ero pronto anche a mentire a mio figlio stesso, come nel caso Ibrahimovic. Ci sono telefonate su questi aspetti che non sono mai state sottolineate abbastanza.

Si è poi spiegato il perché della presenza di Zeman come testimone d'accusa?
Per accusare Moggi tutto fa brodo. Anche chiamare in causa un allenatore che, nonostante io non sia più nel mondo del calcio, non mi pare stia facendo sfracelli, anzi.

Miccoli: dato che su di lui le accuse sono cadute, non si pente di non aver usato "il pugno duro" per davvero?
Di Miccoli preferisco non parlare, si commenta da sè.

Il presidente della Juventus, Cobolli Gigli, commentando la sentenza Gea, ha dichiarato di aspettare la sentenza del processo di Napoli per, eventualmente, chiedere la restituzione degli scudetti revocati. Che ne pensa?
Direi meglio tardi che mai. Fossi al suo posto avrei già fatto le denunce da tempo; non so ora quale valenza possano avere ma combatterei per la restituzione di quei 2 scudetti che sono stati vinti sul campo da una squadra che era, e sarebbe ancora oggi, tra le più forti del mondo.

Direttore, non è curioso che di tutti i cognomi celebri presenti nell'organigramma della Gea, gli unici due condannati in questo processo portino il cognome Moggi, peraltro uno dei due, cioè Lei, estraneo alla società?
Come ho già detto si voleva eliminare Moggi e basta; anche a Napoli vorrebbero la stessa cosa, ma i miei avvocati, dei veri leoni, chiamano "porcate" le cose fatte ai miei danni.
La cosa che mi inorgoglisce di questa sentenza è che ha dimostrato che anteponevo gli interessi della Juventus a quelli di mio figlio; avrei potuto dare soldi a tutti, tenere dei bidoni, invece per il bene della Società mi è toccato pure essere messo alla sbarra e condannato.

Direttore ci promette che non mollerà mai?
Su questo ragazzi potete giurarci. Io non mollerò mai! D’altronde ho sempre detto ai giocatori che le partite bisogna giocarle fino alla fine! Adesso tocca a me giocare la partita più importante.

by http://www.ju29ro.com

Moncalvo: "Ritorno Andrea Agnelli? John ha bisogno del suo 10%"

Il noto giornalista a "Tutti pazzi per la Juve" su RADIO ERRE 2: "A breve ci sarà la sentenza che riguarda Gabetti e Grande Stevens, per il cosiddetto "equity swap" e il giovane Elkann teme di perdere il controllo dell'accomandita di famiglia".
26.12.2009 09.00 di Redazione TuttoJuve articolo letto 2058 volte
Fonte: http://stefanodiscreti.blogspot.com/

Tuttojuve.com ha trascritto integralmente l'intervento del noto giornalista GIGI MONCALVO, sulle frequenze di RADIO ERRE 2, nel corso della popolare trasmissione radiofonica "TUTTI PAZZI PER LA JUVE", condotta dal nostro redattore Stefano Discreti, dall'opinionista televisivo Luigi Piccolo e dalla Combriccola romana.

Buona sera Moncalvo, benvenuto ai microfoni di "Tutti pazzi per la Juve".
"Grazie, titolo azzeccato non potrebbe esserci".

Che ci racconta di bello?
"Io sono abbastanza stupefatto, come immagino tantissimi di voi, da questa notizia della visita di Andrea Agnelli a Vinovo"

Era la domanda più gettonata del pubblico, anche alla luce del tuo libro "I lupi e gli Agnelli", che tratta appunto "Ombre e misteri della famiglia più potente d'Italia". Nella settimana di Juventus-Catania, si è rivisto a Vinovo, dopo tre anni, Andrea Agnelli, quasi sottobraccio con il cugino John Elkann. Ha rilasciato queste dichiarazioni: "Io credo nel progetto, credo in questa Juve, poi magari in futuro chissà...". Tu che ha seguito costantemente le vicende della Famiglia Agnelli, com'è possibile questo riavvicinamento dei cugini? Cosa c'è dietro?
"E' inspiegabile. O meglio, le spiegazioni possono essere numerose. Proviamo a elencarle. In questo momento si sono rovesciate le cose, cioè John Elkann ha bisogno di Andrea Agnelli. E dopo averlo snobbato, ignorato, calpestato, sopraffatto - soprattutto attraverso Gabetti e Grande Stevens -, per oltre tre anni, a questo punto ha bisogno di lui. Perchè ha bisogno di lui? Perchè tutti noi i tifosi, subito dopo la debacle contro il Bayern Monaco e tutto quello che ne è derivato, abbiamo cominciato ad invocare due nomi, anzi tre: Moggi, Bettega e proprio Andrea Agnelli. Aspettavamo a invocare il quarto, quello di Giraudo, perchè c'era quell'appuntamento giudiziario del 14 dicembre, con quella sentenza incredibile, che è stata subito strumentalizzata e usata da "La 7" in quella vergognosa trasmissione".

Hai avuto la sfortuna anche tu di vederla...
"No, l'ho registrata e quindi ho avuto modo di vederla con più calma dopo aver letto commenti e tutto il resto. Ho letto il pezzo su Libero del nostro comandante, cioè del nostro direttore Luciano Moggi, e ha perfettamente ragione. Quello che mi è sembrato più vomitevole è stata la telefonata di Sposini. Sposini ha telefonato dicendo: "Io a Moggi gli ho stretto qualche volta per caso la mano, ben prima di sapere che fosse il capo della cupola". Per un giornalista è gravissimo dare delle sentenze prima che ci siano quelle dei tribunali: non solo la prima, ma la terza, quella di Cassazione. E Moggi gli ha risposto molto chiaramente: 'Che strano, ricordo quando Sposini era ospite dell'aereo della Juventus, con il mio benestare. E se ne stava tre giorni - come per esempio per la partita Arsenal-Juventus -, a Londra, tutto spesato dalla società e all'epoca non aveva tante riserve, tante pruderie nei miei confronti'".

Credo che la cosa peggiore che abbiano fatto in quella trasmissione, sia stata quella di presentare in studio una platea di giornalisti abbastanza contrari a Calciopoli, ma non hanno permesso loro - a Beha, a Mughini, ad esempio -, di sviscerare nessun discorso. Piroso è riuscito a piazzare due telefonate in mezzo, quella di Della Valle, che non vedo cosa c'entrasse, e quella di Sposini, che hanno spezzato ogni tipo di ragionamento degli ospiti in studio.
"Sì, ma quelle due telefonate non credo fossero state concordate. I due, secondo me, hanno telefonato proprio vedendo la trasmissione. Sono entrati in diretta e quindi si sono appropriati della scaletta del programma, portando via del tempo e facendo sembrare che la trasmissione fosse seguitissima e suscitasse chissà quale scompiglio. La telefonata di Sposini non c'entrava completamente nulla con questa cosa. C'entravano altre cose. Perchè hanno ignorato la testimonianza del guardalinee Coppola? Perchè hanno ignorato la deposizione di Carraro a Napoli, che si è svolta proprio in quel giorno? Quelle erano due cose fresche da dare, da far vedere, due testimonianze importanti. Il fatto è che quel programma era già pronto, aspettavano la sentenza di Giraudo. E avrebbero dato comunque quel programma, sempre con quel taglio lì. Se Giraudo fosse stato riconosciuto innocente e non avesse avuto quella condanna, ricordiamo di primo grado, avrebbero usato quel filmato per dimostrare... 'ma che sentenza a Napoli? Ma che vergogna? Nonostante tutte queste prove'. Ma la cosa più vergognosa sono i filmati dati dai carabinieri e dalla magistratura. Non c'è niente di male che Moggi si sia commossa durante l'interrogatorio".

Ha visto i Carabinieri come sono stati ringraziati alla fine? Il maggiore Auricchio presentato come lo Sherlock Holmes dell'Arma dei Carabinieri. Un uomo che ha dovuto ammettere in un processo che si frequentava assiduamente con l'ex direttore sportivo della Roma e che ha delle accuse alle spalle abbastanza pesanti. E' stato qualcosa di veramente agghiacciante.
"Andate a vedere una cosa su internet, è molto semplice ed è un passaggio che viene sempre dimenticato. Cercate il braccio destro di Borrelli, cioè l'uomo che doveva compiere le indagini, chiamiamole così, ai tempi di Calciopoli. Se ricordate, il professor Guido Rossi nominò Borrelli, capo dell'Ufficio Indagini, ma naturalmente non era Borrelli che andava a fare le indagini, si serviva di un colonnello della Guardia di Finanza, Maurizio D'Andrea, al quale si era già affidato ai tempi di tangentopoli. E tal Maurizio D'Andrea, quando è finita quella cosiddetta inchiesta, che cosa è andato a fare secondo voi? Si è dimesso dalla Guardia di Finanza ed è stato assunto da Telecom Italia - andate a vedere su internet -, come uno dei massimi dirigenti che si deve occupare della intelligence, cioè dello spionaggio interno ed esterno di Telecom. Lui deve riferire solo al presidente. Pensate un po'! Quello che ha condotto per conto di Borrelli e Guido Rossi la cosiddetta inchiesta di Calciopoli si è addirittura dimesso dalla Guardia di Finanza per andare a lavorare nell'organigramma di Telecom Italia. Lo trovate al numero tre o al numero quattro, come capo dello spionaggio. Ha preso il posto di Tavaroli, pensate un po'. Sono tutti senza ritegno, senza ritegno! E naturalmente "La7", che è di proprietà di Telecom Media, non ne ha parlato di questo particolare".

Il fatto che non abbiano parlato di quello che sta venendo fuori dal processo di Napoli è veramente agghiacciante. Hanno nascosto delle testimonianze pesantissime e non capisco come si faccia a dire di voler fare informazione.
"Sì, ma prendiamo anche la Rai. Ve la ricordate quella trasmissione che si chiamava 'Un giorno in Pretura'? Vi ricordate quando filmarono e fecero vedere per ore tutte le sentenze del processo sul doping? Vi ricordate poi come l'hanno sintetizzato? Dicendo che la Juve aveva avuto la prescrizione, che non era vero che era stata assolta ecc.. Ecco, dove sono finite le telecamere di 'Un giorno in Pretura'? Non sarebbero da utilizzare anche al processo di Napoli, giorno per giorno, per avere un documento visivo, importante, da tenere in archivio, che possa dimostrare a tutti che cosa hanno combinato?"

Dottor Moncalvo, ma i giornali non ne parlano. Non parlano di tante cose che accadono nel processo di Napoli. Se non fosse per Radio Radicale, non si saprebbe nulla o quasi.
"La deposizione del guardalinee Coppola non l'avremmo mai saputa se non ci fosse stata Radio Radicale".

Sì, ci sono stati trafiletti sui giornali, in mezzo agli annunci delle massaggiatrici.
"Certo, certo. Pensate, la Rai non fa servizio pubblico. Radio Radicale fa servizio pubblico, perchè consente di avere un archivio, una nastroteca che durerà negli anni e che consentirà di attingere alle voci reali di quel processo, alle testimonianze e tutto il resto.
Ma torniamo ad Andrea Agnelli. Adesso, dicevo, è John che ha bisogno di Andrea. Ne ha bisogno per la Juventus, ma soprattutto ne ha bisogno per buttare un po' di fumo a tutti quelli che come noi sono pazzi per la Juve".

