domenica 7 dicembre 2014

Giampaolo Pansa e la profezia su Renzi: "Lo cacciano, arriva un militare. E poi..."

Il caos politico-criminale al municipio di Roma provocò le dimissioni del sindaco Ignazio Marino. E subito dopo quelle del governo di Matteo Renzi, ferito dal marciume che tracimava dal Partito democratico della capitale. Una gran parte della Casta si precipitò a strillare che il successore di Renzi, chiunque fosse, doveva essere sempre un politico professionale, pronto a riconoscere il primato dei partiti. Per questo la Casta rimase sgomenta quando apprese le intenzioni del vecchio presidente della Repubblica. Il padrone del Quirinale stava cucinando un piatto molto indigesto per la politica politicante. Voleva mandare a Palazzo Chigi un signore sconosciuto alla Casta. Un alieno, che per di più vestiva una divisa. Un generale dei carabinieri. Un certo Silvestro Rambaudo.




Il Transatlantico di Montecitorio cadde nel panico. Non si era mai visto in Italia un generale diventare capo del governo. Era successo in altri paesi e in momenti eccezionali. In Grecia, Cile, Argentina e Polonia. Ma dal 1948 in poi, a Palazzo Chigi era sempre entrato un politico eletto dal popolo, mai qualcuno imposto da un’autorità esterna come in fondo era l’inquilino pro tempore del Quirinale. E poi chi era questo Rambaudo? Verso la fine del dicembre 2014 non fu difficile tracciare il profilo del futuro premier. Silvestro Rambaudo aveva 55 anni ed era un generale di divisione dell’Arma dei carabinieri. Nato ad Asti da una famiglia di coltivatori diretti, aveva sempre desiderato entrare nella Benemerita. Dopo la laurea in Giurisprudenza, si era arruolato nell’Arma, che l’aveva subito inviato alla Scuola ufficiali.

Grazie all’intelligenza e al carattere, Rambaudo si era fatto strada rapidamente. Prestando servizio in Libano, poi in Iraq e quindi in Afghanistan. E aveva scalato la gerarchia sino a diventare colonnello, poi generale di brigata e infine generale di divisione. Il dato sorprendente è che non aveva mai goduto di protezioni politiche. Né quelle nascoste, in grado di sostenerlo nella carriera. E neppure quelle lecite, da lui sempre rifiutate. Veniva dipinto come un signore taciturno, che sapeva tutto della politica italiana, pur restandone ben lontano. Un bravo tattico e un eccellente stratega. In grado di parlare alla perfezione inglese, tedesco e francese. Aveva un aspetto fisico che colpiva: alto, magro, barba corta, capelli sale e pepe rasati quasi a zero. Il volto da contadino, lo stesso del padre e del nonno. Di carattere era un freddo, capace di mantenere la calma anche nei frangenti più rischiosi. Gli uomini al suo comando lo adoravano, perché era un comandante severo, ma giusto, che aveva cura dei sottoposti e non si sottraeva alla fatica e alle responsabilità.

Il Presidente aveva conosciuto Rambaudo all’inizio del novembre 2014, durante una visita al contingente italiano in Afghanistan. Anche il generale si trovava alla nostra base di Herat per un’ispezione. E quel giorno il capo dello Stato, con uno strappo al cerimoniale, si concesse un’ora di colloquio a tu per tu con il generale. Iniziando a chiedergli come giudicava le condizioni dell’Italia. Rambaudo gli disse di essere molto preoccupato di quanto avveniva nel paese. Vedeva una nazione sfibrata e in declino. In preda al disordine politico, l’origine di tutti i mali: la corruzione, la gigantesca evasione fiscale, la protervia della criminalità organizzata, le violenze dei gruppi antagonisti, la disperazione dei quartieri popolari, l’assenza di sicurezza. A tutto questo, aggiunse il generale, si accompagnava un’immoralità pubblica e privata senza precedenti: un altro riflesso della crisi etica, persino più corrosiva della crisi economica. Disse: «Le grandi città italiane sono diventate luoghi infernali senza legge. I miei ufficiali le descrivono in mano a politici senza scrupoli, a depravati sessuali che non risparmiano i bambini e a bande criminali capaci di qualsiasi malvagità».

