venerdì 25 maggio 2012

COSA LORO - IL BOSS BERNARDO PROVENZANO NON FU CATTURATO, MA VENDUTO - FU LUI STESSO A TRATTARE LA SUA RESA CON IL SISMI E LA GUARDIA DI FINANZA TRAMITE UN INFORMATORE - “CHIESE 2 MLN €. DOVEVA ESSERE GIÀ CATTURATO NEL 2004, MA L’ACCORDO SALTÒ PERCHÉ I SOLDI DESTINATI ALL’OPERAZIONE SONO STATI USATI PER SALVARE I QUATTRO CONTRACTORS IN IRAQ” - “LA CATTURA FU ANNUNCIATA IL GIORNO DOPO LE ELEZIONI PER RAGIONI POLITICHE”…

Sandro Ruotolo per il "Fatto quotidiano" BERNARDO PROVENZANO REPUBBL Quali misteri avvolgono la lunga latitanza di Bernardo Provenzano? Il padrino corleonese fu arrestato a Montagna dei cavalli, vicino a Corleone. Le immagini della sua cattura fecero il giro del mondo, ma qualcuno sospetta che Provenzano avrebbe potuto concordare la sua resa tramite un informatore della Guardia di finanza. L'uomo si presentò alla Procura nazionale antimafia come messaggero del boss. BERNARDO PROVENZANO ARRESTATO Segreto assoluto, un carcere nel Nord Italia e trenta giorni di tempo per fare dichiarazioni: queste le condizioni dettate da Provenzano. Oltre a una garanzia di 2 milioni di euro. "L'accordo c'era. Poi però l'operazione saltò". Per Pier Luigi Vigna era affidabile, per il suo successore Pietro Grasso un truffatore. Qualche settimana fa era uscita la notizia di una serie di incontri presso la direzione nazionale antimafia avvenuti tra il 2003 e il 2005. Era stato il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso a parlarne pubblicamente, per la prima volta, lo scorso dicembre al Csm dove veniva sentito nel procedimento contro il suo vice, il sostituto procuratore Alberto Cisterna accusato, dalla Procura di Reggio Calabria, di corruzione in atti giudiziari. "Quando presi il posto di Pier Luigi Vigna alla Procura nazionale antimafia mi fu prospettata dai colleghi la situazione di un informatore, qualcuno che voleva rendere dichiarazioni e collaborare per la cattura di Provenzano". La prima visita in Procura nazionale del messaggero è del 10 dicembre 2003, poi ci torna il 15 luglio 2004. La trattativa va avanti fino a quando alla Dna arriva Pietro Grasso, che incontra l'intermediario di Provenzano nel 2005. L'ex procuratore di Palermo a quel tempo è tra i pochi a sapere che Provenzano è stato operato a Marsiglia, ed è in possesso del dna del boss. Per questo chiede al messaggero una prova biologica: un fazzoletto, un bicchiere. Che non arriverà mai. PIERO GRASSO PROCURATORE ANTIMAFIA PIER LUIGI VIGNA Leggo il verbale di Grasso (il magistrato commette un errore affermando che Provenzano fu catturato nel marzo 2006. Ufficialmente fu preso il giorno dopo le elezioni politiche, l'11 aprile 2006), intervisto l'ex procuratore Vigna e l'attuale procuratore generale di Ancona, Enzo Macrì, parlo con Alberto Cisterna. Ho tutta la storia raccontata dai vari protagonisti. Mi manca solo l'attore principale. Non mi resta che andarlo a cercare. Quando busso al citofono della palazzina dove vive l'intermediario di Bernardo Provenzano penso di non trovar nessuno o di dovermela cavare con la solita intervista "al citofono". La fortuna vuole che "il messaggero" stesse aspettando il postino e scende ad aprirmi il portone. All'intermediario garantisco di non rivelare il nome. All'inizio è titubante. Poi poco alla volta si scioglie: "Io ho avuto degli incontri con l'allora procuratore Vigna e con i sostituti Cisterna e Macrì. Dal 1986 ho fatto l'infiltrato per la Guardia di finanza". Ma chi è l'uomo che ho davanti? "Sono esperto di flussi finanziari sull'anti-riciclaggio. Sono stato quattro anni in Iraq, durante la guerra. Mi ha assoldato la Cia". Ci sono particolari che divergono tra i testimoni. Secondo Cisterna, Vigna e Macrì la trattativa fallisce perché Provenzano, dopo l'intervento chirurgico per il tumore alla prostata dell'ottobre del 2003 a Marsiglia, non solo voleva consegnarsi ma aveva chiesto un mese di tempo, prima dell'annuncio ufficiale della "cattura", per poter fare dichiarazioni ai magistrati. Per cautelarsi, secondo i magistrati, voleva 2 milioni di euro come prova che lo Stato aveva pagato e che lui era stato venduto. NICOLO POLLARI Una parte di questi soldi sarebbero andati a una terza persona. Ma "il messaggero" era vincolato al segreto sull'identità del terzo uomo. Per questo Vigna decise di fermarsi. Ma chi era il terzo uomo? "Non esiste", secondo il messaggero. "Esiste una piramide, un'istituzione... Ci faccia caso: loro hanno catturato Provenzano prima del voto, ma hanno detto in televisione che era stato catturato dopo il voto, perché è una questione squisitamente politica, tutto il resto è noia". Ma chi sono "loro", i servizi? "Guardi, io ero già nel Sismi da quattro anni, tramite la Guardia di finanza". Ma insomma, Provenzano l'hanno catturato o si è consegnato? "Provenzano doveva essere preso prima, c'era un accordo che è saltato". Non era un problema di soldi: quelli li avrebbe trovati il Sismi di Niccolò Pollari. "Erano più di 2 milioni di euro" secondo il messaggero. L'accordo poteva essere raggiunto già nel 2004, ma successe qualcosa di imprevisto. "I soldi destinati all'operazione sono stati deviati da un'altra parte, perché c'era la necessità di salvare quattro vite umane". Il messaggero parla dei quattro contractors italiani rapiti in Iraq. "La verità è che mi hanno chiesto troppe cose, tutte insieme. Ma io alla pelle ci tengo". Poi, a un certo punto, il messaggero riceve la telefonata di un finanziere: "Guarda che l'hanno catturato. E io gli rispondo: l'avete venduto". http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/cosa-loro-il-boss-bernardo-provenzano-non-fu-catturato-ma-venduto-fu-lui-stesso-39415.htm

BERLINO BARBARA - PARLA IL NOBEL PAUL KRUGMAN: “I TEDESCHI DICONO IN MODO SINCERO COSE FALSE” - MONTI, HOLLANDE, RAJOY POSSONO FARE QUALCOSA, MA NON FARE MOLTO. L’UNICA ARMA CHE HANNO È ANDARE A BERLINO E DIRE: QUESTO È IL PIANO PER SALVARE L’EURO, SE LO ACCETTATE BENE, ALTRIMENTI CROLLA TUTTO” - LA FORMULA SALVEZZA: “SPENDERE ORA, PAGARE DOPO”.…

Mattia Ferraresi per "il Foglio" MARIO MONTI E IL DITINO ALZATO FRANCOIS HOLLANDE La conversazione del Foglio con Paul Krugman parte da quella volta in cui il columnist del New York Times ha assistito a un discorso del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble. Nel mezzo della prolusione la moglie del professore di Princeton, l'economista Robin Wells, gli s'è avvicinata all'orecchio e ha sussurrato: "All'uscita distribuiranno delle fruste per autoflagellarci". La ponderata esposizione del ministro si era improvvisamente trasformata in un sermone costruito sull'idea che la crisi fosse una colpa ineluttabile da espiare necessariamente con il cilicio dell'austerità. In tedesco, del resto, il termine "Schuld" significa debito, ma anche colpa. Krugman racconta l'episodio nella sua tagliente requisitoria intitolata "End this depression now!", dove l'accento cade sul "now", perché il premio Nobel non si esercita nell'eziologia della crisi, ma ragiona intorno alle vie per uscirne. E l'ostacolo che impedisce a cancellerie e amministrazioni di adottare misure drastiche e tuttavia facilmente praticabili è "quell'invincibile desiderio di vedere l'economia come un ‘morality play' nel quale i tempi duri sono una punizione ineluttabile per eccessi precedenti". ANGELA MERKEL MARIANO RAJOY Le operette morali nascoste sotto l'ordito della crisi sono una costante del discorso krugmaniano. America ed Europa propongono il paradigma dell'austerità secondo declinazioni differenti; Berlino insiste in modo ossessivo sulla responsabilità, sia nel senso della colpa per le passate baldorie sia nel senso delle riforme che cerca di imporre ai paesi dell'Eurozona, mentre a Washington l'ortodossia repubblicana martella sul taglio della spesa e la riduzione del debito. "C'è una differenza fra le due impostazioni", dice Krugman. "Credo che i tedeschi, guidati dalla figlia di un pastore luterano, siano sinceri nella loro lettura moralistica degli eventi. Il problema è che dicono in modo sincero cose completamente false, ma non penso insistano sull'austerità per un progetto di potere o un calcolo, tanto che ora la Germania rischia di essere la vittima più illustre della sua stessa logica". Sembra di sentire l'eco di un profetico pamphlet di Gilbert Keith Chesterton intitolato "Berlino barbara", anno 1914, dove sosteneva che la barbarie teutonica, una barbarie culturalmente assai avanzata, si esprime sommamente nella buona fede con cui i tedeschi prendono decisioni disastrose. E allora lo scrittore inglese le conseguenze poteva soltanto immaginarle. "In America è diverso - continua Krugman - c'è molta più ipocrisia e ci si appella all'austerità in modo selettivo". "Questo vale per entrambi gli schieramenti, anche se i repubblicani hanno fatto della riduzione del deficit e del taglio delle tasse una bandiera. Peccato che non si rendano conto che tagliare le tasse aumenta il deficit". Per Krugman il problema del Gop è di aver promosso la lezione libertaria di Ron Paul e compagni di Tea Party a ortodossia di partito, "perché la versione secondo cui lo stato è il responsabile di ogni male è più semplice. BARACK OBAMA JPEG Siamo di fronte alla crisi del friedmanismo, filosofia incoerente, perché ammette nelle sue premesse che il governo è l'unico soggetto in grado di aggiustare i problemi del mercato. Quando è scoppiata la crisi, i repubblicani si sono resi conto che spiegare il meccanismo in cui loro stessi credevano era politicamente troppo difficile, quindi ne hanno creato una versione semplificata". Merkel, dice l'economista, è intrappolata nella "Grande Delusione" che deriva dalla scoperta che l'austerità ha effetti devastanti sulla realtà economica; gli americani sono fermi alla "Grande Bugia" che consiste nell'attribuire allo stato ogni colpa. ELSA FORNERO La ricetta ultrakeynesiana di Krugman per uscire dalla crisi è reiterata in decine di editoriali e conferenze, e il libro "End this depression now!" la sintetizza con la formula: "Spendere ora, pagare dopo". La politica dello stimolo praticata da Barack Obama nel 2009, con il contestuale taglio dei tassi da parte della Fed, è la medicina giusta, che però è stata somministrata in dosi insufficienti. PAUL KRUGMAN E più la ripresa economica mostra la sua fragilità, più diventa chiaro agli occhi di questo spadaccino della teoria economica che l'origine della scelta obamiana è dolosa. Con una certà voluttà ricorda il documento in cui il suo avversario Larry Summers spiegava al presidente che uno stimolo da 787 miliardi di dollari sarebbe stato insufficiente per spingere il paese fuori dalla depressione ("al massimo avrebbe tamponato la recessione, come si è visto", dice Krugman) ma aumentare le proporzioni della manovra sarebbe stato politicamente dannoso. E Obama, dice, sta scoprendo alla fine del primo mandato che anche il calcolo politico era sbagliato. "Non c'è altra soluzione - continua Krugman - oltre a immettere liquidità, sostenere il mercato del lavoro, e accettare un ragionevole aumento dell'inflazione. Possiamo stare qui a ragionare sulle cause della crisi per una vita, il problema ora è uscirne. Questo è il punto che i politici non capiscono, e passano il loro tempo a spiegare che questa volta è diverso, siamo in mezzo a un crisi strutturale. Per fortuna non è vero, ma per sfortuna chi ha il potere di prendere le decisioni non lo capisce, o non lo vuole capire". KRUGMAN-PRAYING- La storia del futuro europeo, poi, ha due versioni. Una è quella dello storico Niall Ferguson, convinto che l'Eurozona sia costretta ad andare verso un destino federalista forse malignamente programmato sin dall'inizio, un superstato con una politica economica condivisa e scritta sostanzialmente in tedesco; l'altra versione è il "divorzio di velluto", un break-up controllato della zona euro, tratteggiato da Gideon Rachman sul Financial Times. "Se potessi - dice l'adepto della fantascienza Krugman - prenderei la macchina del tempo, andrei a Maastricht nel 1992, entrerei nella sala dove firmano il Trattato e griderei: stop! Un esito più credibile sarebbe quello federalista, ma ci vorrebbe un Hamilton europeo, e il problema è che non c'è. La visione di Ferguson di un'Europa più simile agli Stati Uniti, con una Bce che fa da garante della moneta, è auspicabile, ma non succederà. Una Eurodämmerung è la soluzione più probabile e anche la più dolorosa, in termini economici e politici, ma non vedo alternative". Monti e Hollande, con l'appoggio esterno di Obama, non hanno gli strumenti per piegare l'austerità merkeliana? PAUL KRUGMAN "Monti sta facendo bene e sono prudentemente fiducioso in Hollande. Loro, assieme a Rajoy, possono fare qualcosa, ma non fare molto. L'unica arma che hanno è andare a Berlino e dire: questo è il piano per salvare l'euro, se lo accettate bene, altrimenti crolla tutto. Non può essere altro che l'iniziativa europea però, l'America, purtroppo, può fare soltanto moral suasion". E una piattaforma di riforme strutturali per aumentare la competitività, rendere flessibile il mercato del lavoro e dare una sferzata al ciclo economico non può salvare l'Europa? In Italia il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ha tentato di fare una riforma storica, che è stata annacquata dalle pressioni dei sindacati: "Un provvedimento molto giusto, perché il mercato del lavoro italiano è troppo rigido. Non bisogna confondere le cose, però. Le riforme strutturali non ci faranno uscire dalla depressione, sono lente e danno benefici nel lungo periodo. Ma, come diceva Keynes, nel lungo periodo siamo tutti morti". http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/berlino-barbara-parla-il-nobel-paul-krugman-i-tedeschi-dicono-in-modo-sincero-cose-39381.htm

giovedì 24 maggio 2012

FALCONE E BORSELLINO FURONO MERCE DI SCAMBIO - LA STRAGE DI CAPACI SERVÌ A RIINA PER AVVIARE LA TRATTATIVA O I PRIMI CONTATTI C’ERANO GIÀ STATI? - FALCONE DOVEVA ESSERE UCCISO A ROMA MA IL BOSS RICHIAMÒ I SUOI PICCIOTTI A PALERMO PER “COSE PIÙ IMPORTANTI”: UNA SETTIMANA DOPO FU ASSASSINATO SALVO LIMA - LE VITE DI FALCONE E BORSELLINO POTREBBERO ESSERE STATE MESSE SUL TAVOLO DA QUALCUNO A ROMA CHE VOLEVA SALVARSI IL CULO - BORSELLINO DISSE CHE “UN AMICO L’AVEVA TRADITO”...