Ma perchè Andrea, a questo punto, si presta?
"Ecco, questa è la domanda fondamentale. Secondo alcune indiscrezioni, il giorno prima di andare all'allenamento a Vinovo, Andrea è andato in sede alla Juventus e si è incontrato per un paio d'ore con Blanc. E la scuola di pensiero più diffusa dice che hanno pregato Andrea affinchè tornasse. Ricordiamo che Andrea non riceveva neanche più gli inviti e i biglietti per le partite, nè lui e nè sua madre. Lui sono tre anni che non vede una partita della Juve. L'unica alla quale ha assistito negli ultimi tempi, è stata la partita d'addio di Pavel Nedved. Questo per dirvi che classe e che stile ha il signor John Elkann nei confronti del cugino. In questo lungo colloquio con Blanc, io non so che cosa Andrea Agnelli abbia chiesto o gli sia stato proposto. So solo che secondo me ha fatto un gravissimo errore, quello di andare a togliere le castagne dal fuoco a John. Perchè? Perchè c'è una partita col Catania, ci sono tre settimane di sosta e ad Andrea bastava rimanere seduto sulla riva del fiume e tutti noi lo avremmo portato da Torino a Londra con i cavalli bianchi, la carrozza ed un tappeto rosso. Così ha perso qualche punto. C'è qualche analista finanziario che sta facendo i conti di quello che sta succedendo a Torino. Non dimentichiamoci che Andrea e sua madre hanno il 10% dell'accomandita Giovanni Agnelli, che è una delle cassaforti di famiglia. Il 30% è nelle mani di John e il resto è suddiviso tra tutti gli altri parenti. Il 30% di John, insieme al 10% di Andrea, costituirebbe uno zoccolo duro che consentirebbe con un altro 10,1% di ottenere la maggioranza e il controllo. Perchè John, che fino a poco tempo fa era molto saldo, teme di perdere il controllo dell'accomandita di famiglia? Perchè siamo vicini ad una sentenza molto importante, un'altra di quelle di cui i giornali non parlano mai; ed è il processo che riguarda Gabetti e Grande Stevens, per il cosiddetto "equity swap", vale a dire ciò che è stato nascosto alla Borsa e agli azionisti in una gigantesca operazione finanziaria che ha fruttato oltre 480 milioni di profitto in un colpo solo".

Il tuo libro parla di queste cose. Dove e come si può comprare?
"Il libro si può comprare in libreria a 19 euro. Oppure si può comprare su internet e lì vi arriva nel giro di due giorni, con uno sconto di 2,70 euro. Sono quasi 500 pagine".

E noi su questo libro possiamo trovare tutte queste belle notizie....
"Esatto, capirete perchè Andrea è stato stoppato e non è stato riconosciuto a lui, figlio di Umberto e figlio di Allegra, veramente appassionati tifosi juventini, il diritto - come chiedevamo Giraudo e Moggi - di entrare nel Consiglio di Amministrazione e di avere un ruolo importante. Andrea è colpevole o era colpevole addirittura di essere l'unico maschio in vita che si chiama Agnelli".


Una battuta sulla Juve. Ripartiremo dai giovani?
"Io lo spero, se ce ne saranno ancora di giovani. Vedete, tutti dicono, Ciro Ferrara è un allenatore alle prime armi, ma anche Leonardo è un allenatore alle prime armi. Lui però ha una società vera alle spalle. Nella Juventus, contrariamente a quanto accade nell'Inter, nel Milan, nello stesso Napoli, manca l'identificazione tra colui che firma l'assegno e ripiana i debiti e colui che comanda. Se negli spogliatoi del Napoli si presenta De Laurentiis e dice a Donadoni, fuori dalle scatole, e dice a Marino fuori dalle scatole, può farlo e tutta la squadra in silenzio si mette sugli attenti. Se Moratti o Berlusconi decidono di fare questo, lo possono fare. Da noi, chi è che entrando negli spogliatoi mette tutti sugli attenti e ha la credibilità per poter prendere queste decisioni? Nessuno".(redazione www.tuttojuve.com)



CHI E' GIGI MONCALVO - giornalista, anchor tv e scrittore
Gigi Moncalvo, 57 anni, ex-capostruttura di Raidue e conduttore di "Confronti", è giornalista professionista dal 1976.
Ha lavorato al "Corriere della Sera" come capo della redazione spettacoli e tv, al "Giorno" come inviato speciale, nelle tre reti televisive del gruppo Fininvest per reportage, documentari e trasmissioni giornalistiche (tra gli altri il primo speciale dall'interno della centrale nucleare di Chernobyl e dalla guerra in Afghanistan). Ha condotto per cinque anni i collegamenti internazionali per i programmi di Mike Buongiorno; ha coperto come inviato speciale Fininvest i servizi speciali dall'Unione Sovietica nel periodo di Gorbaciov; ha condotto in studio le prime edizioni dei TG Fininvest: da "Dentro la Notizia" a "Canale 5 News" a "Studio Aperto".
Per due anni è stato direttore del quotidiano "la Padania". Ha condotto numerose trasmissioni presso alcune importanti Tv private ("Vietato Ucciderci", "Silenzio Stampa", "Barba&Capelli"). E' stato dirigente Rai fino al 2008 e ha creato e diretto "Confronti", un programma andato in onda per 115 puntate e per 4 stagioni televisive il venerdì sera su RaiDue.
BIOGRAFIA - Appassionato tifoso della Juventus (e poi della Sampdoria), laureatosi nel 1973 in Scienze politiche con specializzazione Politico-Internazionale all'Università di Genova, centodieci e lode, medaglia d'argento, dignità di stampa per la sua tesi dal titolo: "L'èlite del potere in America" (relatore prof. Giorgio Sola). Moncalvo, che è iscritto all'Albo dei Pubblicisti dal 1969 (a 19 anni, il più giovane del Piemonte), diviene giornalista professionista nel 1976. All'esame di Stato la commissione giudicatrice lo ritiene degno di una menzione d'onore.
Nel 1974 inizia la carriera giornalistica, prima presso "Il Lavoro" (il quotidiano socialista che era stato diretto da Sandro Pertini), poi presso la cronaca de "Il Secolo XIX" di Genova sotto la direzione di Piero Ottone. Nel 1975 passa, chiamato dal direttore Cesare Lanza - che lo aveva apprezzato nel periodo genovese - al "Corriere d'Informazione" di Milano come redattore della sezione politica e della prima pagina. Insieme con Moncalvo, Lanza chiama in via Solferino 28, altri tre "genovesi" che hanno percorso grandi passi nel giornalismo: Massimo Donelli (oggi direttore di Canale 5, ed ex direttore di "TV Sorrisi & Canzoni"), Francesco Cevasco (caporedattore della Sezione cultura del "Corriere della Sera") e il compianto Carlo Brusati, un notissimo critico teatrale scomparso prematuramente. Moncalvo e i tre "genovesi" al "Corriere d'Informazione" lavorano insieme a future star del giornalismo, come Vittorio Feltri, Ferruccio De Bortoli, Gian Antonio Stella, Edoardo Raspelli, allora giovani cronisti.
Nel 1976, Moncalvo sempre in via Solferino, ritorna a lavorare con Piero Ottone, stavolta al Corriere della Sera, occupandosi della sezione politica accanto a Walter Tobagi, Luigi La Spina, Carlo Galimberti, Nicola D'Amico. Al Corriere diventa capo servizio nel 1978 e un anno dopo caporedattore della sezione spettacoli e tv. È del 1980 il breve passaggio a "l'Occhio", diretto da Maurizio Costanzo, in qualità di redattore capo centrale dove rimane per soli tre mesi. Tre anni dopo è prima caposervizio della sezione tv e spettacoli de "Il Giorno" (guidato da Guglielmo Zucconi e Pierluigi Magnaschi) e poi inviato speciale. E' tra i pochissimi insieme a Enzo Biagi, a dar vita a una campagna di stampa a favore dell'innocenza di Enzo Tortora con numerosi articoli e inchieste.
Televisione
Nel 1981 si compie il passaggio dalla carta stampata al piccolo schermo come capo-redattore e curatore del programma "Buongiorno Italia" di Canale 5, diretto da Carlo Fuscagni insieme con Carlo Freccero. Dopo aver lasciato Mediaset (che allora si chiamava Fininvest), Moncalvo torna alla carta stampata, chiamato a "Il Giorno" da Guglielmo Zucconi e Pierluigi Magnaschi. Dopo tre anni come inviato speciale, nel 1985 diventa capo-redattore delle emittenti televisive del gruppo Fininvest - chiamato da Zucconi che nel frattempo aveva lasciato il quotidiano milanese per dedicarsi alla TV - occupandosi di diversi programmi, tra i quali "Monitor" (1985, diretto proprio da Guglielmo Zucconi), gli "Speciali News" delle tre reti (1986), "Dentro la notizia" (una
sorta di telegiornale in differita del 1988, di cui è il conduttore alternandosi con Alessandro Cecchi Paone, Jas Gawronski). Nel 1989 diventa inviato speciale in URSS ai tempi della "rivoluzione di Gorbaciov" e segue gli anni caldi della perestrojka e della glasnost. Nel 1990 viene promosso alla conduzione del TG "Canale 5 News" in alternanza con Cristina Parodi e Alessandro Cecchi Paone e nel frattempo gli viene affidata la responsabilità e la realizzazione dei collegamenti internazionali della trasmissione "Telemike" di Mike Bongiorno.
Dopo aver lasciato Mediaset, si occupa di varie trasmissioni su emittenti regionali o circuiti nazionali, come Retemia (dove conduce tutte le sere in diretta il doppio appuntamento "Vietato ucciderci", 1993-1994), Antenna 3 di Milano (dove conduce "Silenzio Stampa", dal 1994 al 1996), Antenna Tre Nord Est di Treviso (direttore del TG, sul finire degli anni Novanta), Tele Padania (conduttore di "Alta Tensione", nel 2001) e il circuito nazionale Odeon (conduttore di "Sfida Finale" prima, e "Barba e Capelli" poi).
Oltre ad essere dal 2003 opinionista fisso nel programma "Il Processo di Biscardi" su "la 7" prima e su "7Gold" poi, dal 2004 è stato anche autore e conduttore del programma "Confronti", in onda ogni venerdì in seconda serata su Raidue. "Confronti" è andato in onda per quattro anni, centoquindici puntate con oltre duecento ospiti di tutte le parti politiche. L'ascolto-medio è stato di un milione di spettatori, con uno share-medio del 10%. Moncalvo è stato anche dirigente RAI, con la qualifica di capo struttura dell'informazione di Raidue fino al 31 gennaio 2008, prima di dimettersi. La causa delle dimissioni è da ricercarsi nel fatto che il direttore di Raidue, Antonio Marano (Lega Nord), aveva deciso di spostare il programma di Moncalvo dal 3 marzo 2008 dal venerdì al lunedì, dalle ore 23,10 alle ore 0,45, e di ridurlo da 50 a 30 minuti. Tutto ciò senza alcuna motivazione seria e documentata visto che "Confronti" aveva un costo bassissimo (ottomila euro a puntata compresi i costi fissi), era una produzione tutta interna alla Rai (a Milano presso i nuovi studi di via Mecenate 76), aveva buoni indici di ascolto e gradimento, era stata definita ufficialmente una "vera trasmissione di servizio pubblico" sia dal Ministro delle Comunicazioni, on. Paolo Gentiloni, che dal Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza sulle radiotelediffusioni, on. Mario Landolfi.
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Alla fine degli anni Novanta, Moncalvo torna alla carta stampata assumendo la direzione del settimanale "Il Nostro Giornale", nell'ambito di un progetto di marketing di un importante editore nazionale per studiare le potenzialità dell'editoria locale. Nell'agosto 2002 viene chiamato alla direzione del quotidiano "la Padania" di Milano, dove resta fino al maggio 2004. In quel periodo fece clamore la richiesta (luglio 2003) di licenziamento di Moncalvo da parte dell'allora ministro del lavoro, Roberto Maroni, a causa di un documentatissimo e mai smentito articolo riguardante il dicastero del Welfare. Era la prima volta nella storia di una democrazia occidentale che un ministro del lavoro chiedeva il licenziamento di un lavoratore...

ESCLUSIVA MONCALVO: "Giraudo e Moggi, un pericolo per John"

Clamoroso editoriale del giornalista pubblicato sul sito dell'associazione "GiulemanidallaJuve"


Molti tifosi ricordano che Giraudo era in scadenza di contratto, mentre Moggi poteva semplicemente essere licenziato. «Giraudo e Moggi, un “pericolo” per John» è il XXX capitolo del libro mai pubblicato di Gigi Moncalvo, un capitolo che aiuta a comprendere i motivi per cui quei due non potevano essere mandati via in maniera così semplice. Il perché ci fosse il bisogno di colpire Giraudo anche mediaticamente.
I.S.