Il presidente chiese a Rambaudo: «Lei ritiene possibile mettere un argine a questo sfacelo?». Il generale rispose: «Non lo so. Forse si potrebbe tentare di imporre di nuovo la legge e l’ordine. Ma per riuscirci sarebbe indispensabile l’aiuto generoso di un ceto politico ancora provvisto di un minimo di dignità e di senso del dovere. In Parlamento esistono uomini e donne così? A un militare non spetta dare giudizi sui partiti. Tuttavia non voglio esimermi dal dirle che siamo perigliosamente vicini al punto di rottura…». «Che cosa intende per rottura?» gli domandò il Presidente. «Intendo un colpo di Stato» chiarì il generale. «Di solito i golpe nascono nella testa di chi intende compierli. Ma hanno sempre bisogno di essere giustificati. Con il disordine che regna in un paese. O con l’aggravarsi di un degrado che appare privo di soluzione. Nel caso italiano sono presenti entrambe queste condizioni. Per questo credo che la nazione sia a un passo da un ciclo di violenze che ci farebbero ricordare la guerra civile. Le ho presentato uno schema teorico, signor Presidente». «E sul piano pratico che cosa potrebbe accadere?» chiese il capo dello Stato. «Niente di traumatico, a parte una nostra lenta discesa in un baratro di mediocrità e di miseria. Le gerarchie militari sono fedeli alla Repubblica. E non prenderebbero mai le armi per sostituirsi al Parlamento. Del resto, l’Europa e i mercati finanziari sarebbero pronti a impedire un golpe in Italia. Per di più, i miei colleghi generali hanno imparato che non conviene essere golpisti. La storia del Novecento ci ha insegnato che i colpi di Stato non portano a nulla. A parte un solo caso: quello di Mussolini».

Il Presidente rimase in silenzio per lunghi istanti. Poi interrogò di nuovo Rambaudo: «Se le cose stanno come dice lei, generale, quale soluzione abbiamo per affrontare le tante crisi italiane?». Il generale si strinse nelle spalle: «Presidente, io non sono un leader politico e neppure un esperto economia o un politologo. Credo che l’unica strada da percorrere sia di mettere in sella un governo che sappia avere la mano dura nei confronti di chi tiene l’Italia sui carboni ardenti. Ma senza violare la Costituzione, né spargere sangue. Può nascere un governo siffatto? La risposta a questa domanda spetta soltanto a lei». 
Il capo dello Stato ringraziò Rambaudo, poi usci dalla tenda e si apprestò a ripartire per Roma. Un mese dopo, quando le trattative per un nuovo governo languivano, il Presidente convocò al Quirinale il generale. Gli disse: «Non ho dimenticato il nostro colloquio a Herat. Lo riassumo così: l’Italia ha bisogno di un governo affidato a un uomo di polso, che non abbia interessi elettorali, un tecnico capace di tenere in pugno un paese che si sfalda. Per questo ho pensato a lei, generale. Conosco il suo percorso professionale e il suo carattere. Lei è un militare con una grande esperienza di comando nell’arma dei carabinieri e riuscirà di certo a trasferirla nelle stanze di Palazzo Chigi».

Superata la sorpresa, Rambaudo replicò: «Signor presidente, non mi sembra un’idea felice. Affidare il governo a un generale dei carabinieri, anche se di indubbia fede democratica, farà strillare a molti che è in atto un golpe. Sia pure non dichiarato e soffice, senza carri amati per le strade, né arresti di oppositori politici…». Il capo dello Stato gli ribatté: «Se molti strilleranno, toccherà a noi convincerli del contrario. Quello che conta è la scelta dei ministri, ma in questo compito l’aiuterò io. Le garantisco che avrà la fiducia del Parlamento. Sarà un voto favorevole anche se a denti stretti. Però lo otterrà». Il generale Rambaudo si alzò e allargò le braccia, rassegnato: «Lei mi affida una croce che non immaginavo di portare. Una croce pesante che non sono sicuro di saper reggere. Però mi trovo di fronte al presidente della Repubblica e dunque obbedirò».

Nel marzo 2015, l’ingresso di Rambaudo a Palazzo Chgi fu meno difficile del previsto. La destra lo acclamò perché era un militare. La sinistra gridò al golpe, ma poi lo votò. In tutti i partiti era prevalso un calcolo cinico: «Se il generale andrà a sbattere, come è inevitabile, la colpa sarà soltanto sua e non nostra». All’opposizione rimase soltanto qualche irriducibile, ma con poche speranze di contare. Del resto, il programma del governo non poteva che essere quello dettato dall’Europa e dalla grande recessione mondiale che seguitava a infuriare. I capisaldi erano sempre gli stessi: massima austerità, taglio spietato della spesa pubblica, rigore finanziario. Le sinistre provarono per l’ennesima volta a chiedere un’imposta patrimoniale straordinaria a carico dei presunti ricchi. Ma il premier Rambaudo, dati alla mano, dimostrò che esisteva già e sarebbe stata soltanto una misura punitiva e dannosa.

Il primo guaio incontrato da Rambaudo fu tremendo. Il sistema bancario iniziò a traballare. Alcuni piccoli istituti di credito bloccarono i conti correnti dei clienti. La rabbia dei correntisti diventò feroce. Molte agenzie vennero assalite. I presidenti di due grandi banche furono assassinati da killer sconosciuti. Nei loro volantini di rivendicazione i killer si definirono i nuovi Robin Hood. Tutta l’Italia si era impoverita. Nella primavera del 2015 i consumi continuarono a ridursi. I negozi vendevano le merci sotto costo, ma gli acquirenti scemavano. La disoccupazione si fece drammatica. Le casse dello Stato erano quasi vuote. Rimaneva soltanto quanto bastava per pagare lo stipendio dei dipendenti pubblici, le pensioni e far funzionare i servizi essenziali.