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" FALCONE E BORSELLINO FALCONE BORSELLINO Forse anche Giovanni Falcone è morto per la trattativa tra Stato e mafia. Perché al momento della strage di Capaci i contatti tra boss e rappresentanti delle istituzioni erano già in corso, come ritengono i pubblici ministeri di Palermo che indagano in questa direzione, e per qualche ragione un attentato terroristico di quella portata ne fu la conseguenza. Oppure l'attentato servì per intavolarla, come ipotizza il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, titolare dell'indagine ancora aperta sulla morte del magistrato simbolo della lotta alla mafia: «Se Cosa Nostra voleva indurre lo Stato a scendere a patti ed evitare altre stragi, doveva prima farne una per rendere concreta la minaccia». In ogni caso, l'attentato di Capaci non fu solo la vendetta di Totò Riina contro il suo nemico storico, decisa da tempo. Almeno da dicembre del 1991, come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè che partecipò alla riunione in cui il capo dei capi comunicò la decisone di procedere alla resa dei conti. STRAGE CAPACI STRAGE VIA D'AMELIO C'era anche qualcosa che riguardava altri equilibri, che avevano a che fare con la politica e le «relazioni esterne» di Cosa Nostra. Ecco perché continua la ricerca della verità che non può fermarsi davanti al alcuna «ragion di Stato», come auspica il presidente del Consiglio. Il suo predecessore, Berlusconi, tre anni fa se la prese con le Procure che perdevano tempo e soldi «ricominciando a guardare fatti del '92, '93, '94. Follia pura». Per Mario Monti, al contrario, «i pezzi mancanti che devono essere cercati fino in fondo». Il principale, su Capaci, è il motivo per cui l'omicidio di Giovanni Falcone non fu eseguito a Roma dove il giudice lavorava durante la settimana, come pure era stato programmato, in maniera più «semplice», bensì sulla strada per Palermo, con modalità terroristiche e quasi eversive. Suscitando una reazione ben più grande di quella che sarebbe seguita a un delitto in una strada della capitale, sia pure così «eccellente». TOTO RIINA È il rovello del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, per il quale quella decisione resta inspiegabile. Il magistrato lo ripete ad ogni occasione, anche per lui su quell'attentato non s'è scoperto tutto. A cominciare da quella decisione presa da Riina. E ancora ieri ha invocato «la collaborazione di qualcuno che potrebbe sapere delle cose importanti, di qualcuno che ancora non ha detto tutto. Mi riferisco a chiunque, da qualunque parte provenga». PIERO GRASSO PROCURATORE ANTIMAFIA A Caltanissetta si sta per chiudere uno stralcio dell'indagine che, come spiega il procuratore Lari, cercherà di riempire i «buchi neri» rimasti aperti sul fronte degli esecutori materiali. L'inchiesta che fu svolta all'epoca e i conseguenti processi, a differenza di quella sulla morte di Paolo Borsellino, non ha subito depistaggi né ha lasciato aperte incognite significative per quanto riguarda le responsabilità di Cosa Nostra; era rimasto fuori qualche nome, che di qui a poco potrebbe essere individuato. Resta però da svolgere il lavoro sugli eventuali «concorrenti esterni», e in questa prospettiva ritorna l'interrogativo sulla scelta del metodo terroristico. PAOLO BORSELLINO LAP All'inizio di marzo del 1992, quando i «picciotti» spediti a Roma per valutare l'opportunità di colpire Falcone e altri futuri obiettivi a Roma riferirono a Riina che il «lavoro» si poteva fare, il boss ordinò di interrompere i preparativi perché «avevano trovato cose più importanti giù», cioè in Sicilia. Così ha riferito il pentito Vincenzo Sinacori, e da qui parte la ricerca ancora in corso degli inquirenti. Nel tentativo di spiegare la scelta di Riina. FALCONE GIOVANNI Una settimana dopo la comunicazione del padrino corleonese, a Palermo fu assassinato Salvo Lima. Il primo anello della «resa dei conti» e dell'attacco allo Stato. E il primo evento che, nella ricostruzione della trattativa che stanno ultimando i magistrati di Palermo, segna l'inizio del ricatto mafioso allo Stato. Da quel momento, ipotizzano gli inquirenti, i contatti tra i boss vennero cercati dagli uomini della politica e delle istituzioni, per impedire che continuasse la «mattanza» che l'omicidio Lima lasciava immaginare. La Cassazione aveva confermato il «teorema Buscetta» e il lavoro di Falcone e Borsellino, che invece a Roma doveva essere smentito. Di qui la reazione. C'era una lista di politici da eliminare dopo Lima, ma il programma si interruppe per cedere il passo alla strage di Capaci. Fu una conseguenza dei contatti con i boss ricercati da chi, magari, temeva per la propria vita? Al momento è solo un'ipotesi. Potrebbe essere uno dei «pezzi mancanti» di cui continua la ricerca. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/falcone-e-borsellino-furono-merce-di-scambio-la-strage-di-capaci-serv-a-riina-39358.htm

PER RISANARE LA JP MORGAN SERVIREBBE HARRY POTTER! - TUTTA COLPA DI “VOLDEMORT”, ALIAS BRUNO IKSIL, IL TRADER CHE HA PIAZZATO IL DERIVATO AD ALTO RISCHIO AGLI INVESTITORI DI MEZZO MONDO MANDANDO IN TILT LA PRIMA BANCA D’AMERICA: QUANDO JAMIE DIMON S’È ACCORTO DELL’ESPOSIZIONE MILIARDARIA DELLA SUA BANCA, HA RICOMPRATO TUTTI I CONTRATTI GENERANDO UN BUCO DA OLTRE 2 MLD DI DOLLARI…

Marco Bianchi per "Panorama" Jamie Dimon, amministratore delegato della JpMorgan, aveva appena intascato un bonus da 20,8 milioni di dollari quando ha dovuto chiedere scusa. Non per l'enorme somma ottenuta in un momento di crisi, ma per colpa di «Voldemort», che aveva fatto perdere alla sua azienda 2 miliardi di dollari. Forse 3. Voldemort è il cattivo di Harry Potter ed è il soprannome di un dipendente della JpMorgan che si è inventato un prodotto finanziario sofisticatissimo che ha venduto in quantità industriali a decine di investitori in giro per il mondo. BRUNO IKSIL Il prodotto derivato si basava sull'andamento di un indice rappresentativo di 125 imprese americane: chi comprava scommetteva sul peggioramento dei bilanci di quelle aziende, Voldemort, invece, scommetteva sul loro miglioramento. Stop: le 20 righe che avete appena letto sembrerebbero essere state scritte 5 anni fa, quando le banche d'affari del pianeta facevano utili a camionate e i loro manager incassavano premi a palate salvo poi scoprire, dalla sera alla mattina, che qualche trader ragazzino aveva provocato buchi colossali nei bilanci. JP MORGAN Invece no, le 20 venti righe sono state scritte oggi, maggio 2012, a cinque anni di distanza dal collasso finanziario mondiale che ha mandato in fumo decine di milioni di posti di lavoro e fatto sprofondare l'Occidente in una crisi dalla quale una sua fetta importante non è ancora uscita. La storia di Voldemort, chiamato anche «la Balena di Londra», al secolo Bruno Iksil, 37 anni, di origine francese ma residente nella capitale britannica, è drammatica ma non grandiosa. Piuttosto è meschina, ed è questa. Alla fine di febbraio Iksil, del quale non esiste nemmeno una foto, si è inventato un contratto di un paio di paginette basate su un modello matematico che permetteva alla sua banca di guadagnare centinaia di milioni di dollari ogni volta che riusciva a piazzarlo in grandi quantità. Iksil doveva essere particolarmente bravo se, secondo i dati diffusi dalla JpMorgan, poteva arrivare a fare utili per 126 milioni di dollari al giorno. Il giocattolino che si era inventato funzionava così bene che nessuno dei suoi supervisori aveva trovato nulla di disdicevole nel suo operato. JAMIE DIMON DI JP MORGAN E tantomeno a nessuno era mai passata per il cervello l'ipotesi di mettere un freno alle vendite di Iksil, che pare abbiano contribuito in maniera sostanziosa ai 5,4 miliardi di utili che la JpMorgan ha fatto registrare solo nel primo trimestre del 2012. Il giocattolino si rompe il 6 aprile quando Dimon, presidente e amministratore delegato, legge sul Wall Street Journal un articolo sulle enormi posizioni che un suo dipendente, Voldemort appunto, aveva preso sul mercato dei derivati. «Iksil? Who is Iksil?» chiese a Doug Braunstein, il responsabile finanziario della banca. GEORGE SOROS Non dev'essere stato bello per il banchiere che George Soros definì «l'unico con le palle» apprendere dal giornale dell'esposizione incredibilmente alta che la sua banca aveva assunto sul mercato dei derivati. Ma è andata proprio così. Dimon e Braunstein chiamano Ina Drew, la responsabile dell'ufficio londinese. Dall'alto dei suoi 29 milioni di bonus più 1,2 di stipendio incassati solo nell'ultimo anno (anche grazie a speculazioni come quelle di Iksil), Drew rassicura che tutto è perfettamente gestibile. Secondo il modello matematico che stava alla base delle scelte di investimento, nella peggiore delle ipotesi la banca avrebbe perso appena 100 milioni di dollari. Così, il 13 aprile, Dimon e Braunstein convocano una conferenza stampa per spiegare che «è solo una tempesta in un bicchier d'acqua». Quella sera stessa Dimon partecipa a una cena sponsorizzata dalla sua banca e nel suo indirizzo di saluto si rivolge direttamente al più illustre degli ospiti, Paul Volcker, ex presidente della banca centrale americana, autore della regola in base alla quale nessuna banca avrebbe dovuto operare sui mercati con i soldi dei propri correntisti. PAUL VOLCKER Se la «Volcker's rule» fosse stata implementata dal presidente Barack Obama, cosa che non ha fatto, si sarebbe messa una pietra sopra ai rischi sistemici dei crac bancari. In quella cena Dimon disse in faccia a Volcker che la sua proposta era «infantile» e «inattuabile». Per tutto il mese di aprile tutto sembrava stesse andando per il meglio. Le perdite c'erano, ma molto limitate: 70, 80, 100 milioni di dollari. Quando arrivano a 150, Dimon decide di vederci chiaro. In una riunione Drew, Achilles Macris e Javier Martin-Artajo, i superiori diretti di Iksil, gli confessano tutta la verità: il problema non sono le perdite potenziali, ma la quantità enorme di contratti che Voldemort aveva venduto in giro per il pianeta: 100 miliardi di dollari di valore generati usando i depositi dei clienti per speculare su un indice rappresentativo di grandi imprese americane tra le quali Wal Mart e Alcoa. I vertici della JpMorgan si spaventano: la banca non avrebbe mai potuto reggere al crac, se la scommessa di Iksil si fosse rivelata sbagliata. BARACK OBAMA JPEG In quella sede decidono di iniziare a chiudere tutti i contratti, cioè a riacquistarli uno per uno da chi li aveva comprati. Questo cambio improvviso di strategia fa scattare la contromossa di una dozzina di fondi speculativi che iniziano a scommettere un'altrettanto enorme quantità di denaro contro le aspettative della banca, cioè, in pratica, fanno aumentare il prezzo dei titoli che la JpMorgan aveva deciso, a ogni costo, di far sparire. Dimon e i suoi ci mettono circa un mese per «ripulire» il mercato e alla fine il buco schizza a quota 2 miliardi di dollari, che potrebbero salire addirittura a 3 e forse anche di più. Il 10 maggio, un mese dopo avere detto che si trattava di «una tempesta in un bicchier d'acqua» e il dileggio a Volcker, Dimon è costretto (e solo lui sa quanto gli è costato) a chiedere scusa. «Siamo stati stupidi» ha detto. Ma le scuse non sono una spiegazione. E ora anche l'Fbi ha iniziato a indagare. La strategia di operare con i titoli derivati sul mercato delle obbligazioni industriali, in realtà, era stata annunciata dalla JpMorgan (la prima a inventare i titoli derivati a metà degli anni 90) in un report firmato da Eric Benstein nel 2010 nel quale si spiegava che obiettivo della banca era proprio quello di utilizzare i titoli derivati sulle imprese americane per creare liquidità. MITT ROMNEY ARTICLE Iksil, insomma, aveva fatto esattamente ciò che la banca gli aveva chiesto. Non un errore, ma strategia consolidata e consapevole. Valeva la pena rischiare di perdere una montagna di soldi? Sì, assolutamente sì. Almeno dal punto di vista della banca. I 3 miliardi di dollari di perdite sono, infatti, appena poco più della metà dei guadagni che la JpMorgan ha realizzato in appena 3 mesi. Nel 2010 la sola disivione di Iksil ha generato profitti per 5 miliardi di dollari. Il crollo del 9,28 per cento del titolo nel giorno in cui ha reso noto la perdita sarà recuperato nel giro di un paio di settimane, quando nessuno si ricorderà nemmeno più i nomi dei protagonisti, anche perché Ina Drew è già fuori dalla banca. Ma valeva la pena anche perché il mondo della finanza oscura, quella che opera con titoli derivati, vale ormai 7 volte il pil del mondo intero e, se anche ogni tanto qualcuno ci perde una manciata di miliardi, il circo non si ferma, anche se il tema della loro regolamentazione ha fatto irruzione nella campagna elettorale tra il democratico Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney. Ma le aderenze che le banche hanno nell'amministrazione Usa non solo le rende «too big to fail», troppo grandi per fallire, ma anche «too big to jail», troppo grandi per l'arresto. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/per-risanare-la-jp-morgan-servirebbe-harry-potter-tutta-colpa-di-voldemort-alias-bruno-39342.htm

venerdì 18 maggio 2012

CRAC & THE CITY - LA LONDRA FINANZIARIA È GIÀ PRONTA ALLA MORTE DELL’EURO E A RISPOLVERARE GLI SCAMBI DI TITOLI NELLE VECCHIE VALUTE - DEUTSCHE BANK E AXA HANNO GIÀ INIZIATO A FARE TEST: SE L’EURO SPARISSE LA CITY CONTINUEREBBE A SCAMBIARE DALL’ISTANTE SUCCESSIVO - MA L’APOCALISSE NON SAREBBE INDOLORE: PER LE SOLE BANCHE BRITANNICHE IL COSTO DI UN EURO-CRAC SAREBBE TRA 75 E 100 MLD DI STERLINE, SENZA CONTARE STRUMENTI DERIVATI PER I QUALI STIMARE GLI EFFETTI È MOLTO PIÙ COMPLICATO