Per dodici anni la struttura Girando-Moggi-Bettega è rimasta immutata e ha rappresentato il team di dirigenti più preparati del calcio moderno. Umberto aveva voluto e fatto in modo che la Juventus fosse così forte e ben organizzata non solo perché gli era molto cara ma anche perché immaginava che una simile solidità e strutturazione, nel momento in cui suo figlio ne avesse assunto la guida, avrebbe consentito ad Andrea di poterla gestire con tranquillità.
Dopo la morte di Umberto, in ossequio alla fedeltà e riconoscenza verso di lui, Giraudo comincia a preparare il terreno per l’ingresso di Andrea. La Juventus è anche una passione del giovane figlio del Dottore e della vedova, Allegra Caracciolo. Avere un Agnelli di nuovo al vertice della società è importante: Andrea porta il cognome della casa, è figlio di Umberto, è tifoso della Juve, è giovane e intelligente, ha fatto ottimi studi, gode di stima e considerazione, è la persona giusta per dare continuità alla dinastia che ha sempre legato il proprio nome a quello della Juve.
La scelta è ineccepibile, ma le prime mosse di Giraudo sono molto prudenti. Conosce bene i delicati equilibri su cui si reggono i vari rami della famiglia e prevede i contraccolpi e le invidie che potrebbe suscitare un’ascesa troppo repentina di Andrea. Il progetto, su cui Moggi è d’accordo, prevede che il giovane venga inserito nella società gradualmente fin dal 2005 e che poi, a partire dal 2006, assuma ruoli sempre più marcati. Giraudo è consapevole che non c’è niente di meglio dello sport cime trampolino di lancio e cassa di risonanza per un giovane manager da mandare in orbita. Luca di Montezemolo e il suo modo di utilizzare la Ferrari come vetrina è la prova che lo sport, specie attraverso “marchi” famosi, può apre prospettive amplissime in ogni campo.
L’immagine di Andrea può “crescere” moltissimo grazie alla Juventus anche perché Giraudo e Moggi sapranno portare la squadra a grandi successi senza chiedere agli azionisti Fiat o alla famiglia di aprire il portafoglio per finanziare la squadra. Soprattutto, garantiranno ad Andrea la possibilità di prendersi tutti i meriti mentre loro saranno pronti a fare da parafulmine in caso di imprevisti. Una Juve da prima pagina consentirà al giovane Agnelli di essere considerato l’artefice di vittorie e buona amministrazione, di successi e di fortuna, e farlo diventare l’idolo dei quattordici milioni di tifosi che in ogni parte del mondo seguono la Juventus. L’idea è perfetta, ma c’è qualcuno che, dietro le quinte, la intuisce, ne vede le prospettive, non la condivide e quindi comincia a muoversi per ostacolarla e impedirla.
Moggi ricorda che, appena saputa la notizia della morte di Umberto, ebbe questa sensazione: “D’improvviso mi sono sentito più solo. Senza ombrello, senza una luce. Prima l’Avvocato, poi il Dottore: la Juve non sarebbe stata mai più la stessa. Ma anche noi”. La morte di Umberto non lascia “orfani” solo Giraudo, Moggi e la Juventus ma crea all’interno di tutto il Gruppo un immenso vuoto di potere che va colmato al più presto. La scomparsa di Umberto rappresenta la fine della generazione dei fratelli Agnelli. E se non c’erano dubbi, dopo la morte di Gianni, che Umberto sarebbe stato il suo successore alla guida del gruppo, ora ci sono molte caselle da riempire. Non ci sono più a disposizione nomi della generazione di Gianni e Umberto, essendo le sorelle fuori gioco. La decisione di puntare su John, come abbiamo visto, era già stata presa. Qualcuno ha accelerato i tempi e lavorato in questo senso forse anche forzando la situazione senza rispettare le necessarie “procedure” famigliari. E quindi colui che si trova in rampa pronto per essere lanciato in orbita è solo John. Nulla deve ostacolare questo disegno. Qualunque intralcio, grande o piccolo, diretto o indiretto, si presenti sulla strada della leadership di John deve essere abbattuto con la massima decisione.
E’ chiaro che un eventuale entrata in scena di Andrea, per di più col vantaggio indiscutibile di chiamarsi Agnelli contrariamente al cugino, crea notevoli disturbi a tutta l’operazione, anche se si tratta “solo” della Juventus. Bisogna impedire che la popolarità che in un paio d’anni Andrea sicuramente avrebbe raggiunto grazie al calcio lo proietti anche verso altri incarichi all’interno del Gruppo. Non ci sono dubbi che Andrea, sulla scia della Juve, avrebbe potuto diventare un potenziale “concorrente” di John, un ostacolo sul cammino della sua ascesa al potere, creando un pericoloso dualismo in cui due giovani della quarta generazione avrebbero dovuto fare i conti l’uno con l’altro. Tra l’altro uno, Andrea, avrebbe avuto l’indiscutibile vantaggio di poter contare su due atout di rilevante importanza: la popolarità e il sostegno di milioni di persone, e un’immagine legata a una attività come la Juventus e il calcio certo molto più popolari, “simpatiche” e immediate di quanto non siano l’IFIL, l’IFI, la Fiat.
I registi dell’operazione-John non possono assolutamente consentire che colui sul quale hanno deciso di puntare trovi un simile ostacolo sulla sua strada. Ecco quindi che, per bloccare l’ascesa di Andrea, o anche solo la sua discesa in campo, occorre azzoppare ed eliminare i due uomini che hanno pensato a lui e che vorrebbero lanciarlo in orbita: Giraudo e Moggi. Occorre trovare il modo per farli fuori. Questo modo esiste ed è frutto del combinato disposto di alcune circostanze che si realizzano grazie al contributo diretto o indiretto, voluto o involontario di una serie di personaggi che a vario titolo compaiono nella vicenda o ne restano dietro le quinte, molti dei quali diventano inconsapevolmente e senza nemmeno immaginarlo elementi di questa operazione. Il PM Giuseppe Guariniello di Torino. Il presidente della Federcalcio, Franco Carraro. Il presidente della Lega Calcio, Adriano Galliani. Il presidente dell’Inter, Massimo Moratti. Il direttore generale nerazzurro, Giacinto Facchetti. Marco Tronchetti Provera e il “Tiger team” di spionaggio telefonico di Telecom (Tavaroli, Cipriani, Ghioni). Il professor Guido Rossi. L’ex Procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Saverio Borrelli nelle sue nuove vesti di Capo dell’Ufficio Indagini della Federcalcio. Luca di Montezemolo. Franzo Grande Stevens. L’avvocato Cesare Zaccone di Torino. I direttori di un almeno quattro grandi giornali. E molte altre persone ancora.
Non c’è nessuna “accusa”, ovviamente, nei confronti di queste persone. Se il dottor Guariniello ha condotto inchieste giudiziarie sulla Juventus ha disposto per motivi d’ufficio intercettazioni telefoniche sugli apparecchi di Giraudo e Moggi, questo non significa che egli lo abbia fatto per facilitare l’ascesa di John ai vertici del gruppo Fiat o per “togliere di scena” Andrea Agnelli. Lo stesso vale per alcuni altri di coloro che abbiamo indicato e che si prefiggevano scopi ben diversi. Alla fine però il lavoro, l’attività, le informazioni, le decisioni degli uni e dagli altri o il loro comportamento adottato in un passato vicino o lontano, sono stati utilizzati dalla “regis acentrale” per mettere a punto l’operazione e portarla a compimento.
Per impedire ad Andrea Agnelli di salire ai vertici della Juve, per “fare fuori” Giraudo e Moggi, occorre inevitabilmente fare del male, per qualche tempo, alla stessa Juventus. E’ un “danno collaterale” inevitabile, un effetto del “fuoco amico”, un male necessario e calcolato del quale non si può fare a meno.
L’origine della storia di “Calciopoli”, da questo punto di vista, assume una nuova luce. E molti fatti che potrebbero apparire inspiegabili, diventano meno misteriosi se si pensa qual era il risultato finale che si prefiggeva Torino. Il dottor Guariniello, come sempre, ha fatto il suo dovere e non ha abusato del suo ruolo né dei suoi poteri nel momento in cui ha deciso di continuare a tenere sotto controllo i telefoni di Moggi e Giraudo al termine dell’inchiesta sul presunto uso di sostanze vietate da parte di alcuni calciatori juventini. Il processo si è concluso positivamente per la Juventus, ma il dottor Guariniello aveva tenuto aperta un’altra branca di quella inchiesta e disposto nuovi controlli e attività investigative. Da quelle nuove intercettazioni non emergeva nulla di penalmente rilevante ma il PM aveva deciso di trasmettere quelle intercettazioni alla Federazione Gioco Calcio affinché verificasse se da quelle carte emergevano per caso violazioni ai regolamenti sportivi.
Franco Carraio, presidente della FIGC, tiene chiuse a lungo nel suo cassetto quella grande quantità di intercettazioni arrivate da Torino. Poi all’improvviso decide di tirarle fuori. Perché e su sollecitazione di chi? Da quel momento si forma la palla di neve che in breve diventerà una valanga. Accade di tutto. La regia giornalistica e il distillato quotidiano delle notizie. I processi sportivi. L’incredibile richiesta del legale della Juventus di condannare la squadra alla serie B. La rinuncia della stessa società a fare ricorso al TAR senza “contrattare” migliori condizioni (come l’annullamento della retrocessione, accettando una forte penalizzazione, come Milan e Fiorentina). La vendita di alcuni pezzi pregiati (come Ibrahimovic o Vieira) a una diretta concorrente come l’Inter a un prezzo irrisorio, accompagnato dai ringraziamenti dei dirigenti juventini. Gli scudetti tolti a tavolino e assegnati all’Inter (che li ha presi e festeggiati) proprio da un suo ex consigliere di amministrazione (Guido Rossi). L’assunzione dello stesso Rossi nel gruppo Fiat con una consulenza di molti milioni di euro. Il mancato coinvolgimento legale nella vicenda di Franzo Grande Stevens, che era il presidente di quella Juventus “chiacchierata”. Il salvataggio del Milan e della Fiorentina dalla serie B (segno evidente che si voleva colpire solo la Juve). La scoperta di molte manipolazioni nelle intercettazioni. La “fama” di chi le aveva eseguite e messe a disposizione che figura indagato in importanti inchieste penali. L’operazione-spionaggio condotta da una società che faceva capo a un altro dirigente proprio dell’Inter. Il “patteggiamento” della Juventus anche se la giustizia sportiva non ha scoperto alcun “reato”. Un processo, a Napoli, che non approda a nulla. La magistratura campana che, anziché occuparsi di munnezza e camorra, impiega uomini e mezzi investigativi per “Calciopoli”. E tante altre cose ancora. Con un punto fermo: la Juventus è la maggior danneggiata, Moggi e Giraudo vengono fatti fuori.
Insomma quello che Giraudo aveva intuito al termine della stagione 2004-2005 (“Luciano, questo è l’inizio della fine”), si verifica puntualmente. Moggi ricorda di aver risposto che non capiva, la Juve stava vincendo tutto, le cose andavano bene. Ma Giraudo era scuro in volto e pessimista per il futuro. Che cosa stava succedendo, che cosa stava per succedere? Moggi non aveva lo stesso tipo di antenne di Giraudo all’interno della galassia Fiat per raccogliere voci e segnali o per fiutare l’atmosfera. Ma, anche nel suo “piccolo”, Moggi si accorge che qualcosa non va, che c’è una certa freddezza, che nessuno collabora più come dovrebbe. Nel suo libro l’ex direttore generale della Juventus racconta il contenuto di una telefonata con Lapo Elkann, facendo questa premessa: “Vi sembrerà banale, ma più di ogni altro discorso può valere questo colloquio”. E’ il 4 febbraio 2005, Moggi chiama Lapo e chi chiede di poterlo incontrare al più presto “per farci due chiacchiere”. Lapo cerca di guadagnare tempo e alla fine, messo alle strette, “si ricorda” che qualche giorno dopo sarà a Palermo proprio in concomitanza con la partita di campionato della Juventus, per consegnare una Y di colore rosa al centravanti Luca Toni. I due decidono di vedersi nell’albergo che ospita la squadra, a Villa Igiea, Moggi anticipa il problema che si è venuto a creare per le auto di rappresentanza. “All’improvviso ci venivano create difficoltà crescenti anche sulle piccole cose. Le auto di rappresentanza per i giocatori o i dipendenti della società, ma anche per fare dei piccoli favori a persone funzionali al nostro lavoro, dovevano essere cose automatiche in una grande azienda. In quel periodo, invece, faticavamo a far tutto. Ad avere qualsiasi cosa. Non parliamo poi dei soldi per il mercato dei giocatori: rubinetti chiusi. Fortunatamente siamo riusciti a gestire la Juve senza bisogno di interventi esterni degli azionisti di riferimento, altrimenti sarebbero stati problemi. Gli attacchi interni ed esterni c’erano eccome. La nostra solitudine era palpabile”.
Il primo a parlare (o a essere mandato avanti), come sempre, è Lapo: “Fece pesanti ironie su di noi in diverse interviste. Disse che “alla Juve si dovrebbe sorridere di più”, non nascose mai la sua antipatia per la Triade. Non ci saremmo mai aspettati un colpo così basso, per di più in pubblico”. Ma i problemi veri non erano né le vetture né le uscite di Lapo. “Sono successe cose anche più grosse – ricorda Moggi -. Gli eredi dell’Avvocato e quelli del Dottor Umberto non erano chiaramente in sintonia sulle scelte future e sugli assetti del gruppo. Forse io sono rimasto schiacciato da questa lotta. E’ stranissimo, infatti, l’atteggiamento tenuto dalla Juventus società, ma anche dalla proprietà, prima, durante e dopo lo scoppio di questo scandalo, vero o presunto che sia. In società (il cui presidente, non dimentichiamolo, era Franzo Grande Stevens sicuramente molto addentro alle cose del palazzo di Giustizia di Torino, NdA) erano al corrente dell’inchiesta a nostro carico aperta dai giudici torinesi e delle intercettazioni telefoniche alle quali eravamo stati sottoposti sia io che Giraudo. Il tutto era stato archiviato in sede penale ma il dossier con le intercettazioni era stato inviato per conoscenza alla giustizia sportiva della Federcalcio. Io non sono mai intervenuto su Carraro o sui giudici, Giraudo neppure. Se avessimo avuto tutto il potere che ora vogliono far credere, quelle carte forse sarebbero state distrutte. Invece nessuno si è interessato più di tanto. Tutti abbiamo continuato a telefonare senza misteri. Allegramente in certi casi. Eravamo assolutamente tranquilli di non aver fatto niente di male o di strano. Abbiamo continuato le nostre conversazioni nell’ambiente del pallone senza chiedere aiuti o sconti a nessuno. Del resto la richiesta di archiviazione del 19 luglio 2005 firmata da Guariniello che ci assolveva in toto parlava anche di troppo chiaro, come si legge nelle conclusioni del giudice: “Di quattro partire di campionato giocate a intercettazioni in corso, su tre non si sono registrati commenti di alcun genere idonei a supportare l’ipotesi di reato, su una invece sono state registrate significative conversazioni tra tutti i protagonisti della ipotizzata possibile frode sportiva, ma da esse non soltanto non si traggono riscontri alla ipotesi investigativa, bensì elementi di prova di segno contrario”. Ecco cosa c’è scritto, tra l’altro, nell’ordinanza. Insomma, non facevamo un bel niente”.
A fronte di questo viene da chiedersi: possibile che il presidente della Juventus, di quella Juventus, e cioè Grande Stevens, non conoscesse questi particolari? Perché non ha fatto nulla per salvare la Juventus? Perché non ha messo in campo tutta la sua conoscenza del diritto e anche il suo prestigio, la sua autorevolezza, il suo peso per salvare la Juve? Possibile che pur di sacrificare Giraudo e Moggi, e la possibilità che Andrea Agnelli salisse al potere nella Juventus, si sia buttata via anche l’onorabilità, la rispettabilità, il prestigio della squadra bianconera e dei suoi milioni di tifosi? “Nessuno - prosegue Moggi – si è preoccupato che quel pacco di carte potesse uscire da qualche parte e portare discredito alla Juventus. Anzi, il giornale che per primo ha pubblicato le intercettazioni integrali e forse più di ogni altro ha dato risalto negativo a questa vicenda, è stato proprio “La Stampa”. E la campagna contro la Juventus è stata orchestrata dalla “Gazzetta dello Sport”, l’altro giornale partecipato dalla famiglia”. Questo è un altro particolare significativo che depone a favore della tesi secondo cui i vertici del Gruppo, non avendo mosso un dito per arginare l’ondata di fango contro la Juve e non avendo consentito un’adeguata difesa della società, potessero in qualche modo essere al corrente dell’operazione in corso e non ne fossero, sotto certi aspetti – quelli che abbiamo visto – dispiaciuti per i risultati cui avrebbe portato ai danni di Giraudo e Moggi. E’ pensabile infatti che il Gruppo che controlla “La Stampa” ed è, anzi in quel momento era, l’azionista principale e più “pesante” di RCS Mediagroup, la casa editrice del “Corriere della Sera” e della “Gazzetta dello Sport”, non abbia mosso un dito per “richiamare” i direttori a un maggiore “rispetto” verso la vecchia Signora? Possibile che direttori e giornalisti sempre attentissimi a non mettersi in urto con la proprietà, e gli interessi nei vari settori di attività, in quella occasione siano andati così a lungo a ruota libera senza avere la certezza che a Torino quella linea faceva piacere?