Grandi opere pubbliche non se ne vedevano più. Anche la manutenzione ordinaria diventava difficile. Lo confermava lo stato delle strade, in condizioni pessime e tutte rabberciate alla meglio. In molte città, le famiglie rimaste senza soldi vendevano in bancarelle improvvisate i ricordi di un’epoca felice: corredi da sposa, vasellame di pregio, oggetti d’oro e d’argento. Da Palazzo Chigi il premier assisteva impotente all’agonia del paese. Usando la severità necessaria, Rambaudo era riuscito a imporre un minimo di ordine, a tenere a bada i corrotti, ad arrestare criminali e mafiosi, ma niente di più. L’Italia stava morendo. Anche attività ritenute tra le più salde languivano. A cominciare da quelle frivole. Non si giravano più film. I programmi della televisione pubblica a privata ripresentavano vecchi spettacoli. Venivano trasmessi soltanto i telegiornali. Godevano di un ascolto altissimo, poiché tutti volevano sapere che cosa stesse accadendo.

Pure il sistema sanitario sembrava sull’orlo del tracollo. Per garantirlo, il governo Rambaudo intensificò la caccia agli evasori fiscali. I controlli sui redditi diventarono sempre più sofisticati. Venne varata la legge «Manette agli evasori». I contribuenti infedeli erano indicati al pubblico disprezzo con nome e cognome. Nel carcere di San Vittore morì d’infarto una grande firma della moda. Un famoso attore dei cinepanettoni si uccise in cella soffocandosi con una busta di plastica. Tre banchieri vennero arrestati per aver trasferito capitali all’estero.

Il Terrore fiscale ebbe successo. Le entrate dello Stato migliorarono, ma i conti pubblici restarono in rosso. La tivù di Stato precipitò nella depressione più nera. La Rai optò per una sola rete e lo stesso fece Mediaset. La Sette fu comprata dagli Emirati arabi. Venne mandato a casa il direttore del tigì Mentana, considerato troppo anziano e incapace di catturare telespettatori giovani. Qualche reduce dei talk show si rifugiò alla tivù albanese che aveva allestito un programmino in italiano. Anche il campionato di calcio ne risentì. In serie A giocavano soltanto dieci squadre. I compensi dei campioni erano ridotti all’osso. Gli stadi risultavano mezzi vuoti perché soltanto pochi potevano permettersi di comprare i biglietti. Lo scudetto lo vinse una squadra di Bari nata da poco: la Padrinese Fbc, finanziata da una società delle Isole Cayman e in mano alla Sacra corona unita. Rambaudo la chiuse. Le librerie persero clienti su clienti. I pochi quotidiani rimasti in vendita uscivano a otto pagine e senza pubblicità. L’uso del web venne tassato in modo pesante e crollò. Anche twittare costava un occhio della testa. Fu l’unico fatto positivo in un tempo di disgrazie.

L’inverno 2015-2016 cominciò con grandi bufere di neve che investirono l’intero paese. Il governo Rambaudo ordinò che a partire dal 1° gennaio 2016 il riscaldamento negli uffici pubblici e nelle case private venisse limitato a tre ore al giorno. Soltanto gli asili e gli ospedali furono esentati dall’obbligo. Nelle scuole elementari erano ammesse appena le stufe a legna, purché alimentate dai ceppi che gli alunni portavano in classe ogni mattina. Il presidente della Repubblica, una vera roccia, lesse il messaggio di Capodanno indossando il cappotto.
Malgrado il freddo arrivarono in Italia schiere di cinesi pronti ad acquistare aziende e palazzi. E si trovarono di fronte a una novità. Il premier Rambaduo aveva introdotto la tessera per i beni di prima necessità, tutti razionati. Informò il paese che la borsa nera sarebbe stata repressa con anni di carcere. Gli italiani misero in pratica un’arte che conoscevano da secoli: quella di arrangiarsi.
L’Italia cambiò faccia. Le università si svuotarono di migliaia di studenti sfaticati, anche perché le rette erano cresciute del trecento per cento. Molti giovani si decisero a fare mestieri che avevano sempre rifiutato. La concorrenza con gli extracomunitari diventò senza pietà. Le colf e le badanti italiane ormai si trovavano con facilità. Questo consentì di accudire gli anziani meglio di prima. Era fortunato chi possedeva un pezzo di terra: il lavoro dell’agricoltore ritornò di moda. Permaneva un solo risvolto negativo: l’aumento impressionante dei furti e delle rapine. Ma sotto la sferza del premier Rambaudo, le forze dell’ordine si dimostrarono implacabili. Una volta arrestati, i delinquenti restavano in galera, con il regime previsto per i mafiosi, il 41 bis. I campi rom non furono chiusi, ma vennero messi sotto la sorveglianza di una rete di marescialli dei carabinieri che imposero ordine e pulizia.
Rambaudo era riuscito nell’impresa più urgente: ripristinare l’imperio della legge. La condizione indispensabile per tentare di risalire dal baratro del collasso. Infine emerse una sorpresa positiva: le coppie giovani facevano più figli di prima. Poteva sembrare un paradosso. Ma soltanto a chi dimenticava quanti italiani fossero nati nell’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale. Tutto venne riassunto da un libro di grande successo, scritto un’anziana sociologa. Il titolo diceva: «Era ora!». Il sottotitolo spiegava: «La Grande Crisi ci rende migliori. Nascono più bambini e il futuro sarà rosa».

