domenica 29 agosto 2010

MENTRE LE COLOMBE PDL MEDIANO SUL ‘PROCESSO BREVE’ E PERFINO BOSSI PORGE IL RAMOSCELLO D’ULIVO (“FINI? UN GALANTUONO”), FELTRI E BELPIETRO NON MOLLANO L’OSSO - 2- BECHIS SU “LIBERO”: “IL COSTRUTTORE DE VITO PISCICELLI (CHE RIDEVA PER IL SISMA DELL’AQUILA) AVEVA UN FILO DIRETTO CON LA SEGRETARIA DEL PRESIDENTE. IN DUE OCCASIONI SI RECÒ ALLA CAMERA E RIUSCÌ A FARSI SBLOCCARE 1,5 MILIONI. E LA SEGRETARIA RITA MARINO, IN OCCASIONE DEL NATALE, RICEVETTE IN REGALO UN MONILE” - 3- DOPO IL NO DI GUIDO PAGLIA. CHI È QUELL’ALTISSIMO DIRIGENTE RAI CHE FU CONVOCATO NELL’APPARTAMENTO PRIVATO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA PER ‘SPINGERE’ LA NASCENTE IMPRESE DI PRODUZIONE CINE-TELEVISIVA DEL ‘COGNATO ELISABETTO’?

- LA CRICCA NELL'UFFICIO DI FINI
Franco Bechis per Libero

Sono due i passi rilasciati dall'ufficio di sicurezza della Camera dei deputati che legano Gianfranco Fini alla cricca degli appalti pubblici. Sono stati rilasciati fra la fine di novembre 2009 e il gennaio 2010 per recarsi nell'ufficio del presidente della assemblea di Montecitorio a Francesco De Vito Piscicelli, l'imprenditore che con Diego Anemone è diventato il più noto alle cronache della nuova tangentopoli.


fini
fini, tulliani
De Vito Piscicelli è infatti l'imprenditore intercettato con il cognato mentre rideva e si fregava le mani la notte del terremoto de L'Aquila pensando a quanti affari avrebbe potuto realizzare con le sue imprese. Non è noto se in quelle occasioni avesse avuto un incontro diretto con Fini. È invece documentato - grazie a lunghe intercettazioni e pedinamenti dei carabinieri del Ros - l'incontro con Rita Marino, segretaria particolare del presidente della Camera che fu al suo fianco sia nel Msi che in An nei lunghi anni in cui Fini guidò quel partito.


rutelli, casini
La Marino è risultata determinante per sbloccare con procedura anomala un pagamento da 1,5 milioni di euro a De Vito Piscicelli per uno degli appalti per i mondiali di nuoto, quello per la realizzazione della piscina di Valco San Paolo, poi finita nel mirino della magistratura.

La segretaria di Fini mostra nelle telefonate intercettate un'antica conoscenza con De Vito Piscicelli e si dà un gran da fare per sbloccare la sua pratica. Sono numerose le telefonate intercettate che dimostrano un intervento diretto della Marino con la ragioneria del Comune di Roma per sbloccare il pagamento privilegiato per l'imprenditore amico.

Non è impresa da poco, anche perché i lavori per la piscina non sono stati fatti a regola d'arte: a un certo punto lo stesso imprenditore si accorse di una crepa nella struttura e cercò di porvi riparo come poteva. Il responsabile sicurezza del cantiere, Giampaolo Gandola, fu intercettato mentre confessava: «Non c'è un ponteggio a norma, non c'è proprio un c... Figlio mio, qui non andiamo in procura, andiamo a Regina Coeli...».


fini, tulliani
fini in platea Per pagare quei lavori la delibera prevedeva l'accensione di un mutuo (con erogazioni quindi rateali), lasciando solo 1,7 milioni di euro a disposizione della struttura commissariale dei mondiali presso il Comune di Roma per le urgenze. Grazie all'intervento decisivo della segretaria di Fini (è la stessa persona di fiducia che il presidente della Camera inviò a Montecarlo per dare un'occhiata prima della vendita all'appartamento poi finito in mano a Giancarlo Tulliani) al solo De Vito Piscicelli il 20 gennaio scorso fu erogato usando quei fondi un anticipo da 1,5 milioni di euro.

Secondo le indagini degli acquirenti alla Marino certamente è stato dato per il disturbo in occasione del Natale un monile acquistato da De Vito Piscicelli alla gioielleria Bonanni di Roma. L'imprenditore fece a Natale scorso solo due regali di valore. Uno destinato ad Angelo Balducci e uno alla segretaria di Fini.

2 - CONVOCAZIONE ALLA CAMERA PER DARE UN CONTRATTO AL COGNATO GIANCARLO
Franco Bechis per Libero

In un caso c'è anche una data certa: quella del 18novembre 2008. Fu quella mattina che alla Camera dei deputati prima entrò una giovane promessa della finanza e della tv italiana, Giancarlo Tulliani. E poco dopo un alto dirigente della Rai, Guido Paglia, direttore delle relazioni esterne dell'azienda. Entrambi si diressero all'altana di Montecitorio, sede dall'epoca di Luciano Violante degli appartamenti privati del presidente della Camera.


FINI
fini
Dal cuore dell'istituzione Gianfranco Fini cercava di concludere affari assai poco protocollari, e molto privati, riguardando il fatturato delle nascenti imprese di produzione cine-televisiva del cognato. Di Rai certamente quelle pareti avevano sentito già parlare in passato. Ma in modo sicuramente più istituzionale.

Per legge - all'epoca di Giorgio Napolitano, poi di Irene Pivetti, di Luciano Violante e in parte di Pierferdinando Casini - il presidente della Camera insieme a quello del Senato avevano potere di nomina del consiglio di amministrazione della tv di Stato. Ma di affari lì in quelle stanze non si è mai parlato. Quel 18 novembre non fu la prima né l'ultima volta di questa legislatura in cui il presidente della Camera avrebbe ricevuto manager pubblici a cui chiedere di dare una mano imprenditoriale al cognato.


fini
FINI
Secondo la ricostruzione già pubblicata e non smentita da nessuno dei protagonisti quel giorno Fini spiegò che il giovane Tulliani aveva bisogno in Rai di «un minimo garantito sulla fiction, sull'intrat - tenimento e sui diritti cinema dall'estero«. E siccome Paglia si rifiutò: «Gianfranco, non è possibile. La Rai ha delle regole, l'iscrizione all'albo fornitori, bisogna fare piccoli passi, presentare progetti e sapere che c'è una concorrenza sterminata», Fini chiuse ogni rapporto con il dirigente Rai che per 30 anni aveva annoverato fra i suoi più cari amici.


giancarlo tulliani by vincino
FINI, TULLIANI, LA RUSSA
Ma il caso non si chiuse lì. Ci furono altre telefonate e incontri. E alla fine Tulliani ebbe almenoin parte quanto richiesto. E la Rai (non la sola azienda pubblica su cui è stato effettuato questo pressing) diede per altre vie contratti alle società dei Tulliani per poco meno di 2 milioni di euro.


FINI-PRESTIGIACOMOLA VICENDA DELLA CRICCA BALDUCCI-ANEMONE
GLI INDAGATI
Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, Fabio De Santis, ex provveditore alle opere pubbliche della Toscana, e gli imprenditori Francesco Maria De Vito Piscicelli e Riccardo Fusi sono indagati per corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Scuola Marescialli dei Carabinieri, uno dei filoni della più ampia indagine sugli appalti relativi al G8


Fini in prima fila
IL PROCESSO
La prima udienza del processo è stata fissata per il 19 ottobre.

IL TERREMOTO
Francesco Maria De Vito Piscicelli è il costruttore che, la notte del terremoto all'Aquila, rideva al telefono immaginando i grandi affari della ricostruzione post sisma.

FILO DIRETTO Piscicelli aveva un canale diretto con Rita Marino, la segretaria del presidente della Camera Gianfranco Fini, alla quale si rivolgeva per facilitare l'iter di alcune pratiche.
by dagospia

La premiata ditta Gheddasconi – grazie ai petrodollari di gheddafi (65 miliardi), il nano di arcore se ne frega del rigetto dei poteri forti anglo-Usa (che non lo stimano né come uomo né come rettile) – In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari - Tripoli punta a Telecom, Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali - l’asse con Ben Ammar e Geronzi…

Ettore Livini per La Repubblica

Non solo tende beduine, caroselli di cavalli berberi e sfilate di soldatesse-amazzoni. La Berlusconi-Gheddafi Spa, a due anni dalla fondazione, è uscita da tempo dal folklore. L'oggetto sociale d'esordio - la chiusura delle ferite del colonialismo - è stato rapidamente archiviato all'atto della firma del Trattato d'amicizia bilaterale nel 2008.


BERLUSCONI, BACIAMANO A GHEDDAFI
silvio berlusconi gheddafi
L'Italia ha garantito 5 miliardi in 20 anni alla Libia e Tripoli ha bloccato (a modo suo) il flusso di immigrati verso la Sicilia. Poi - snobbando i dubbi degli 007 Usa e dei "parrucconi" come Freedom House che considerano il Paese africano una delle dieci peggiori dittature al mondo - sono cominciati i veri affari.

Un pirotecnico giro d'operazioni gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi ("gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca", dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare - non è difficile immaginare in che direzione - gli equilibri della finanza e dell'industria di casa nostra.

La premiata ditta Gheddasconi ha una caratteristica tutta sua. Gli affari diretti tra i due sono pochissimi. Anzi, solo uno: Fininvest e Lafitrade, uno dei bracci finanziari di Gheddafi, hanno entrambe una quota in Quinta Communications, la società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l'imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell'asse Arcore-Tripoli. Il grosso del business si fa per altre strade.

Il Colonnello ha messo sul piatto un po' del suo tesoretto personale (i 65 miliardi di liquidità di petrodollari accumulati negli ultimi anni). Il Cavaliere gli ha spalancato le porte dell'Italia Spa, sdoganando la Libia sui mercati internazionali ma pilotandone gli investimenti ad uso e consumo dei propri interessi, politici e imprenditoriali, nel Belpaese.


Gheddafi e Berlusconi a Ciampino
Gheddafi bacia Berlusconi - Nonleggerlo Blog
In due anni Gheddafi è diventato il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali.

Palazzo Grazioli, nell'ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l'ok all'ingresso di Tripoli con l'1% nell'Eni ("puntiamo al 5-10%", ha precisato l'ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti.

Il Cavaliere tira le fila, consiglia e gongola. L'ingresso del Colonnello in Unicredit - oltre che a innescare i mal di pancia leghisti - è il cavallo di Troia per conquistare i vecchi "salotti buoni" tricolori, la stanza dei bottoni che controlla Telecom, Rcs - vale a dire il Corriere della Sera - e le Generali. Il momento per l'affondo è propizio. Il Biscione ha già piazzato le sue pedine negli snodi chiave: Fininvest e Mediolanum hanno il 5,5% di Mediobanca, crocevia di tutta la galassia.


BERLUSCONI E GHEDDAFI
Gheddafi e Berlusconi a Ciampino
Tra i soci di Piazzetta Cuccia - con un pool di azionisti francesi accreditati del 10-15% - c'è il fido Ben Ammar. E gli ultimi due tasselli sono andati a posto in questi mesi. Lo sbarco di Tripoli a Piazza Cordusio, primo azionista di Mediobanca, stringe la tenaglia dall'alto. E a chiuderla dal basso ci pensa Cesare Geronzi, presidente delle Generali i cui ottimi rapporti con il Colonnello (e con il premier) - se mai ce ne fosse stato bisogno - sono stati confermati dalla difesa d'ufficio di entrambi al Meeting di Rimini.


cesare GERONZI
Niente di nuovo sotto il sole: l'assicuratore di Marino ha sdoganato Tripoli anni fa accogliendola nel patto di Banca di Roma (poi Capitalia) assieme a Fininvest. E ancor prima ha imbarcato la Libia in banca Ubae, guidata allora da Mario Barone, uomo vicino a quel Giulio Andreotti che solo un mese con il suo mensile ‘30 giorni' ha pubblicato un volume sui discorsi pronunciati da Gheddafi nella sua ultima visita italiana.

Il puzzle adesso è quasi completo. Il Cavaliere ha in mano il controllo di industria e finanza pubbliche. E ora, grazie all'asse con Ben Ammar e Geronzi e ai soldi di Gheddafi (sommati alla debolezza delle vecchie dinastie imprenditoriali tricolori), può blindare quella privata estendendo la sua influenza su tlc, editoria e - Bossi permettendo - sulle ricchissime casseforti delle banche e delle Generali.


Tarak Ben Ammar L'asse con il Colonnello gli regala però un'altra opportunità d'oro: quella di distribuire le carte delle commesse a Tripoli garantite dall'attivismo dell'efficientissimo tandem, immortalato ora a imperitura memoria sul frontespizio dei passaporti libici. Ansaldo Sts (per il segnalamento ferroviario) e Finmeccanica (elicotteri) hanno incassato due maxi-ordini. I big delle costruzioni si sono messi in fila per gli appalti sulla nuova autostrada libica da 1.700 chilometri (valore 2,3 miliardi) affidata in base agli accordi bilaterali ad aziende tricolori.


BERLUSCONI E PUTIN - VILLA CERTOSA
In questi mesi hanno attraversato il Mediterraneo pure l'Istituto europeo di oncologia e Italcementi mentre Impregilo ha consolidato con una commessa da 260 milioni la sua già solida posizione nel Paese nordafricano dove con 150 miliardi di investimenti infrastrutturali nei prossimi sei anni la torta - previo via libera della Gheddasconi Spa - è abbastanza grande per tutti.