Gianluca Paolucci per "la Stampa" LONDRA CITY Basta girare un interruttore». Un gestore di fondi basato a Londra, con asset in gestione per circa 10 miliardi di euro sull'azionario europeo, sintetizza così come la City si stia preparando da tempo allo «scenario peggiore»: il breakup dell'euro, la fine della moneta unica. La chiacchierata si svolge in uno dei tanti pub intorno a Liverpool Street, dopo le sei strapieni di ragazzi in abito grigio con una pinta di birra in mano appena usciti dal loro ufficio nel vecchio cuore finanziario della città. Il nostro interlocutore spiega come la più importante piazza finanziaria del mondo, Londra appunto, viva queste giornate di tensione sull'eurozona. LONDRA CITY Nella fase più acuta della crisi - dice -, tra novembre e inizio dicembre, grandi gruppi come Fidelity - il più grande gestore di fondi del mondo, con oltre 1600 miliardi di asset in gestione banche come Deutsche Bank o gruppi assicurativi come Axa hanno «rispolverato» i vecchi sistemi di trading pre-euro e hanno iniziato a fare test. Ipotizzando che da un giorno all'altro la tedesca Bayer torni ad essere scambiata in marchi, la francese Bnp Paribas in franchi e le italiane Eni o Enel in lire. Con un sistema di cambi fissi, come nella fase che ha preceduto l'introduzione della moneta unica. LONDRA CITY «In teoria, ma solo in teoria, se l'euro finisse di esistere la City continuerebbe a fare scambi dall'istante successivo», spiega un trader di una importante banca americana. «Questo metterebbe al riparo l'industria della finanza londinese da uno stop dell'attività, che tra l'altro aggiungere problemi a problemi». Hsbc, una delle più grandi banche mondiali, lo ha detto più o meno chiaramente pochi giorni fa: noi possiamo essere pronti. Icap, la principale piattaforma di scambio tra dealer per capitalizzazione di mercato - basata a Londra ovviamente - è pronta da metà dicembre. LA BORSA DI LONDRA Dell'argomento si è interessata anche la Fsa, l'equivalente londinese della Consob, che con grande discrezione ha chiesto alle istituzioni finanziarie basate nella capitale britannica di procedere con i test. In pratica, il sistema pre-euro è stato ripristinato come «backup», pronto ad entrare in funzione se tutto andasse male. E se ad uscire fosse solo la Grecia? DEUTSCHE BANK «Credo che non ci sarebbero problemi, basta utilizzare il backup solo per gli scambi in dracme. Anche se sinceramente vorrei conoscere quel mio collega che iniziasse a comprare Sirtaki-bond in quel caso». Tutto tranquillo dunque? «No, non direi. Questa è la City, poi c'è tutto il resto». Il premier britannico David Cameron ha detto appena mercoledì scorso ai Comuni che la situazione dell'eurozona «porta grandi rischi per tutti». Secondo una stima della Fsa circolata nei mesi scorsi per le sole banche britanniche il costo diretto di un euro-crac sarebbe tra 75 e 100 miliardi di sterline, senza contare strumenti derivati e prodotti overthe-counter per i quali stimare gli effetti è molto più complicato. DAVID CAMERON Doug McWilliams, del Center for Economic and Business Research, stima in 300 miliardi di dollari, pari a circa il 2% del pil dell'eurozona, l'onere per l'uscita «ordinata» della Grecia dall'euro. Ma un collasso disordinato porterebbe perdite per circa 1000 miliardi, pari al 5 per cento del prodotto interno lordo totale dei paesi che adottano la moneta unica. E' il numero, enorme, che il Guardian metteva ieri in prima pagina. BRUNO IKSIL Anche se i governi restano spiazzati, la City il piano B ce l'ha già. Ma questo non sembra tranquillizzante. Fino a qualche giorno fa, in uno di questi pub poteva capitare d'incontrare anche qualcuno del team di Bruno Iksil, «la balena di Londra», quello che con le sue scommesse sui derivati sintetici ha fatto perdere circa tre miliardi di dollari a Jp Morgan. «Tieni presente che se un derivato è una salsiccia fatta con tanti pezzi di carne diversa, i derivati sintetici sono una salsiccia fatte con tante salsicce. E pensa che il suo desk doveva occuparsi di coprire i rischi presi dalle altre divisioni». http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/crac-the-city-la-londra-finanziaria-gi-pronta-alla-morte-delleuro-e-a-rispolverare-39123.htm

giovedì 17 maggio 2012

MILANO DA BARE - LA MOGLIE DI VALLANZASCA SCRIVE LA BIOGRAFIA DEL PIÙ CELEBRE GANGSTER DELLA MILANO DEGLI ANNI SETTANTA, FRANCIS TURATELLO - “FRANCIS E IL ‘POLITICO SOCIALISTA DALLA TESTA CALVA’ SI ERANO ANNUSATI, PIACIUTI. ERANO GIOCATORI DI POKER, PRONTI A PUNTARE ALTO SU QUEL TAVOLO TUTTO ITALIANO FATTO DI PERBENISMO, AFFARISMO E IPOCRISIA” - ERA AFFILIATO CON LA P2 DI LICIO GELLI - “LA MILANO DA BERE È FINITA CON LA DROGA”…

Valeria Gandus per "il Fatto Quotidiano" FRANCIS TURATELLO Una casa piccolo borghese alla periferia Nord della città. Una casa normale. Fino a quando non ti soffermi sulle fotografie appese un po' ovunque. È allora che capisci di essere a casa della pupa del gangster. Dalle pareti Antonella D'Agostino coniugata Vallanzasca occhieggia a tutte le età, bionda e sorridente. Le rispondono gli sguardi di Francis (Turatello), Carlo (Argento), Eros (figlio di Francis). E sì, anche Renato, abbracciato a lei nel giorno delle nozze, quattro anni fa. L'Antonella in carne e ossa, 62 anni, ha lo stesso sorriso, una camicia leopardata e un chihuahua ("regalo di Renato") che le scodinzola fra i piedi. Fra pochi giorni esce il suo nuovo libro: "Francis Faccia d'angelo - La Milano di Turatello" (Milieu) che presenta questa sera a Milano, alle 18,30 al Teatro Litta, con Eros. La biografia del più celebre gangster e biscazziere della Milano degli anni Settanta è un testo cinematografico, quasi una sceneggiatura (del resto Antonella ha collaborato con Michele Placido per i dialoghi del suo film su Vallanzasca), molto avvincente: a chi ha vissuto la Milano di quegli anni, apre le porte su un mondo parallelo e sconosciuto, violento e affascinante come un film noir con veri gangster. ANTONELLA D AGOSTINO FACCIA D ANGELO Lei lo conosceva bene, Francis. Era mio fratello, non di sangue, ma fratello. L'ho conosciuto da ragazzina e la nostra amicizia è finita solo con la sua morte, quel maledetto 17 agosto 1981. Francis fu ucciso in carcere, a Bad' e carros, su mandato di chi voleva prendersi Milano: la droga, le donne, le bische. I catanesi, si dice. Quel che è certo è che Francis della droga non voleva saperne. FRANCIS TURATELLO E VALLANZASCA Difficile da credere: aveva riempito di coca Milano e l'eroina era il business dell'epoca. Ma lui aveva un figlio, e vedendo che cosa faceva l'ero ai ragazzi di allora, ne aveva schifo. "L'eroina è un affare politico" mi diceva. "Con la roba hanno messo a tacere le proteste di una generazione". Turatello vittima del riflusso, come i sessantottini? Se la vuole mettere così... Certo è che alla fine degli anni Settanta Milano stava cambiando. Turatello è stato testimone privilegiato di quel cambiamento attraverso l'amicizia con l'artefice della Milano da bere: un "politico socialista dalla testa calva" lo descrive. Insomma, amico... Si conoscevano, si erano incrociati in qualche locale, la notte: El Rayto de Oro, il Marocco. Si erano annusati e piaciuti: due personalità forti, due leader. Nel libro lei scrive che "sedeva a gambe accavallate e si sistemava gli occhiali sul naso" mentre, nel suo ufficio, ascoltava Turatello che "faceva due calcoli a mente". E i calcoli si riferivano ai guadagni delle bische... Erano giocatori di poker, abili nel bluff, pronti a puntare alto su quel tavolo tutto italiano fatto di perbenismo, affarismo e ipocrisia. Tutti zitti mentre girava la grana. I telegiornali fingevano di non capire. Era meglio parlare d'altro. Quando è finita quella Milano lì? Quando è arrivata la droga. 01RENATO VALLANZASCA REPUB Prima, invece? Una città fantastica, viva, allegra: bei negozi, bella musica, bei locali notturni con bella gente e magnifiche prostitute, champagne a fiumi. Lei però in quei locali non poteva entrare. Certo che no! Francis non voleva perché io non ero una di quelle. Io ero la parte pulita di Francis e dell'altro mio fratello: Carlo Argento, il suo vice, un ragazzo meraviglioso. Anche lui morto ammazzato. Come Lia, la madre di Eros. Lei è una miracolata. Ma quale miracolata! Le ho detto che io non c'entravo con quel giro. Avevo conosciuto Francis e Carlo perché eravamo vicini di negozio: io lavoravo come parrucchiera in un salone molto chic di via Montenapoleone, Francis vendeva tappeti (il negozio c'è ancora), Carlo faceva il cameriere al caffè Guarany. Poi le loro vite hanno preso un'altra strada, mentre io sposavo, nemmeno diciottenne, il figlio del titolare del salone. Però siete rimasti in contatto. Sempre. Gliel'ho detto, erano i miei fratelli. Lei ora è sposata con Renato Vallanzasca: ammetterà di avere una certa fascinazione nei confronti della malavita... Di Renato non parlo, dico solo che ci siamo conosciuti bambini, ai giardinetti del Giambellino, e che anche con lui è stata una grande amicizia, che poi è sfociata in qualcosa di più profondo. 03RENATO VALLANZASCA GAZZETTA Però, insomma, questo fascino del bandito... Io non ho mai condiviso le loro scelte. Di più: non ho mai accettato da Francis un regalo che provenisse da una sua refurtiva. "Le cose rubate non le voglio!" gli dicevo. Pensi che una notte che avevo la febbre a 40 non ho chiamato il medico perché non sapevo come pagarlo benché sotto il letto ci fosse una valigia zeppa di contanti (due miliardi), l'incasso delle bische. Quando Francis l'ha saputo si è arrabbiato moltissimo, voleva dare fuoco a quei soldi per dimostrare quanto poco tenesse al denaro e quanto, invece, a me e alla mia salute. Neanche un gioiello, le ha regalato? Magari uno di quelli sottratti alle signore del circolo del bridge che aveva derubato? Me ne ha regalati sì di gioielli, ma comprati in gioielleria. A Venezia, alla presentazione del film di Placido, indossavo dei magnifici orecchini di Cartier: me li aveva comprati lui a Montecarlo dopo una grande vincita al Casinò. Non sarà stata la pupa del gangster, ma viveva come se lo fosse. In realtà, non è che ci siamo frequentati poi molto: lui non voleva compromettermi, si faceva vivo saltuariamente. Come ha fatto, allora, a scrivere un libro così ben documentato? Dentro c'è tutto, dalla nascita di Francis (figlio di Frank "tre dita" Coppola) alla sua morte violenta, passando per rapine, stragi (quella sanguinosissima di Moncucco), rapporti con la politica e con la P2 di Licio Gelli, cui era affiliato. Lui non mi diceva molto, ma io ero sveglia: leggevo i giornali e collegavo luoghi, fatti, persone. http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/milano-da-bare-la-moglie-di-vallanzasca-scrive-la-biografia-del-pi-celebre-gangster-39014.htm

MAGLIANA PER SEMPRE - QUELLA DI DE PEDIS, DI EMANUELA ORLANDI, DI CALVI È UNA STORIA INCROCIATA. STORIA DI MAFIA, NON DI MALAVITA, DIETRO LE QUINTE C'ERA PIPPO CALÒ, VENUTO A ROMA PER RISOLVERE I GUAI ECONOMICI DI COSA NOSTRA: 250 MILIONI $ CONSEGNATI AL VATICANO E PUFF, FINITI IN POLONIA, PATRIA CARA A PAPA WOJTYLA, DOVE LA BATTAGLIA DI SOLIDARNOSC AVREBBE FATTO CADERE IL GOVERNO JARUZELSKY - IL RAPIMENTO DI EMANUELA, UN RICATTO A WOJTYLA?...