Moggi va al cuore del problema e, ben consapevole che per distruggere lui e Giraudo avrebbero dovuto distruggere anche la Juventus e riprenderne il controllo assoluto, aggiunge, aprendo un nuovo scenario: “Anche se la Triade avesse commesso gravi reati, una società quotata in Borsa doveva comunque sempre difendere i suoi manager. Non foss’altro per non affossare i suoi beni, il capitale, l’immagine. Invece, anche senza prove, anche senza carte, con le sentenze di là da venire, siamo stati scaricati come se avessimo la peste. Ho avuto la sensazione condita da qualche certezza, che il piano fosse proprio questo: far fuori Giraudo, Bettega e Moggi. Costi quel che costi”.
Fino a questo punto l’ex direttore generale della Juve non ha mai parlato di John. Ma non bisogna pregarlo a lungo per rivelare un altro indizio: “Anche John Elkann - dice - ci ha scaricato immediatamente. Domenica 7 maggio 2006 la Juventus ha giocato in casa contro il Palermo. Era la prima partita dopo la pubblicazione delle telefonate, lo scandalo stava divampando, ma senza contorni netti. Eppure il giovane John ha detto deciso che “la proprietà starà vicina alla squadra e all’allenatore”. Già sepolti Giraudo e Moggi che alla Juve hanno dedicato dodici anni di vita”. Moggi rivela un altro particolare significativo che certo non depone a favore di John in quanto ai metodi adottati a Torino per “scaricare” qualcuno: “In quei giorni nessuno mi ha chiamato e non soltanto per starmi vicino, ma neppure per chiedermi spiegazioni. Per avere la mia versione dei fatti. Credo che sarebbe stato naturale. Anche a un bambino che sbaglia, prima della punizione si chiede una giustificazione. A Moggi no. Punito. Condannato. Ripudiato. Cancellato”.
John disse in quella occasione, spiega: “Ci siamo resi conto dei problemi quando i giornali hanno pubblicato le intercettazioni; erano proble¬mi gravi. Lì abbiamo capito che il manage¬ment Juve non si era comportato in manie¬ra scorretta. Quindi, abbiamo reagito con decisione per uscire dalla crisi. Non è stato difficile. Anzi, è stato semplice prendere la decisione, difficile metterla in pratica. Una reazione radicale, perché grande era la re¬sponsabilità. Sono così arrivate penalizza¬zioni pesanti, ma c’era differenza tra quan¬to ottenuto dai ragazzi sul campo e quanto fatto dal management. Ora c’è un rinnovo totale ai vertici. Noi come proprietà conti¬nuiamo a seguire la questione, le nuove in-dagini, ma vi posso garantire che non tro¬veranno nulla che non va bene nell’attuale management. La Juve resta la Juve con la sua splendida storia”.
Allora è proprio vera la nostra ipotesi di partenza? Se John era il primo e principale beneficiario dell’“azzoppamento” di suo cugino Andrea, e se questo obiettivo si poteva raggiungere bloccando i due dirigenti della Juve che avrebbero potuto mettere Andrea sull’altare, perché mai John avrebbe dovuto avere riguardo per Giraudo e Moggi, perché mai avrebbe dovuto “proteggere” la Juve e quindi anche quei due, perché mai avrebbe dovuto fare un autogol buttando all’aria le proprie ambizioni e le proprie prospettive mettendosi in gara col temibile e temuto cugino?
Moggi senza rendersene conto facilita le cose e dimostra di non conoscere questo “piano”. O forse prende atto di non avere le forze sufficienti e necessarie per contrastarlo. Subito dopo l’ultima partita di campionato, subito dopo l’ennesimo scudetto, il 14 maggio 2006 a Bari, si dimette da tutte le cariche nella Juventus, compresa la poltrona del consiglio di amministrazione. Lo fa “per evitare ulteriori imbarazzi, per lasciare libera la proprietà, per rispetto nei confronti della Juventus e dei suoi tifosi”.
Ora che ha capito come sono andate davvero le cose dice che non lo rifarebbe. Pensava che quel suo gesto avrebbe consentito agli avvocati di difendere meglio la società e di ottenere pene sportive meno severe. Ma, dopo aver visto quel che è successo, come la Juve è stata difesa, o meglio come la Juve ha dato indicazioni al proprio avvocato, Moggi è convinto che il suo sacrificio non sia servito a nulla: “L’atteggiamento dell’avvocato Zaccone lascia perplessi. Ma quando mai un difensore accetta e ammette tutte le colpe del suo assistito? Anche davanti a un cadavere ancora caldo, con l’arma del delitto in mano, c’è chi cerca di negare qualsiasi colpa. La proprietà della Juve no, ha ammesso tutto quello che veniva contestato dalla frettolosa giustizia sportiva senza sapere neppure cosa ammetteva. Ancora prima dei processi. Evidentemente la decisione di ammettere tutto era una linea condivisa. Forse qualcuno all’interno della famiglia temeva che ci potessimo impadronire della società? Forse temevano l’abilità finanziaria di Giraudo e il nostro ascendente verso milioni di tifosi?”. “A volte ho l’impressione – dice Moggi - che una strana convergenza di interessi abbia favorito quello che è accaduto a me e alla Juventus. C’era qualcuno che vedeva di cattivo occhio i nostri successi, altri che temevano lo strapotere economico bianconero. Ma forse c’è anche qualcosa di più grosso e di importante. Io di finanza mi intendo poco, di Borsa ancora meno. Fatico a capire certi meccanismi finanziari, ma una cosa è certa: dopo la morte del Dottor Umberto le cose e gli equilibri all’interno della famiglia Agnelli sono profondamente cambiati. Ho tanti difetti – prosegue Moggi – ma credo di avere il pregio dell’intuizione. Avevo intuito che non eravamo più graditi come prima, che i nostri successi venivano accolti con sorrisi a denti stretti. La Triade scelta dal Dottor Umberto per rifondare la Juve nel 1994 senza di lui, senza la sua protezione, è finita in un vortice. Giraudo, poi, aveva già gestito il Sestriere per conto del Dottore. Non era un manager qualsiasi, ma lo stratega finanziario della vedova donna Allegra Caracciolo e del figlio Andrea, eredi di Umberto Agnelli. Insomma una situazione complicata tra eredità, patrimoni finanziari, lotte di successione e di potere fra i due rami della Famiglia nelle quali non sono mai entrato, ma dalle quali ho sentito arrivare un forte vento contrario”.
Come sempre in questi frangenti, c’è anche chi unisce l’utile al dilettevole e approfitta della situazione. Luciano Moggi nel suo libro va al cuore del problema e parla di azioni, di soldi, di plusvalenze: “Secondo uno studio del “Sole-24Ore”, pubblicato anche nel libro “Inchiesta su Calciopoli” di Mario Pasta e Mario Sironi, due studiosi di economia e diritto, nei mesi immediatamente prima dello scandalo c’è stato un massiccio rastrellamento in Borsa delle azioni della Juventus con volumi di scambio dieci volte superiori rispetto alla media dei quattordici mesi precedenti. Mi hanno fatto notare – aggiunge Moggi – che a gennaio del 2006 le azioni bianconere erano quotate circa 1,30 euro, mentre proprio in quel periodo tra marzo, aprile e maggio, il valore è salito a 2,46: quasi raddoppiato. Solo un caso? Una coincidenza? Il giallo qui diventa prettamente economico: le sto pensando veramente tutte”, osserva Moggi. E lancia un altro segnale riguardante l’Inter e Moratti, Telecom e Tronchetti Provera: “Se andiamo a mettere tutto sotto la lente d’ingrandimento, dietro i fascicoli, i pedinamenti e le intercettazioni illegali dell’affare Telecom ci sono anche persone dei servizi segreti finite in carcere. Qui c’era in ballo un potere sportivo che si intersecava con il potere economico. C’erano personaggi da tenere sott’occhio. Attività da monitorare. Anche le cessioni di Vieira e Ibrahimovic all’Inter mi sono sembrate strane,. Affrettate. Quasi pilotate. Un giorno di luglio del 21006, non ricordo la data, ero sotto l’ombrellone sulla spiaggia di Follonica quando mi telefona il procuratore di Ibrahimovic per dirmi che aveva chiuso con il Milan. La Juve, però, voleva vendere il giocatore all’Inter a tutti i costi. Non sentiva ragioni. Forse per semplici motivi e strategie di mercato. Forse. Ma intanto io sono ancora qui a chiedermi: perché?”.
Col passare del tempo, di tanto in tanto emergono altri indizi significativi. Ad esempio c’è il presidente dell’Inter che rivela su Ibrahimovic e Vieira: “Non solo ci fecero un ottimo prezzo, ma ci ringraziarono di cuore…”. Forse era un gesto di riconoscenza per aver dato un “contributo” in dossier e intercettazioni utili a far fuori Giraudo e Moggi? E accade anche, all’improvviso, che nel dicembre 2007, il Presidente della FIFA (Fédération Internationale de Football Association), Joseph Blatter da Zurigo in un’intervista all’Agenzia Ansa rivela un particolare inedito su Calciopoli: “Credo sia ora passato abbastanza tempo per poterne parlare. Quando scoppiò lo scandalo, nel 2006, Luca di Montezemolo svolse un importantissimo ruolo di moderatore. E' in gran parte merito suo se la Juventus non si rivolse ai tribunali ordinari dopo le sanzioni conseguenti allo scandalo”. Ma che c’entra Montezemolo? In una intervista a “Panorama”, l’ex capo della security Telecom, Giuliano Tavaroli, racconta che “durante la “campagna elettorale” per la presidenza di Confindustria, si preoccupò di proteggere il candidato favorito, Luca Cordero di Montezemolo, da eventuali attacchi di un gruppo di industriali contrari alla sua elezione”. Ecco quali erano quali e quanto ”affettuosi” erano i rapporti tra Montezemolo e Tronchetti Provera e quanto probabilmente si sono riflessi anche nel mondo del calcio. Tutte coincidenze?”.
Il golpe dell’estate 2006 ha prodotto questi risultati:John Elkann ha calpestato calpestato il gentlemen agreement tra Gianni ed Umberto, ha allontanato la dirigenza della Juventus prima di ogni processo e sentenza, ha praticamente sottratto a suo cugino Andrea la possibilità di guidare la Juventus, ha messo sotto controllo il club affidandolo a un presidente, Giovanni Cobolli Gigli, definito dai tifosi “la più grande sciagura juventina dai tempi di Luca Cordero di Montezemolo”.
Lo stato d’animo di molti milioni di tifosi juventini è illustrato alla perfezione da Christian Rocca, appassionato juventino e giornalista de “Il Foglio”, che ha messo sotto tiro l’uomo scelto da John, Gabetti e Grande Stevens (oggi presidente onorario della Juventus): “C’è un presidente di una squadra di calcio italiana che non sa quanti scudetti abbiano vinto i suoi ragazzi e che non riesce a rispondere a una domanda semplice semplice. Questa: quanti campionati ha vinto la Juventus? Ventisette, ventotto o ventinove? (For the record: sono 27 per i frequentatori delle curve sud, 28 per l’Italia di mezzo, 29 per chiunque capisca di calcio). Il presidente della Juventus invece non sa rispondere. Meglio, non vuole rispondere. Probabilmente, non può rispondere. Sui documenti ufficiali, compreso il sito della Juventus, ha fatto scrivere 27. Davanti alla sede ha fatto togliere la fioriera rossa che mostrava il numero “28”. Sul pullman di servizio, le stelline dei trofei sono due di meno. Nelle interviste, a volte dice 27, a volte spiega che sono 28. In altre occasioni si lamenta che nessuno gli restituirà mai quei due titoli scippati, una cosa ovvia non avendoli mai chiesti indietro. Stando al giornale di famiglia, “La Stampa”, Cobolli Gigli ha addirittura applaudito con convinzione quando gli è stato comunicato che la coppa dello scudetto che la Lega aveva consegnato alla Juventus nel 2006 era un falso, ché quella vera stavano per consegnarla a tavolino a Moratti. Era, insomma, dai tempi di Luca Cordero di Montezemolo che alla Juventus non capitava una sciagura come l’avvento di Giovanni Cobolli Gigli.
Christian Rocca prosegue: “Il presidente è un uomo elegante, certamente piacevole, gentile come pochi, quindi l’esatto contrario di quanto servirebbe a una squadra di calcio che al momento del suo arrivo aveva a disposizione la formazione più forte degli ultimi quindici anni, compresi nove tra campioni e vicecampioni del mondo più, a fare undici, il pallone d’oro Nedved e il migliore calciatore in circolazione, quell’Ibrahimovic che da solo ha vinto un paio di campionati cui dà importanza soltanto un giornale rosa che si trova sui banconi dei bar dello sport. Quella squadra formidabile non c’è più. Cobolli l’ha smantellata. Da manager proveniente dalla grande distribuzione, ha distribuito due campioni al Real, due al Barcellona, due alla Fiorentina e due agli indossatori-di-scudetti-altrui, rafforzando tutti e indebolendo solo la società che rappresenta. Per un soffio, al simpaticissimo Cobolli, non è riuscito di vendere anche Buffon, Camoranesi e Trezeguet, ma per loro c’è ancora tempo. Certo la Juve stava per essere retrocessa, ma il dramma di Cobolli è che la Juventus non è andata in B per le colpe della vecchia gestione Giraudo-Moggi, cioè di Umberto Agnelli, visto che le accuse da bar dello sport sono state rigettate sia nei processi sportivi sia in quelli penali (non c’è stata alcuna partita truccata, nessun sorteggio taroccato, nessuna ammonizione mirata e gli arbitri sono stati assolti). La Juventus è in B perché la sua proprietà, ramo Gianni Agnelli, ha deciso per motivi oscuri di non difendersi e di sbarazzarsi degli ingombranti uomini del ramo Umberto. Nessuno sarebbe riuscito meglio di Cobolli a farsi travolgere come ha saputo fare lui. La Juventus cobolliana ha chiesto di essere retrocessa, purché con forte penalizzazione e malgrado non ci fosse “uno straccio” di prova come aveva scritto la procura di Torino chiedendo l’archiviazione dell’indagine. Poi ha rinunciato al Tar e anche al Tas, infine a qualsiasi altro strumento anche simbolico per ribadire che la Juventus quei titoli li aveva vinti meritatamente sul campo. Cobolli quasi non c’entra, fa anche tenerezza, forse meriterebbe un premio, il suo problema è che vanta una credibilità pari al numero di scudetti vinti da Moratti”, conclude Christian Rocca.
I tifosi rimproverano a John molte cose: “Ha preso, o non ostacolato, decisioni e comportamenti a dir poco discutibili nella forma e nella sostanza. Oltre all’allontanamento preventivo della Triade, si è distinto per dichiarazioni altamente lesive della dignità e della passione dei tifosi, infangando, di fatto, il lavoro compiuto dalla dirigenza scelta personalmente da suo zio Umberto. Ha chinato il capo durante tutta la vicenda “Calciopoli”, evitando colpevolmente di spendere anche una sola frase di conforto per i tifosi affranti. Ha subito le pressioni di mezza Italia per rinunciare al ricorso al TAR, lasciandosi convincere da Montezemolo, che fu poi ringraziato pubblicamente dal presidente della FIFA, Blatter. Ha insediato ai posti di comando della società persone che sembrano inadeguate, dal punto di vista professionale e comportamentale, a reggere il blasone della Juventus, rallentando, di fatto, il ritorno all’eccellenza”. I tifosi sono tutti per Andrea: “Il ragazzo, subito dopo “Calciopoli”, ha preferito accettare con stile le decisioni prese ai piani alti della IFIL. Una scelta dura per chi come lui – e come suo padre e sua madre, tifosissima - viveva e vive per quella maglia bianconera. Una scelta dettata dal ricordo dei toni moderati e dalla assoluta abnegazione che aveva appreso dal padre. Una scelta che però ha causato in lui e in sua madre, Donna Allegra Caracciolo, un profondo rincrescimento che tuttora li tiene lontani dallo stadio. Donna Allegra nutre una passione sconfinata per i colori bianconeri, ha sofferto e sta soffrendo per la sorte della squadra e per le offese che hanno dovuto subire tutti i tifosi. Con Andrea fino a due anni fa frequentava assiduamente la squadra e i dirigenti, sia durante gli allenamenti sia allo stadio, dove non mancava praticamente mai. Chi è attento ai fatti juventini non può non aver notato che la figura carismatica ed elegante di Donna Allegra e quella sorridente e affabile di Andrea sono da troppo tempo assenti dal palcoscenico delle vicende bianconere. Lo stile Agnelli impone che qualunque tipo di scelta o discussione, anche la più complicata, venga fatta lontano dai riflettori e salvaguardando prima di ogni altra cosa l’immagine della Famiglia. Non deve essere stato facile quindi per Andrea digerire l’allontanamento della Triade, al quale era legato non solo dal punto di vista umano, ma anche perché quei manager rappresentavano ancora una scelta di suo padre Umberto. Molti, specie tra i tifosi, si chiedono quali saranno le sue prossime mosse. Se rinuncerà definitivamente a salire sul ponte di comando per cui era stato già designato. Se un giorno parlerà raccontando ciò che è accaduto. Ma anche la scelta del silenzio in questi anni ha fatto crescere nell’immaginario collettivo un caleidoscopio di ipotesi, congetture, scenari. Come quello che lo descrive pronto a diventare il Presidente di una Juventus al di fuori dall’orbita FIAT e IFIL”. I tifosi gli hanno scritto recentemente: “Noi che amiamo la Juventus in modo travolgente, come lei, siamo certi che si stia preparando per la Juventus un futuro emozionante. Ci piace quindi sperare che un giorno non lontano lei possa tornare a passeggiare sull’erba di un nuovo stadio, tenendo al suo fianco gli amici di suo padre, Giraudo e Moggi prima di tutti. E possa ammirare quelle maglie che hanno fatto la storia del calcio vibrare nella corsa dei campioni che le indossano. Ed esultare per quella terza stella che finalmente i nostri ragazzi ci avranno regalato”.