di Giampaolo Pansa

http://www.liberoquotidiano.it/news/opinioni/11730496/Giampaolo-Pansa-e-la-profezia-su.html

venerdì 14 novembre 2014

MORO PSYCO-THRILLER - LE VERITÀ DI PIECZENIK: “MI RESI CONTO CHE CON LA MIA STRATEGIA AVREI SACRIFICATO L’OSTAGGIO PER LA STABILITÀ DELL’ITALIA” - HO CREATO IL FALSO COMUNICATO DELLA DUCHESSA PER “SPINGERE LE BR A UCCIDERE MORO AL FINE DI DELEGITTIMARLE” In un libro il consulente Usa dice che il suo scopo era “mantenere in vita Moro il più a lungo possibile per consentire a Cossiga di riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza” - Obama ha aperto un procedimento nei suoi confronti per il rifiuto di negoziare provocando la morte di un uomo di Stato straniero…

Rita Di Giovacchino per “Il Fatto Quotidiano
  
Aldo MoroALDO MORO
La richiesta di una rogatoria internazionale a carico di Steve Pieczenik era stata avanzata il 1 settembre scorso da Maria Fida Moro, dopo aver letto su Il Fatto l'intervista rilasciata dal consulente americano al giornalista Marco Dolcetta.

La figlia minore del presidente Dc si era mossa in qualità di persona offesa ma purtroppo, scrive il pg Ciampoli nelle sue cento pagine, la missione del pm romano Luca Palamara può considerarsi fallita per la reticenza manifestata dal consulente americano che si è schermato dietro dichiarazioni generiche e arroganti. In alternativa, è stato interrogato Dolcetta e acquisita la registrazione dell'intervista nella quale Pieczenik confermava la presenza del Sismi in via Fani.
  
MOROMORO
L'atteggiamento dell' “americano” spedito in tutta fretta a Roma il 29 marzo 1978 dal Dipartimento Usa non deve stupire. Le sue numerose dichiarazioni, interviste, interventi pubblici hanno sempre dato l'impressione che parlasse molto al solo scopo di celare l'effettivo ruolo da lui svolto nei 55 giorni. Resta intatto il mistero della sua missione, sollecitata dal ministro dell'Interno Cossiga che chiese aiuto all’America temendo che la situazione potesse sfuggirgli di mano.

Così, per non dare troppo nell’occhio, il Dipartimento inviò appunto Pieczenik, uno psichiatra dai comportamenti stravaganti, dietro i quali si nascondeva un personaggio di primo piano in grado di assolvere a un ruolo importante negli accordi di Camp David.
  
PieczenickPIECZENICK
Pieczenik aveva avuto direttive precise, ma non è detto che siano quelle che ha raccontato. In un libro, scritto con l'aiuto del giornalista francese i Emanuèl Amara (Abbiamo ucciso Aldo Moro) afferma ad esempio che il suo obiettivo era “guadagnare tempo, mantenere in vita Moro il più a lungo possibile, per consentire a Cossiga di riprendere il controllo dei suoi servizi di sicurezza…”. Dunque l'uomo poi divenuto Capo di Stato, cui è stata attribuita una certa contiguità con gli ambienti Gladio, in quel frangente non controllava gli apparati.

FRANCESCO COSSIGAFRANCESCO COSSIGA
“Allo stesso tempo era auspicabile che la famiglia Moro non avviasse una trattativa parallela con il rischio che Moro fosse liberato prima del dovuto… mi resi conto che portando la mia strategia alle estreme conseguenze… avrei sacrificato l’ostaggio per la stabilità dell’Italia”.
  
Fu lui, o almeno lo rivendica, a creare il falso comunicato n. 7, in cui si annunciava l'avvenuta esecuzione sul Lago della Duchessa, con il duplice obiettivo di “spingere le Brigate Rosse a uccidere Moro al fine di delegittimarle”. Due piccioni con una fava.