Anche Gheddafi, come ovvio, ha il suo dividendo. L'Italia è il cavallo di Troia per portare la Libia fuori dall'isolamento nell'era in cui la liquidità, come dimostra il salvataggio delle banche Usa da parte dei fondi sovrani arabi, non ha più bandiere. Missione compiuta se è vero che persino a Londra - grazie a un'operazione di diplomazia sotterranea guardata con sospetto a Washington - l'abbinata politica-affari ha dato risultati insperati: la Gran Bretagna ha liberato un anno fa Abdelbaset Al Megrahi, l'ex 007 libico condannato per l'attentato di Lockerbie e il Colonnello ha dato subito l'ok alle trivellazioni Bp nel golfo della Sirte.


Berlusconi e Putin
Nessuno poi ha battuto ciglio nella City quando Tripoli ha rilevato il 3% della Pearson (editore del Financial Times) e fondato lungo il Tamigi un hedge fund. O quando il numero uno della London School of Economics è entrato tra gli advisor della Libian Investment Authority a fianco del banchiere Nat Rothschild e a Marco Tronchetti Provera.

Pecunia non olet. E anche l'(ex) dittatore Gheddafi non è più un appestato per le cancellerie internazionali. Il premier greco Georgios Papandreou è sbarcato qui per cercare aiuti. La Russia di Putin - altro alleato di ferro dell'asse Gheddafi-Berlusconi - si è aggiudicata fior di commesse a Tripoli come le aziende turche di Erdogan, altra new entry in questo magmatico melting pot geopolitico tenuto insieme, più che dagli ideali e dalla storia, dal collante solidissimo del denaro.

by dagospia

ROMITONE CHE FA LA PREDICA A MARPIONNE: COME SE LENIN FACESSE LE PULCI A STALIN! - IL DRAMMA È CHE OGGI CESARONE HA RAGIONE DA VENDERE. COME SI FA A PENSARE E DIRE CHE LA CONTRAPPOSIZIONE DI INTERESSI FRA IMPRENDITORI E LAVORATORI DEVE CESSARE, COME IL FILOSOFO DELLA CATENA (DI MONTAGGIO), FINTO ADRIANO OLIVETTI IN MAGLIETTA DÉLABRÉ HA SDOTTOREGGIATO DI FRONTE AI FINTI GIOVANI DEL MEETING DI RIMINI? - INFINE, IL COLPO DEL KAPPAO: ROMITI RICORDA CHE GLI UTILI FIAT VENGONO DAL BRASILE E QUI MARPIONNE NON HA MERITI, PERCHÉ È FORSE L’UNICA SCELTA INDUSTRIALE VERA E CORRETTA FATTA DALLA FIAT NEGLI ULTIMI 40 ANNI, E NON CERTO DA MARPIONNE

ROMITONE CHE FA LA PREDICA A MARPIONNE: COME SE LENIN FACESSE LE PULCI A STALIN!
Bancomat per Dagospia

Romiti che fa la predica a Marchionne: grandioso spettacolo di fine estate. E' come se Lenin facesse le pulci a Stalin!


agnelli, cossiga, romiti
Il dramma è che oggi c'ha ragione da vendere Romiti. Come si fa a pensare e dire che la contrapposizione di interessi fra imprenditori e lavoratori deve cessare, come il finto pensatore in maglietta délabré ha sostenuto e sdottoreggiato di fronte ai finti giovani del meeting di Rimini?


CESARE ROMITI PAOLO MIELI Ha ragione Romitone: la contrapposizione ci sarà sempre, è fisiologica, va però gestita con buon senso. Quello che Romiti per la verità non sempre aveva (la sua Fiat non è mai stata un modello di relazioni industriali, come peraltro neppure quella di Valletta) ma certo Marpionne pare averne di meno ancora.

Diciamo che la superiorità di Romiti è una sola: non ha mai giocato a fare il filosofo della catena di montaggio o l'Adriano Olivetti delle carrozzerie & presse. Personaggio, il mito di Ivrea, che anzi criticava con lodevole schiettezza. Faceva il Romiti, quello vero. Sempre meglio delle imitazioni. E la giacca e cravatta le sapeva indossare, in tutti i Palazzi.

Poi ricorda che gli utili Fiat vengono dal Brasile e qui Marchionne non ha meriti, perché è forse l'unica scelta industriale vera e corretta fatta dalla Fiat negli ultimi quarant'anni, e non certo da Marchionne.


y 2bag35 romiti marchetti bea borromeo
Infine ecco il Romitone, quello duro e puro, che deve rammentare agli italiani come sia sbagliato e pericoloso per una sana dialettica industriale dividere i sindacati. Grande Cesare, tutte le persone di buon senso lo hanno sempre saputo, ma ricordacelo tu e ricordaglielo oggi a Marpionne, magari ti ascoltasse...


CESARE ROMITI WALTER VELTRONI Nella sua ricostruzione della Fiat negli ultimi 50 anni Romiti scorda il nome di Ghidella, peccato, una inutile caduta di stile. L'unico manager mai avuto dalla Fiat meritava un ricordo. Ma pretendere da Lenin che criticasse Stalin parlando pure bene della liberal democrazia era forse troppo..

2 - A MARCHIONNE DICO: I SINDACATI? LI PUOI BATTERE, NON DIVIDERE»
ROMITI: DURANTE LE VERTENZE ANCHE LE TENSIONI VANNO GOVERNATE OPERAI E AZIENDA? LA CONTRAPPOSIZIONE DI INTERESSI CI SARÀ SEMPRE
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera

«Sa qual è la prima cosa che mi è venuta in mente, ascoltando l'intervento di Sergio Marchionne al Meeting di Rimini?».


CESARE ROMITI ANNA BOMPRINI No, dottor Romiti. Ce la dica.
«Ho pensato a quando, due mesi fa, vidi Raffaele Bonanni in tv, intervistato a "In mezz'ora", su RaiTre. Lucia Annunziata gli chiese: "Scusi, lei preferisce Romiti o Marchionne?". Lui, un po' imbarazzato, rispose: Marchionne. Il giorno dopo gli telefonai. Bonanni, decisamente imbarazzato, pensava volessi lamentarmi.


ER SOR CESARE ROMITI Invece gli dissi: "Non si preoccupi, ci mancherebbe altro che uno non possa esprimere le sue opinioni. Vorrei solo capire le ragioni per cui ha risposto in quella maniera". Bonanni, sempre più imbarazzato, disse che non si aspettava la domanda della giornalista. Chiusi la conversazione ricordandogli che i giudizi vanno dati nel lungo termine, in base ai risultati...».

Dottor Romiti, da quando nel '98 lasciò la Fiat lei non ha mai parlato dei suoi successori né dell'azienda. Che cosa non le è piaciuto dell'intervento di Marchionne?
«Marchionne ha fatto bene a parlare del presente e del futuro. Ma le cose di oggi esistono perché c'è stato il passato. Del passato non s'è parlato. O, meglio, si è parlato delle presenze internazionali della Fiat come di realizzazioni nuove, anche là dove si tratta di fatti acquisiti».

A cosa si riferisce?
«Al Brasile. Agli Stati Uniti, per quanto riguarda le macchine movimento terra e i trattori. Alla Cina. Quando arrivai, nel '74, il Brasile era sguarnito: vi si era insediata la Volkswagen. La Fiat, con Peccei, aveva puntato sull'Argentina: una tragedia. Smobilitai l'Argentina e riorganizzai ex novo la nostra presenza in Brasile, dove nacque uno dei principali stabilimenti Fiat, da cui sono sempre venuti forti utili».


Giovanni Spadolini, marella e Susanna Agnelli, Marco Benedetto, Cesare Romiti
Ci sono altri temi su cui Marchionne non la convince?
«Sì. Quando tratteggia un futuro in cui non esiste la lotta di classe. Ora, guai se mancasse non dico la lotta, ma la contrapposizione degli interessi. Sarebbe un guaio che non finisce mai. Un conto è trovare la formula per ricomporre la contrapposizione, come in Germania, con la partecipazione dei lavoratori ai risultati dell'impresa. Ma la contrapposizione degli interessi ci sarà sempre, ed è un bene che ci sia».

Marchionne chiede un nuovo patto sociale.
«Ecco il punto principale. Vede, la situazione che affrontammo noi nel 1980 era un po' più complicata di quella di oggi. Oggi per fortuna non scorre il sangue. Allora scorreva il sangue. Ci ammazzarono il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno, e il responsabile della pianificazione, Carlo Ghiglieno. Le Br ci azzoppavano un caposquadra ogni settimana.

Di fronte avevamo leader sindacali che si chiamavano Lama, Carniti, Benvenuto, Bertinotti; non voglio fare paragoni con quelli di oggi, ma diciamo che erano leader di un certo calibro. Eppure noi non ci siamo mai sognati di dividere il sindacato, o anche solo di provarci. Il sindacato lo puoi battere, non dividere. Dividere il sindacato è un errore grave, perché il sindacato escluso ti tormenterà nelle fabbriche; a maggior ragione se è il sindacato più grande. Ed è proprio quel che sta accadendo».


MARCHIONNE
marchionne
Guardi che la Fiat ha tentato a lungo di raggiungere un accordo con la Cgil e la Fiom.
«Il rapporto tra azienda e sindacato è un rapporto dialettico. È sbagliato rinunciare a parlarsi, cercare accordi separati, lasciar fuori qualcuno».

Marchionne dice di essere disposto a incontrare Epifani.
«Ma intanto elogia gli altri due leader sindacali, chiamandoli pure per nome, tra gli applausi. Mi pare un crinale pericoloso. Nel momento in cui sarebbe meglio placare le divisioni, le si alimenta. Mi auguro sinceramente che tutto si risolva bene per la Fiat, ma la situazione è delicata. Anche perché ogni sindacato è da sempre legato a un partito, o comunque a posizioni politiche, pro o contro il governo. Anche per questo dividere il sindacato porta sempre svantaggi».

Marchionne ha ricordato di aver trovato nel 2004 una Fiat sull'orlo del fallimento. Non è forse così?
«La storia della Fiat è legata a grandi cicli e a brevi periodi di gravi difficoltà. Dopo il grande ciclo di Valletta, ci furono cinque o sei anni neri. Poi c'è stato il ciclo tra il 1974 e il 1998, in cui sconfiggemmo il sindacato, battemmo le Brigate rosse, riportammo l'ordine in fabbrica. Nel '98 lasciai la Fiat in condizioni ottime.


agnelli romiti tribuna juve
agnelli lamalfa mau ces romiti
Sono seguiti sei anni di interregno, in cui morirono prima l'Avvocato e poi Umberto Agnelli, mentre si susseguivano amministratori delegati che non davano buoni frutti. Ora mi auguro davvero che si apra un nuovo ciclo virtuoso. Dico solo che la teoria della pacificazione generale e la divisione del sindacato non mi sembrano le premesse giuste. Anzi, sono le premesse che hanno creato il caso Melfi».


marchionne Che idea si è fatto della vicenda dei tre operai?
«Quella notte a Melfi è accaduto quel che accade da sempre in caso di sciopero. L'ostruzionismo c'è stato. Il licenziamento dei tre può anche essere legittimo, per quanto due di loro siano sindacalisti. Ma io non avrei acuito la tensione. Se il tribunale decide per il reintegro, si prepara l'appello, e intanto si rispetta la sentenza. Lo scontro va rabbonito, non eccitato».


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Lei andò allo scontro con i sessantuno licenziamenti del 1979.
«Come si fa a paragonare la Mirafiori del 1979 con la Melfi del 2010? A Torino avevamo decine di migliaia di operai, un partito comunista fortissimo, il terrorismo nelle fabbriche. Melfi è sempre stata una fabbrica tranquilla, ideale. Le sono particolarmente affezionato perché l'ho voluta io. E ricordo ancora la gioia con cui, quando gli telefonai, reagì il sindaco, al pensiero dei concittadini che avrebbero avuto un'opportunità di lavoro. Gente particolarmente adatta: seria, affidabile.


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obama e marchionneNoi decidemmo di licenziare i sessantuno dopo che le nuove cabine della verniciatura, fatte secondo le norme, vennero subito sabotate. E non tenemmo all'oscuro il sindacato, anzi, avvertii Lama, Carniti e Benvenuto. Dissi: "Vi comunico che faremo questi licenziamenti. Non chiedo il vostro assenso. Vi chiedo però di non fare causa, perché lo facciamo anche nel vostro interesse, visto che questi sono violenti: terroristi o contigui al terrorismo". Fecero causa lo stesso, e venne fuori che una buona parte dei sessantuno erano legati all'eversione armata. Altro che i tre di Melfi».
by dagospia

mercoledì 25 agosto 2010

STORIE MASSONICHE DI COSA NOSTRA - dall’Addaura a via D’Amelio, il boss che appare e scompare a fianco di personaggi in divisa tanto improbabili quanto sinistri - Di Scotto Genchi ha tutti i tabulati. Sono chiamate che portano lontano, a medici, futuri politici, imprenditori, favoreggiatori importanti - Segreto dopo segreto, se si scorrono le vicende delle indagini antimafia alla fine si arriva sempre a un boss e a un agente segreto sfigurato…

Edoardo Montolli per il mensile IL - Il maschile del Sole24Ore


falcone borsellino
E' in galera dal 2001. Per otto anni aveva fatto impazzire la Dda di Palermo, che lo riteneva al centro di un traffico di droga costruito sull'asse Stati Uniti - clan dei Vernengo in Sicilia - Nord Italia. Ma per otto anni si era come volatilizzato. Scomparso. E oggi sarebbe probabilmente su una spiaggia a godersi il sole, se non si fosse fatto beccare a Chiavari per il tentato omicidio di un'ottantaduenne in cambio di 250 milioni di lire.