martedì 19 gennaio 2010

BETTINO TRADITO - IL VOLTAFACCIA DI CLAUDIO MARTELLI NARRATO DA UMBERTO CICCONI, L'AUTISTA/AMICO DI CRAXI CHE NON LO HA MAI ABBANDONATO - "Willy Brandt l’aveva avvertito di una voce che gli era arrivata fino a Bonn: “Attento che Martelli ti vuole rubare il posto. A tua insaputa sta allacciando una collaborazione col PCI”....

- BETTINO TRADITO
Tratto da "Segreti e Misfatti - Gli ultimi vent'anni con Craxi" di Umberto Cicconi (Sapere 2000 edizioni multimediali)


Bettino Craxi e Edoardo Cicconi

Seppure le operazioni di avvicinamento fossero cominciate alcuni anni prima, Tangentopoli scoppiò con l'arresto di Mario Chiesa. Ma al partito già da qualche mese l'atmosfera era cambiata. C'era tensione tra quelle che io chiamavo le bande dei fedeli: Claudio Martelli, Gianni De Michelis, Giuliano Amato, Claudio Signorile e tutti gli altri. Ognuno aveva la propria corrente. Ma Bettino non si sentiva più protetto da loro come un tempo. Anzi, capì che lo stavano accerchiando per neutralizzarlo e consegnarlo ai loro nuovi alleati.