Rita Di Giovacchino per il "Fatto quotidiano" Quando rapì Emanuela Orlandi, Enrico De Pedis aveva appena 30 anni, quando è stato ammazzato 36, ma tutti lo consideravano già il capo della banda della Magliana. Anzi dei "testaccini", il gruppo più potente e occulto della malavita romana, gente che a torto o ragione fa parte della storia d'Italia. Nel suo libro di memorie Sabrina Minardi, l'ex amante che per prima lo ha accusato di aver rapito la ragazzina vaticana, spiega in modo esplicito il motivo di così mirabolante carriera: "Lo sapevano tutti che Renatino era l'uomo del Vaticano". EMANUELA ORLANDI Cosa vuol dire per un boss essere uomo del Vaticano? Nessuno lo sa, ma De Pedis lo era. Qualcuno è tuttora convinto che fosse figlio del cardinal Poletti, il vicario di Roma assai vicino a Giulio Andreotti, proprio quello che venti giorni dopo la sua sciagurata morte a Campo de' fiori firmò il nullaosta che gli ha consentito di riposare in pace nella cripta della chiesa di Sant'Apollinare. Nessuno riusciva a darsi altra spiegazione: Renatino era figlio di Poletti. Figlio no, forse affiliato. EMANUELA ORLANDI Di sicuro sentimenti paterni legavano il cardinale a quel ragazzo che don Pietro Vergari aveva conosciuto in carcere e con il quale, racconta Sabrina, si appartava a parlare per ore. Discorsi fitti, a bassa voce, come se tra i due ci fosse un'intesa che nessuno poteva condividere. Renatino si "presentava bene", golf di cachemire e completi Caraceni. Non fumava, non beveva, sniffava raramente soltanto quando si chiudeva in casa con Sabrina per fare l'amore. ROBERTO CALVI Anche quel soprannome, Renatino, non aveva niente a che vedere con nomignoli come il Negro, Zanzarone, Saponetta. De Pedis, si atteggiava a manager, era davvero il Dandy descritto in Romanzo criminale da Giancarlo De Cataldo. Ad aiutarlo erano anche i lineamenti delicati, da ragazzo perbene, come appare nella foto che fino a ieri spiccava sulla sua tomba di marmo, incastonata in una corona di zaffiri. L'ingrandimento di una fototessera, la stessa che nel giugno 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela, fece sobbalzare il comandante del Reparto operativo di via Inselci, il colonnello Domenico Cagnazzo: assomigliava in modo sorprendente all'identikit dell'uomo della Bmw visto in corso Rinascimento due ore prima che la ragazzina sparisse. Ma Renatino non era figlio di Poletti, a dire il vero il padre lo chiamavano Caino perché aveva ammazzato il fratello e lui, che aveva la vocazione del capo, si era fatto carico della famiglia. Per fare qualche soldo si arrampicava con Fabiola Moretti, amante di Abbruciati e poi moglie di Mancini, sulle pendici del Gianicolo. Andavano a caccia di vipere da rivendere al farmacista di piazza della Scala. Con la droga e le rapine aveva comprato un ristorante a Trastevere, la boutique di Enrico Coveri, un'oreficeria all'Appio, un supermercato all'Ostiense, una villa in Sardegna, decine di appartamenti. In quello di via Vittorini all'Eur alla fine del 1984 fu arrestato. PIPPO CALO' WOJTYLA Ci arrivarono pedinando la Minardi che viveva con lui, l'indirizzo era saltato fuori dalla causa di separazione tra lei e il calciatore Bruno Giordano. Poi tramite prestanomi, anche il Jackie ‘O di via Veneto. Quando lo hanno ammazzato, per vendicare la morte di Edoardo Toscano, voleva uscire dal giro: ormai, grazie al racket dei video-poker, non aveva più bisogno di fare rapine. Renatino era entrato nel "gioco grande", come lo definiva Giovanni Falcone: frequentava Calvi, il banchiere dagli "occhi di ghiaccio", a organizzare feste e festini era quel suo amico sardo, piccolino, capace di intrufolarsi dappertutto, Flavio Carboni, l'uomo che oggi conosciamo come il capo della P3. SABRINA MINARDI BRUNO GIORDANO REP2 Dicono che andava a cena con Paul Marcinkus, il presidente dello Ior caro a papa Wojtyla. Sabrina, irriverente, racconta di aver procurato ragazze all'aitante vescovo convinto che "non si serve la Chiesa soltanto con gli Ave Maria". Racconterà poi che nel 2008 aveva accompagnato Renatino nella casa di Andreotti in Corso Vittorio. Ma la donna, ora indagata per il sequestro Orlandi, si sa non sempre è attendibile. Su, su, sempre più su: quella di De Pedis, di Emanuela, di Calvi è una storia incrociata. CARDINALE UGO POLETTI Storia di mafia, non di malavita, dietro le quinte c'era Pippo Calò, il siciliano venuto a Roma per risolvere i guai economici di Cosa Nostra. Guai grossi, 250 milioni di dollari scomparsi, consegnati al Vaticano e puff, volatilizzati. Che fine avevano fatto? La logica indica una sola strada: quella che dalle Mura Leonine conduce in Polonia, patria cara a papa Wojtyla, dove la battaglia di Solidarnosc avrebbe fatto cadere il governo Jaruzelsky. Se cadeva Jaruzelsky - Marcinkus ne era convinto - cadeva tutto il blocco sovietico. Il "gioco grande". Ma a Cosa Nostra non piace farsi fottere, bisognava trovare una strada per arrivare al Vaticano. Forse Renatino gliel'ha indicata. Oppure qualcuno "ha indicato" a lui di rapire Emanuela. Un ricatto a Wojtyla? Una trattativa andata in porto? È l'unico vero mistero che custodiva quella tomba. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/magliana-per-sempre-quella-di-de-pedis-di-emanuela-orlandi-di-calvi-una-storia-39007.htm

LA BIOGRAFIA CRIMINALE DI ANTONIO MANCINI, UNO DEI CAPI DELLA BANDA DELLA MAGLIANA - 2- “TUTTA L’OPERAZIONE EMANUELA ORLANDI È FUMO NEGLI OCCHI. DOMANI SI POTRÀ URLARE “VISTO CHE IL VATICANO NON C’ENTRA NULLA?”. PERCHÉ NON HANNO APERTO PRIMA?” - 3- “IL RAPIMENTO DECISO DA MAFIOSI E TESTACCINI. PIÙ DI 200 MILIONI DI $ CHE NON RIENTRAVANO E CHE LA BANDA AVEVA RICICLATO PER LO IOR E CHE NON AVEVA PIÙ RIVISTO” - 4- “A PORTARE A WOJTYLA LA FOTO SCATTATA IN PISCINA CON LE SUORE FU GELLI IN PERSONA” - 5- MORO: “FUMMO NOI A TROVARE IL COVO DI VIA MONTALCINI. LA NOTIZIA A FLAMINIO PICCOLI. LE BR ERANO COMPLETAMENTE ETERODIRETTE DAI SERVIZI, INFILTRATE DALLO STATO” - 6- “NICOLETTI GESTIVA I NOSTRI SOLDI E QUELLI DI ANDREOTTI, CONTEMPORANEAMENTE” - 7- “PECORELLI L'ABBIAMO UCCISO NOI E I SICILIANI. DE PEDIS AVEVA LA PISTOLA CON CUI ERA STATO AMMAZZATO E DORMIVA A VILLA BORGHESE IN UNA CASA DEI SERVIZI SEGRETI” - 8- “L’ATTRICE GIOIA SCOLA STAVA SIA CON PAOLO BERLUSCONI CHE CON UN AMICO MIO” - 9- “STRAGE DI BOLOGNA? FURONO I FASCISTI MANOVRATI DALLO STATO. FORSE DELLE CHIAIE” -

Rita Di Giovacchino e Malcom Pagani per "il Fatto quotidiano" EMANUELA ORLANDI "Io non sono buono, sò un figlio de na mignotta". I capelli bianchi, gli occhi neri, due fessure protette dagli occhiali. La biografia criminale di uno dei capi della Banda della Magliana riversata su nastro in un pomeriggio marchigiano di caldo, cicale e confessioni. Jesi è un silenzio. Un ordine irreale. Antonio Mancini, l'accattone, ci vive da 16 anni. Ai tempi in cui divideva proventi, cocaina e azioni con gli amici fascisti, Mancini sfiorava l'eresia. ANTONIO MANCINI DETTO ACCATTONE Leggeva Pasolini, prendeva la mira parafrasando Mohammed Alì: "Bumayè", regolava conti, dominava Roma: "Ero un drizzatorti. Conquistavo zone, esigevo crediti, punivo gli insolventi. A San Basilio i nomi delle strade erano paesi delle Marche. Quando me sò pentito mi è venuto spontaneo indicà uno di quei posti". Integrazione completata. Oggi Mancini è un uomo libero. Quindici anni di carcere. Condanne scontate. Nessuna pendenza. È seduto a casa sua. Immagini di Che Guevara, volumi di Marx, Bibbie, Vangeli. Da un computer le notizie sul ritrovamento dei resti di De Pedis a Sant'Apollinare. GENITORI EMANUELA ORLANDI Di altre ossa: "Non sono di Emanuela Orlandi e tutta l'operazione è fumo negli occhi. Domani si potrà urlare «visto che il Vaticano non c'entra nulla?». Perché non hanno aperto prima? Troppo champagne ubriaca e qualcuno, anche tra gli inquirenti, ha riempito i bicchieri fino all'orlo". Nel tempo libero, quando i demoni di un passato incancellabile non tornano a fargli visita, Mancini aiuta i disabili. Loro non sanno. E lo adorano. "Un giorno vidi passare un pulmino pieno di ragazzini. Salutavano. Andai da Sebastianelli, il commissario di Polizia del luogo e lo pregai: ‘Mi dia una possibilità, sarei felice di fare il buffone per loro'. Lui garantì per me e adesso, quell'impegno è diventata la ragione della mia vita". L'accento romano è imbastardito. I ricordi lucidi. La rabbia ancora giovane. "Sono anni che dico che la Magliana è viva. I magistrati mi danno retta a intermittenza, ma nessuno ha la forza di smentirmi. Io non ho opinioni. A domanda rispondo e se non so, sto zitto". ANDREOTTI GIULIO Quante persone ha ucciso, Mancini? Con la "bandaccia" tante. Prima, quando operavo a Val Melaina, ancora di più. Ogni volta che dovevo ammazzà qualcuno io dicevo "lo mandamo a salutà Adriano". Era come una parola d'ordine. MINO PECORELLI Chi era Adriano? Mio padre. Comunista tutto d'uno pezzo. Me diceva sempre "addavenì baffone". Sotto lo studio di Lucio Libertini, il deputato, aveva messo le radici. Libertini gli aveva promesso una casa popolare. Noi vivevamo in otto in due camere. Ma baffone non arrivava mai e mio padre è morto senza avere un tetto. E io guardavo quelli con il Rolex e la Ferrari e mi ripetevo: "Mejo dù anni ar gabbio che stà in due camere con sei creature". Quale è l'omicidio che le è più rimasto impresso? Quello di Nicolino Selis. Lui temeva di finire ammazzato, ma riuscimmo a fissare un appuntamento in una villa di Ostia. Gli dissero che ero uscito dalla Banda, che mi ero messo in proprio. E lui cadde in trappola. Scavammo la buca e lo aspettammo. Mi trovò seduto su un divano ed ebbe il coraggio di scherzare: "Accattò, ma che finaccia hai fatto". Io mi girai e risposi: "non sai la fine che stai a fa te". Un secondo dopo, Abbatino tirò fuori la baiaffa da una scatola di cioccolatini e gli sparò in testa. Poi presero la mira anche gli altri. Pentimenti? Affrontavo le curve a 300 all'ora ed ero convinto che sarei morto a 30 anni. Ho risparmiato gente che avrebbe meritato di morire e ucciso fratelli che si fidavano di me. GIOVANNI PAOLO LARRESTO DI ANTONIO MANCINI JPEG E le sembra normale? Un mio amico studioso di sciamanesimo sostiene che in fondo non sia successo niente. Il mio è solo un percorso di vita. A 12 anni volevo dominare il mondo. Quando la cavalcata epica si è trasformata in una pozzanghera di sangue, ho detto basta. La mia prima figlia era cresciuta senza un padre, non volevo che con la seconda accadesse lo stesso. Uccideva per i soldi? Sono stato miliardario, ma il denaro l'ho sempre disprezzato. I soldi li ho avuti ma me li sò magnati tutti. Adesso sono rovinato, dormo in uno spazio grande come una cabina telefonica. Ci siete, potete valutare. Quanti metri quadri? Metri? Centimetri. Sono stato io a chiedere al Comune di vivere qui in periferia. Neri, gialli, rossi. Gente che ti suona alle due di notte. "Che c'hai una birra?" Lo stagno mio. Ieri nuotava nella criminalità. Come Renatino De Pedis, di cui oggi si parla tanto. Con lui ruppi nel momento in cui fece uccidere Edoardo Toscano e fui contento quando l'ammazzarono. Toscano, l'operaietto, componente della banda, era un mio amico. FLAVIO CARBONI De Pedis non lo fu mai? Non era più un bandito, si era imborghesito. Oggi sarebbe in Parlamento. Dalla nuova banda che si era creato tra Tor Pignattara e Marranella si faceva chiamare Presidente. DEPEDIS ENRICO Lo pretendeva anche da voi? Io gli sputavo in faccia. Era entrato in un giro strano con Massimo Carminati, un fascista che oggi fa i miliardi con i ristoranti. Sabrina Minardi - l'ex compagna di De Pedis - dice che tutti sapevano che Renatino era l'uomo del Vaticano. E del Cardinal Poletti. Renatino fu accompagnato in Vaticano da Enrico Nicoletti e Flavio Carboni. Di suo, De Pedis non sapeva "accucchià" due parole in italiano. Ma era bello. Regale. Presentabile. Mi veniva a prendere la domenica, andavamo alla pasticceria Andreotti e poi al Bolognese. Quando parlava con il potente di turno o l'onorevole si inchinava. Io lo cazziavo e lui ribatteva: "Ah Nì, adesso mi inchino io, dopo si piegheranno loro". Che ruolo ebbe De Pedis nel rapimento Orlandi? Guidò la macchina che servì al sequestro della ragazza. Il rapimento fu deciso da mafiosi e testaccini. C'erano soldi che non rientravano e la scelta era tra lasciare qualche cardinale a terra ai bordi della strada o colpire qualcuno che fosse vicino al Papa e che aveva rapporti economici con noi per marcare un segno. Scegliemmo la seconda strada. ALDO MORO EMANUELA ORLANDI Quanti soldi? Più di duecento milioni di dollari che la banda aveva riciclato per lo Ior e che non aveva più rivisto dopo il crack dell'Ambrosiano. Io e Danilo Abbruciati nell'81 andammo a Milano, per incontrare gente del Banco legata a Calvi e alla P2. A portare a Wojtyla la foto scattata in piscina a Castelgandolfo in cui lui era circondato dalle suore fu Gelli in persona. Tutto era legato. Abbruciati morì nell'82, ucciso da una guardia giurata dopo il fallito attentato a Roberto Rosone, vicepresidente del Banco Ambrosiano. La guardia giurata non sparò mai e subito dopo scomparve nel nulla. Abbruciati non era uno sprovveduto. Lo ammazzò lo Stato, perché Danilo aveva visto troppo. Pensate che a Milano sarei dovuto andare io. Danilo si rifiutò: "Se viaggio io otteniamo più soldi". Perché proprio la Orlandi? Ve l'ho detto. Il padre di Emanuela non era un semplice messo. Era molto di più. L'ha mai detto ai famigliari? Quando vidi Natalina, la sorella di Emanuela, negli studi di Chi l'ha visto? le dissi esattamente così. D'altronde Nicola Cavaliere, un bravo poliziotto, inascoltato, lo disse subito. "La Orlandi è legata ai soldi della Magliana". I giudici lo ignorarono, nessun magistrato voleva un carico del genere. Ora hanno detto che mi chiamerà l'Antimafia. Sto qui, vado, non mi nascondo. Non ho paura di niente. FRANCO GIUSEPPUCCI DETTO ER NEGRO Non ha perso l'arroganza dei tempi d'oro. Non è questione di arroganza, ma di verità. Quando decisi di collaborare per la prima volta erano presenti Otello Lupacchini e il questore Fiorelli. Fui chiaro: "Volete il mio aiuto? Non vi ho cercato io. Se lo volete sappiate che smonterò una a una le bugie di Abbatino". Rimasero sorpresi. ANTONIO MANCINI DETTO ACCATTONE JPEG Il libro di De Cataldo? Un bufalificio. In Romanzo criminale ha scritto che disprezzavo Pasolini dandogli del frocio. "A De Catà, io leggevo Pier Paolo quando tu ancora non eri nato". C'è chi sostiene che la Magliana fosse anche dietro al caso Moro. Certo, fummo noi a trovare il covo di Via Montalcini. Selis lavorava anche per Raffaele Cutolo e passò la dritta a Franco Giuseppucci, detto "er negro". Fu lui a portare la notizia a Flaminio Piccoli. Si incontrarono carbonari, sotto un ponte, vicino a Piazza Cavour. Le Br erano completamente eterodirette dai Servizi, infiltrate dallo Stato. ANTONIO MANCINI DA GIOVANE JPEG Qualche storico ritiene che Moro a Via Montalcini non sia stato mai. E invece c'era. Poi non so se sia passato anche a Palazzo Caetani o a Palo Laziale, come alcuni suggeriscono. Venni a sapere che le lettere di Moro e i video degli interrogatori erano stati presi da una ex amante di Danilo Abbruciati. Un'ex partigiana al soldo del Mossad. Danilo sul sequestro dello statista Dc sapeva tanto. Furono esponenti della Banda della Magliana a sparare a Moro? Possibile. Non mi meraviglierebbe. Noi, la Mafia, il Vaticano, la politica. Nicoletti gestiva i nostri soldi e quelli di Andreotti, contemporaneamente. Il resto dell'arco costituzionale, a iniziare dall'esponente antiterrorismo più in vista del Pci, sapeva tutto. C'erano rapporti con i socialisti. Si parlava spesso di un siciliano, un pezzo grosso. Uno che avevamo tra le mani, cui potevamo rivolgerci senza troppi problemi e dare disposizioni. BANDA DELLA MAGLIANA A proposito di Andreotti. Mancini cosa sa del caso Pecorelli? Tutto. L'abbiamo ucciso noi e i siciliani. De Pedis aveva la pistola con cui era stato ammazzato. A finirlo andarono in tre. Angelo La Barbera e Massimo Carminati. Il terzo? Non lo dico, è un mio amico. Quando mi interrogarono il nome lo feci, ma aggiunsi: "Se lo verbalizzate non firmo neanche sotto tortura". Un fascista? Non attacca. Il vostro referente mafioso a Roma? Con Pippo Calò andavo a mangiare, ma non mi piaceva. Noi della banda pippavamo, quelli erano sempre in doppio petto. De Pedis dormiva a Villa Borghese in un appartamento dei servizi segreti, la coca stravolgeva molti ambiti. E la Magliana li controllava tutti. Facevamo riunioni con i vertici di Carabinieri e Polizia, con i servizi segreti, con chi ci avrebbe dovuto arrestare. Frequentavate anche gente dello spettacolo? L'attrice Gioia Scola stava sia con Paolo Berlusconi che con un amico mio. Quando andai a riferirlo in Procura, al nome di Paolo Berlusconi, il magistrato spense il registratore. Neanche Silvio, Paolo. Vi rendete conto? Sputtanare Gioia Scola andava benissimo, Paolo Berlusconi spaventava. ROBERTO CALVI Cosa sa della strage di Bologna? Furono i fascisti manovrati dallo Stato. Forse gente intorno a Delle Chiaie, forse il gruppo di Massimiliano Fachini. Non Fioravanti e in ogni caso, qualcun altro della Banda intervenne in un secondo tempo allo scopo di depistare. MAURIZIO ABBATINO PORTATO IN QUESTURA JPEG Chi Mancini? Massimo Carminati. Un fascista che teorizzava l'ordine nel disordine. Anarcofascisti si facevano chiamare."Noi uccidiamo il potere" urlavano. Mortacci loro. Ha le prove per dirlo? Se sarò chiamato a fornirle, le darò. Pensa mai alle vittime? Se è per questo anche ai carnefici. Alla P2. Con Abbruciati che come Giuseppucci, con i servizi aveva rapporti solidi, andavo nell'ufficio di Ortolani in Via Bissolati. Incontravo Luigi Cavallo, che voleva ancora fare il golpe e diceva di essere amico di Sindona. Noi volevamo salvare Francis Turatello, tirarlo fuori dal carcere e ai nostri interlocutori milanesi dell'Ambrosiano e ai piduisti l'avevamo detto chiaramente: "Ci avete chiesto Pecorelli e Moro e noi abbiamo rispettato i patti. Adesso tocca a voi". LICIO GELLI Ma Turatello morì a Badu ‘e Carros nell'agosto 1981 in modo atroce. Un dolore enorme. Dicono che l'abbia ucciso Pasquale Barra sventrandolo e mangiandogli il cuore, ma è una cazzata. Barra prese quattro schiaffi, gli esecutori furono altri e l'ordine di far fuori Francis lo diede Luciano Liggio in persona. Francis riceveva lettere dai politici. Lo chiamavano capo. IL CORPO DI ALDO MORO FOTO ANSA Per sparare ai fratelli Proietti nell'81, lei in Via di Donna Olimpia a Roma improvvisò un Far West. Marcellone Colafigli era ossessionato dalla morte di Giuseppucci. Dormivamo nella stessa casa e a volte, di notte, si svegliava. "Nino, er negro è uscito dal televisore. Continua a ripete ‘na frase". Allora io lo assecondavo. "Che frase?" E lui: "Ahò, ma nun me vendicate mai?". Proietti era un ricattatore, bisognava farlo. Impressiona sentirglielo dire. Lo capisco, ma la mia vita non è stato un pranzo di gala. Ho incontrato infami e cornuti. Ho sparato,ucciso e sempre saputo che un colpo poteva ammazzare anche me. Quando te tocca te tocca, è inutile che ti guardi le spalle. Se arriva, arriva. A De Pedis, nel '90, arrivò. De Pedis era un cacasotto. Avrebbe dovuto morire prima, durante una pausa del processo. Colafigli che non gli aveva perdonato l'omicidio di Edoardo Toscano fremeva. Aveva preparato il laccio nel furgone dei Carabinieri. Era livido: "Stamattina je tocca". Lo fermai io. Fabiola Moretti, la mia ex compagna scrisse a Renatino: "Se te vuoi salvà mettite vicino a Nino". Lui eseguì, spaventatissimo. E io lo sfottevo: "Stà buono, non sudà". Forse così scemo non ero. STRAGE BOLOGNA MARCINKUS-WOJTYLA Pazzo? Quando dividevo l'abitazione con Pasquale Belsito, un neofascista, lo vedevo sempre giocare con le bombe a mano. Io e Colafigli pippati di cocaina come scimmie eravamo terrorizzati. Se essere pazzi assomiglia a un'esistenza così, sì, lo sono stato. Mi sono anche divertito. Con Abbruciati andavamo a donne. A volte, sul più bello, lo baciavo in bocca, così per creare un diversivo. Ve li immaginate due delinquentoni come noi impegnati a scandalizzare le ragazze? La banda oggi? Quando ho visto la foto di Mokbel (l'imprenditore romano che avrebbe supportato l'elezione al Senato di Nicola Di Girolamo, ndr) sul giornale mi è preso un colpo. Gennaro era il mio guardaspalle. Con Roberto D'Inzillo mi veniva a prendere in moto ogni mattina. Ha fatto sue le tecniche della banda, ma il più pericoloso, il vero capo di Roma, è un altro. Chi? Una nostra vecchia conoscenza uscita sempre indenne dai processi. Andate a controllare e troverete il nome. FRANCIS TURATELLO E VALLANZASCA MICHELE SINDONA Come Flavio Carboni all'epoca della Magliana? Non fatemi ridere. Carboni era patetico. Si travestiva con tacchi e parrucchino e faceva affari con Berlusconi. La prima volta che lo vidi però provai un sollievo assoluto. Se questo è il famoso Carboni, su Roma e sull'Italia comanderemo per tutta la vita. C'è una morale in tutto questo? Ho sempre diffidato delle morali e non sarei comunque la persona più adatta. Forse però aveva ragione Domenico Sica, l'ex alto commissario antimafia. Era certo che la Banda fosse più potente di Cosa Nostra e dei Servizi messi insieme. Non credo avesse torto. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-la-biografia-criminale-di-antonio-mancini-uno-dei-capi-della-banda-della-magliana-38980.htm