Una storiaccia di raggiri ai danni di ricchi anziani, convinti a firmare testamenti a favore di una banda di magliari. Una storiaccia dove nessuno pensava mai che potesse finirci dentro uno del suo calibro.

Si chiama Gaetano Scotto, boss dell'Arenella, ed è tra i condannati per la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Sembra il grottesco epilogo di un killer di Cosa Nostra caduto in disgrazia. E forse è così. Forse. Di certo alla Procura di Caltanissetta stanno riscrivendo ciò che accadde nelle stragi del '92, in una trama molto complessa: parte dal lontano fallito attentato all'Addaura a Giovanni Falcone nell'89, affronta presunte trattative tra lo Stato e la mafia, depistaggi, e personaggi che nemmeno ad uno scafato scrittore di thriller verrebbero in mente.


falcone e borsellino
L'intreccio è fitto di ombre di servizi segreti deviati. Ma in questo scavare a ritroso tra fatti e 007 invisibili, si finisce sempre per incontrare lui, Gaetano Scotto, capace di mandare in tilt i cacciatori di latitanti per otto anni, ma di finire miseramente in galera per aver tentato di ammazzare una pensionata. E allora la domanda è inevitabile: chi è davvero? Per scoprirlo, forse, bisogna mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle.

Del suo passato si sa poco o nulla. Pare curasse gli interessi di Cosa Nostra in Emilia Romagna. A dargli un ruolo preciso per la prima volta è il pentito Vito Lo Forte: lo ricorda nel riciclaggio alla fine degli anni ottanta nella Svizzera degli introiti della coca. Dice che Scotto ripuliva il denaro di Gaetano Fidanzati, il ras della droga in Lombardia che aveva portato Cosa Nostra a Milano, allestendo riunioni nei bar del quartiere Lorenteggio con un nutrito gruppo di pezzi da novanta: da Pietro Vernengo a Totuccio Contorno, dai fratelli Grado a Vittorio Mangano.

Roba grossa insomma. Fiumane di denaro sporco, che passava il confine per essere lavato e reinvestito. Un giro tale che, racconta lo stesso Lo Forte, fu proprio per fermare le indagini sul riciclaggio in Svizzera che venne organizzato l'attentato all'Addaura, dove Giovanni Falcone aveva affittato casa: sarebbero dovuti morire i due magistrati elvetici che indagavano, Claudio Lehmann e Carla Dal Ponte, ospiti quel giorno del giudice. In tutto questo, se e quale ruolo potesse aver avuto all'Addaura l'uomo che ripuliva il denaro della droga, Gaetano Scotto, resterà per un bel pezzo un mistero. Fino ad oggi.


FALCONE ASSASSINATO A CAPACI
Tre anni fa la madre di un poliziotto, Nino Agostino, misteriosamente ammazzato con la moglie nell'agosto del 1989, ossia tre mesi dopo il fallito attentato all'Addaura, ne riconosce la foto su un giornale: sostiene che era lui, Gaetano Scotto, a pedinare il figlio. Magari si sbaglia. Ma non è l'unica ad accostarne il nome al poliziotto ucciso: un altro collaboratore di giustizia, Oreste Pagano, racconta infatti che Scotto si vantava di aver ammazzato Agostino, reo di aver scoperto un legame tra mafia e questura.

Sembrano due storie diverse, quelle in cui l'uomo senza passato appare: da una parte il riciclaggio di soldi in Svizzera, dall'altra le voci sulla morte di un agente. Ma i magistrati hanno ora collegato l'omicidio di Agostino all'attentato all'Addaura, proprio il luogo dove, per il pentito Lo Forte, dovevano morire i giudici impegnati nel caso del riciclaggio della droga in Svizzera. Ed è qui che la strada di Gaetano Scotto si incrocia, nelle indagini, con quella di un personaggio inquietante, la cui esistenza non è mai stata provata.

Poco prima che venisse piazzato l'esplosivo all'Addaura, una donna notò nei paraggi un uomo con la "faccia da mostro". Pare che lo avesse visto pure un tizio, Francesco Paolo Gaeta, ma finì crivellato di colpi. È un uomo di cui ha parlato anche Massimo Ciancimino: un uomo delle istituzioni, dice. Ma mica se lo ricorda solo lui.


strage di capaci
Lo descriveva così anche il confidente Luigi Ilardo, che fu presto assassinato: tra le tante stranezze narrate al colonnello dei carabinieri Michele Riccio - tipo il mancato arresto di Provenzano - raccontò che c'era un agente con la faccia da mostro che si aggirava sempre in posti strani, come quando avevano ucciso proprio il poliziotto Nino Agostino. Una specie di fantasma di Stato. Un fantasma che però conoscono in tanti: lo ricordano infatti anche a casa della stesso Agostino, prima che il giovane venisse trucidato.

Non si sa chi esattamente sia, faccia da mostro. Ma ne parla infine il solito pentito Lo Forte; lo chiama il "bruciato", per via del volto ustionato. E spiega che aveva rapporti, coincidenza curiosa, con Gaetano Scatto. ll boss dell'Arenella senza passato e l'agente segreto senza nome.

A Caltanissetta gli inquirenti stanno cercando da un pezzo di capire chi sia. Intanto, hanno messo insieme alcuni pezzi del puzzle. E hanno indagato Scotto per i fatti dell'Addaura. È venuto fuori infatti che Nino Agostino, uno che aiutava, pare, i servizi segreti ad acciuffare i latitanti, si trovasse all'Addaura il giorno dell'attentato. E che lo avesse sventato insieme a un giovane in prova al Sisde, Emanuele Piazza, capace di infiltrarsi fra i mafiosi per stanarli uno a uno.

Sarebbe stato per questo che entrambi furono ammazzati: Agostino prima e Piazza poi. Quest'ultimo fu sciolto nell'acido il 16 marzo del 1990 dal picciotto Francesco Onorato: a lui infatti era stata svelata l'identità segreta di Piazza. Segreta evidentemente non per tutti. A Onorato l'aveva spifferata addirittura l'attendente di Riina, Salvatore Biondino, un tipo sempre bene informato. O quasi.


Strage via d'Amelio
Entrambi sono stati condannati come esecutori materiali dell'attentato all'Addaura, ma Biondino, quando l'avevano predisposto, si era detto sicuro: «Abbiamo le spalle coperte». Chi glielo avesse assicurato non si sa. Ma l'aspetto sinistro è che in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali, tantomeno Gaetano Scotto e Salvatore Biondino, doveva sapere dei compiti di Piazza e Agostino; così come in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali doveva conoscere l'allora incensurato Biondino e l'uomo senza passato dell'Arenella. Nessuno, naturalmente, tranne le talpe. Palermo non sarà Milano, ma è perennemente avvolta nella nebbia.

Prima di rivedere uscire ancora una volta il volto di Gaetano Scotto legato a un altro, sconosciuto, 007 bisogna seguire un percorso tortuoso, che parte sempre da lì, tre anni prima, all'Addaura.


borsellino strage
"L'attentato del 1989 doveva avvenire un giorno prima del ritrovamento dell'esplosivo, il 20 giugno, quando Falcone aveva previsto di fare un bagno, e solo alla line decise con i magistrati elvetici di cambiare programma. Ma questo era noto a pochissime persone, un aspetto cruciale per capire cosa accadde". Luca Tescaroli è stato pubblico ministero per la strage di Capaci ed è convinto, come lo era Falcone, che dietro all'attentato ci fossero "menti raffinatissime".

"Fu un periodo particolare sotto il profilo istituzionale. C'erano le lettere delatorie del Corvo e l'anomalia della supplenza giudiziaria dell'Alto Commissariato, che si occupò della relativa indagine. E ancora: si diffondevano notizie mai risultate vere, che intossicavano l'ambiente, come l'incontro a Palermo tra Buscetta, De Gennaro e il barone D'Onufrio, poi assassinato. Un attentato doveva di fatto impedire la cooperazione investigativa tra Falcone e i magistrati svizzeri sul riciclaggio dei soldi della droga in Italia e in America, e sull'ipotesi di alcune collusioni con particolari elementi dello Stato".

Pochi mesi dopo il fallito attentato, mentre si trova nel carcere di massima sicurezza di Full Sutton (Inghilterra) il boss Francesco Di Carlo riceve la visita, per due volte, di alcuni esponenti di servizi segreti di diversi Paesi stranieri - mai si saprà chi con precisione, nonostante le rogatorie internazionali - che gli chiedono un appoggio per ammazzare Falcone.

Lui indica Antonino Gioè, all'epoca ignoto boss di Cosa Nostra, che in effetti sarà tra gli esecutori materiali di Capaci. Poco prima della strage, Gioè è protagonista di una curiosa trattativa dei carabinieri con Cosa Nostra, attraverso l'intermediazione dell'estremista di destra Paolo Bellini, per il recupero di opere d‘arte rubate. Tuttavia Gioè non può raccontare se fu contattato dai servizi segreti stranieri che incontrarono Di Carlo, se la strage di Capaci fu fatta anche con l'appoggio di uomini delle istituzioni e se fu la continuazione del progetto dell'Addaura.


Gioacchino Genchi
A dire il vero Gioè non può dire proprio più nulla. Muore impiccato in carcere poco dopo l'arresto, lasciando un bigliettino in cui scrive che Bellini era un infiltrato dello Stato. Quel che è inquietante è che, stragi a parte, una scia di morti e di tunnel sotterranei paiono collegare ancor di più la mafia allo Stato. Cosi vale anche per l'ultimo dettaglio: per tenere i contatti per la strage di Capaci Gioè adoperò dei telefoni clonati Nec P300 usando numeri ufficialmente inesistenti eppure attivati in una stranissima filiale Sip, dietro cui, secondo il consulente della Procura di Caltanissetta di allora Gioacchino Genchi, c'era una base coperta dei servizi. Nessuno ne saprà più nulla.

Le ombre dei servizi si materializzano dunque all'Addaura con faccia da mostro, nelle soffiate per ammazzare Agostino e Piazza, perfino nel carcere di Full Sutton e poi a Capaci, nell'attivazione dei telefoni clonati degli esecutori materiali. Ma è su via D‘Amelio che le ombre prendono corpo. E quando lo fanno, sono sempre alle spalle dell'uomo senza passato, il boss dell'Arenella, Gaetano Scotto.

Siamo nel luglio del 1992. Paolo Borsellino appunta le dichiarazioni esplosive del boss Gaspare Mutolo sulle collusioni istituzionali. Segna tutto su un'agenda rossa. Vede il boss l'ultima volta il giorno 17. Due giorni più tardi, una Fiat 126 imbottita di Semtex lo uccide in via D'Amelio, sotto casa della sorella. L'agenda rossa sparisce. Passano due ore. E arriva sul luogo della strage il commissario capo Gioacchino Genchi. Si sta già occupando dell'agenda elettronica e dei pc di Falcone: ha scoperto che la prima è stata cancellata e che i secondi sono stati manomessi, ma solo dal loro sequestro. È maledettamente curioso, pensa.

Ma non maledettamente curioso come quanto sta per vedere. Il fumo è ancora alto. E i pompieri in azione. Si guarda intorno chiedendosi da dove i mafiosi possano aver attivato il telecomando per la strage, cosa che in effetti non si saprà mai. Osserva, gira gli occhi. Poi salta in macchina e sale sul Monte Pellegrino, punto in cui la visuale è perfetta. Lì sopra c'è il castello Utveggio. E all'interno, un centro studi per manager, il Cerisdi. Almeno ufficialmente. Genchi scopre che dentro non ci sono solo futuri dirigenti.


Bernardo provenzano arrestato
In alcuni uffici si alternano infatti ex persone dell‘Alto Commissariato e ufficiali dei carabinieri recuperati nell'amministrazione civile, e c'é pure un centro massonico o paramassonico - spiegherà poi in aula - guidato da un funzionario della Regione Sicilia. Infine c'é un telefono perennemente collegato alla base coperta Gus, servizi segreti di Roma.

Borsellino non vedeva di buon occhio il castello, diceva alla moglie Agnese di chiudere le tende, perché non voleva essere spiato. E' un caso sicuramente, ma dai tabulati che Genchi analizza risulta abbiano chiamato il Cerisdi pure due mammasantissima di rango, difficilmente interessati a corsi scolastici: uno é Giovanni Scaduto, killer di Ignazio Salvo. E l'altro è proprio Gaetano Scotto, il boss che lavava i soldi della droga in Svizzera, l'uomo che pedinava il poliziotto dell'Addaura Nino Agostino e che secondo un pentito si vantava di averlo ucciso. L'uomo che, un'altra voce vuole collegato all'agente segreto con la faccia da mostro.

Genchi si segna tutti i dati. Ma non ha terminato il suo compito. Ancora bisogna capire come abbiano fatto i mafiosi a sapere dell'arrivo di Borsellino a casa della sorella, per prendere la madre. E scava scava, Genchi trova altri due elementi di grande interesse: il primo è un altro telefono clonato, i cui tracciati hanno seguito quel giorno, passo passo dall'albergo di Villa Igea, il percorso di Borsellino fino in via D'Amelio.