Berlusconi al funerale di Craxi sullo sfondo Giuliano Cicconi Salvatore Lo Giudice Maria Vittoria PillitteriPresidente del Consiglio era Amato e Bettino segretario del PSI. Era la primavera del 1992. Un giorno verso le 13.30 fui convocato d'urgenza al partito. Arrivai trafelato in via del Corso e bussai direttamente alla porta del suo studio senza farmi annunciare. Lui era seduto dietro la grande scrivania, nascosto come sempre da montagne di carte e libri. Giuliano Amato era in piedi, appoggiato alla spalliera di una sedia. Per alcuni minuti nessuno dei due parlò. Poi mi spiegarono il motivo della mia convocazione urgente. Qualcuno aveva informato il Presidente del Consiglio che Martelli, che all'epoca era il vice di Bettino, stava pranzando con tre persone di fiducia di Achille Occhetto al ristorante El Toulà.


Segreti e Misfatti Craxi cover
Finito Giuliano di raccontarmi ciò che era venuto a sapere, intervenne: "Dovresti controllare se la notizia è vera, perché sembra che Claudio stia facendo qualcosa non in mio favore". Andai al Toulà e chiesi se la saletta riservata fosse libera. Mi risposero "Purtroppo è già occupata da uno dei vostri e altre tre persone". In effetti, Claudio uscì verso le tre, da solo, per depistare eventuali controllori. Gli altri tre commensali uscirono dopo un quarto d'ora, uno per volta, a intervalli di due minuti uno dall'altro. Erano tutti uomini di Occhetto.

Da quel giorno oltre al fotografo ebbi l'incarico di fare anche il detective: controllavo certe informazioni che arrivavano all'orecchio di Bettino. In realtà, dovevo controllare anche Bobo per proteggerlo da eventuali trappole che qualcuno poteva tendergli. Bobo era affascinato da Martelli, come del resto lo stesso padre, e, sapendolo un suo devoto, non gli passava lontanamente per la testa di dover diffidare di lui.


Claudio Martelli piange sulla bara di Craxi
Ma i sospetti sulla fedeltà del pupillo erano nati diversi anni prima. A metterlo in guardia, oltre a tutti i pettegolezzi che giravano al partito, era stato Willy Brandt nell'inverno del 1986. Erano le cinque del pomeriggio, quando il segretario della socialdemocrazia tedesca arrivò a Palazzo Chigi. Proprio la sera precedente avevamo parlato di Claudio e della sua traballante fede socialista. Mi aveva chiesto ripetutamente: "Pensi che si sia avvicinato nuovamente al PCI? È vero, come dicono, che è diventato molto amico di Occhetto?" Io non potevo saperne più di coloro che gli riferivano quelle informazioni, perché non frequentavo Martelli. Sapevo ciò che in giro si diceva di lui.


Craxi e Occhetto
Brandt venne a Roma in visita privata, quindi all'incontro non assistette nessuno, né giornalisti né membri del governo. Scattai qualche foto e me ne andai, sapendo che non aveva più bisogno di me, dato che avrebbe concluso a cena la conversazione con l'ospite. Lo lasciai dietro la scrivania, come sempre, sotto l'enorme quadro di Garibaldi, che aveva scoperto negli scantinati della Zecca e fatto trasferire nel suo studio a Palazzo Chigi. Brandt gli era seduto di fronte.

In realtà, la visita privata consisteva nel mettere a punto i progetti politici, che i due grandi socialisti avrebbero condotto assieme. Il leader tedesco in quel periodo era contrario all'ingresso dei comunisti italiani nell'Internazionale socialista. Non era d'accordo sul loro inserimento repentino in un movimento davvero democratico come il socialista. Non era ancora crollato il muro di Berlino, ma in alto loco se ne profilava già l'eventualità. Il fatto è che quei grandi uomini le strategie le studiavano con dieci anni di anticipo.


GIANNI DE MICHELIS
Mentre stavo lasciando Palazzo Chigi un commesso mi inseguì per dirmi che il Presidente chiedeva di me con grande urgenza. Tornai indietro. Davanti a Willy Brandt mi chiese a bruciapelo: "Claudio è o non è legato a Occhetto?" In quel momento ebbi la netta sensazione che, con la scusa della visita privata, Brandt fosse venuto a Roma proprio per metterlo in guardia dal suo pupillo.


pd21 claudio signorileQualche anno dopo scoprii che era proprio come pensavo. Willy Brandt l'aveva avvertito di una voce che gli era arrivata fino a Bonn: "Attento che Martelli ti vuole rubare il posto. A tua insaputa sta allacciando una collaborazione col PCI".

Il 17 febbraio 1992, alla vigilia dell'arresto di Mario Chiesa, i complotti si intensificarono. Già al Congresso di Rimini dell'anno precedente, seduto alla presidenza, aveva un'espressione tormentata e sudava continuamente. Mi fece cenno di raggiungerlo sul palco. "Mi dicono che anche qui, a Rimini, sia iniziato un complotto contro di me. Qualcuno del partito, istruito e pagato da altre forze politiche, trama per farmi fuori. I compagni che stanno qui non si comporteranno da socialisti".

A conclusione della conferenza i delegati avrebbero votato e temeva che lo mettessero in minoranza. Era l'inizio della fine. "Vai a fotografare le targhe dei pullman parcheggiati qui fuori, mi suggerì. Così sapremo da dove viene questa brava gente".


CRAXI
2 - IL COMPAGNO CICCONI...
Aldo Chiarle per "l'Avanti"

Vedere il caro compagno Umberto Cicconi alla redazione dell'Avanti! qualche giorno fa è stato un inaspettato tuffo nel passato; perché il compagno Cicconi è stato per moltissimi anni l'uomo più vicino a Bettino Craxi, il suo fotografo personale e praticamente il suo confidente fino alla morte. L'avevo perso di vista, pochi mesi dopo la morte di Bettino, dieci anni fa e l'incontro è stato una festa. Ma è stata anche una esplosione di notizie che mi hanno fatto tornare indietro di quasi trenta anni.


craxi napolitano
L'indomani ci siamo visti e mi ha fatto dono di due libri, due suoi libri, il primo pubblicato nel 2005, con il titolo "Segreti e misfatti: gli ultimi venti anni con Craxi", edito per i tipi della casa editrice "Sapere 2000"; e il secondo, scritto in collaborazione con Luciano Consoli, dal titolo "Umberto C.: dalla borgata all'archivio Craxi" (dove la "C" può essere benissimo Cicconi o Craxi, tanto è viva la memoria del grande socialista).

Ho letto i due libri in un giorno e me li sono messi nel posto d'onore, vicino al mio tavolo di lavoro perché meritano una lettura più calma e uno studio particolare. Ne parlerò più avanti e diffusamente. Ora, anche perché è il decimo anniversario della scomparsa di Craxi voglio concentrarmi su un solo libro, "Segreti e misfatti", che ha il pregio di avere la prefazione di Antonio Ghirelli.

Dice Ghirelli: "Questo è un libro singolare, per non dire straordinario, essenzialmente per due ragioni: perché è scritto da un fotografo, che di solito usa la camera e non il computer, e perché non è un gossip, cioè un lungo pettegolezzo di uno dei soliti paparazzi romani, ma una lunga lettera d'amore.


Craxi e Ciriaco De Mita
Umberto Cicconi rievoca gli ultimi anni di Craxi, il trauma del suo processo e del suo declino politico, la tragedia del suo esilio e della sua sempre più grave malattia, non come un curioso, un testimone o un cronista, meno ancora con il distacco di uno storico o di un politologo.

Rievoca questi ultimi, terribili anni del leader socialista, semplicemente come un amico. L'origine, la spiegazione di questo strano rapporto fra un grande uomo politico, un protagonista della storia del Novecento e un semplice valentissimo fotografo, sta nella natura spontanea e anarchica di Umberto Cicconi, il quale si è accostato a Bettino dapprima con diffidenza, anche per l'approccio brusco e sbrigativo che Craxi riservava a tutti i suoi ospiti, ma poi - da quel giovanotto sensibile ed intelligente che è - dietro quei modi ruvidi, ha intuito che si nascondeva una indole timida e, facendo leva su quell'indole, ha conquistato la fiducia, anzi la confidenza del gigante milanese che, nonostante il suo strepitoso talento politico, era in realtà ingenuo e romantico come il suo eroe preferito, il generale Garibaldi".

"Segreti e misfatti" è un libro formidabile, zeppo di documenti e di fotografie di uomini che hanno fatto la storia del mondo (Salvador Allende, Silvio Berlusconi, Willy Brandt, Alcide De Gasperi, Giovanni Paolo II, Felipe Gonzales, Mikhail Gorbaciov, John Kennedy, Francois Mitterand, Simon Perez, Mario Suarez e tanti altri) e di tutto questo parlerò in seguito. Ora voglio riportare solo poche parole dedicate da Umberto alla morte di Craxi.


Cossiga abbraccia Craxi
E qui dissento dalla presentazione del caro Antonio Ghirelli, che fu direttore dell'Avanti!, e quindi anche il mio direttore. Forse Cicconi non è un giornalista, e non è uno scrittore, forse ha usato e usa la "camera" meglio del "computer", ma le sue parole sono così palpitanti e sentite che ben pochi scrittori e giornalisti avrebbero potuto scrivere così: "Fu sacrificio crudele.

Così in solitudine, fra rimpianti e delusioni, rabbia e sofferenza, il più grande ‘animale politico' italiano del Ventesimo secolo ha trascorso gli ultimi anni della sua vita. Clinicamente morì per collasso cardiaco. In realtà di crepacuore... la morte era l'inevitabile conclusione, la più dignitosa possibile, di un percorso politico manipolato e deviato, non dal destino, né dai propri errori, ma dagli uomini, proprio da coloro che pretendevano di succedergli alla guida del Paese e degli italiani.

La morte sopraggiunge il 19 gennaio del 2000, un mercoledì pomeriggio fra le 16 e le 17. Ad accorgersene fu la figlia Stefania, che era arrivata proprio quella mattina ed era la sola persona di famiglia a trovarsi ad Hammamet in quel momento. Anna era partita per Parigi il giorno prima con una amica. Appresa la notizia della morte del marito non fece a tempo a rientrare a Tunisi la sera stessa. Arrivò l'indomani.


CAF - Craxi con Andreotti e Forlani - (Copyright Umberto Cicconi) dal Riformista
Neppure da Roma c'erano più aerei per Tunisi, e grazie a Silvio Berlusconi, che ci mise a disposizione il proprio aereo, Bobo Craxi e io riuscimmo a partire subito. Con noi vennero anche mia sorella Scilla, moglie di Bobo, il marito di Stefania Craxi Marco Bassetti, Massimo Pini, Tony Renis e Nicola Manzi.

In aereo tutti ci guardavamo senza parlare. Rimuginavo fra me e me, le ultime telefonate di Bettino; rimuginavo sulla telefonata della sera precedente alle 2 di notte. Con una voce da oltretomba mi pregava di raggiungerlo al più presto. Dovendo sbrigare un servizio per lui, gli promisi che sarei arrivato l'indomani sera. La mattina alle 10,30 mi richiamò al cellulare ma la linea cadde.

Subito lo richiamai e mi rispose Hamida, aiutante di casa: ‘Umberto, il Presidente non ce la fa più a parlare e mi dice di arrivare subito qua'. Corro all'aeroporto di Ciampino, ma il volo per Tunisi è già partito. Richiamo Hammamet e risponde Stefania, che mi riferisce che è affaticato e sta riposando. L'avverto: ‘Digli che arriverò più tardi'. Richiamo verso le 14,30, il telefono squilla ma non risponde nessuno. Dopo mi arriva una telefonata: ‘Il presidente è morto'. E la morte fu una liberazione".

Queste poche frasi sono un acquerello di un grande pittore, scritto con un pennello intinto nei sentimenti straordinari di stima, di considerazione e di amicizia. Grazie, compagno Umberto Cicconi, ti voglio bene, ma ancora più bene ora, che ho avuto modo di leggere questo tuo libro e di sapere che non siamo solo compagni, ma anche fratelli.




[19-01-2010]

by dagospia

LA CIA è VICINA! - LEDEEN: “DI PIETRO CENÒ DA ME”. E LUTTWAK: “FU MIO OSPITE” - LA RICOSTRUZIONE DEL VIAGGIO CHE L’EX LEADER DI MANI PULITE FECE A WASHINGTON NEL ’95 - LO STORICO E IL POLITOLOGO, DUE TIPINI SEMPRE DETESTATI DALLA SINISTRA PER ILORO LEGAMI CON I SERVIZI, OGGI SI "GIUSTIFICANO" COSì: LO INVITAMMO PERCHÉ ERA UNA PERSONA IMPORTANTE...