IL CANCELLIERE INGLESE OSBORNE DICE QUELLO CHE I CAPI DI STATO DELL’EUROZONA NON POSSONO PERMETTERSI, E ACCUSA LA MERKEL DI LUCRARE SULL’AUSTERITY - 2- “E' IN ATTO UN'APERTA SPECULAZIONE DA PARTE DI ALCUNI PAESI MEMBRI DELL'EURO SUL FUTURO DI ALTRI, CHE IO CREDO STIA FACENDO DANNO ALL'INTERA ECONOMIA EUROPEA” - 3- ANGELONA, MENTRE I SUOI VICINI AFFONDANO, PORTA A CASA UN PIL “AMPIAMENTE MIGLIORE DELLE ATTESE”, SOSTENUTO DALLA PERFORMANCE DELLE ESPORTAZIONI, E PUÒ INDEBITARSI GRATIS, GRAZIE AL RECORD NEGATIVO DI RENDIMENTI SUI BUND - 4- PIÙ TIRA LA CORDA PIÙ LA GERMANIA INCASSA. MA ORA LA CORDA RISCHIA DI SPEZZARSI -

CRISI: OSBORNE, IN ATTO SPECULAZIONE DI ALCUNI MEMBRI EUROZONA SU ALTRI Radiocor - E' in atto un'aperta speculazione da parte di alcuni Paesi membri dell'Eurozona sul futuro di altri, che io credo stia facendo danno all'intera economia europea'. Lo ha denunciato il Cancelliere dello Scacchiere britannico, George Osborne, arrivando nella sede del Consiglio europeo, per partecipare alla riunione dell'Ecofin. Il ministro dele Finanze del Governo Cameron ha inoltre riconosciuto che alcuni Paesi 'hanno preso decisioni difficili sulle loro finanze pubbliche'. ANGELA_MERKEL GEORGE OSBORNE 2 - GERMANIA PIL TRIM1 MEGLIO DI ATTESE (Reuters) - Il prodotto interno lordo tedesco ha messo a segno nei primi tre mesi dell'anno un recupero ampiamente superiore alle previsioni dei mercati finanziari, sostenuto dalla performance delle esportazioni. I dati destagionalizzati a cura dell'istituto di statistica federale mostrano un'espansione congiunturale di 0,5%, da confrontarsi con il +0,1% del consensus e con il -0,2% del quarto trimestre 2011. ANGELA MERKEL Su base tendenziale la crescita è di 1,7% rispetto all'1,5% dei tre mesi al 31 dicembre. Secondo l'istituto di statistica il miglioramento del risultato va ascritto alle voci export e consumi interni, che hanno compensato il declino degli investimenti. I dati tedeschi sono naturalmente di buon auspicio per l'intera zona euro, di cui Berlino sembra confermarsi la locomotiva. 3 - TASSO BUND CROLLA SOTTO 1,45%, NUOVO MINIMO STORICO (ANSA) - Nuovo minimo storico per il tasso del bund a 10 anni. La crisi dei debiti sovrani nell'eurozona fa precipitare il rendimento del titolo tedesco sotto l'1,45% (1,44%) con gli investitori a caccia di un bene rifugio. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-il-cancelliere-inglese-osborne-dice-quello-che-i-capi-di-stato-delleurozona-non-38973.htm

J.P. MORGAN, IL PIRATA! - IL NOBEL KRUGMAN: “ABBIAMO ASSISTITO A UNA DIMOSTRAZIONE PRATICA DEL PERCHÉ WALL STREET HA BISOGNO DI ESSERE REGOLAMENTATA” - “QUESTO È EVIDENTE A TUTTI FUORCHÉ AI BANCHIERI E AI POLITICI FINANZIATI DAI BANCHIERI” - “WALL STREET STA VERSANDO INGENTI SOMME DI DENARO A ROMNEY, CHE HA PROMESSO DI ABROGARE LE RIFORME FINANZIARIE”…

Paul Krugman per "la Repubblica" (Traduzione di Anna Bissanti) Uno dei personaggi dell´intramontabile film Ombre rosse (1939) è un banchiere, Gatewood, che ai suoi sottoposti propina una lezione sui mali di Big Government, l´interventismo statale, in particolare della regolamentazione bancaria. A un certo punto Gatewood esclama: «Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare le nostre banche!». In seguito, più avanti nel film, scopriamo che Gatewood taglia la corda dalla città, portando via una bisaccia piena zeppa di bigliettoni che ha sottratto indebitamente. JP MORGAN Da quel che ne sappiamo finora, Jamie Dimon - presidente e amministratore delegato di JP Morgan Chase - non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà come due miliardi di dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari, ci sono un bel po´ di giustizia divina e una fondamentale lezione comportamentale da apprendere. PAUL KRUGMAN Giusto per essere chiari: gli uomini d´affari sono uomini - quantunque i Signori della finanza abbiano una certa tendenza a dimenticarlo - e di conseguenza commettono di continuo errori in perdita. Di per sé questa non è una ragione sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però, sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona parte, dai contribuenti e dall´economia nel suo complesso. E il caso di JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che sono autorizzati ad assumersi. Per la precisione: perché le banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti "ondate di panico", in grado di scatenare il caos in tutta l´economia. La destra sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo andamento del settore bancario è sempre conseguenza di un intervento del governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei liberal al Congresso. In realtà, tuttavia, l´America dell´Età Dorata - quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed non esisteva neppure - era soggetta al panico più o meno una volta ogni sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite all´economia. FEDERAL RESERVE Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall´altro, le banche furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero abusare dello status privilegiato derivante loro proprio dall´assicurazione sui depositi, in pratica una garanzia governativa dei loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali Lehman Brothers. LEHMAN BROTHERS Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di relativa stabilità finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di attività bancaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso sia alle banche tradizionali sia a quelle all´avanguardia di accollarsi rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell´Età Dorata, con conseguenze tremende. È evidente pertanto che dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già citato il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie? MITT ROMNEY Arriviamo adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan - e a Dimon - il merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l´uomo di punta nella battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare e/o abrogare la riforma finanziaria. OBAMA Egli si è distinto e si è fatto particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rule, che precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la possibilità di impegnarsi nel "proprietary trading", in sostanza di effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi», ha detto in pratica il capo della JP Morgan. «È tutto sotto controllo». Pare proprio di no, invece. Che cosa ha fatto in realtà la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha utilizzato il mercato dei derivati - complessi dispositivi finanziari - per scommettere fortemente sulla sicurezza dell´indebitamento delle aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di assicurazioni Aig sull´indebitamento immobiliare di qualche anno fa. JAMIE DIMON DI JP MORGAN Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scommesse. Tanto meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei contribuenti. Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà: mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nel giro di settimane, forse addirittura giorni. In verità, abbiamo appena assistito a una dimostrazione pratica del motivo per il quale, di fatto, Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/jp-morgan-il-pirata-il-nobel-krugman-abbiamo-assistito-a-una-dimostrazione-pratica-del-38970.htm