Si tratta di un telefono clonato i cui contatti appartengono allo stesso circuito del suicida Gioè. ll secondo elemento è invece un uomo, un uomo il cui nome dà da pensare. E' un operatore telefonico della ditta Sielte, che avrebbe potuto intercettare con un'operazione rudimentale casa Borsellino. Indizi, tracce, niente di più.


bernardo provenzano repubbl
Ma il tipo della Sielte è uno che va avanti e indietro dalle pendici di Monte Pellegrino, uno che Genchi crede possa portarlo avanti nell'indagine. Tuttavia, dichiarerà alla Dia di Caltanissetta nel 2003, si sorprende quando il suo superiore Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino sulle stragi, convoca il direttore del Cerisdi, il prefetto Verga, "palesandogli sostanzialmente l'oggetto dell'indagine" sul castello, come riferiscono Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci ne II Patto (Chiarelettere). Da lì a poco gli strani uffici al Cerisdi vengono infatti smobilitati. E i servizi smentiranno sempre di esserci stati.

Passa poco. La notte tra il 4 e il 5 maggio del ‘93 rutto precipita: Genchi litiga furiosamente con La Barbera; gli chiede almeno di non arrestare il telefonista della Sielte o difficilmente si arriverà ai mandanti. La Barbera, dirà Genchi, scoppia a quel punto a piangere, gli spiega che diventerà questore e che per lui é prevista una promozione per meriti sul campo.

Ma il commissario capo non ci sta: sbatte la porta e lascia per sempre il gruppo Falcone-Borsellino. Genchi va via. E l'operaio della Sielte viene così arrestato: si chiama Pietro Scotto, ed è il fratello di Gaetano, il boss senza passato. Pietro Scotto é uno che, ha riferito Genchi ricordando le parole del pentito Lo Forte, sarebbe stato in grado di avvertire i mafiosi quando questi finivano intercettati.

Con l'uscita di Genchi le indagini su via D'Amelio prendono un'altra strada, seguono le indidicazioni del pentito Vincenzo Scarantino, l'uomo che ammette di essere stato il ladro della 126 che poi fu imbottita di esplosivo. E' grazie alle sue parole che viene consentito l'arresto immediato di Pietro Scotto. Scarantino diventa il punto di forza del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino, che lo ha scovato grazie a tre rubagalline che ne hanno rivelato il ruolo.

Anche se qualcun altro vuole assumersi il merito di averlo scoperto: "Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia. Cercammo di individuare l'officina dove l'auto venne imbottita dl tritolo. Accertammo anche i rapporti tra Scarantino, appena arrestato, e alcuni esponenti mafiosi».


Massimo Ciancimino DSC Sono le parole dell'ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, riportate dall'Ansa al suo processo il 25 novembre 1994. Scarantino in effetti confessa; é stato lui a rubare la 126 esplosiva. Tuttavia, nonostante le schedature di Contrada, nessuno dentro Cosa Nostra pare conoscerlo, almeno come uomo d'onore.

Tutti lo rinnegano, dicono anzi che una sua amante sia tale Giusy la "sdilabbrata", un trans: e un uomo d'onore non lo farebbe mai. Scarantino confessa e poi ritratta, accusando esplicitamente di pressioni l'ex capo della mobile ora al vertice del gruppo Falcone-Borsellino Arnaldo La Barbera. E' un viavai di dichiarazioni. Alla fine Pietro Scotto viene assolto. Gaetano no: é condannato, ma solo in appello, quando ormai ha fatto perdere le tracce che verranno riprese a Chiavari.

Passano diciassette anni e scoppia il caso del killer Gaspare Spatuzza, uomo dei Graviano. Si autoaccusa del furto della 126, smentendo così in toto la ricostruzione di Scarantino, scagionando alcuni, tirando in ballo altri. Le sue tesi sono note. Buona parte del gruppo Falcone-Borsellino viene oggi indagata.

Nel libro I misteri dell'agenda rossa (Aliberti) Francesco Viviano e Alessandra Ziniti riportano un documento che alla luce dei fatti appare devastante: é l'appunto di un anonimo funzionario di Stato in cui veniva suggerito ciò che Scarantino avrebbe dovuto dire. Sembra sia tutto da rifare: resta da chiedersi se si trattò di errore giudiziario o di depistaggio, anche se ben tre persone accusarono Scarantino, prima che lui crollasse.

Ma non basta. Ci sono ancora tre elementi che hanno dell'incredibile. Il primo: pare che gia all'epoca l'uomo che coordinò le indagini sulle stragi, Arnaldo La Barbera, fosse un agente dei servizi, con il nome in codice di Catullo. Il secondo elemento é il misterioso signor Franco, che avrebbe fatto da trait d'union tra lo Stato, don Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano.


Massimo Ciancimino Infine, il terzo elemento, ciò che più conta in questa storia e che conduce ancora una volta all'uomo senza passato. E a una frase di Spatuzza: "Mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 nel garage, tra noi c'era uno elegante, biondino, mai visto prima". Sembra si trattasse di un agente dei servizi, l'ennesimo. Sembra. Di certo, prosegue il killer, "parlava con Gaetano Scotto".

Sempre lui, dall'Addaura a via D'Amelio, il boss che appare e scompare a fianco di personaggi in divisa tanto improbabili quanto sinistri. Di Scotto Genchi ha tutti i tabulati. Sono chiamate che portano lontano, a medici, futuri politici, imprenditori, favoreggiatori importanti. Contatti che magari non vogliono dire niente. Perché magari erano semplici conoscenti. ll fatto strano è che nessuno li abbia mai guardati per diciotto anni. Forse perché in fondo, per stabilire la verità, c'era già Scarantino. E forse perché la storia di Gaetano Scotto è solo la storia di un killer di mafia caduto in disgrazia. Forse.



by dagospia

martedì 24 agosto 2010

Misteri d'Italia - Marco Travaglio

24 Agosto 2010 HomeNewsletterRegistratiGrilloNewsTour


Buongiorno a tutti, questa è l’ultima puntata registrata del Passaparola, da lunedì prossimo saremo di nuovo in diretta e ci butteremo sull’attualità, immagino anche se non lo posso dire perché è fine luglio, che non mancheranno gli spunti per raccontare qualcosa di fresco.

La strategia del terrore di Cosa Nostra (espandi | comprimi)
Facciamo oggi un’altra lista della spesa, la settimana scorsa abbiamo fatto quella della nostra classe dirigente, questa volta con l’aiuto di un Magistrato geniale, secondo me, Roberto Scarpinato che ho intervistato su questi temi qualche tempo fa, vorrei fare la lista della spesa di tutte le persone che sanno la verità sulla strategia politico – terroristico – mafiosa che concepì e poi realizzò le stragi.

Delitto Lima marzo 1992, strage di Capaci, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e uomini della scorta 23 maggio 1992, strage di Via d’Amelio 19 luglio 1992 Borsellino e uomini nella scorta e poi nel 1993 la strage mancata in Via Fauro contro Maurizio Costanzo nel maggio 1993 alla fine del maggio 1993 la strage purtroppo riuscita di Via dei Georgofili a Firenze, 5 morti e molti feriti e poi le stragi contemporanee di fine luglio a Milano al Pac (padiglione di arte contemporanea) di Via Palestro e a Roma alle Basiliche di San Giorgio un Velabro e San Giovanni in Laterano anche lì 5 morti e diversi feriti e infine la mancata strage dello Stadio Olimpico di Roma che fallì nel novembre – dicembre 1993 e fu poi annullata nel gennaio del 1994 in perfetta coincidenza con la discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Questa strategia fu materialmente pianificata in una riunione che si tenne alla fine del 1991, almeno per i suoi sommi capi, poi naturalmente fu modificata e ritoccata in corso d’opera, dai componenti della Commissione regionale di Cosa Nostra, la cupola regionale, tutti i capi della mafia siciliana si trovarono in un casolare delle campagne di Enna e misero a punto il da farsi, qualche tempo dopo in un santuario della Calabria lo stesso fecero i capi della ‘ndrangheta, Roberto Scarpinati ha fatto un conto e ha detto che devono essere almeno 100, a tenersi bassi, le persone che sanno tutto da allora, da 18 anni e un pezzo, di quella strategia stragista, terroristico – politico – mafiosa e che però non parlano e allora è interessante capire questo segreto delle stragi chi lo custodisce e perché nessuno di quelli che lo custodiscono è uscito finora a collaborare e a raccontare quello che sa, se sa tutto o la sua parte di verità, se ne sa soltanto un pezzo, dunque intanto ci sono tutti i membri della Commissione regionale che parteciparono a quel vertice alla fine del 1991 e quindi Riina, Provenzano e Graviano, Matteo Messina Denaro, Bagarella, Mariano Agati, i Madonia di Palermo, i Madonia di Caltanissetta, Vito, Santa Paola, il padre e il figlio della famiglia Ganci e poi tutti gli altri capi della mafia siciliana che facevano parte della Commissione regionale, questi a loro volta raccontarono parte di quel progetto che avevano concepito a loro uomini di fiducia, raccontarono tutto a alcuni e questi non hanno parlato, raccontarono dei pezzettini di quella strategia a altri, perché? Perché dovevano spiegare gli esecutori materiali di questo o quel delitto, qualcosa del perché si faceva quel delitto e quindi noi sappiamo da Spatuzza per quello che gli ha detto Giuseppe Graviano, sappiamo da Maurizio, Avola, da Leonardo Messina, da Filippo Malvagni e da pochi altri cosa succedeva, c’erano altri che sapevano e che non essendo affidabili sono stati soppressi come Luigi Ilardo che era confidente del Ros dei Carabinieri che poi fu ucciso, proprio quando aveva deciso di trasformare il suo rapporto da confidente a collaboratore di giustizia e poi c’è Antonino Gioè che appena arrestato nel 1993 e sospettato della strage di Capaci, fu trovato impiccato con le stringhe delle scarpe nel carcere, se non erro, di Trento, dopo avere ricevuto strane visite di uomini dei servizi segreti e di un compagno di carcere, un certo Bellini che aveva avuto rapporto con l’eversione nera e che era considerato un confidente dei Carabinieri.
Queste persone sono già una bella cinquantina, ma non c’è soltanto la mafia, ci sono anche ambienti politici romani che nello stesso periodo sapevano quasi tutto o tutto di quella strategia, le prove? Per esempio a Roma c’era un’agenzia di stampa che si chiamava Repubblica, nulla a che vedere con il quotidiano Repubblica, era un’agenzia che faceva capo a Vittorio Sbardella, un ex fascista che Andreotti aveva preso con sé e era diventato il capo degli andreottiani a Roma, Sbardella 24 ore prima della strage di Capaci, quindi il 22 maggio del 1993 scrisse che di lì a poco ci sarebbe stato un bel botto nell’ambito di una strategia della tensione che era finalizzato a far eleggere un outsider alla presidenza della Repubblica al posto del favoritissimo Andreotti e proprio l’indomani ci fu quel botto terribile di Capaci, proprio in coincidenza con la vigilia delle elezioni di Andreotti che infatti si mise da parte e passò l’outsider Scalfaro, Giovanni Brusca anni dopo al processo Andreotti ha raccontato: noi nell’attuare la strage di Capaci speravamo, per come poi è successo, che si attivassero prima che in Parlamento venissero, venisse eletto il Presidente della Repubblica e in quel periodo, siccome c’erano state delle votazioni all’interno del Parlamento che erano andate a vuoto, quindi noi speravamo che avvenisse la strage, in maniera che per l’effetto l’On. Andreotti e si vociferava che doveva andare il Presidente della Repubblica, non venisse più fatto e in effetti dopo che ci fu la strage, subito dopo venne eletto il Presidente della Repubblica On. Scalfaro, ma solo per fatti suoi, non perché c’è stata la strage, ma il nostro obiettivo era quello di non far diventare in quel momento Presidente della Repubblica l’On. Andreotti e noi ci siamo arrivati all’obiettivo con effetto della strage di Capaci, dopodiché il progetto si fermò momentaneamente in attesa di sviluppi, poi Salvatore Riina fu arrestato.
Quindi o Sbardella o chi aveva fatto quell’articolo anonimo sull’agenzia Repubblica aveva la sfera di cristallo, oppure era a conoscenza di alcuni aspetti, almeno di quella strategia stragista e aveva deciso di lanciare un messaggio in codice a altri che ne erano a conoscenza con quell’articolo sul bel botto, del resto questa Agenzia Repubblica aveva commentato il delitto Lima in modo molto particolare, Lima viene ucciso il 13 marzo 1992 l’uomo di Andreotti in Sicilia e l’uomo di Andreotti a Roma, il Sbardella fa uscire sull’agenzia Repubblica 6 giorni dopo un articolo in cui dice che quell’omicidio era l’inizio di una strategia della tensione, all’interno di una logica separatista e autonomista volta a consegnare il sud dell’Italia alla mafia, per divenire essa stessa Stato, al fine di costituirsi come nuovo paradiso del Mediterraneo, mediante un attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari, paradossalmente aggiungeva questa agenzia Repubblica, 6 giorni dopo il delitto Lima, sapevano anche a cosa serviva “il Federalismo del nord - la Lega di Bossi – avrebbe tutto l’interesse a lasciar sviluppare un’analoga forma organizzativa al sud, lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di trasferimenti e di impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo, responsabili della compressione e del reddito derivabile dalla diversificazione degli impieghi di capitale disponibile” è interessante questa lettura del delitto Lima perché qualche anno dopo un pentito di quelli che sapevano qualcosa, Leonardo Messina ha rilevato ai magistrati e anche alla Commissione antimafia, il progetto politico secessionista di cui si era discusso in quel vertice mafioso nelle campagne di Enna alla fine del 1991, cosa dice? dice che i vertici di Cosa Nostra avevano discusso di quel progetto secessionista della Sicilia sulla base di input di altri soggetti esterni che dovevano dare vita a una formazione politica sostenuta, dice lui, da vari segmenti dell’imprenditoria, delle istituzioni della politica e come faceva l’autore di quell’agenzia a sapere quale era il disegno da cui era partito il delitto Lima in permetta coincidenza con quello che anni dopo ha rivelato uno dei mafiosi a conoscenza delle decisioni prese dalla cupola di Cosa Nostra? Interessante e non è mica finito, perché alla fine degli anni 90, nel 1999 Gianfranco il miglio, l’ex ideologo della Lega Nord diede un’intervista dove disse: io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta, il sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando, cos’è la mafia, potere personale spinto fino al delitto? Non voglio ridurre il meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità, c’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del sud, hanno bisogno di essere costituzionalizzate e lo disse con riferimento al progetto che aveva la Lega nei primi anni 90, è strano che ci si ponesse al nord il problema di tralasciare il sud alla mafia, esattamente come la mafia aveva deciso di propiziare con la sua strategia stragista in quel vertice nelle campagne di Enna.
Andiamo avanti perché i segni di premonizione di quella strategia non sono mica finiti qua! C’era qualcuno che sapeva addirittura prima del delitto Lima e delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, si chiama Elio Ciolini, quest’ultimo è stato coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna e 9 giorni dopo il delitto Lima, il 4 marzo 1992 scrive dal carcere dove è detenuto una lettera a un giudice, Leonardo Grassi e mi anticipa che nel periodo marzo – luglio del 1992 si verificheranno fatti volti a destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitardi e omicidi politici e puntualmente il 12 marzo, fu ucciso Lima e a maggio ci fu Capaci e a luglio ci fu Via d’Amelio e lui dice nel periodo marzo – luglio, era a conoscenza di un pezzo di quella strategia, quello che sarebbe successo tra marzo Lima e Luglio Borsellino.
Non solo, ma il 18 marzo, subito dopo, 6 giorni dopo il delitto Lima e un giorno prima che esca quell’articolo sull’agenzia Repubblica il 19, Ciolini aggiunge che quel piano eversivo è di matrice massonico – politica mafiosa, esattamente come poi hanno rivelato alcuni collaboratori di giustizia e ha annunciato che bisognava attendersi un’operazione terroristica per colpire un personaggio di rilievo del il Partito il Socialista e guarda un po’ qualche anno dopo si è accertato che la mafia aveva progettato di eliminare Claudio Martelli, attentato che poi è fallito per motivi imprevisti.