Maurizio Caprara "Corriere della Sera"

La visita evocata da suoi detrattori per insinuare l'esistenza di una regia della Cia dietro Mani pulite è ricordata da più d'una delle persone che accolsero a Washington Antonio Di Pietro. Era il 1995. L'anno prima che l'ex sostituto procuratore delle inchieste sulle tangenti entrasse in politica, quando l'attuale presidente dell'Italia dei Valori non aveva ancora accettato un ministero nel governo Prodi dopo aver respinto precedenti offerte di Silvio Berlusconi. I due americani che "il Giornale", testata del fratello del presidente del Consiglio, ha indicato ieri come i promotori di due conferenze tenute da Di Pietro ne parlano senza difficoltà.


antonio di pietro idv
«Venne a cena da me. Avevamo a casa soprattutto un gruppo di avvocati», rammenta Michael Ledeen, il quale aveva invitato Di Pietro a tenere un discorso American Enterprise Institute, centro studi vicino ai repubblicani. «Incontravamo tutte le persone importanti, sulla stampa. E abbiamo invitato Di Pietro», dice Edward Luttwak, il quale lo ebbe ospite per una conferenza al Centro di studi strategici internazionali.


di pietro
In sé, non ci sarebbe nulla di strano. Ma i due personaggi citati dal "Giornale" sono sgraditi all'elettorato di sinistra senza casa in seguito al crollo di Rifondazione e Pdci che Di Pietro ha interesse ad attrarre nelle regionali. "Libero" ha attaccato l'ex pubblico ministero attribuendogli «foto difficili da spiegare» con «sbirri e servizi» in Italia.

Per presentare i due americani, "Giornale" ha fatto notare: «(...) sono stati descritti come i peggiori criminali della storia proprio dalla stampa amica del leader Idv: il primo, Luttwak, perché ripetutamente intercettato mentre parlava con lo 007 Pio Pompa, con il quale aveva assidue intercettazioni di intelligence, nell'inchiesta sul sequestro Abu Omar; il secondo perché responsabile, secondo Repubblica, d'aver aiutato nel 2001 il governo Berlusconi, attraverso il Sismi (...)».

La parola ai due. «Di Pietro veniva a Washington per incontrare i funzionari, io l'ho invitato», racconta al "Corriere" Luttwak. Quali funzionari? «Del governo. Non l'ho trasportato io dall'Italia. il Era a Washington», risponde. Aggiungendo: «Sono stato con Di Pietro durante il ricevimento. L'ho visto quell'unica volta». Poi, con una risata: «Io non ho complottato per la caduta dell'Impero della Repubblica. Avrei dovuto».


Michael Ledeen
Luttwak
Perché? «Su un punto Di Pietro ha le mie simpatie. Su una delle mille controversie in cui si è messo, gli dà ragione chiunque dal nostro lato dell'Atlantico: Craxi, celebrare un fuorilegge. Uno che era primo ministro, e faceva arrestare la gente per il rubare una mela, diventa fuorilegge e viene celebrato. Questo crea confusione morale. E Di Pietro ha ragione, gli altri torto». Autore di un «manuale» intitolato "Strategia del colpo di Stato", Luttwak non ha mai amato la parte politica oggi avversaria di Berlusconi.

Interprete tra Ronald Reagan e Craxi in una ruvida telefonata del 1985, mentre il secondo rifiutava la consegna dei sequestratori dell'Achille Lauro, Ledeen ricorda così con il Corriere la visita di Di Pietro: «Era a New York a studiare inglese e voleva venire a Washington. Lo invitammo all'American Enterprise, incontro pubblico. Poi a cena si parlò di legge. Gli demmo buon cibo, vino rosso, grappa e disse che non avrebbe immaginato di stare così bene a Washington». Gli Usa lo spinsero alla politica? «E perché? Non era affare del mio Paese».


CRAXI-LETTERA DI RONALD REAGAN
regan
Ambasciatore d'Italia a Washington allora era Boris Biancheri. Di Pietro fu suo ospite a pranzo. Spiega Biancheri: «Era l'uomo del momento. In complesso, però, negli Usa non fu accolto come un liberatore. Il crollo di Craxi era stato visto con preoccupazione». Un dettaglio che oggi si trascura: come sottolineò nel 2002 l'ambasciatore di sede a Washington nel 1985, Rinaldo Petrignani, Craxi e Reagan poi superarono («Amici come prima») la crisi di Sigonella. Biancheri: «Craxi, negli Usa, era quello con il merito di aver installato i Cruise».


BORIS BIANCHERI



[19-01-2010]
by dagospia

SECONDA FACCI-ATA DELLA BIOGRAFIA RIGOROSAMENTE NON AUTORIZZATA DI DI PIETRO - LO STUDENTE DI PIETRO, MATRICOLA 144836, DIVENNE DOTTORE IL 19 LUGLIO 1978 - DIEDE VENTIDUE ESAMI IN TRENTUN MESI SI LAUREÒ CON 108 E NON LO DISSE A NESSUNO - DAL LIBRO "L'ANNO DEI COMPLOTTI", 1995: "IN OCCASIONE DI UNA FESTA A LOS ANGELES IN ONORE DELL’ALLORA PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO [PROCLAMATO UOMO DELL’ANNO DALLA NIAF], UOMINI D’AFFARI LEGATI A FRANK STELLA, IL RICCHISSIMO PRESIDENTE DELLA PIÙ AUTOREVOLE ORGANIZZAZIONE DI ITALO-AMERICANI, SI INCONTRARONO CON UOMINI DEL DIPARTIMENTO DI STATO. UNO DEI FUNZIONARI DEL GOVERNO USA, IN QUELLA OCCASIONE FU UDITO DIRE, IN RIFERIMENTO A CRAXI: “QUESTO LO FACCIAMO FUORI PRESTO”. ERA IL 1987. QUATTRO ANNI DOPO SCOPPIAVA MANI PULITE, UN’OPERAZIONE CHE EVIDENTEMENTE ERA INIZIATA MOLTO PRIMA" -

Filippo Facci per "Libero"

Seconda e ultima parte del Tonino segreto. Quando lavorava per una ditta di armamenti; la laurea sprint; i silenzi attorno a una misteriosa struttura di intelligence antiterrorismo.


di pietro
antonio di pietro idv

Il percorso biografico che portò Antonio Di Pietro sino al suo viaggio misterioso alle Seychelles - raccontato da Libero di domenica - non è meno carico di piccoli e grandi interrogativi che forse andrebbero semplicemente risolti: se solo Di Pietro si decidesse a farlo.

I temi sono sempre gli stessi: l'inizio della sua carriera a sorvegliare ditte di armamenti, l'effettiva attività svolta da poliziotto: se ricostruire la sua acerba carriera si è rivelato un inferno, probabilmente, è perché l'ex magistrato su questi temi ha sempre taciuto. Le biografie, quelle autorizzate, glissano.

Si torna dunque al 1973 e a un Tonino giovanissimo, quando, in febbraio, gli giunsero due notizie. La prima era che aveva passato il concorso dell'Aeronautica: avrebbe controllato le produzioni che una ditta, l'Elettronica Aster, eseguiva per conto del Ministero. Questo a Milano e poi in Brianza, nella sede di Barlassina. La seconda notizia è che la sua fidanzata era incinta, sicché entro due mesi provvederà a un matrimonio riparatore: ma questo ora non interessa.


Di Pietro con la moglie
Di Pietro si Dimette - 6 dic 1994
E' un Di Pietro difficile da immaginare. Aveva una barba improponibile (foto dell'epoca lo mostrano poi con scarpe bianche, pantaloni bianchi, giacca bianca, cravatta bianca e camicia nera) e nei ritagli di tempo amministrava stabili, perché come ministeriale guadagnava 170mila lire il mese.


Di PietroSecondo un testimone, Tonino cominciò a lavorare al Centro Regione Aerea di piazza Novelli, a Milano. Secondo un altro, passò direttamente in un ufficio di Barlassina, in provincia di Como. Secondo un altro ancora, trascorse qualche tempo negli uffici dell'Aeronautica di Linate, o forse in Via Farini sempre a Milano. La versione più probabile è che facendo parte del Dca (Direzione costruzione armamento) abbia saltabeccato qua e là prima di passare, dopo poco tempo, all'Ustaa di Barlassina.


Antonio Di Pietro
Un colonnello del genio dell'Aeronautica, Michele Merlo, aveva lasciato il corpo per entrare nella proprietà della Aster, azienda di apparecchiature elettroniche; all'interno di questa società era dislocata una postazione dell'Ustaa (Ufficio sorveglianza tecnica armamento aeronautico) e fu appunto lì che ministero della Difesa aveva spedito Di Pietro. Secondo Merlo, dal 1975. Secondo un amico di Tonino di allora, Gianni De Cet, nel '73.


Antonio Di PietroL'Ustaa, in sostanza, aveva il compito di sorvegliare l'operato delle aziende fornitrici, ossia che i prodotti corrispondessero ai requisiti contrattuali per quantità e termini di consegna. E questo faceva Tonino: compilare i documenti che accompagnavano i materiali al collaudo e dare un'occhiata perché tutto fosse prodotto come i capitolati d'appalto prevedevano.

L'ufficio si occupava, e saltuariamente anche Di Pietro, di aziende come la Breda Meccanica, l'Aerea, la Salmoiraghi e altre ancora. Ma il suo ufficio era appunto dislocato presso la Aster di Barlassina, e di essa Tonino si occupava in prevalenza. Si parla di un'azienda che lavorava per conto dell'Aeronautica, della Marina e dell'Esercito, che collaudava pezzi di alta tecnologia adottati dai paesi Nato e che, in consorzio con altre aziende (ma solo successivamente, e tanto per fare un esempio), avrebbe prodotto parti dei sistemi di controllo dei caccia Tornado. Il giovane Di Pietro, per dire, si occupava perlopiù di «Arma Nike», parti di missili in dotazione alle nazioni del Patto Atlantico.

Va da sé che un organismo cruciale come l'Ustaa fosse a contatto con il Sismi: si vorrà dare per scontato che i Servizi segreti militari tengano d'occhio perlomeno i centri di produzione militare. E, come detto, nelle aziende in questione non si producevano gavette. Quelli con il Sismi, beninteso, non erano contatti ufficiali (non lo sono mai) ed era ben logico che i proprietari delle aziende ne fossero tenuti all'oscuro per quanto possibile.


Antonio Di Pietro
Antonio Di pietro - Coppola e SigaroMa che qualche militare o dipendente abbia svolto un doppio incarico è tuttavia sicuro, e sono stati appurati dei casi anche negli ambienti della Aster. Alcune sparate su un Di Pietro «dei servizi segreti» nascono da queste considerazioni, poste in maniera mai seria e comunque indimostrate. Non era strano che il Sismi fosse a contatto con la Cia, e che questa fosse legittimamente interessata al controllo e alla supervisione di quelli che in fondo, anzi principalmente, erano prodotti strategici della Nato.

Tanto che i militari, gli industriali bellici e i dipendenti come Di Pietro dovevano preliminarmente (ogni sei mesi, più o meno) passare il vaglio del Nos, il Nulla osta sicurezza. In un mare di sigle, dipartimenti e organismi non stupirebbe se fosse caduto in confusione persino l'ex capo del Sismi Fulvio Martini, a suo tempo da noi interpellato: «Da quel che ho capito Di Pietro lavorava all'Usi, l'Ufficio sicurezza»; ma come, non si chiamava Ustaa? «Io credo che lavorasse all'Ufficio sicurezza... Ma forse ha cambiato nome dopo la legge del '77-78, la 801. Io non conosco l'Ustaa, conosco l'Uspa»; cioè? «Ufficio sicurezza Patto Atlantico».


craxi e di pietro
ANTONIO DI PIETROL'Ustaa, o quel che fosse, comunque esisteva. anche se Di Pietro ha fatto di tutto per complicare le cose. Un amico di Tonino, Gianni De Cet, ha raccontato che nel 1974 Di Pietro accompagnò addirittura suo padre Giuseppe alla sede di Barlassina «per mostrargli dove lavorava»; è De Cet ad accompagnare Tonino per la prima volta a Barlassina; ed è stato confermato che fu Di Pietro stesso a indicare ai biografi il nominativo di Michele Merlo (proprietario della Aster) tra quelli da contattare perché raccontassero bene di lui.