Un esito la missione di Palamara lo ha comunque ottenuto: Obama ha aperto un procedimento nei confronti di Pieczenik per il suo rifiuto di negoziare provocando la morte di un uomo di Stato straniero, iniziativa un po' tardiva cui dovrebbe far seguito quella italiana. I comitati di crisi erano tre e Pieczenik rientrava in quello degli esperti, di cui faceva parte anche Ferracuti, il superperito che teorizzò che Moro fosse vittima della crisi di Stoccolma.
barack obama incontra aung san suu kyi 18BARACK OBAMA INCONTRA AUNG SAN SUU KYI 18

Dalla cento pagine emerge anche che nel covo di via Montenevoso sarebbero stati rin venuti gli elenchi dei 622 appartenenti a Gladio, fu questo forse a spingere Andreotti a renderlo pubblico. Dice il vicepresidente Gero Grassi: “Il nostro obiettivo è recuperare anche l'altro elenco, quello dei 650 gladiatori “respinti” in realtà utilizzati nelle operazioni sporche”.

mercoledì 12 novembre 2014

MORO, LO PSYCHO-THRILLER INFINITO - PER IL PROCURATORE GENERALE DI ROMA, CI SONO “GRAVI INDIZI DI CONCORSO NELL’OMICIDIO” NEI CONFRONTI DELLO PSICHIATRA AMERICANO PIECZENIK Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa, fu il ‘superconsulente’ di Cossiga durante il sequestro Moro. Nell’archiviare l’inchiesta sulla moto in via Fani, il pg della Corte d’Appello di Roma solleva nuovi sospetti: avrebbe “istigato” le BR a portare il rapimento alle estreme conseguenze...


MOROMORO
Nei confronti dell’americano Steve Pieczenik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa e “superconsulente” del governo italiano ai tempi del sequestro di Aldo Moro, vi sono “gravi indizi circa un suo concorso nell’omicidio” dello statista democristiano. Lo sostiene il procuratore generale della Corte d’appello di Roma Luigi Ciampoli che chiede alla procura di procedere.

L AGGUATO DI VIA FANI DELLE BRIGATE ROSSE PER RAPIRE ALDO MOROL AGGUATO DI VIA FANI DELLE BRIGATE ROSSE PER RAPIRE ALDO MORO
Le presunte responsabilità di Pieczenik vengono messe in luce dal procuratore generale Ciampoli nella richiesta di archiviazione, inoltrata ieri al gip del tribunale di Roma, dell’inchiesta sulle rivelazioni dell’ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi, a bordo di una moto Honda, in via Fani, a Roma, quando Moro fu rapito dalle Brigate Rosse.

Il pg ha quindi disposto la trasmissione della richiesta di archiviazione – un documento di cento pagine – al procuratore della Repubblica di Roma “perché proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell’omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978″.
FRANCESCO COSSIGAFRANCESCO COSSIGA

La figura dell’esperto Usa – consulente dell’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga nel comitato di crisi istituto il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Moro e dell’uccisione degli uomini della scorta – è da molto tempo, e da molti, considerata “centrale” nella vicenda del sequestro e dell’omicidio del presidente della Dc.

BRIGATE ROSSEBRIGATE ROSSE
La procura generale di Roma sottolinea che “sono emersi indizi gravi circa un suo concorso nell’omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le BR, dell’operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, ovvero, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse BR”.

COSE DI COSA NOSTRA – UNA FONTE RIVELA: “IL TRITOLO PER DI MATTEO È GIÀ A PALERMO” E IL PENTITO ZARCONE CONFERMA: ‘’DIETRO CI SONO ANCHE GLI UOMINI DI BAGHERIA” – POTENZIATE LE MISURE DI SICUREZZA Un confidente ritenuto attendibile ha svelato che da mesi le famiglie mafiose palermitane raccolgono l’esplosivo per ammazzare il pm del processo sulla Trattativa Stato-mafia. Il tritolo sarebbe nascosto in diversi punti della città. Aumentata la vigilanza anche per i pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia…

Salvo Palazzolo per “la Repubblica

IL PM NINO DI MATTEOIL PM NINO DI MATTEO
L’allerta è tornata altissima attorno al pubblico ministero Nino Di Matteo, il magistrato del pool “trattativa” che il capo di Cosa nostra Totò Riina vuole morto. Una fonte ritenuta dagli inquirenti «molto attendibile » ha svelato che da mesi le famiglie mafiose palermitane stanno raccogliendo esplosivo per un attentato a Di Matteo. La fonte ha spiegato pure che un carico di tritolo sarebbe già nascosto in diversi punti di Palermo.

Di più non si sa, la fonte è protetta da un rigido segreto investigativo. Però, proprio in questi giorni, anche l’ultimo pentito di mafia, Antonino Zarcone, ha parlato di un progetto di attentato nei confronti di Nino Di Matteo: «Era coinvolta pure la mia cosca, quella di Bagheria», ha spiegato.