Quanti sanno e non parlano? (espandi | comprimi)
E non è ancora finita, perché? Perché c’è la falange armata, una sigla strana che compare nel 1992 e mette degli strani comunicati, mandati all’Ansa o a alcuni giornali, in cui questa falange armata dà delle chiavi di lettura per capire cosa sta succedendo, è l’Italia di Tangentopoli e delle bombe, falange armata.
Quando Martelli nel febbraio 1993 viene coinvolto nello scandalo del conto protezione, il conto svizzero su cui Gelli e Calvi avevano versati 8/9 miliardi di lire nei primi anni 80 per dare a Craxi i soldi per comprarsi il Partito Socialista, Martelli Ministro della Giustizia nel 1993, coinvolto in quello scandalo si dimette dal Governo Amato, in seguito a dichiarazione di confessione che hanno reso Silvano Larini che aveva messo a disposizione il conto protezione, era il tesoriere occulto di Craxi e Licio Gelli, anche lui confessa finalmente dopo anni il suo ruolo nel conto protezione e il ruolo di Martelli e Martelli impallinato si dimette da Ministro della Giustizia, Martelli è quello che aveva fatto il Decreto antimafia.
E’ interessante vedere le date di queste dichiarazioni contro Martelli, Larini accusa Martelli il 9 febbraio 1993, Gelli accusa Martelli il 17 febbraio 1993, Martelli si dimette subito dopo e il 21 aprile del 1993, caduto ormai o stava per cadere il Governo Amato perché aveva 5 Ministri indagati che si erano dimessi, la falange armata emette un comunicato dove invita Martelli a non fare la vittima e a essere grato alla sorte che anche per lui si sia potuta perseguire la via politica invece di quella militare, deve ringraziare di essere scampato a un attentato e chi sono questi della falange armata, perché parlano? Cosa vogliono dire? A chi stanno parlando? Sono tutti messaggi trasversali di persone molto legate alle istituzioni e alla mafia che sanno tutto di quel piano e si parlano tra loro, in codice perché non possono dire tutto all’esterno, ma si mandano messaggi in un cifrario che conoscono soltanto loro.
Nello stesso comunicato della falange armata, ai avvertono anche Spadolini, Presidente del Senato, Mancino Ministro dell’Interno e Parisi, Capo della Polizia come possibili vittime di nuovi attentati o di nuove azioni comunque contro di loro e pochi mesi dopo, guarda un po’ salta fuori lo scandalo dei fondi neri del Sisde che ha una parte di verità, ci sono dei dirigenti del Sisde che si sono rubati i fondi neri del Sisde, ma questi vanno a attaccare davanti ai magistrati i Ministri dell'interno, degli ultimi decenni, accusandoli di avere fatto anche loro la cresta sui fondi neri del Sisde, tra i quali Scalfaro e Mancino, infatti Parisi per lo scandalo dei fondi neri del Sisde si dimette e traballano Mancino Ministro dell’Interno e Scalfaro che va in televisione a dire quel famoso “non ci sto” non voleva dire che non voleva le indagini su di sé, voleva dire: ho capito che c’è un piano di destabilizzazione, lo disse che quel muoia Sansone con tutti i filistei avviato dai capi del Sisde presi con le mani nel sacco delle ruberie, faceva parte di una strategia per destabilizzare le istituzioni e la falange armata lo aveva preannunciato il 21 aprile 1993, poi dice Scarpinato l’elenco è lunghissimo, lui oltretutto non può fare tutti i nomi di quelli che sanno, ma noi per forza dobbiamo porci il problema di quelli che sanno oltre a costoro che abbiamo nominato, prendete per esempio i poliziotti del gruppo del Questore di Palermo La Barbera che nel 1993 organizzano il depistaggio, costruiscono a tavolino il falso pentito Scarantino, il falso pentito Candura, il falso Andriotta, i quali sostengono di avere fatto tutto loro, compreso il furto della 126 che poi è esplosa in Via d’Amelio e solo oggi sappiamo che non era vero, perché? Perché Spatuzza si è autoaccusato e ha dimostrato di averla rubata lui quell’automobile e ha raccontato che nel momento in cui nel famoso garage veniva imbottita di esplosivo l’auto che sarebbe esplosa in Via d’Amelio era presente una persona che non c’entrava niente con la mafia, non solo non c’erano Scarantino e gli altri che si erano inventati tutto e si sono beccati l’ergastolo, loro e altri 4 che non c’entrano niente e che adesso verranno probabilmente scagionati nel processo di revisione che nasce proprio dalle dichiarazioni di Spatuzza, non solo non c’erano questi che si sono autocalunniati, mandati da chi non si sa, ma c’era un esponente dei servizi segreti che a Spatuzza è sembrato riconoscere in un funzionario del Sisde che lavorata a stretto contatto con Bruno Contrada e che adesso è indagato, si chiama Narracci, è quello che era in barca nel momento in cui esplose Via d’Amelio insieme a Contrada e ci sono 3 poliziotti della squadra di La Barbera, La Barbera è morto purtroppo nel 2002, indagati per questo depistaggio, chi ha costruito questo depistaggio? Perché hanno voluto attribuire Via d’Amelio a questi quaquaraquà di Scarantino etc. che non c’entravano niente? Come hanno fatto a convincerli a prendersi la colpa e a finire all’ergastolo per un reato che non avevano commesso, mentre erano dei piccoli traffichini di provincia? Chi volevano coprire? Hanno voluto dare una versione minimalista, al ribasso della strage di Via d’Amelio per evitare che le indagini arrivassero nella direzione giusta e salissero, l’hanno fatta scendere subito in partenza e l’hanno fatto di loro iniziativa o ce li ha mandati qualcuno e chi li ha mandati il Gen. Mori e il Capitano De Donno a trattare con Vito Ciancimino? Quanti erano i Signor Franco o i Signor Carlo dei servizi di sicurezza che affiancavano Vito Ciancimino da 30 anni e l’hanno affiancato nella trattativa e gli hanno sempre detto di stare zitto? E chi sono quelli che avrebbero dovuto sorvegliare Ciancimino agli arresti domiciliari a Roma e che invece di sorvegliarlo facevano finta di non vedere quando andava a trovarlo 6 volte Bernardo Provenzano, fino a poco prima che Ciancimino morisse nel 2002, se non erro? Vedete quante persone e quanto importanti la trattativa non poteva essere all’oscuro dei comandi generali dei Carabinieri e del Ros e non poteva essere all’insaputa di Ministri, sottosegretari, abbiamo sentito che recentemente Massimo Ciancimino ha detto che suo padre aveva la convinzione che la trattativa era condivisa da un ex Ministro della Difesa come Rognoni che ha smentito, dal Ministro dell’Interno nuovo Mancino che ha smentito, lui dice anche da Violante, quest’ultimo smentisce, però poi si ricorda che Mori voleva fargli incontrare Vito Ciancimino a tutti i costi, perché non l’ha detto 17 anni prima e l’ha detto soltanto quando Massimo Ciancimino ha raccontato queste cose?
Quindi immaginate quanta gente c’è che sa queste cose, è stupefacente che in un paese deboli di prostata come l’Italia, dove nessuno si tiene mai niente, questo segreto che è a conoscenza di almeno un centinaio di persone: mafiosi, massoni, eversori, politici, forze dell’ ordine, militari sia rimasto così impenetrabile, nessuno di questi ne ha mai fatto cenno.
Forse è proprio perché attiene a quello che Scarpinato chiama il grande War Game che si è giocato in quel periodo sulla pelle di tanti innocenti, il gioco grande per dirla con Giovanni Falcone, è una costante della storia italiana che delle stragi e dei loro retroscena ci siano centinaia di persone a conoscenza, pensate a Portella della Ginestra, hanno ammazzato decine di persone che sapevano i segreti di Portella della Ginestra da Pisciotta in avanti, pensate alle stragi della destra eversiva negli anni 70, pensate alle morti strane, pensate per esempio a quell’Ermanno Buzzi che appena condannato in primo grado per la strage di Brescia fu subito strangolato in carcere, pensate al “suicidio” in carcere di Nino Gioè, pensate a quello che racconta Nino Giuffrè il braccio destro di Provenzano che collabora dal 2005, ha raccontato che quando era in carcere, appena iniziato a collaborare, non lo sapeva ancora nessuno, o non doveva saperlo ancora nessuno, riceveva visite di strani personaggi che lo invitavano a suicidarsi e gli dicevano: ti aiutiamo noi a toglierti la vita.
E’ anche così che si conservano i segreti, ma noi abbiamo molte persone vive che conoscono i segreti e che ogni tanto quando sono proprio costrette ne tirano fuori un pezzo: Violante, Martelli che si ricorda 18 anni dopo che il suo Ministero aveva informato Borsellino della trattativa del Ros con Ciancimino, la Dirigente del Ministero Liliana Ferraro che aveva appena preso il posto di Falcone che andò lei a avvertire Borsellino di quella trattativa e quanti altri in quel Ministero sapevano di quella trattativa? E quanti altri in quei governi del 1992/1993 sapevano di quella trattativa? Poi naturalmente ci sono quelli che hanno fatto la seconda trattativa di cui parla Massimo Ciancimino, dopo l’arresto di suo padre dice Massimo Ciancimino, fu Dell’Utri a prendere il posto di suo padre come cerniera tra Cosa Nostra e Forza Italia, i giudici di Palermo hanno ritenuto provata la mafiosità di Dell’Utri fino al 1992, comprese dunque le stragi di Capaci ma non dopo ma nel frattempo le indagini su Ciancimino sono appena iniziate, i riscontri alle parole di Spatuzza e Ciancimino li stanno cercando e trovando in queste ore, in queste settimane, in questi mesi i magistrati, quindi sulla trattativa post 1992/1993 la storia deve essere ancora scritta, basterebbe che uno di questo centinaio di persone dicesse una cosa, anche soltanto la parte che è a sua conoscenza per consentire alle indagini di fare un salto di qualità formidabile, speriamo che avvenga, in fondo è una costante dei periodi di crisi, quando il sistema entra in crisi, la gente parla più volentieri, nel 1992 parlarono addirittura Buscetta e Mannoia di Andreotti, crollata la prima Repubblica, speriamo che ora che sta crollando la seconda, qualche memoria lampo abbia improvvisamente un’illuminazione e decida di spiegarci chi ha fatto cosa.