Ma niente da fare: «Non lavoravo alla Aster» disse Di Pietro il 7 febbraio 1997 in tribunale e in ogni sede possibile. E chiusa lì. È vero, lavorava all'Ustaa, non alla Aster. Ma l'Ustaa era solo un ufficio dentro la Aster. Ma Di Pietro ogni volta non lo spiega: nega. Fa di tutto insomma per autorizzare misteri e sospetti.

Per capire: in un interrogatorio reso a Brescia nel 1995 metterà per iscritto di aver lavorato per il Controllo armamenti del ministero della Difesa dal 1973 al 1977; subito dopo, in un libro che raccoglie le sue carte processuali, comparirà una correzione: dal 1973 al 1979, come per coprire quel paio d'anni in seconda stesura; finché, da altri documenti ufficiali e non smentibili, si apprende che vi lavorò dal 10 febbraio 1973 al 15 gennaio 1980. In un libretto a sua firma titolato La mia politica, nel 1997, torna a scrivere: fino al 1977. Si parla dell'uomo che invoca trasparenza.


ANTONIO DI PIETRO
Nel 1977, tuttavia, qualcosa accade. All'Ustaa, Di Pietro si fa vedere sempre meno. Di quel periodo si sa che sfornò un esame universitario dietro l'altro, al limite del miracolo: diede ventidue esami in trentun mesi, si laureò con 108 e secondo le biografie non lo disse a nessuno: un'impresa che di norma riesce a pochi studenti modello, gente che non ha altre occupazioni oltre allo studio.


ANTONIO DI PIETRO
Di Pietro invece - sempre secondo certe biografie, da lui praticamente dettate - era pendolare, amministratore condominiale, ristrutturava una villa, giocava da portiere in una squadretta e sciava nei week-end. Il che, beninteso, non significa nulla: in fondo alla Aster aveva orari da ministeriale, staccava alle 14. A generare qualche sciocco sospetto, forse, il fatto che non festeggiò mai la laurea, nessun amico o familiare assistette alla tesi, ai genitori non aveva neppure mai detto d'essersi iscritto, e fotografie dell'evento non ce ne sono.

L'unica testimonianza - dopo una quindicina d'anni di ricerche - l'ha rilasciata una donna di Gallarate, L.M.B.: «Conobbi Tonino alla Statale di Milano nell'autunno del 1980. Lui era già laureato, faceva il poliziotto ma si stava preparando al concorso per la magistratura. Mi diede in prestito i suoi appunti, li conservo ancora. Sorvolando su errori grammaticali e di sintassi, scoprii subito che aveva una capacità di sintesi e una testa incredibilmente acuta.


ANTONIO DI PIETRO
Mi aveva chiesto di restituirglieli, perché li noleggiava a pagamento. I quadernoni di Tonino sono costellati, per intere pagine, di "prove" di firme... sicuramente aveva fin d'allora manie di grandezza. Io non ero sua compagna di corso, non ho assistito alla discussione della sua tesi, la mia testimonianza lascia il tempo che trova: ma mi chiedo come sia possibile fare il magistrato senza titolo».


di piertro che si scaccolaLo studente Di Pietro Antonio, matricola 144836, divenne dottore il 19 luglio 1978 con una tesi sull'attuazione della Costituzione nel primo trentennio di applicazione. Relatore il costituzionalista Paolo Biscaretti di Ruffia, correlatore l'assistente Maria Paola Viviani.
Purtroppo Biscaretti di Ruffia è morto, ma nel 1995 fece in tempo a controllare il suo quadernetto personale in cui annotava tutti gli studenti laureatisi con lui. Di Pietro c'era, disse. Il nome del futuro magistrato compare anche nell'archivio informatico dell'Università. E il Rettore, con lettera privata, ha confermato che Di Pietro Antonio risulta laureato. In quale straordinario modo, si può vedere qui di seguito:

1975
28 maggio - Storia del diritto romano (400 pagine): 28/30
4 giugno - Istituzioni di diritto romano (700 pagine): 25/30
4 luglio - Istituzioni di diritto privato (1100 pagine e 2969 articoli del codice civile): 24/30.
10 novembre - Diritto costituzionale (700 pagine e 139 articoli): 30/30.
(data illeggibile) Diritto costituzionale comparato: 26/30.


craxi e di pietro1976
20 febbraio - Esegesi delle fonti del diritto italiano: 26/30
28 aprile - Contabilità dello Stato: 26/30
3 maggio - Diritto regionale e degli enti locali: 29/30
15 giugno - Diritto ecclesiastico: 26/30
1° ottobre - Diritto canonico (300 pagine): 28/30
25 ottobre - Diritto commerciale (1400 pagine): 27/30
30 novembre - Economia politica (700 pagine): 26/30
20 dicembre - Organizzazione internazionale: 27/30


CRAXI
1977
24 gennaio - Scienze delle finanze e diritto finanziario (800 pagine): 26/30
7 febbraio - Storia del diritto italiano (650 pagine): 28/30
31 marzo - Diritto processuale civile (1000 pagine e 831 articoli): 28/30
18 aprile - Diritto tributario (450 pagine): 27/30.
24 maggio - Diritto penale (1200 pagine, 734 articoli): 27/30
7 luglio - Procedura penale (1100 pagine, 675 articoli): 28/30
29 ottobre - Diritto civile (800 pagine): 25/30

1978
26 gennaio - Diritto amministrativo (1400 pagine): 28/30
19 luglio - Tesi di 320 pagine e laurea. Voto finale 108/110.

In un libretto a firma Antonio Di Pietro degli anni novanta, «La mia politica», è scritto: «Si è laureato con il massimo dei voti». Non è vero, come visto: prese 108. Purtroppo la maggior parte dei professori dell'epoca sono morti. Quelli vivi sarebbe anche normale che non ricordassero uno che non frequentava i corsi. Per la stessa ragione, forse, non figura neanche uno studente tra i centomila personaggi intervistati nel corso degli anni Novanta perché dicessero «anch'io conoscevo Di Pietro».


Craxi Il quotidiano «Il Foglio» aveva ritenuto di averne individuato perlomeno uno, di personaggio: Agostino Ruju, assistente di Diritto civile del professor Pietro Trimarchi. Di Ruju erano assodati i rapporti intrattenuti con carabinieri, poliziotti, finanzieri e uomini del Sisde e Sismi. All'interno dell'Università milanese era un punto di riferimento per figli di generali e di questori e vantava la tessera «Amici dei carabinieri».

Il «Foglio» aveva ipotizzato che Ruju avesse preso a cuore anche le sorti del giovane Di Pietro, ma l'interessato ha smentito la circostanza dapprima cortesemente e si è detto anzi convinto che Tonino avesse studiato al Sud. «Dopo la pubblicazione dell'articolo era semplicemente terrorizzato» hanno fatto sapere dal quotidiano. Va detto che Ruju fu arrestato da Di Pietro per Mani pulite ed era in attesa di giudizio.

Ma una cosa curiosa, da principio, aveva fatto in tempo a dirla: «Se è vero che Di Pietro sostenne Diritto privato il 4 luglio del '75, ricordo che quello fu il mio primo appello da assistente: bocciai tutti». Messa così è inquietante. Qualche mese dopo, per fortuna, correggerà il tiro sul «Corriere della Sera»: l'esame? «Non l'ha certo sostenuto con me. Io ero appena stato nominato assistente, ricordo bene quell'appello: lui è stato promosso, mentre io ho bocciato tutti». E messa così è diverso: potrebbe anche solo significare che Di Pietro era il migliore di tutti. A ogni modo, anche qui, le illazioni del Foglio non hanno trovato conferma.

Divenuto dottore, Di Pietro si licenziò dal ministero della Difesa. Ma neanche qui risulta niente di chiaro: parlò di dimissioni avvenute nel 1977 (in un interrogatorio bresciano) e poi corresse in 1979 (in un suo libro di memorie difensive) e a complicare le cose contribuisce un'intervista che il noto giornalista Paolo Guzzanti fece il 29 aprile 1993 ad Antonia Setti Carraro, suocera del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e madre della sfortunata Emanuela con lui assassinata a Palermo.


CRAXI SUL PALCO
La signora, affettuosamente, riferì che aveva conosciuto Di Pietro (già celeberrimo, nel periodo dell'intervista) quand'era un «agente» al servizio del generale: novità assoluta e titolo di merito stranamente escluso da ogni profilo biografico. Il 1° maggio 1993 «La Stampa» pubblicò l'intervista. Domanda: «Lei ha conosciuto Di Pietro?». Risposta: «Benissimo. Le dirò che era alle dipendenze del generale Dalla Chiesa».

I nuclei del generale erano dei gruppi interforze, un apparato di intelligence antiterrorismo a metà strada tra magistratura e ministero dell'Interno, a stretto e giustificato contatto con i servizi segreti. Dopo la pubblicazione dell'intervista non accadde nulla, nessuno smentì nulla. La signora, anzi, ringraziò. Quattro anni dopo, il 16 settembre 1997, Guzzanti ripropose la confidenza della Setti Carraro e scoppiava il finimondo.


Un immagine di Bettino Craxi ad Hammamet
Lei smentiva in maniera un po' disordinata, poi riferiva che a dirle dell'attività di intelligence svolta da Di Pietro (dunque confermata) fu lo stesso Di Pietro quando le rese visita in compagnia di un «alto magistrato». Ricontattata a bocce ferme, la signora Setti Carraro ha detto: «Mi venne a trovare a casa accompagnato da una collega magistrato di cui adesso non ricordo il nome, mi pare fosse la figlia di uno dei presidenti del Tribunale di Milano. S'intrattenne a casa mia per circa un'ora e mezzo e, parlando, mi disse di aver lavorato alle dipendenze di mio genero a Milano. Per quello che ricordo non faceva parte della sua scorta personale ma era uno degli agenti che avevano il compito, credo, di tenere sotto controllo l'accesso ai covi».

La citata «figlia di uno dei presidenti del Tribunale» dovrebbe essere il pm Gemma Gualdi, in realtà nuora del presidente della Corte d'appello Piero Pajardi e molto amica di Di Pietro, tanto che questi, nello st

esso periodo, cercava di cooptarla nel Pool di Mani pulite. Per quanto riguarda i covi, è lo stesso Di Pietro - anche se ieri, sul suo blog, ha negato tutto - ad aver ammesso una sua «attività di investigazione riservata presso il covo terroristico di via Astesani sotto coordinamento dell'allora mio dirigente Vito Plantone»: l'ha scritto in una memoria difensiva del 2 luglio 1995.


Antonio Di Pietro al No-B Day
Non era proprio il primo che passava, Plantone: aveva guidato l'irruzione nel covo del brigatista Walter Alasia e aveva dato la caccia ai peggiori delinquenti degli anni Settanta prima di diventare questore. Ma Di Pietro non ha mai voluto dire una parola sull'argomento. Lo stesso Di Pietro che di lì a poco diverrà magistrato. E che partirà per strane vacanze alle Seychelles.

2 - DI PIETRO NELLE MANI DELLA CIA? UN VECCHIO SOSPETTO IN UN LIBRO DEL 1995.


Di Pietro Sigaro
Dal libro di Fabio Andriola e Massimo Arcidiacono «L'anno dei complotti», Baldini&Castoldi, Milano 1995: (pagina 83)
«Il giornalista Francesco D. Caridi [...] ha scoperto un particolare importante circa il possibile coinvolgimento di ambienti statunitensi nell'attacco a Craxi. In occasione di una festa a Los Angeles in onore dell'allora presidente del Consiglio italiano [proclamato Uomo dell'Anno dalla NIAF], uomini d'affari legati a Frank Stella, il ricchissimo presidente della più autorevole organizzazione di italo-americani, si incontrarono con uomini del Dipartimento di Stato. Uno dei funzionari del governo USA, in quella occasione fu udito dire, in riferimento a Craxi: "Questo lo facciamo fuori presto". Era il 1987. Quattro anni dopo scoppiava Mani Pulite, un'operazione che evidentemente era iniziata molto prima.»

Nota degli stessi Autori: «Nel febbraio del '95 è stato reso noto un rapporto della Cia di dieci anni prima in cui gli spioni americani prevedevano già oltre alla svolta democratica del Pci, il dissolvimento della Dc e il ritorno della destra».




[19-01-2010]
by dagospia