La nuova emergenza sicurezza è stata subito comunicata dal procuratore reggente di Palermo, Leonardo Agueci, al Viminale. E ieri mattina, nella stanza del procuratore generale Roberto Scarpinato sono arrivati da Roma gli “specialisti” delle teste di cuoio, i Gis dei carabinieri e i Nocs della polizia, per partecito pare a un vertice con i magistrati e con i responsabili delle forze dell’ordine.
palazzo di giustizia palermoPALAZZO DI GIUSTIZIA PALERMO

Oggetto dell’incontro, il potenziamento del piano di sicurezza attorno al pubblico ministero che Riina citava durante le sue passeggiate all’ora d’aria, non immaginando di essere intercettato. «E allora organizziamola questa cosa... Facciamola grossa e non ne parliamo più».

Questo diceva il padrino di Corleone al boss pugliese Alberto Lorusso: una telecamera della Dia ha ripreso Riina mentre esce la mano sinistra dal cappotto e mima il gesto di fare in fretta. «Perché questo Di Matteo non se ne va, gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile ucciderlo, un’esecuzione come a quel tempo a Palermo».
VITTORIO TERESIVITTORIO TERESI

Al palazzo di giustizia nessuno vuole commentare l’ultima allerta. Il clima è teso. I controlli sono stati rafforzati anche attorno agli altri magistrati del processo per la trattativa “Statomafia”, il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Controlli intensificati pure attorno al palazzo di giustizia: resta un mistero l’incursione nella stanza di Scarpinato, a fine agosto, qualcuno ha lasciato una lettera di minacce sulla scrivania del procuratore generale.

Adesso, le attenzioni investigative sono tutte concentrate sulle parole della fonte. E sulle rivelazioni del pentito Zarcone, che da venti giorni parla con i pm di Palermo degli ultimi segreti di Cosa nostra. Zarcone era uno dei capi della famiglia di Bagheria, due anni fa era spesso a tavola con i padrini più in vista di Palermo. Alcuni filmati dei carabinieri del Reparto Operativo ritraggono i boss mentre escono da “Ma che bontà”, uno dei locali in della città. Nessuno ha mai saputo di cosa si discuteva a tavola.

http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/cose-cosa-nostra-fonte-rivela-tritolo-matteo-gi-88504.htm

VIVA VIVA LA TRATTATIVA – NICCOLÒ AMATO, L’EX CAPO DELLE CARCERI FATTO FUORI NEL ’93, SI VENDICA DI SCALFARO: “CEDETTE ALLA MAFIA” – “NON SO SE CI FU TRATTATIVA, MA CI FU UN OGGETTIVO CEDIMENTO DELLO STATO DOPO LE PROTESTE DELLA MAFIA SUL 41 BIS” I magistrati di Caltanissetta hanno ascoltato anche l’ex presidente dell’Antimafia Luciano Violante, che ha raccontato di essersi rifiutato di incontrare Vittorio Mangano, lo stalliere mafioso di Arcore. Violante ha anche riferito alcuni retroscena della cattura di Totò Riina…

Marco Lillo per “il Fatto Quotidiano

niccolo_amatoNICCOLO_AMATO
   Dopo 21 anni Niccolò Amato si è potuto finalmente togliere la soddisfazione di puntare il dito sull’uomo che decise la sua cacciata da capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria nel giugno 1993: il presidente Oscar Luigi Scalfaro. Quel cambio di vertice non era uno dei tanti ribaltoni ministeriali ma determinò un “cedimento dello Stato alla mafia”, come ha detto ieri Amato.

   Le sue parole sono cadute come pietre nell’aula bunker di Rebibbia davanti alla Corte di assise di Caltanissetta, in trasferta a Roma per il quarto processo per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992 nella quale persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Amato ha scandito: “Io considero ci sia una macchia per le istituzioni quando si accerta che il responsabile dell’Amministrazione Penitenziaria (lo stesso Amato, ndr) viene cacciato dall’oggi al domani e questo avviene in relazione e dopo una lettera della mafia, che era il mio nemico, lettera che non mi viene portata a conoscenza”. In quella lettera anonima al presidente della Repubblica, i familiari dei boss reclusi chiedevano la sua cacciata.

luciano violanteLUCIANO VIOLANTE
   “Le ragioni per le quali io dovevo andare via – ha spiegato Amato – le ho capite dopo proprio attraverso la conoscenza di questa lettera del 17 febbraio 1993 che contiene giudizi molto duri e minacce nella quale la mafia dice anonimamente al presidente Scalfaro: ‘Manda via il dittatore Amato e gli squadristi al suo servizio’. Questa lettera non mi è stata mai fatta conoscere e doveva essermi fatta conoscere”.

Amato è indignato perché “subito dopo l’arrivo di questa lettera il massimo rappresentante istituzionale di questo Paese (il presidente Scalfaro, ndr) che avrebbe potuto chiamare il presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi o il ministro della Giustizia Giovanni Conso, chiama invece il capo dei cappellani carcerari, monsignor Cesare Curioni – un testimone lo riferisce testualmente – e gli dice: ‘Basta Amato!’. Io credo che questo sia un fatto straordinariamente fuori delle regole.