OBAMA RISCHIA DI ESSERE TRAVOLTO DAL “BUCO” (4 MILIARDI DI DOLLARI) DI JP MORGAN - IL CAPO DELLA BANCA E’ IL SUO AMICO JAMIE DIMON, OSPITE FISSO DELLA CASA BIANCA: “È UNA DELLE BANCHE MIGLIORI E IL SUO CAPO È UNO DEI BANCHIERI PIÙ IN GAMBA. NON CONOSCIAMO TUTTI I DETTAGLI. SI INDAGHERA', MA QUESTO E' IL MOTIVO PER CUI ABBIAMO APPROVATO UNA RIFORMA DI WALL STREET''- SOLO CHE LA RIFORMA, CHE ROMNEY VUOLE ABOLIRE DEL TUTTO, NON È BASTATA…

JP MORGAN: OBAMA, NECESSARIA UNA RIFORMA DI WALL STREET (ASCA-AFP) - Le pesanti perdite di trading alla JPMorgan Chase & Co dimostrano la necessita' di una riforma di Wall Street. Lo stesso genere di errore in una banca meno stabile avrebbe potuto richiedere un intervento governativo. Lo ha detto il presidente americano Barack Obama ai microfoni di ''The View'', dell'emittente Abc, ribadendo quanto gia' dichiarato ieri dal portavoce dalla Casa Bianca, Jay Carney. BARACK OBAMA JAMIE DIMON DI JP MORGAN ''JP Morgan e' una delle banche meglio amministrate che ci siano. Jamie Dimon, il capo, e' uno dei banchieri piu' in gamba che abbiamo e hanno comunque perso 2 miliardi di dollari. Non conosciamo tutti i dettagli. Si indaghera', ma questo e' il motivo per cui abbiamo approvato una riforma di Wall Street'', ha detto Obama. 2- JP MORGAN, IL BUCO CRESCE SCONTRO OBAMA-ROMNEY - "I REPUBBLICANI OSTACOLANO LA RIFORMA DELLA FINANZA" Paolo Mastrolilli per "La Stampa" Il buco alla banca Jp Morgan si allarga da 2 a 4 miliardi di dollari e diventa un caso politico: la Casa Bianca cerca di sfruttarlo per rilanciare la regolamentazione del settore e criticare i repubblicani che la ostacolano. Ma è un terreno difficile per Obama, che aveva stretti rapporti col Ceo Jamie Dimon, e corre il rischio di essere rimproverato dagli elettori perché le sue riforme hanno mancato il bersaglio. L'offensiva l'ha lanciata ieri il portavoce Jay Carney, che mentre accompagnava il presidente a New York ha detto: «Questo caso riafferma l'importanza di votare la riforma di Wall Street e applicarla». Si riferiva alla legge Dodd-Frank, che è stata approvata solo in parte dal Congresso, ritardando la "Volcker Rule", che vieterebbe alle banche di fare investimenti rischiosi con i propri capitali. «Come sapete - ha proseguito Carney - il presidente ha combattuto contro i repubblicani e i lobbisti di Wall Steet per far passare la riforma». JAY CARNEY JP MORGAN Da quando è stata approvata, peraltro senza alcuni pezzi, repubblicani e lobbisti hanno speso svariati milioni per farla cancellare, e il candidato alla Casa Bianca del Gop, Mitt Romney, promette di fare esattamente questo. Il messaggio quindi è chiaro: se volete evitare altri disastri, a novembre rieleggete Obama. Altrimenti torneranno al potere le stesse persone che hanno provocato la crisi del 2008, con la loro finanza facile. E' una strategia logica per la campagna del presidente, che non a caso ieri ha diffuso un nuovo spot televisivo in cui attacca Romney per le pratiche seguite quando guidava la compagnia di investimenti Bain, colpevole di aver ristrutturato o chiuso diverse aziende. Il problema, però, è che a causa di Jp Morgan Obama rischia che gli elettori gli rinfaccino due cose: primo, la sua riforma non è servita ad impedire che comportamenti irresponsabili come quello di Lehman si ripetessero; secondo, lui stesso è troppo vicino a Wall Street per riuscire davvero a regolarla. Il primo punto è dimostrato dai fatti: è vero che la riforma è stata dimezzata dall'opposizione repubblicana, però il caso Jp Morgan ha provato che non basta. Il secondo, invece, si basa sul fatto che nessun pezzo grosso di Wall Street è andato in prigione, Obama corteggia ancora i banchieri per ricevere finanziamenti elettorali, e aveva un buon rapporto con Dimon, che fa parte della Fed di New York, si professa democratico, ed è stato alla Casa Bianca quindici volte dall'inizio del mandato. Ora Dimon rischia il posto e ieri si è dimessa Ina Drew, suo braccio destro per gli investimenti. ROMNEY WALL STREET Carney ha difeso il presidente dalla prima accusa, dicendo che Jp Morgan ha perso i suoi soldi, e non ha potuto bruciare quelli dei clienti nelle operazioni sbagliate, proprio grazie alle riforme passate. Quanto alle relazioni pericolose con Wall Street, Obama adesso fatica a raccoglierne i finanziamenti elettorali, proprio perché i banchieri sono risentiti con lui a causa delle regole imposte. A cominciare da Dimon, che in un'intervista mercoledì si era definito ormai "barely democrat", democratico a malapena. Ma il giorno dopo è scoppiato lo scandalo, e quindi perderlo è diventato quasi un punto d'onore per il presidente. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/obama-rischia-di-essere-travolto-dal-buco-4-miliardi-di-dollari-di-jp-morgan-38961.htm

BANCHE ALLA DERIVA(TI) - LA PIÙ GRANDE BANCA USA JP MORGAN, HA “SCOPERTO” UNA VORAGINE DI 2 MLD $ PER SPECULAZIONI SUI DEFAULT SWAPS - I 40 ISPETTORI DELLA FEDERAL RESERVE CHE LAVORANO NELLA SEDE DELLA BANCA NON HANNO VISTO NULLA - A CHE SERVONO LE GRANDI RIFORME DELLA FINANZA PROMESSE DA OBAMA, SE SIAMO GIÀ AL "REMAKE" DELLE SPECULAZIONI 2008 CHE TRAVOLSERO LEHMAN BROTHERS?...

Federico Rampini per "la Repubblica" JPMORGAN CHASE I banchieri sono tornati a colpire. Anche se hanno i toni più soft e la maschera suadente di Jamie Dimon, capo di JP Morgan, sono rimasti quelli del 2008. Impuniti, impenitenti, pericolosi come quattro anni fa quando scatenarono la grande crisi. Quella lezione non è servita a niente. Sulle due sponde dell´Atlantico, due disastri paralleli portano di nuovo le impronte digitali dei Signori della finanza. Se la Spagna rischia il default, è perché le sue banche la stanno affondando. Madrid ha dovuto nazionalizzare in fretta e furia la terza banca del paese che stava fallendo (Bankia), ma l´intero settore creditizio traballa paurosamente sotto il peso di oltre 100 miliardi di crediti inesigibili legati alla bolla immobiliare. L´Europa e Angela Merkel continuano a infliggere al governo Rajoy dosi mortali di austerity che peggiorano la recessione e la disoccupazione, mentre il vero male sta altrove: nelle banche. JAMIE DIMON Qui a New York, l´establishment della finanza è recidivo, con gli stessi metodi e la stessa arroganza degli anni pre-crisi. La più grande banca americana, JP Morgan Chase, ha "scoperto" giovedì sera un buco di almeno 2 miliardi di dollari, che potrebbero diventare molti di più. La JP Morgan è un colosso dalle spalle robuste, e anche se il titolo è crollato del 9,3% nella seduta di venerdì, per il momento nessuno evoca la possibilità di un suo fallimento. Tuttavia questa vicenda è allarmante per diverse ragioni. Anzitutto perché il suo chief executive Dimon si era costruito la reputazione del "banchiere più saggio di Wall Street", avendo attraversato lo tsunami del 2008-2009 con meno danni dei suoi colleghi e concorrenti; al punto che JP Morgan fu l´unico colosso del credito a non dover elemosinare aiuti dall´Amministrazione Obama. Seconda ragione dello sconcerto: l´improvvisa voragine di 2 miliardi è legata a complesse speculazioni sui credit default swaps (Cds). ANGELA_MERKEL I Cds sono titoli derivati che fungono da polizze assicurative e servono a proteggersi dall´eventualità di bancarotta di una società a cui il banchiere ha prestato soldi, oppure dalla quale ha comprato dei bond (obbligazioni). Gli stessi Cds però possono servire non a scopo precauzionale, bensì per la finalità opposta: una speculazione aggressiva di chi "scommette" sui fallimenti societari. Una storia vecchia? Certo, stravecchia: fu attraverso titoli strutturati di questo tipo che la bolla dei mutui subprime nel 2008 travolse Lehman Brothers e rischiò di mandare in bancarotta la più grande compagnia assicurativa americana, Aig, se a salvare quest´ultima non fosse intervenuto il governo federale e quindi il contribuente americano. ANGELA MERKEL Terza ragione di allarme: a che servono le grandi riforme dei mercati finanziari, se siamo già al "remake" delle scorribande speculative del 2008? Del resto in questi quattro anni le "ricadute", o i comportamenti recidivi, sono già una bella lista: qui a Wall Street abbiamo avuto la bancarotta del fondo Mf Global travolto da puntate speculative sui bond dell´eurozona; a Londra un solo trader ha fatto perdere 2,3 miliardi di dollari alla banca svizzera Ubs. WALL STREET Tutto come prima? Sulla carta, dovrebbe essere impossibile. Soprattutto nel caso della JP Morgan, la quale in virtù delle sue dimensioni colossali è una "vigilata speciale" da parte delle authority di controllo americane. Sul serio. All´interno del quartier generale dove Dimon lavora al 48esimo piano, nell´imponente grattacielo sulla Park Avenue, sono "ospiti fissi" ben 40 ispettori della Federal Reserve Bank of New York, quella succursale della banca centrale che ha diretta competenza su Wall Street. Dunque la JP Morgan ha dei segugi "embedded", come si suol dire dei giornalisti che vengono inquadrati fra le truppe americane al fronte. Anche loro non hanno visto nulla? E che dire della singola squadra d´investitori che nell´ufficio di Londra ha generato il "buco" di 2 miliardi? Uno di questi trader è già divenuto leggenda: Bruno Iksil detto "lo Squalo di Londra". Un profano potrebbe immaginarsi che sotto la direzione dello Squalo lavorino centinaia di esperti. Macché: il Chief Investment Office, come viene chiamato all´interno di JP Morgan quel dipartimento, è una minuscola entità. Ci lavorano poco più di una trentina di trader e analisti, su 270.000 dipendenti della banca. Il colmo è che la sua responsabilità istituzionale sarebbe "la copertura del rischio". LEHMAN BROTHERS Dovrebbe cioè analizzare l´insieme dei rischi che la banca sta correndo in un dato momento per effetto di tutte le sue attività globali, e poi proteggerla da incidenti prendendo delle posizioni compensatrici. Invece il Chief Investment Office sotto la guida dello Squalo, e sotto lo sguardo benevolo e incoraggiante di tutto il top management da New York, si è messo a giocare d´azzardo. Ha cominciato a piazzare sul mercato "titoli strutturati", composti con credit default swap su indici di varie società Usa (da McDonald´s a General Millas, Alcoa). Quella che doveva essere l´unità di controllo dei rischi, ha cominciato ad assumersi dei rischi in proprio. E crescenti. Se all´epoca pre-crisi nel 2007 l´ufficio di Londra aveva in portafoglio meno di 80 miliardi di dollari di investimenti, l´anno scorso era salito a 356 miliardi. Il chief executive Dimon in persona, ha allargato a dismisura l´autorizzazione a guadagnare o perdere: lo Squalo di Londra aveva carta bianca da Park Avenue per guadagnare - o perdere - fino a 129 milioni ogni giorno. Una licenza di uccidere. Di cui Iksil ha fatto uso ampiamente. Ma sempre con la perfetta consapevolezza dei suoi capi di New York. Questo è importante: non siamo di fronte a un caso di "trader-pirata" come quello che affondò la Société Générale. Dimon non ha potuto tentare di dissociarsi: tutti sapevano che lui sapeva. E non sarà il solo a pagare: secondo il Wall Street Journal nei prossimi giorni saranno almeno tre i dirigenti allontanati dalla banca, tra loro anche Ina Drew, responsabile del risk management nella divisione che ha registrato le perdite. In Spagna i banchieri possono trascinare nel default un´intera nazione, scatenando l´effetto domino in tutta l´eurozona. Le banche italiane suscitano diffidenza al punto che la Goldman Sachs si è sbarazzata di quasi tutti i loro titoli per sostituirli con dei Bot. Ma anche in America il "buco" di JP Morgan ha ricadute a cerchi concentrici, che investono il sistema politico. Perché il "banchiere saggio" aveva capitalizzato la sua reputazione, usandola a Washington in modo spregiudicato. È qui che bisogna cercare la risposta al quesito: perché i 40 ispettori della vigilanza "infiltrati" in permanenza negli uffici di Park Avenue non hanno impedito l´incidente? Perché non hanno l´autorità per farlo. I controllori della Federal Reserve hanno potuto solo «chiedere spiegazioni» a Dimon, il quale dall´inizio di aprile fino al 10 maggio ha sempre risposto: «Tranquilli, nessun problema, è tutto sotto controllo». PAUL VOLCKER E dove sono le nuove regole varate sotto l´Amministrazione Obama per impedire un "remake" del 2008? Qui si apre un altro giallo, di nuovo con Dimon nella parte del protagonista malefico. In teoria la grande riforma di Obama, che si chiama la legge Dodd-Frank dal nome dei due parlamentari firmatari, stabilisce un principio sano: le maxi-banche, quelle che sono «troppo grosse per fallire» (nel senso che un loro crac avrebbe conseguenze sistemiche e quindi lo Stato sarebbe costretto a salvarle coi soldi del contribuente) non possono più fare speculazione. Non coi capitali propri. Possono sempre agire da intermediari per i loro clienti, piazzare in Borsa i loro ordini, ma questo non comporta rischi per la banca stessa perché è l´investitore a guadagnare o perdere. Dunque la regola del "too big to fail" (troppo grande per fallire) ha come corollario il divieto del "proprietary trading" (trading effettuato con mezzi propri). Quest´ultimo viene anche chiamato la Regola Volcker, perché a battersi strenuamente per questo limite è stato l´ex governatore della Fed Paul Volcker, lui sì un grande saggio della finanza. Ma da quando la Dodd-Frank è stata approvata, Dimon ha lavorato ai fianchi di Washington per svuotarla. Poiché la legge Dodd-Frank definisce le linee generali, ma poi va riempita di contenuti attraverso regolamenti attuativi, per lo più di competenza delle authority, Dimon si è adoperato per "allargare" l´interpretazione fino a stravolgerla, vanificarla. Sfruttando proprio la sua fama di prudenza, e il fatto di essere il banchiere meno macchiato dalla crisi del 2008, Dimon ha distribuito milioni di dollari ai suoi lobbisti di Washington perché facessero pressione sui parlamentari. L´argomento forte, che Dimon ha ripetuto a una cena privata di pochi giorni fa: «Se ci impedite di fare investimenti a copertura del rischio, la nostra attività sarà penalizzata e i nostri bilanci ne soffriranno». Dimon non ha esitato ad accusare di "incompetenza" un patriarca rispettato come Volcker. Ha trovato alleati in alcune zone dell´Amministrazione pubblica come il Dipartimento del Tesoro, pieno zeppo di ex banchieri di Wall Street. I suoi migliori alleati del partito repubblicano hanno letteralmente strangolato gli organi di vigilanza, negandogli fondi per il funzionamento. Una memorabile battaglia della destra impedì la nomina di Elizabeth Warren, paladina dei risparmiatori, alla testa della nuova authority per i controllo sui prodotti finanziari. «Alla fine - commenta il senatore democratico Carl Levine - tutti quegli sforzi hanno allargato le maglie interpretative della legge, al punto che ci può passare in mezzo un Tir». http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/banche-alla-derivati-la-pi-grande-banca-usa-jp-morgan-ha-scoperto-una-voragine-38924.htm