Il che cosa però lo conosciamo già e è quel piano eversivo che poi nel 1994 ha ottenuto i risultati sperati, è riuscita a sostituire la Prima Repubblica con qualcosa di analogo, il trionfo del principe direbbe Scarpinato, il trionfo del gattopardo direbbe Tommasi di Lampedusa, passate parola!


by beppegrillo.it

sabato 21 agosto 2010

Tanzi e Calvi, stessa storia vent'anni dopo? Tratto da www.borsari.it

Ci sono delle inquietanti somiglianze tra il crack Parmalat e quello del Banco Ambrosiano.
Innanzitutto i due protagonisti, Tanzi e Calvi: entrambi religiosissimi e legati a doppio filo con gli ambienti vaticani.
Poi il modo in cui le due aziende sono state depredate delle loro risorse, a seguito di spericolate operazioni sudamericane, eseguite ed occultate attraverso società offshore nei vari paradisi fiscali e, quindi, abbandonate al loro tragico destino.

Sia Tanzi che Calvi hanno generosamente finanziato i loro protettori politici e Calvi, in particolar modo, ha finanziato la "politica estera" di Giovanni Paolo II, caparbiamente diretta contro l'avanzata del Comunismo in Europa dell'Est ed in Sud America.
La differenza sostanziale, com'è evidente, sta nell'assassinio di Calvi (il suicidio era, ovviamente, una favola per bambini scimuniti), il quale, sentendosi ormai perso, aveva minacciato di "cantare"; mentre Tanzi è ancora vivo: evidentemente non è giudicato una minaccia seria, come avrebbe potuto esserlo il banchiere di Dio, oppure ha capito che è meglio stare zitto.
Osservate la tabellina sotto: si riferisce al conto economico sintetico della Parmalat…

Dati in milioni di euro

Parmalat


1995


1996


1997


1998


1999


2000


2001


2002



























Fatturato


2215


2822


3678


5078


6358


7349


7801


7590

MOL


308


371


459


612


818


870


951


931

Risultato operativo


178


229


257


354


446


544


597


613

Risultato ante-imposte


112


163


181


266


324


379


414


373

Utile netto


70


98


105


136


174


195


218


252

…ufficialmente, in quegli otto anni, l'azienda avrebbe guadagnato oltre un miliardo di euro, in realtà, avrebbe creato un buco di 12 miliardi.
Voglio farvi notare che quel buco di 12 miliardi di euro, rappresenta una perdita di (circa) il 30% l'anno sul fatturato; come se, ogni anno, a fronte di un fatturato di 100, l 'azienda ne perdesse 30.
Per quanto "incapace" possa essere stato Tanzi, è assolutamente impossibile che sia riuscito a perdere il 30% l'anno del fatturato vendendo latte in giro per il mondo. Anche questa, senza ombra di dubbio, è una favola per bambini scimuniti.
Così com'è escluso che quelle perdite possano essere state prodotte dal settore turismo o dal Parma calcio; perdite di quella portata, significano una cosa sola: distrazione di fondi, denari "rubati" dalle casse societarie e depositati sui conti correnti (segreti) di altri soggetti (lo stesso Tanzi oppure altri beneficiari).

Non è un'opinione: è matematica.
Il crack Ambrosiano, per similitudine, ci può aiutare a capire cosa, davvero, è successo nel caso Parmalat.

Al giugno 1981, momento dell'assassinio di Calvi, lo IOR (Istituto Opere Religiose), aveva accumulato debiti pari a 1.4 miliardi di dollari con la Banca di Calvi. Quei soldi (pari a 6 miliardi di euro di oggi) erano stati "distratti" dalla casse delle consociate estere del Banco Ambrosiano e, attraverso varie società di riciclaggio (tra cui la venezuelana Inecclesia, di proprietà del Vaticano), erano finite ad alcune società di comodo appartenenti al Vaticano stesso (l'appartenenza di queste società al Vaticano, è confermata dalle lettere di patronage, con le quali monsignor Paul Marcinkus, confermava la proprietà vaticana delle stesse).

Quelle società di comodo usavano quei denari in vario modo ma, sostanzialmente, erano impegnate a finanziare i regimi anticomunisti dell'America latina (compresi quelli che si sono macchiati dei crimini più orrendi verso i loro stessi cittadini) e ...... Solidarnosc in Polonia.
Papa Wojtyla appoggiava incondizionatamente quel movimento sindacale polacco, intravedendo in esso il grimaldello con il quale scardinare l'intera posizione sovietica d'oltrecortina.
Calvi fu lo strumento principale di quell'ingente trasferimento di fondi in Polonia che, dopo una visita di Ronald Reagan in Vaticano, diventò anche trasferimento di armi e di altri prodotti necessari alla lotta politica ed armata contro il comunismo.

Il buco dell'Ambrosiano, dunque, aveva una causa principale: il finanziamento dell'anticomunismo, nei paesi cattolici del pianeta.
La Chiesa di Roma, difendeva concretamente (se necessario anche "caldeggiando" le forniture di armi) la sua esistenza, ovunque il comunismo ne mettesse a rischio la sopravvivenza; la Polonia , in particolar modo, era una posizione che Papa Giovanni Paolo II voleva difendere ad ogni costo.
Ed i denari necessari (tanti, tantissimi), provenivano dal Banco Ambrosiano.
Ma Calvi finanziava anche i politici: il famoso conto Protezione, nel quale si riversavano le mazzette per il partito socialista di Bettino Craxi e Claudio Martelli (entrambi giudicati dei "baluardi" contro l'avanzata del comunismo), era alimentato in larghissima misura dalle generose donazioni di Roberto Calvi, con operazioni estero su estero, che facevano giungere illegalmente denari in Svizzera (dov'era domiciliato il conto Protezione) in barba alle norme valutarie approvate dai governi appoggiati dagli stessi socialisti di Craxi e Martelli.

Tutti quei denari (per il Vaticano, per i politici "anticomunisti", etc...) venivano rapinati al Banco Ambrosiano il quale, a sua volta, compiva ogni tipo di operazione sporca (riciclaggio di denaro della Mafia, della droga, dei sequestri, del traffico di armi, ecc...) per attirare i clienti più "danarosi".
E dietro tutte quelle operazioni di riciclaggio, c'era quasi sempre lo IOR o l'Inecclesia, istituzioni finanziarie vaticane al di sopra di ogni sospetto, che avevano il compito di far perdere le tracce dei soldi sporchi.
Se la Mafia voleva far giungere i propri denari in America (per essere, ad esempio, investiti a Wall Street), la Banca di Calvi si incaricava di spostarli da un continente all'altro, facendoli transitare attraverso lo IOR o Inecclesia, in modo che dopo questi "attraversamenti", non fosse più possibile risalire ai veri "proprietari" ( la Mafia in questo caso).
Calvi, dunque, era al corrente di tutti i movimenti, gli intrallazzi, le rapine, le mazzette che attraversano la società italiana (compresa quella religiosa) e, se avesse "cantato", Tangentopoli sarebbe scoppiata undici anni prima e, molto probabilmente, Giovanni Paolo II, sarebbe stato il primo Papa della storia che, travolto da uno scandalo internazionale, avrebbe dovuto dare le dimissioni.

Sicché, quando in quel Giugno 1981, dopo essere stato estromesso dalla carica di Presidente ed Amministratore delegato del Banco Ambrosiano, Roberto Calvi minacciò di raccontare tutto al processo di appello (per reati valutari) che si sarebbe svolto di li a qualche giorno in Italia, tutti i suoi ex-amici erano fermamente intenzionati a non farlo arrivare vivo a quel processo.
E così lo attirarono a Londra, con la promessa di un salvataggio in extremis da parte dell'Opus Dei (che avrebbe dovuto farsi carico dei debiti dello IOR verso il Banco Ambrosiano), ma con l'intenzione di assassinarlo.
La notte del 18 Giugno 1981, due uomini scortarono Calvi fuori dal suo albergo di Londra e, quella, fu l'ultima volta che il "banchiere di Dio" fu visto vivo. La mattina dopo lo trovarono impiccato sotto il ponte dei frati neri, con delle pietre in tasca e due orologi Philippe Patek: uno fermo all'1.46 e l'altro alle 5.42.
Un suicidio spettacolare che sarebbe servito da monito a tutti gli altri dopo.

Anche a Tanzi vent'anni dopo?


www.disinformazione.it

Le confessioni di un Gran Maestro Tratto dal libro: "FRATELLI D'ITALIA" di Ferruccio Pinotti ORDINA IL LIBRO

La morte di Calvi e il mistero degli elenchi P2
Essendo Di Bernardo un profondo conoscitore della massoneria inglese, gli chiediamo conto della voce secondo cui sarebbe stata la massoneria inglese - irritata dell'appoggio dato da Calvi all'Argentina nella guerra delle Falkland e dai «buchi» lasciati dall'Ambrosiano con alcune banche inglesi - a decretarne la morte.
«Io su questo punto non posso che fare delle ipotesi. Posso soltanto ragionare per induzione. L’ipotesi di una responsabilità della massoneria britannica per la morte di Roberto Calvi è assurda. Solo chi non conosce la massoneria inglese può sostenere una cosa del genere. La massoneria inglese non va a ripulire le stalle degli altri. Non ne ha alcun motivo. E’ in Italia che, secondo me, vanno cercati i mandanti dell'omicidio Calvi, e forse anche gli esecutori materiali. Secondo me, nessuno al di fuori dell'Italia poteva avere una ragione logica così forte da volere la morte di Calvi.»

Chiediamo all'ex Gran Maestro se privilegia la pista dell'eliminazione mafiosa. Di Bernardo anche su questo punto è netto: «Sì, ma solo a livello di esecutori, non a livello di mandanti». Un'altra affermazione che apre la porta a molte domande.
Nel 1981 - un anno prima della morte - Roberto Calvi è detenuto nella prigione di Lodi per reati valutari. Li inizia a parlare delle sue amicizie con i socialisti, dei finanziamenti erogati, dell'entourage affaristico che ruota attorno al partito. Le «amicizie si trasformano in qualcos'altro», annota Di Bernardo. Ci si poteva aspettare che parlasse, che raccontasse tutto?
«Certo. Infatti c'era da aspettarsi che lo uccidessero già in carcere. Vi era chi temeva questa eventualità»
Calvi aveva preparato dei piani di fuga all'estero appena uscito dal carcere?
«Calvi è scappato con persone che rappresentavano per lui un rischio. L’atto conclusivo di questa tragedia è stato l’abbandono, diciamo cos’: il mandante ha deciso l'assassinio quando ha visto che il Vaticano aveva completamente abbandonato Calvi»

Il caso Calvi resta intimamente connesso a quello della P2, anche a livello processuale. Come testimoniano gli atti della maxi-requisitoria del processo per l'omicidio, il banchiere di Dio era intimamente legato agli ambienti della P2, che intendeva ricattare qualora non fosse emersa una soluzione ai gravi problemi del Banco Ambrosiano, gravato dall'operazione Rizzoli-Corriere della Sera e dal sostegno finanziario offerto a Solidarnosc per conto del Vaticano. Si torna sempre, quindi,al mistero della P2 e del suo reale peso nelle vicende italiane: il primo passo per chiarirlo è capire quale fosse la vera lista degli iscritti.

Poniamo quindi a Di Bernardo un quesito fondamentale: gli elenchi ritrovati dagli investigatori erano completi? Le liste trovate dai finanzieri a Castiglion Fibocchi su incarico dei magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone comprendevano tutti i nomi degli affiliati alla loggia coperta, o si trattava solo di elenchi parziali?
«Chi era il presidente del Consiglio allora? Arnaldo Forlani, giusto? Quegli elenchi gli furono consegnati e lui si riservò di decidere cosa fare. Si prese del tempo per disinnescare la mina. Se il Gran Maestro Battelli avesse letto l'elenco che poi è stato reso pubblico e consegnato alla stampa, io so per certo che i suoi capelli sarebbero rimasti al loro posto; non si sarebbe spettinato, come avvenne invece quando lesse i veri elenchi, avuti dalle mani di Licio Gelli»

Cosa successe, veramente, al momento del sequestro? Il mistero, anche a distanza di molti anni, resta fitto.
«Il sequestro delle liste degli iscritti alla P2 fu ordinato dai pubblici ministeri Gherardo Colombo e Giuliano Turone. Ora, io sinceramente non posso credere che dopo il sequestro materiale degli elenchi, Colombo e Turone non li abbiano visionati nella loro forma integrale. Non vedo in Colombo uno che, ottenuto l'elenco degli iscritti alla P2, senza nemmeno darci uno sguardo dice ai carabinieri: Tortatelo al presidente del Consiglio". Non quadra. E’ qui che c'è il mistero. C'è una zona d'ombra.»

Il quesito sollevato dal professor Di Bernardo non è di poco conto. E ha un suo rigore logico indiscutibile. Tra l'altro, molti anni dopo è stato acclarato che dagli elenchi della P2 venne sottratta una pagina che conteneva il nome del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di suo fratello. La rivelazione fatta da Francesco Cossiga è stata smentita da Nando Dalla Chiesa, anche se ne parla una lettera autografa di Gelli. Quindi la fase relativa alla scoperta degli elenchi e alla loro «gestione» resta tuttora poco chiara.

L’Opus Dei
Di Bernardo, appena insediato, inizia una battaglia per la laicità dello Stato, contro i poteri occulti che si avvalgono di alte protezioni vaticane.
La sua analisi parte dall'attentato a Giovanni Paolo II del maggio 1981: un evento a ridosso dei rapporti tra i banchieri piduisti, Sindona e Calvi, e il Vaticano. Di Bernardo è convinto che l'attentato al Pontefice sia da collocarsi nell'ambito del vasto scontro di potere che si giocò in quella fase storica.
«Il killer potrebbe essere stato scelto all'interno del Vaticano. Questo Wojtyla lo sapeva. Dopo l'attentato continuava ad aver paura: il Pontefice sapeva che, come ci avevano provato una prima volta, potevano provarci una seconda.»