Se qualcuno si è seduto al tavolo (della trattativa, ndr) io non lo posso sapere – prosegue Amato – ma oggettivamente al di là delle responsabilità c’è stato un cedimento dello Stato alla criminalità organizzata”. Amato ricorda che il regime carcerario: “Improvvisamente viene enormemente ammorbidito. Queste cose sono state fatte da giugno del 1993, dopo che io sono stato cacciato, e io non le avrei mai fatte”.
Vittorio Mangano in tribunale nel 2000VITTORIO MANGANO IN TRIBUNALE NEL 2000

   La corte ieri ha ascoltato anche la versione di Luciano Violante sui retroscena dell’audizione saltata di Vito Ciancimino in commissione Antimafia. Nel ’92 era stata sponsorizzata dall’allora colonnello Mario Mori. Poi Violante è tornato su un episodio accennato in un’intervista radiofonica nel 2010: “Tra il 1994 e il 1996, quando ero vicepresidente della Camera, Vittorio Mangano mi scrisse una lettera in cui chiedeva di incontrarmi. Vennero anche dei suoi parenti – ha aggiunto – che parlarono con un mio collaboratore insistendo affinché io avessi un colloquio con Mangano. Un colloquio che non ho mai avuto”.

toto riinaTOTO RIINA
   Il Fatto, dopo l’udienza, ha chiesto a Violante se la scelta di non parlare con lo “stalliere di Berlusconi” fosse dettata dal clima di pacificazione che si era creato tra il Pci-Pds-Ds e Berlusconi . Violante ha replicato: “Se lo avessi incontrato, sarei addivenuto a una richiesta di Mangano e allora sì che sarei andato verso la pacificazione”. Al Fatto che gli faceva notare: “Così non sapremo mai se Mangano volesse dirle qualcosa sui suoi rapporti con Dell’Utri e Berlusconi”, Violante ha replicato: “O le cose si fanno seriamente o non si fanno. Perché dovevo incontrare Mangano? Io facevo il vicepresidente della Camera nel 1995. Non mi sono mai pentito di non averlo incontrato. Nella vita non bisogna essere curiosi ma seri”.

TOTO RIINATOTO RIINA
   Violante ha parlato anche dello strano incontro con il generale dei carabinieri Francesco Delfino alla fine del 1992, in merito all’arresto di Totò Riina che poi avvenne nel gennaio 1993. “Nelle vacanze di Natale del 1992 – ha raccontato Violante – il generale Delfino mi telefonò dicendo che voleva venirmi a parlare di una cosa delicata. Mi disse che un sottufficiale della zona di Verbania durante una perquisizione aveva trovato un soggetto (il mafioso poi pentito, Balduccio Di Maggio, ndr) che aveva una pistola non dichiarata e che gli disse che poteva aiutarli a trovare Riina.

Delfino si disse certo di arrestare Riina. Io lo consigliai di andarne a parlare con Giancarlo Caselli, già nominato procuratore di Palermo, anche se non aveva preso servizio”. L’arresto di Balduccio Di Maggio, che poi portò i carabinieri da Riina, avvenne però non a dicembre ma a gennaio. E quando il 19 gennaio 1993, dopo l’arresto di Riina, La Repubblica scrisse che Violante era stato informato da Delfino “passo passo”, l’allora presidente dell’Antimafia dettò alle agenzie una smentita tanto ampia quanto vaga per negare di avere incontrato Di Maggio, senza dire però di avere incontrato Delfino.

Riacquista il debito pubblico aumentando le riserve di 60 miliardi di dollari al mese. In Giappone con la sovranità crescono, noi con l’austerità moriamo