SE OGGI ATENE NON AVRÀ UN NUOVO GOVERNO, L´APOCALISSE EUROPEA È SERVITA - 2- IL RITORNO DELLA DRACMA COSTEREBBE 11MILA EURO ALL´ANNO PER OGNI EUROPEO - 3- IL PRIMO ATTO DEL POSSIBILE CALVARIO È GIÀ SCRITTO: UN FINE SETTIMANA, A MERCATI CHIUSI. POI IL CAOS. LA BANCA DI GRECIA CONVERTIRÀ DALLA SERA ALLA MATTINA DEPOSITI, CREDITI E DEBITI IN DRACME. LA NUOVA VALUTA ELLENICA SI SVALUTEREBBE FINO AL 70%. PER CONTENERE IL PANICO TRA I CITTADINI, BANCOMAT SIGILLATI - 4- VIA CRUCIS PER ITALIA E SPAGNA: SPREAD ALLE STELLE, BORSE CON CALI DEL 15% - 5- LA BCE: “L’USCITA DELLA GRECIA DALL’EURO NON SAREBBE UN EVENTO NECESSARIAMENTE DISASTROSO E FATALE, E PUR RAPPRESENTANDO UN COLPO ALLA FIDUCIA NELL´EUROZONA SAREBBE TECNICAMENTE GESTIBILE, SEBBENE TUTTI STIANO LAVORANDO PER EVITARLO” -

L'APOCALISSE PROSSIMA VENTURA Ettore Livini per Repubblica LA GRECIA AFFONDA L´Europa si prepara ad alzare il sipario sulla madre di tutte le tragedie greche: l´addio di Atene all´euro. Il Partenone in crisi non trova la quadra per il nuovo governo e viaggia verso le elezioni-bis. E il vecchio continente allaccia le cinture di sicurezza in vista di un´Apocalisse finanziaria di cui tutti conoscono il copione ma nessuno è in grado di prevedere il finale. Unica certezza: il ritorno della dracma, se mai succederà, «non sarà indolore né per la Grecia né per la Ue», ha garantito Per Jansson, numero due della Banca di Svezia. SALVATAGGIO GRECO E tra corse agli sportelli, crac da brividi, dazi, effetto-contagio (occhio all´Italia) e disordini sociali potrebbe costare all´Europa "100 miliardi in un anno", come ha vaticinato il presidente del Fondo salva-Stati Klaus Regling. IL PRIMO ATTO Il primo atto del possibile Calvario è già scritto: un fine settimana, a mercati chiusi, Atene formalizzerà a Bruxelles la sua uscita dalla moneta unica. Poi sarà il caos. La Banca di Grecia convertirà dalla sera alla mattina depositi, crediti e debiti in dracme, agganciandoli al vecchio tasso di cambio con cui il Paese è entrato nell´euro nel 2002: 340,75 dracme per un euro. GRECIA RISCHIO DEFAULT Si tratta di un valore virtuale: alla riapertura dei listini, prevedono gli analisti, la nuova moneta ellenica si svaluterà del 40-70 per cento. Per evitare corse agli sportelli (i conti correnti domestici sono già calati da 240 a 165 miliardi in due anni), Atene sarà costretta a sigillare i bancomat, limitare i prelievi fisici allo sportello e imporre rigidi controlli ai movimenti di capitali oltrefrontiera. IL PRESIDENTE PAPOULIAS ACCOGLIE SAMARAS IL PIL GIU´ DEL 20% L´addio all´euro costerà carissimo ai greci: il Prodotto interno lordo, calcolano alcune proiezioni informali del Tesoro, potrebbe crollare del 20 per cento in un anno. I redditi andrebbero a picco, l´inflazione rischia di balzare del 20 per cento. Il vantaggio di competitività garantito dal "tombolone" della dracma sarà bruciato subito. TSIPRAS E SAMARAS La Grecia - che a quel punto non avrebbe più accesso ai mercati - sarà costretta a finanziare le sue uscite (stipendi e pensioni) solo con le entrate (tasse) senza potersi indebitare. E non potrà più contare né sui 130 miliardi di aiuti promessi dalla Trojka, nei sui 20,4 miliardi di fondi per lo sviluppo stanziati da Bruxelles. Di più: i costi delle importazioni (43 miliardi tra petrolio e altri beni di prima necessità nel 2011) schizzerebbero alle stelle mettendo altra pressione sui conti pubblici. Un Armageddon che rischia di far passare il memorandum della Trojka per una passeggiata. Il colpo di grazia per una nazione in ginocchio, reduce da cinque anni di recessione che hanno bruciato un quinto della sua ricchezza nazionale e con la disoccupazione al 21,7 per cento. TORNANO I DAZI In questa tragedia greca, l´Europa non avrà solo il ruolo di spettatore. Il pedaggio a carico del Vecchio continente - che un minuto dopo il ritorno della dracma potrebbe imporre dazi alle merci elleniche - è salatissimo. L´effetto contagio, tanto per cominciare, si tradurrà in una Caporetto per i mercati e una via crucis per Italia e Spagna. IL PREMIER GRECO PAPANDREU VENERE DI MILO - GRECIA - DITO MEDIO - COPERTINA FOCUS Gli spread, calcono gli algoritmi di Sungard, potrebbero salire del 20 per cento, le borse scendere del 15 per cento. Ma è solo l´antipasto. La Grecia - dove le banche saranno nazionalizzate - smetterà di pagare i debiti anche ai privati e così lo tsunami della dracma travolgerà diversi istituti di credito e molte imprese continentali. Una matassa inestricabile (anche legalmente), molto peggio di quella della Lehman che nel 2008 ha mandato in tilt il mondo. I CALCOLI DI UBS Italiani e spagnoli, ha calcolato Ubs un anno fa, pagherebbero tra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa all´anno per l´addio all´euro di Atene. I tedeschi poco meno. Le cifre vanno aggiorante al rialzo: il debito di Atene a fine 2009 (301 miliardi) era tutto controllato da privati. Ora, grazie alla ristrutturazione, è sceso a 266 miliardi. E ben 194 sono in mano a paesi Ue, Bce e al Fondo Monetario. Se la Grecia non onorerà i suoi impegni come ha fatto l´Argentina, l´Apocalisse europea è belle e servita. - 2- LA BCE: "NESSUNA CATASTROFE SE ATENE USCISSE DALL´EURO" - NUOVO GOVERNO, ULTIMA CHANCE - LE NUOVE ELEZIONI SI TERREBBERO GIÀ A GIUGNO, NEI SONDAGGI VOLA LA SINISTRA ESTREMA Andrea Tarquini per La Repubblica GRECIA SCONTRI DI PIAZZA JPEG GRECIA SCONTRI DI PIAZZA JPEG Per la Grecia è iniziato ormai il conto alla rovescia. Fallito fin qui ogni tentativo di formare un governo, il presidente Karolos Papoulias ha convocato per oggi il vertice dell´ultima istanza tra i capi dei partiti. E una dopo l´altra, molte delle voci più influenti nell´eurozona suggeriscono un´uscita possibile di Atene dalla moneta unica: sarebbe dolorosissimo per i greci ma perfettamente gestibile per chi resta nell´euro, hanno detto nello spazio di poche ore il membro del board della Bce Patrick Honohan, il commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn, il presidente della Bundesbank Jens Weidmann e il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble. Solo il presidente uscente dell´eurogruppo, il premier lussemburghese Juncker, chiede più pazienza, ma è una voce isolata nel mainstream della linea dura ispirata da Berlino e Francoforte. Il carismatico, 82enne capo dello Stato socialista Papoulias tenta l´ultima carta, con il vertice di oggi insieme ai leader dei tre principali partiti: Alexis Tsipras della sinistra radicale Syriza, Antonis Samaras di Nea Dimokratia (conservatori) e Evangelos Venizelos del Pasok (socialisti). GRECIA SCONTRI DI PIAZZA JPEG Le posizioni sono lontane, Nea Dimokratia e Pasok da soli non bastano per una maggioranza favorevole al rispetto dei durissimi impegni di risanamento presi con la Ue. L´alternativa sarebbero nuove elezioni il 10 o 17 giugno, passo forse irreparabile verso l´uscita dall´euro con Syriza, contraria al rigore, che vola nei sondaggi al 25,5%. E nel resto dell´Unione l´ipotesi ("made in Germany") di un´uscita della Grecia dall´euro viene ora definita male minore, gestibile con costi sopportabilissimi per chi resterà nella moneta unica. IL CRAC DELLA GRECIA Un ritorno di Atene alla dracma, ha detto il membro irlandese del board della Bce, Patrick Honohan, «non sarebbe un evento necessariamente disastroso e fatale, e pur rappresentando un colpo alla fiducia nell´eurozona sarebbe tecnicamente gestibile, sebbene tutti stiano lavorando per evitarlo». I FONDI ITALIANI ESPOSTI CON GRECIA E PORTOGALLO Lo stesso presidente della Commissione europea, Barroso, ha avvertito che «o i greci rispettano i patti o devono uscire». Ancora più duri sono stati gli avvertimenti del Commissario europeo agli Affari economici, Olli Rehn, e del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Secondo Rehn, «La Ue lavora per facilitare la permanenza della Grecia nell´eurozona ed è convinta che Atene possa evitare l´uscita rispettando gli impegni, ma la palla è ora nel loro campo, e Atene soffrirebbe da un addio all´euro molto più del resto dell´eurozona». GRECIA - PAPADEMOS Per Weidmann, il falco tedesco nel vertice Bce, «non c´è nessun diktat da parte di Berlino, se Atene non rispetta gli impegni, sarà una decisione democratica, ma con la conseguenza che verrebbero sospesi i programmi di aiuti, e le conseguenze di un ritorno alla dracma sarebbero ben peggiori per i greci che per il resto dei cittadini dell´eurozona». OLLI REHN Solo il presidente uscente dell´eurogruppo, Juncker, invita a «mostrare pazienza con Atene e darle tempo», pur avvertendo che «non c´è per loro alternativa al risanamento dei conti». «Non c´è alcuna strada facile per Atene», nota il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble, «tocca alla Grecia mostrare se ha la forza di mettere insieme la maggioranza necessaria: senza le riforme concordate il Paese non ha prospettive». http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-se-oggi-atene-non-avr-un-nuovo-governo-lapocalisse-europea-servita2-il-ritorno-38889.htm

LA VENDETTA, LA TREMENDA VENDETTA DI TREMONTI SUL DUPLEX DRAGHI E BERLUSCONI - 2- “ALTRO CHE BCE, ALTRO CHE COMMISSARIAMENTO INTERNAZIONALE: QUELLA LETTERA TAGLIATUTTO DI DRAGHI E TRICHET, FU SCRITTA A ROMA E CHIESTA DAL GOVERNO DEL BANANA” - 3- QUEL DOCUMENTO ERA UN'ASSICURAZIONE CHE PERMETTEVA AL CAVALIER POMPETTA DI SOPRAVVIVERE. IN CAMBIO, LA BCE COMPRO’ BOT PER RIDURRE LO SPREAD - 4- TUTTO INUTILE. IL DESTINO DEL CAINANO ERA SEGNATO E I POTERI FORTI LANCIANO MONTI: IN UNA RIUNIONE LUNEDÌ 18 LUGLIO, NELLA SEDE DELLA BANCA INTESA, CI SONO BAZOLI, CARLO DE BENDETTI, ROMANO PRODI, IL BANCHIERE VATICANO CALOIA E PASSERA -