In quel momento la Curia romana era divisa da un profondo scontro, segnato dalla crisi polacca e dalla drammatica evoluzione dei rapporti tra lo IOR di Marcinkus e l'Ambrosiano di Roberto Calvi.
«Wojtyla era grato all'Opus Dei perché l'Opus Dei aveva contribuito a farlo diventare Papa. Ma Giovanni Paolo II sapeva anche che l'aiuto ricevuto al conclave non era sufficiente a giustificare la concessione dello status di prelatura personale all'Opus Dei?' Secondo me venne concesso perché Giovanni Paolo II fu preso dalla paura per la propria vita. Il Papa era attraversato da un'umanissima paura e vedeva nell'Opus Dei un gruppo che gli poteva essere totalmente fedele in un momento molto difficile. Ma proviamo a chiederci cosa succederebbe se uno dei prossimi papi volesse togliere la prelatura personale all'Opus Dei. Si verificherebbe il più grande scisma della Chiesa cattolica negli ultimi duemila anni. Vede, questo accade perché l'Opus Dei ritiene di essere unico e vero interprete autentico del messaggio di Cristo e vede 'l’altra chiesa" - quella che non è simile a loro – come una degenerazione.»

In molti si sono interrogati sulle analogie tra Opus Dei e massoneria: la segretezza degli appartenenti, il ruolo attribuito al potere e al denaro, il ritenersi un corpo d'élite all'interno della società in cui- si opera. Giuliano Di Bernardo spiega: «La massoneria ha alcune regole che sono più o meno simili a quelle dell'Opus Dei, anche se quest'ultimo le ha sviluppate molto. Una di queste regole è la «riservatezza». Sia nella massoneria che nell'Opus Dei si opera una netta distinzione tra coloro che «stanno dentro" e coloro che ‘stanno fuori’».
La minuziosità di certe procedure, la tendenza a «ritualizzare» molti aspetti della vita collettiva accomunano massoneria e Opus Dei, secondo Di Bernardo.
«La massoneria presenta aspetti analoghi all'Opus Dei per quanto riguarda le regole interne all'organizzazione. E’ chiaro che i massoni non si flagellano e non indossano il cilicio. L’Opus Dei è una esasperazione delle regole di comportamento e di riservatezza interna tipiche della massoneria»

Tuttavia Di Bernardo tiene a fare una distinzione importante: «Se i contorni dell'Opus Dei sono chiari e netti, non si può dire lo stesso della massoneria. La libera muratoria è un fenomeno più complesso, articolato, ma anche sfrangiato, non privo di incoerenze e limiti metodologici».
L’ex Gran Maestro ha criticato con forza l'Opus Dei in più occasioni. In una intervista del 23 marzo 1991, rilasciata dopo un attacco di Wojtyla ai «poteri occulti», chiaramente riferito alla massoneria, affermò: «Se si parla di potere occulto, volendo fare riferimento alla massoneria, bisognerebbe considerare anche l'Opus Dei, che svolge una attività particolarmente occulta».

Anche in un'intervista a Giovanni Bianconi del «Corriere della Sera», l'allora Gran Maestro espresse critiche sull'organizzazione fondata da Escrivá. Scrive Bianconi: «Il primo colpo Di Bernardo lo spara contro l'Opus Dei, un'organizzazione alla quale proprio il Papa ha riconosciuto in passato lo status di prelatura personale: Torse che quello non è un potere occulto? La massoneria cerca sempre di far conoscere le proprie finalità, si muove sempre sulla strada della trasparenza. Non mi risulta che l'Opus Dei abbia fatto qualcosa di simile. Eppure esiste e si muove ai limiti della riservatezza. Dobbiamo pensare che in Italia esistano due pesi e due misure? "».
Di Bernardo allarga la sua riflessione al rapporto tra Chiesa e massoneria.
«Storicamente sono sempre esistite delle logge massoniche all'interno della Chiesa cattolica. La Chiesa ha tenuto in considerazione la massoneria fin dalle sue origini in Inghilterra, nel Settecento. Dal 1717 al 1738 si concretizzò una situazione nella quale la Chiesa sperava di cambiare lo stato delle cose in Inghilterra attraverso la massoneria, riportando la Chiesa anglicana all'interno della Chiesa di Roma.»

Ma il tentativo di ricomporre lo scisma fallì.
«Nel 1738 il Papa emise la bolla di scomunica per i cattolici che si fossero iscritti alla massoneria. Questo avvenne solo quando la Chiesa si accorse che la massoneria non voleva, o non poteva, servire ai suoi fini. t da quel momento che si inizia ad affermare 9 principio dell'inconciliabilità tra l'essere massoni e l'essere cattolici. Il fondamento di questa incompatibilità è l'idea che il cattolico non abbia bisogno di un'altra religione. Da questo deduciamo che alla base vi è il riconoscimento, da parte della Chiesa cattolica, del carattere di religione alla massoneria. Esistono tuttavia documenti storici che dimostrano come la massoneria abbia sempre rifiutato la qualifica di religione. Per la massoneria, se un cattolico o un fedele di altra religione vuole entrare a far parte della libera muratoria, lo può fare. Perché la "fede" nella massoneria non è inconciliabile con altre fedi religiose, in quanto la massoneria non è una "religione" in quanto tale.»

Molti attacchi alla libera muratoria, secondo Di Bernardo, sono strumentali a lotte interne alla Chiesa.
«L’appartenenza alla libera muratoria di cardinali e alti prelati è stata spesso usata come strumento di attacco, ricatto e intimidazione all'interno della Curia romana. E questo ha falsato molto la realtà dei rapporti che io suppongo siano sempre esistiti tra i vertici laico-massonici e quelli curiali.»

Tratto dal libro: "FRATELLI D'ITALIA" di Ferruccio Pinotti
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venerdì 20 agosto 2010

Memorandum 200": il genocidio diventa politica estera americana Tratto da libro di Franco Adessa "ONU: gioco al massacro"

Nel 1965, il presidente degli USA, Johnson, dichiarava che 5 dollari, investiti nel controllo della popolazione, valevano quanto 100 dollari investiti nello sviluppo economico; Nixon, il 18 luglio 1969, in un messaggio al Congresso sulla popolazione, sottolineava: «Crediamo che le Nazioni Unite (...) dovranno prendere l’iniziativa di reagire contro la crescita della popolazione mondiale. Gli Stati Uniti collaboreranno interamente ai loro programmi in questo senso. Sono fortemente impressionato dalla forza del recente rapporto, prodotto dal gruppo di specialisti dell'Associazione delle Nazioni Unite, di cui John Davidson Rockefeller III è il presidente».

Nel 1970, l 'Amministrazione Nixon emise una direttiva che chiedeva una serie di studi per la diminuzione della popolazione mondiale.
Il 24 aprile 1974, venne pubblicato, con la firma di Henry Kissinger, il “National Security Study Memorandum 200”, che venne indirizzato, tra l'altro, al presidente americano Gerald Ford, ai Ministeri della Difesa, dell'Agricoltura, al Direttore della CIA e agli amministratori della AID (Agency for International Development). Il "Memorandum" è «(...) uno studio sull'impatto della crescita della popolazione mondiale sugli interessi strategici esteri americani. (...) (e) mette a fuoco le implicazioni politiche ed economiche internazionali della crescita della popolazione, più che (i relativi) aspetti ecologici, sociologici o di altra natura»(1).

Il 16 ottobre 1975, il "Memorandum" viene inviato al Presidente Ford, insieme a raccomandazioni confidenziali di Henry Kissinger, che incoraggiavano il Presidente a prendere una decisione sulla necessità «della leadership degli Stati Uniti sulle questioni concernenti la popolazione mondiale».
Questo cinico documento, che apertamente riconosce la relazione esistente tra la potenza politico-economico-militare di una nazione e il suo incremento demografico, in piena malafede, propone lo spopolamento di intere nazioni come unica soluzione in grado di mantenere i privilegi americani nel commercio di materiali strategici per il settore industriale e di conservare la supremazia militare americana. La crescita demografica di questi paesi viene additata come il peggior nemico da combattere con determinazione e con ogni mezzo! Lo studio sottolinea il pericolo, rappresentato dal crescente ruolo politico e strategico, sulla scena mondiale, delle nazioni più popolose del pianeta, e fornisce un elenco di questi paesi ai quali gli Stati Uniti devono dedicare una particolare attenzione; essi sono: India, Bangladesh, Pakistan, Nigeria, Messico, Indonesia, Brasile, Filippine, Tailandia, Egitto, Turchia, Etiopia, Colombia.

Agli elevati costi in aiuti economici, indispensabili per aumentare la produzione agricola dei paesi popolosi, viene fornita questa alternativa: «una serie di disastri nei raccolti potrebbe trasformare alcune di queste nazioni (in via di sviluppo) in casi di malthusianesimo classico, con carestie che potrebbero coinvolgere milioni di persone».
Il Rapporto, pur riconoscendo storicamente che le nazioni in fase di industrializzazione sono accompagnate da un desiderabile incremento demografico: «...la loro popolazione, generalmente, subisce una fase di rapida crescita demografica...dovuta alla relativa facilità nell'applicazione di politiche sanitarie che determinano un declino della mortalità, mentre il tasso delle nascite rimane alto», insiste sulla politica di spopolamento, giustificandola con queste parole: «dal punto di vista degli interessi americani, la riduzione delle richieste di cibo dei paesi in via di sviluppo (dovuta alla limitazione della crescita demografica) è vantaggiosa (perché questo) riduce solo le loro richieste di aiuti economici, mentre non intacca lo scambio commerciale»(2)

Il Memorandum riporta il "problema della resistenza delle Nazioni in via di sviluppo" ai piani di riduzione della popolazione, contenuti nel "World Population Conference Plan Action", presentato alla Conferenza Mondiale sulla Popolazione di Bucarest, nell'agosto del 1974, lamentando i cinque tremendi attacchi dell'Algeria, con l'appoggio di diversi paesi africani; dell'Argentina, sostenuta dall'Uruguay, Brasile, Perù e, più limitatamente, da altri paesi latino-americani; del gruppo dell'Europa dell'Est (meno la Romania ); della Repubblica Popolare Cinese e della Santa Sede.
Il Memorandum sottolinea la necessità di applicare pressioni sui governi stranieri e sui loro leaders, in modo sottile ed efficace, al fine di erodere queste opinioni e queste resistenze, offrendo anche la collaborazione del Governo americano alle Organizzazioni dell'ONU, quali: OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), UNFPA (Fondo per le Attività sulla Popolazione delle Nazioni Unite), Banca Mondiale e UNICEF, in altre attività che includono anche la pianificazione familiare.

Un'altra direttiva del "Memorandum" richiede che gli Stati Uniti si occupino di programmi di familiarizzazione di questi obiettivi di contenimento e di riduzione della popolazione dei paesi in via di sviluppo, da tenere presso la sede centrale delle Nazioni Unite a New York, e indirizzati a ministri, ad alti incaricati governativi, a responsabili politici ed altri leaders privati che abbiano una certa influenza sull'opinione pubblica.
Nello studio, viene previsto anche il ruolo della Banca Mondiale che, con le sue risorse e con la sua stretta collaborazione con agenzie dell'ONU, quali la AID (Agency for Intemational Development) e la UNFPA (Fondo per la Popolazione delle Nazioni Unite), potrebbe promuovere, con efficacia, l'accettazione di queste politiche anti-demografiche presso i responsabili dei paesi in via di sviluppo.

Dopo aver individuato il pericolo di determinati paesi popolosi e ricchi di materie prime, perché, in futuro, "capaci di sostenere un'espansione demografica", il "Memorandum" indica le linee d'azione per indurre queste popolazioni ad accettare un cambiamento radicale di mentalità e imporre il modello della famiglia ridotta e quello di società a basso tasso di natalità.
Il documento espone al Presidente degli Stati Uniti e al Segretario di Stato il problema della crescita della popolazione come una questione di estrema importanza, raccomandando loro l'obiettivo strategico di ridurre drasticamente i tassi di fertilità nel terzo mondo.
Nulla viene escluso per ottenere i risultati desiderati: viene raccomandato il trasferimento della "tecnologia contraccettiva", la sterilizzazione, l'aborto, il condizionamento della popolazione e dei leaders politici; viene persino consigliato l'uso di propaganda da trasmettere nel mondo, via satellite. Tutto questo - viene suggerito - dovrà essere fatto in modo sottile senza rischiare di suscitare reazioni ed opposizioni, scegliendo la strada del propagandare più i benefici della riduzione della popolazione, quali la libertà di scelta individuale, l'assistenza sanitaria e lo sviluppo economico dei paesi più poveri, che i lati negativi.

Se tutto questo non bastasse, si prospetta anche che gli aiuti economici e il cibo dovranno essere condizionati all'impegno, dimostrato dal paese richiedente, sul fronte della riduzione del tasso di fertilità interno!
Il documento include, infine, una breve analisi sugli aspetti razziali, etnici, culturali e religiosi che possono portare a conflitti e a rivoluzioni politiche. In modo particolare, dove la densità demografica non sia rilevante, viene esaminata la capacità di destabilizzazione del diverso tasso di crescita demografica dei diversi gruppi etnici: «Pertanto, differenze nel tasso di crescita di queste popolazioni possono esercitare un ruolo determinante nel causare cambiamenti politici e conflitti, laddove la densità demografica, la "sovrappopolazione" di cui si parla, sia molto meno importante» 99.

Il 26 novembre 1975, le raccomandazioni politiche del "Memorandum 200", insieme ai suggerimenti proposti da Kissinger, vennero accolti dall'Amministrazione americana. Lo spopolamento di intere nazioni della terra entrava, così, a far parte della politica estera degli Stati Uniti! A firmare e a ufficializzare questo atto era stato il Direttore del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, e intimo di Kissinger, Brent Scowcroft. Subito dopo, Kissinger creava lo “0ffice of Population Affairs", presso il Dipartimento di Stato, e lo "Ad Hoc Group on Population Policy", presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale, per la messa in atto delle politiche genocide proposte dal "Memorandum 200".
Il primo esperimento di queste due nuove Istituzioni fu: la guerra civile in Libano!

Note:
(1) Summary of National Security Study Memorandum 200
(2) Idem

ORDINA IL LIBRO: "ONU: gioco al massacro"




Ecco alcune dichiarazioni del principe Filippo d'Inghilterra, massone d'alto rango e presidente internazionale del WWF:

- «Nel caso io rinasca, mi piacerebbe essere un virus letale, così da contribuire a risolvere il problema della sovrappopolazione». (Deutsche Press Agentur, agosto 1988).

- «Adesso è evidente che il pragmatismo ecologico delle religioni cosiddette pagane, come gli indiani d'America, i polinesiani e gli aborigeni australiani, è di gran lunga più realistico, per quanto concerne l'etica della conservazione, delle più intellettuali filosofie monoteistiche delle religioni rivelate». (Conferenza al National Press Club di Washington, 18 maggio 1990).

- «Ciò che viene definito è semplicemente un sistema di auto-limitazione della natura. Fertilità e procreazione, dopo aver compensato le perdite, producono dei surplus. Predazione, variazioni climatiche, malattie, fame - e guerre e terrorismo, nel caso di quello che viene impropriamente chiamato Homo Sapiens - sono i mezzi principali che mantengono sotto controllo il numero della specie». (Dal libro del principe Filippo: "Down to Earth”, al capitolo: “il fattore demografico").
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ecco gli uomini che comandano il mondo ?

BILDERBERG MEETING Chantilly, Virginia, USA
5-8 giugno 2008
LISTA DEI PARTECIPANTI

Honorary Chairman
BEL Davignon, Etienne Vice Chairman, Suez-Tractebel

DEU Ackermann, Josef Chairman of the Management Board and the Group Executive Committee, Deutsche Bank AG
CAN Adams, John Associate Deputy Minister of National Defence and Chief of the Communications Security Establishment Canada
USA Ajami, Fouad Director, Middle East Studies Program, The Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, The Johns Hopkins University
USA Alexander, Keith B. Director, National Security Agency
INT Almunia, Joaquín Commissioner, European Commission
GRC Alogoskoufis, George Minister of Economy and Finance
USA Altman, Roger C. Chairman, Evercore Partners Inc.
TUR Babacan, Ali Minister of Foreign Affairs
NLD Balkenende, Jan Peter Prime Minister
PRT Balsemão, Francisco Pinto Chairman and CEO, IMPRESA, S.G.P.S.; Former Prime Minister
FRA Baverez, Nicolas Partner, Gibson, Dunn & Crutcher LLP
ITA Bernabè, Franco CEO, Telecom Italia Spa
USA Bernanke, Ben S. Chairman, Board of Governors, Federal Reserve System
SWE Bildt, Carl Minister of Foreign Affairs
FIN Blåfield, Antti Senior Editorial Writer, Helsingin Sanomat
DNK Bosse, Stine CEO, TrygVesta
CAN Brodie, Ian Chief of Staff, Prime Minister’s Office
AUT ‘Bronner, Oscar Publisher and Editor, Der Standard
FRA Castries, Henri de Chairman of the Management Board and CEO, AXA
ESP Cebrián, Juan Luis CEO, PRISA
CAN Clark, Edmund President and CEO, TD Bank Financial Group
GBR Clarke, Kenneth Member of Parliament
NOR Clemet, Kristin Managing Director, Civita
USA Collins, Timothy C. Senior Managing Director and CEO, Ripplewood Holdings, LLC
FRA Collomb, Bertrand Honorary Chairman, Lafarge
PRT Costa, António Mayor of Lisbon
USA Crocker, Chester A.James R. Schlesinger Professor of Strategic Studies
USA Daschle, Thomas A. Former US Senator and Senate Majority Leader
CAN Desmarais, Jr., Paul Chairman and co-CEO, Power Corporation of Canada
GRC Diamantopoulou, Anna Member of Parliament
USA Donilon, Thomas E. Partner, O'Melveny & Myers
ITA Draghi, Mario Governor, Banca d’Italia
AUT Ederer, Brigitte CEO, Siemens AG Österreich
CAN Edwards, N. Murray Vice Chairman, Candian Natural Resources Limited
DNK Eldrup, Anders President, DONG A/S
ITA Elkann, John Vice Chairman, Fiat S.p.A.
USA Farah, Martha J. Director, Center for Cognitive Neuroscience; Walter H. Annenberg Professor in the Natural Sciences, University of Pennsylvania
USA Feldstein, Martin S. President and CEO, National Bureau of Economic Research
DEU Fischer, Joschka Former Minister of Foreign Affairs
USA Ford, Jr., Harold E. Vice Chairman, Merill Lynch & Co., Inc.
CHE Forstmoser, Peter Professor for Civil, Corporation and Capital Markets Law, University of Zürich
IRL Gallagher, Paul Attorney General
USA Geithner, Timothy F. President and CEO, Federal Reserve Bank of New York
USA Gigot, Paul Editorial Page Editor, The Wall Street Journal
IRL Gleeson, Dermot Chairman, AIB Group
NLD Goddijn, Harold CEO, TomTom
TUR Gögüs, Zeynep Journalist; Founder, EurActiv.com.tr
USA Graham, Donald E. Chairman and CEO, The Washington Post Company
NLD Halberstadt, Victor Professor of Economics, Leiden University; Former Honorary Secretary General of Bilderberg Meetings
USA Holbrooke, Richard C. Vice Chairman, Perseus, LLC
FIN Honkapohja, Seppo Member of the Board, Bank of Finland
INT Hoop Scheffer, Jaap G. de Secretary General, NATO
USA Hubbard, Allan B. Chairman, E & A Industries, Inc.
BEL Huyghebaert, Jan Chairman of the Board of Directors, KBC Group
DEU Ischinger, Wolfgang Former Ambassador to the UK and US
USA Jacobs, Kenneth Deputy Chairman, Head of Lazard U.S., Lazard Frères & Co. LLC
USA Johnson, James A. Vice Chairman, Perseus, LLC (Obama’s man tasked with selecting his running mate)
SWE Johnstone, Tom President and CEO, AB SKF
USA Jordan, Jr., Vernon E. Senior Managing Director, Lazard Frères & Co. LLC
FRA Jouyet, Jean-Pierre Minister of European Affairs
GBR Kerr, John Member, House of Lords; Deputy Chairman, Royal Dutch Shell plc.
USA Kissinger, Henry A. Chairman, Kissinger Associates, Inc.
DEU Klaeden, Eckart von Foreign Policy Spokesman, CDU/CSU
USA Kleinfeld, KlausPresident and COO, Alcoa
TUR Koç, Mustafa Chairman, Koç Holding A.S.
FRA Kodmani, BassmaDirector, Arab Reform Initiative
USA Kravis, Henry R. Founding Partner, Kohlberg Kravis Roberts & Co.
USA Kravis, Marie-JoséeSenior Fellow, Hudson Institute, Inc.
INT Kroes, Neelie Commissioner, European Commission
POL Kwasniewski, Aleksander Former President
AUT Leitner, Wolfgang CEO, Andritz AG
ESP León Gross, Bernardino Secretary General, Office of the Prime Minister
INT Mandelson, Peter Commissioner, European Commission
FRA Margerie, Christophe de CEO, Total
CAN Martin, Roger Dean, Joseph L. Rotman School of Management, University of Toronto
HUN Martonyi, János Professor of International Trade Law; Partner, Baker & McKenzie; Former Minister of Foreign Affairs
USA Mathews, Jessica T. President, Carnegie Endowment for International Peace
INT McCreevy, Charlie Commissioner, European Commission
USA McDonough, William J. Vice Chairman and Special Advisor to the Chairman, Merrill Lynch & Co., Inc.
CAN McKenna, Frank Deputy Chair, TD Bank Financial Group
GBR McKillop, Tom Chairman, The Royal Bank of Scotland Group
FRA Montbrial, Thierry de President, French Institute for International Relations
ITA Monti, Mario President, Universita Commerciale Luigi Bocconi
USA Mundie, Craig J. Chief Research and Strategy Officer, Microsoft Corporation
NOR Myklebust, Egil Former Chairman of the Board of Directors SAS, Norsk Hydro ASA
DEU Nass, Matthias Deputy Editor, Die Zeit
NLD Netherlands, H.M. the Queen of the
FRA Ockrent, Christine CEO, French television and radio world service
FIN Ollila, Jorma Chairman, Royal Dutch Shell plc
SWE lofsson, Maud Minister of Enterprise and Energy; Deputy Prime Minister
NLD Orange, H.R.H. the Prince of
GBR Osborne, George Shadow Chancellor of the Exchequer
TUR Öztrak, Faik Member of Parliament
ITA Padoa-Schioppa, Tommaso Former Minister of Finance; President of Notre Europe
GRC Papahelas, Alexis Journalist, Kathimerini
GRC Papalexopoulos, Dimitris CEO, Titan Cement Co. S.A.
USA Paulson, Jr., Henry M. Secretary of the Treasury
USA Pearl, Frank H. Chairman and CEO, Perseus, LLC
USA Perle, Richard N. Resident Fellow, American Enterprise Institute for Public Policy Research
FRA Pérol, François Deputy General Secretary in charge of Economic Affairs
DEU Perthes, VolkerDirector, Stiftung Wissenschaft und Politik
BEL Philippe, H.R.H. Prince
CAN Prichard, J. Robert S. President and CEO, Torstar Corporation
CAN Reisman, Heather M. Chair and CEO, Indigo Books & Music Inc.
USA Rice, Condoleezza Secretary of State
PRT Rio, Rui Mayor of Porto
USA Rockefeller, David Former Chairman, Chase Manhattan Bank
ESP Rodriguez Inciarte, Matias Executive Vice Chairman, Grupo Santander
USA Rose, Charlie Producer, Rose Communications
DNK Rose, Flemming Editor, Jyllands Posten
USA Ross, Dennis B. Counselor and Ziegler Distinguished Fellow, The Washington Institute for Near East Policy
USA Rubin, Barnett R. Director of Studies and Senior Fellow, Center for International Cooperation, New York University
TUR Sahenk, Ferit Chairman, Dogus Holding A.S.
USA Sanford, Mark Governor of South Carolina
USA Schmidt, Eric Chairman of the Executive Committee and CEO, Google
AUT Scholten, Rudolf Member of the Board of Executive Directors, Oesterreichische Kontrollbank AG
DNK Schur, Fritz H. Fritz Schur Gruppen
CZE Schwarzenberg, Karel Minister of Foreign Affairs
USA Sebelius, Kathleen Governor of Kansas
USA Shultz, George P. Thomas W. and Susan B. Ford Distinguished Fellow, Hoover Institution, Stanford University
ESP Spain, H.M. the Queen of
CHE Spillmann, Markus Editor-in-Chief and Head Managing Board, Neue Zürcher Zeitung AG
USA Summers, Lawrence H. Charles W. Eliot Professor, Harvard University
GBR Taylor, J. Martin Chairman, Syngenta International AG
USA Thiel, Peter A. President, Clarium Capital Management, LLC
NLD Timmermans, Frans Minister of European Affairs
RUS Trenin, Dmitri V. Deputy Director and Senior Associate, Carnegie Moscow Center
INT Trichet, Jean-Claude President, European Central Bank
USA Vakil, Sanam Assistant Professor of Middle East Studies, The Paul H. Nitze School of Advanced International Studies, Johns Hopkins University
FRA Valls, Manuel Member of Parliament
GRC Varvitsiotis, Thomas Co-Founder and President, V + O Communication
CHE Vasella, Daniel L. Chairman and CEO, Novartis AG
FIN Väyrynen, Raimo Director, The Finnish Institute of International Affairs
FRA Védrine, Hubert Hubert Védrine Conseil
NOR Vollebaek, Knut High Commissioner on National Minorities, OSCE
SWE Wallenberg, Jacob Chairman, Investor AB
USA Weber, J. Vin CEO, Clark & Weinstock
USA Wolfensohn, James D. Chairman, Wolfensohn & Company, LLC
USA Wolfowitz, Paul Visiting Scholar, American Enterprise Institute for Public Policy Research
INT Zoellick, Robert B. President, The World Bank Group

Rapporteurs
GBR Bredow, Vendeline von Business Correspondent, The Economist
GBR Wooldridge, Adrian D. Foreign Correspondent, The Economist

AUT Austria HUN Hungary
BEL Belgium INT International
CHE Switzerland IRL Ireland
CAN Canada ITA Italy
CZE Czech Republic NOR Norway
DEU Germany NLD Netherlands
DNK Denmark PRT Portugal
ESP Spain POL Poland
FRA France RUS Russia
FIN Finland SWE Sweden
GBR Great Britain TUR Turkey
GRC Greece USA United States of Americ




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