Stefano Feltri per Il Fatto.it MARIO DRAGHI E TREMONTI BERLUSCONI-TREMONTI "Basta leggere la lettera della Bce per capire che è stata scritta a Roma. Quella lettera è un passaggio politico di grande rilievo che entra nella sovranità di un Paese", ha buttato lì l'ex ministro del Tesoro Giulio Tremonti durante la puntata di Servizio Pubblico di giovedì sera. "E qualcuno l'ha chiesta, dentro il governo e non solo, c'era un certo tifo per quel tipo di intervento a vari livelli. L'attuale presidente del Consiglio ha detto in Parlamento: ‘non starei in un governo che chiede una lettera' e in modo inglese stava facendo capire che quella della Bce è stata richiesta da quello precedente", allude, dice e non dice, ma Tremonti invita a rileggere la storia di quel documento che ha cambiato molto. Perché tutto cominciò da lì. E lì bisogna tornare ora che, dopo sei mesi, si può cominciare a guardare con l'oggettività della distanza alla nascita del governo Monti. TREMONTI CONTRO BRUNETTA TREMONTI BRUNETTA L'ULTIMA CHANCE PER B. La lettera della Bce, il programma di emergenza firmato da Mario Draghi e Jean Claude Trichet che ha prima accompagnato Silvio Berlusconi alla porta e poi ha dato le basi per l'azione dei tecnici. Nella vulgata giornalistica la lettera è diventata la condanna a morte del governo Berlusconi, secondo quanto ha ricostruito il Fatto Quotidiano, grazie al racconto di alcune delle persone coinvolte, quel documento era invece l'ultimo tentativo di rendere accettabile ai mercati un esecutivo screditato, ridimensionando la probabilità di una crisi politica che all'epoca, nell'estate 2011, poteva dare il colpo finale alle finanze del Paese. Una lettura critica della storia della lettera deve partire dal 4 agosto, dalla conferenza stampa convocata a sorpresa in cui il governo Berlusconi ammette di dover riscrivere la manovra di luglio giudicata inadeguata dai mercati, anticipando al 2013 il pareggio di bilancio previsto in origine per il 2014 (ma con oltre 20 miliardi di interventi rinviati a dopo la fine della legislatura). DRAGHI TRICHET I giornali liquidano come un "siparietto" l'educato ma violento dialogo tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia accenna ai contatti del governo avviati con diverse istituzioni finanziarie per discutere insieme le misure da adottare, e cita l'Ocse e il Fondo monetario internazionale, "Noi saremo attivi aprendoci al confronto con queste istituzioni internazionali". Berlusconi lo interrompe aggiungendo: "Anche la Bce". TREMONTI CON LA T SHIRT DI DRACULA Tremonti lo guarda stupito, con l'espressione di chi pensava che il Cavaliere, alle prese in quel periodo con le vicende bunga bunga, avesse solo una vaga idea di cosa fosse la Banca centrale europea. "Credo sia molto importante, ma non coinvolgibile in questa fase", precisa il ministro, pensando a quanto Francoforte tenga alla sua indipendenza dai governi e viceversa. E Berlusconi, sibillino: "Ma informabile sì". IL NEGOZIATO SEGRETO. Tremonti non insiste. Ma al ministro suona bizzarro: in quei giorni il Cavaliere è già un paria per i partner europei, Tremonti è rimasto l'unico ambasciatore del governo nei consessi internazionali, con una mossa di immagine e di sostanza ha appena avvicinato John Lipsky, allora vicedirettore generale del Fmi in procinto di lasciare il suo posto a Washington. CHRISTINE LAGARDE Lipsky doveva diventare un superconsulente, anello di congiunzione con il Fmi di Christine Lagarde che Tremonti aveva individuato all'inizio dell'estate come la sponda adatta nei mesi difficili dello spread. Invece sorpresa: Berlusconi trattava con la Bce di Mario Draghi, da sempre poco in sintonia con Tremonti (il cui ultimo libro, Uscita di sicurezza è un lungo atto d'accusa implicito a Draghi). La lettera della Bce "arriva" al governo il 4 agosto (e, a quanto risulta al Fatto, è arrivata in simultanea a palazzo Chigi e al Tesoro). Raccontano diverse fonti, quel documento è stato elaborato più a Roma che a Francoforte e l'ordine delle firme in calce, Mario Draghi, Jean Claude Trichet, non è soltanto alfabetico. Certo, anche alla Bce ci sono monitoring team che sanno quanto via Nazionale delle cose italiane. E le richieste della lettera non erano molto diverse dai punti principali delle considerazioni finali di Draghi, a fine anno (e dalle richieste dei mercati). Ma il documento è frutto di un negoziato che si svolge a Roma. Ci lavorato l'altro cervello economico del governo berlusconiano, Renato Brunetta, che oggi oppone un drastico "Non ho niente da dire, ho scritto tutto nelle mie slide", alludendo alle corpose presentazioni che manda con cadenza settimanale ai giornalisti per commentare l'attualità. A ben guardare, Brunetta ha fatto il suo coming out, sul Foglio, il primo di ottobre: "Ora che la lettera della Bce è divenuta pubblica posso smettere di nascondere la mia reazione quando la lessi: i signori della Bce hanno ragione, i loro suggerimenti sono il nostro programma". BAZOLI E PASSERA GIULIO TREMONTI E MARIO DRAGHI E nella conclusione dell'articolo che argomenta come la lettera "annienta gli avversari del governo", Brunetta scriveva: "In quella missiva, quindi, più che l'intimazione a cambiare rotta c'è, per il governo, la pressante richiesta di procedere più speditamente. E di farlo nella direzione fin qui intrapresa". Così veniva vissuta, in quell'ala del governo, ciò che ad altri pareva commissariamento internazionale: un'assicurazione che permetteva a Berlusconi di sopravvivere. LA PAUSA DI MONTI Ma torniamo ai giorni cruciali di agosto. L'8 agosto il Corriere della Sera rivela i contenuti della lettera che qualcuno, c'è chi dice Draghi chi Tremonti, ha allungato a via Solferino: privatizzazioni dei servizi pubblici locali, liberalizzazioni, riforma del lavoro con intervento sull'articolo 18, e una riforma della Pubblica amministrazione, punto questo che sembra una firma di Brunetta che certifica il suo coinvolgimento (tipicamente brunettiano il passaggio "negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance"). MONTI E PRODI A REGGIO EMILIA In cambio, anche se non si può esplicitare il do ut des, la Bce comprende buoni del Tesoro italiani sul mercato secondario per ridurre lo spread e quindi i rendimenti, cioè il costo. È il Securities Market Program che, forzando un po' i limiti del mandato della Bce spingerà alle dimissioni il membro tedesco del board Jürgen Sark. CALOIA Il giorno prima della rivelazione dei contenuti della lettera, quasi a darvi l'imprimatur, il Corriere pubblica un editoriale del professor Mario Monti: "Il podestà forestiero". La frase importante è questa: "Il governo e la maggioranza, dopo avere rivendicato la propria autonoma capacità di risolvere i problemi del Paese, dopo avere rifiutato l'ipotesi di un impegno comune con altre forze politiche per cercare di risollevare un'Italia in crisi e sfiduciata, hanno accettato in questi ultimi giorni, nella sostanza, un ‘governo tecnico'". Quindi: "Le forme sono salve. I ministri restano in carica. La primazia della politica è intatta. Ma le decisioni principali sono state prese da un ‘governo tecnico sopranazionale'". ANNA LISA BRUCHI E DE BENEDETTI É il segnale a un certo mondo che l'operazione governo tecnico è sospesa. O meglio, delegata a Draghi. Così da salvare - come nota Monti - almeno nelle forme la sovranità italiana. E soprattutto rimandare la caduta di Berlusconi di cui nessuno, allora, era in grado di prevedere le conseguenze. Come aveva rivelato Fabio Martini su La Stampa il 24 luglio, infatti, l'idea che il premier lo dovesse fare Monti era già condivisa in ambienti influenti. In una riunione lunedì 18 luglio, nella sede della banca Intesa Sanpaolo, ci sono Giovanni Bazoli, presidente del consiglio di sorveglianza, l'editore di Repubblica Carlo De Bendetti, Romano Prodi, il banchiere vaticano Angelo Caloia e il futuro ministro Corrado Passera, allora capo azienda di Intesa. Monti, come suo stile, si mette a disposizione ma soltanto nel caso ci sia un consenso generale dietro il suo nome, non vuole imporsi ma essere imposto. Poi la lettera Bce offre un'ultima chance a Berlusconi. Sappiamo come è finita. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-la-vendetta-la-tremenda-vendetta-di-tremonti-sul-duplex-draghi-e-berlusconi2-altro-38888.htm

IL FALLIMENTO CI SALVERA’! - CONSOLIAMOCI CON ENZENSBERGER: "OGGI TUTTI STRAPARLANO DI CRISI. MA NESSUNO SI PONE LA DOMANDA PERCHÉ, NEI SUPERMERCATI, ABBIAMO BISOGNO DI 125 TIPI DI YOGURT" - “AL CONFRONTO DELLE CATOSTROFI DEI TOTALITARISMI, LE CRISI CHE ATTRAVERSIAMO OGGI SONO PARADISIACHE” - “VIVERE NELL’INSICUREZZA È UN PUNTO D’ONORE” - “IN ECONOMIA, COME IN CULTURA, VALE LA LEZIONE DI BECKETT: "IMPARA A FALLIRE MEGLIO!"…

colloquio con Hans Magnus Enzensberger di Stefano Vastano per "l'Espresso" ENZENSBERGER Sono un figlio della crisi. Potrei rinunciare subito alla buona metà di ciò che possiedo... Parole di Hans Magnus Enzensberger, uno dei più creativi intellettuali tedeschi, domenica 13 maggio ospite al Salone del Libro di Torino. Nato a Kaufbeuren, presso Monaco, nel 1929, l'anno del crac a New York, nel corso della sua carriera ha pubblicato album di poesie e traduzioni, saggi di storia, di politica e di matematica. Nel suo atelier, le cui finestre danno sui tetti di Monaco, dice (e un lampo di ironia si accende nei suoi occhi di lince): "Oggi tutti straparlano di crisi. Ma nessuno si pone la domanda perché, nei supermercati, abbiamo bisogno di 125 tipi di yogurt". ANTONIO GRAMSCI Per parlare della crisi partiamo dagli errori e fallimenti personali cui lei ha dedicato il suo più recente libro ("Tutti i miei flop preferiti" in uscita con Einaudi). Perché sono importanti ? "Perché gli errori ribadiscono quel che le nostre mamme ci insegnavano: "Non ti lamentare figlio mio!". Nella vita, come nella cultura o in politica, non bisogna essere troppo ambiziosi. Imparare dai propri fallimenti, oltre che giusto dal punto di vista etico, è utile. Chi impara dai propri errori vive più sano. Guardi me e la mia carriera artistica: le sembro il classico intellettuale tedesco, introverso, pieno di prosopopea e tic?". Nonostante sia nato 83 anni fa in Germania, pare sia una persona molto viva e allegra. "La mia vita dimostra che i cliché che circolano su noi tedeschi - arcigni, chiusi e sempre un po' nazisti - sono fasulli. Così come lo sono le idee che molti giovani si fanno sulla vita intellettuale". A quali idee si riferisce? "Oggi ognuno pretende di essere artista. Tutti, in Occidente, sfornano poesie, romanzi, producono installazioni, film e musica. E ognuno vuole vivere i suoi trionfi artistici. Questi giovani hanno dimenticato che la cultura è un'industria come ogni altra; oggi anzi il settore più importante dell'economia globale. Nell'economia però non regna l'altruismo, ma le dure leggi della competizione e di mercato. In economia, come in cultura, per l'appunto, vale la lezione di Beckett: "Impara a fallire meglio!". MARX KARL La crisi finanziaria è partita nell'ottobre 2008: possibile che da allora non abbiamo capito niente del senso delle crisi? "L'uomo è un animale inquieto ma capace di rigirare in positivo i suoi flop. Faccio due esempi. Osip Mandelstam (uno dei più grandi poeti russi, ammazzato da Stalin nel 1938, ndr.) e Antonio Gramsci. La loro grandezza sta nel fatto che, nonostante i tentativi d'ucciderli, Mandelstam è riuscito a scrivere poesie nel gulag e Gramsci i suoi "Quaderni dal carcere". Non dimentichiamoci mai che, al confronto delle catostrofi dei sistemi totalitari, le crisi che attraversiamo oggi sono paradisiache. Io la ricordo la Germania a pezzi dopo il nazismo, e so quel che dico". Il confronto con le crisi degli anni Trenta può consolare chi oggi non ha lavoro? "Il punto non è come consolare la gente. Ma come affrontare le crisi. I grandi artisti traggono profitto dalle realtà più desolanti. Ma sono gli scienziati i migliori ad affrontare le crisi. Nella comunità scientifica è la cosa più normale spingersi alle frontiere del sapere, al limite dell'ignoto. Oggi i giovani più brillanti fuggono dalla politica e dai media, attratti dai nuovi confini delle bio-ingegnerie o dai labirinti del cervello. Vivere nell'insicurezza, compiere fecondi errori è nella scienza un punto d'onore". A proposito di insicurezze e abitudini: c'è un popolo che più dei tedeschi ha bisogno di sicurezze? "Effettivamente, per noi tedeschi la sicurezza è una mania ancestrale. Qui a Monaco, a due passi da casa mia, c'è la centrale di Allianz. Sarò blasfemo: ma le compagnie di assicurazioni mi sembrano le chiese più frequentate dai tedeschi. Siamo così abituati a voler prevedere danni che non ci basta assicurare il posto di lavoro o la vita, ma ogni carie dei denti e diottria degli occhi". Ma la crisi economica non è immaginaria. O crede che, più che in una stretta economica, ci troviamo in una crisi morale? "Quando leggo il classico, Adam Smith, ho l'impressione di trovarmi in ambito scientifico. Mentre gli economisti di oggi si danno invece a pratiche esoteriche: come quantificare rendite e derivati". BECKETT Saranno esoteriche, le pratiche, ma procurano redditto, oppure fanno crollare i mercati. "Certo. Però durante la maggior parte della nostra vita svolgiamo attività non quantificabili, che non procurano né utili né rendite. E allora, mi pongo la domanda: è la vita che non è economica o l'economia oggi non è una scienza? Perché c'innamoriamo e perché, nonostante la crisi, all'ultimo Capodanno abbiamo sparato più fuochi d'artificio che mai?". Eppure, negli ultimi anni, abbiamo assistito a un ritorno di fiamma di Marx. "Non ci trovo nulla di male nella rinascita di Marx. Non conosco inno più accorato al capitalismo di quello che lui ha cantato nella prima parte del "Manifesto comunista". Il grande filosofo Walter Benjamin è stato uno dei pochi a percepire in Marx "l'artista della demolizione". Come profeta del futuro però non funziona". Profetico sulla catastrofe del consumismo è stato un poeta: Pier Paolo Pasolini. "Sì, Pasolini ha svolto mansioni profetiche nell'Italia degli anni '60 e '70. Oltre a quelle però è stato poeta e romanziere, regista e giornalista. Sinceramente, non so se questo modello di intellettuale interventista e pronto a tutto, così onnivoro, sia ancora oggi possibile, auspicabile ed esportabile al di fuori di quel contesto storico specifico dell'Italia". Torniamo allora al sistema capitalistico oggi. "Agli inizi del 21 secolo abbiamo a che fare non con un sistema, ma con molti modelli, divergenti, di capitalismi. Il modello scandinavo non ha nulla in comune con quello sudamericano né questo con quello asiatico, per non parlare delle differenze tra il sistema nipponico e il gigante cinese. Se aguzziamo la vista e notiamo le differenze, vediamo i grandi sistemi e le definizioni astratte sgonfiarsi come palloncini: giocattoli belli, ma inutili a capire la realtà". Ma non c'è un minimo tratto comune ai vari mondi capitalistici? "Sì, l'energia prometeica al fondo d'ogni modello capitalistico, che gli consente di sopravvivere mutando forma a ogni crisi. Ecco perché come sapevano bene i nostri padri spirituali, crisi e fallimenti sono le medicine più importanti della nostra vita". Chi sono questi padri ? "I nostri patroni dell'illuminismo: l'acuto Voltaire, lo scettico Montaigne; il curioso Diderot o il materialista illuminato Leopardi. Loro sapevano che ogni impresa umana, soprattutto l'impresa economica, è un rischio. Per condurla in porto, oltre a una dose di razionalità e di sano scetticismo, ci vuole entusiamo, coraggio e un pizzico di fortuna. Tutte virtù che nell'Europa di oggi, innamorata dei facili successi, tendiamo purtroppo a dimenticare". A proposito di insuccessi: l'Europa è un flop? "Se qualcuno con un paracadute mi buttasse da qualche parte in Africa, America o Europa, intuirei subito, riaprendo gli occhi, dove sono atterrato. So cosa significa essere nato e cresciuto in Europa. Ma il senso dell'idea europea o, peggio, di una elefantiaca costruzione burocratica di nome Ue mi sfugge. L'unica certezza che ho, è che si tratta di un giocattolino politico piuttosto costoso". http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/il-fallimento-ci-salvera-consoliamoci-con-enzensberger-oggi-tutti-straparlano-di-crisi-ma-nessuno-38877.htm