VIVERE SENZA L'EURO
Riacquista il debito pubblico aumentando le riserve di 60 miliardi di dollari al mese. In Giappone con la sovranità crescono, noi con l’austerità moriamo
Nella notte delle streghe, i giapponesi han trovato il modo d’ingannare ancora una volta i mercati finanziari, predisponendo un potente piano di riacquisto del debito pubblico per circa 60 miliardi di dollari al mese.
Se si pensa che l’emissione media mensile di debito pubblico giapponese è di 55 miliardi, questa nuova politica di QE andrà non solo a comprare tutto il debito emesso mensilmente, ma anche una parte di quello già presente sul mercato.
I mercati festeggiano, le borse salgono ed i beni rifugio crollano. Per adesso.
Facciamo una serie di considerazioni su cosa implica questa politica monetaria giapponese, sui risvolti che potrebbe avere sull’economia reale e sul perché, pur con tutti i limiti del caso, essa rappresenta una importante soluzione per l’eliminazione del debito pubblico e dei suoi interessi passivi.
Partiamo confrontando il debito italiano con quello giapponese ed il costo del debito stesso.
L’Italia, sulle ultime emissioni decennali, paga 5 volte il costo degli interessi del Giappone che ha un debito doppio rispetto a quello italiano. Perché?
Perché i giapponesi, attraverso la loro banca centrale, ricomprano il debito emesso dal Governo, scambiando sul mercato ogni mese 60 miliardi di dollari in controvalore. Questa politica comporta: in primo luogo l’abbassamento del tasso sui titoli di Stato giapponesi; in secondo luogo tende ad indebolire la valuta, favorendo l’export, quindi le industrie giapponesi e la bilancia commerciale. Dall’avvio delle politiche di QE, lo Yen si è svalutato del 30% contro l’euro.
Grazie a queste politiche della BOJ, grazie alla visione strategica dell’ottimo premier Abe, il Giappone a soli tre anni da una catastrofe epocale, viaggia con un PIL stabile, disoccupazione al 3,5%, inflazione al 3% e con un reddito medio pro-capite di 37.000 dollari mentre quello italiano è circa 28.000. Vorremmo tutti essere giapponesi. O no?
Viene da rabbrividire al solo pensiero d’immaginare cosa sarebbe successo se un evento naturale così devastante avesse colpito la nostra meravigliosa Italia, dove bastano poche gocce d’acqua per creare inondazioni, frane, alluvioni che a distanza di anni, si ripetono senza che alcuna autorità preposta vi ponga rimedio per tempo.
Tornando al QE della BOJ, pare davvero che questa abbia preso il testimone, in una sorta di staffetta delle banche centrali, dopo che la FED col suo tapering (riduzione degli acquisti di titoli di stato e cartolarizzazioni) stava innervosendo i mercati.
Ma la domanda da porsi a questo punto è: quanti dei miliardi creati dalle banche centrali di mezzo mondo sono poi arrivati all’economia reale?
Risposta: quasi nulla, zero.
C’è infatti un fraintendimento di base, dettato dall’ignoranza di molti e dalla malafede di altri, sul Quantitative Easing (QE) che viene chiamato a sproposito “stampare moneta”.
La Banca del Giappone, al pari della FED e della BOE, non fa altro che procedere a un’operazione di acquisto di titoli di stato, azioni, altri asset finanziari “a rischio”, al fine di aumentare la base monetaria. Questo intervento, consiste in uno scambio di riserve bancarie (create al momento dalla banca stessa) con titoli di Stato. Attraverso questa pratica, i titoli vengono rimossi dalla circolazione e scambiati con riserve (ecco il motivo per cui la base monetaria aumenta). L’unico effetto reale del QE, è che aumenta le riserve bancarie delle banche .
Attraverso il Quantitative Easing :
1) Non si “inietta nuova liquidità”, non si “stampa moneta”, ma si creano riserve bancarie e non si produce alcun effetto sulla domanda aggregata;
2) L’aumento di riserve NON significa incremento dei crediti che saranno erogati dal sistema bancario alle attività produttive, perché le riserve per definizione, non operano al di fuori del sistema bancario (le riserve non si possono prestare a privati per mutui o finanziamenti);
3) Mediante il riassorbimento dei titoli di Stato, la Banca Centrale sottrae al settore privato anche il rendimento dello stesso titolo, quindi in realtà rimuove liquidità, non la aggiunge al sistema dell’economia reale. Produce quindi un effetto deflazionistico (è come se si aumentassero le imposte, la moneta nel sistema reale diminuisce, non aumenta).
4) Infine, le politiche di QE non creano “direttamente” inflazione.
Non esiste alcun nesso diretto tra l’economia reale e le politiche di QE. La maggior parte degli effetti di dette politiche si consuma direttamente nei mercati finanziari e tocca solo marginalmente l’economia reale (privati ed imprese) limitatamente ai casi in cui si abbiano grandi ricchezze e proprietà.
I mercati invece sono assai sensibili alle politiche di QE per una serie di motivi che ora andremo ad analizzare.
In primo luogo a risentire positivamente del QE è il mercato obbligazionario e del debito sovrano; la certezza che il debito contratto, per quanto elevato, troverà sempre un compratore, rende l’investimento a rischio praticamente nullo. Dunque la domanda di safe asset è forte e comprime i tassi dei titoli di Stato, portandoli a quotazioni fino a qualche anno fa inimmaginabili.
In secondo luogo, la riduzione del costo del debito, induce una maggior competitività delle aziende presenti sul mercato (gli interessi passivi rappresentano un costo per il sistema produttivo) e dunque anche la componente azionaria finisce per godere dell’allentamento delle tensioni sul mercato del credito.
Il fatto che i vari QE siano operazioni di tipo deflazionistico, spiega anche il collo dei corsi dei metalli preziosi e dei beni rifugio in generale.
Indirettamente, un altro effetto dei vari QE, è quello di permettere l’utilizzo di un sempre più ampio ventaglio di asset da porre a garanzia nei prestiti tra banche ed istituzioni finanziarie per ottenere nuova liquidità da reinvestire poi sul mercato finanziario, favorendone in ultima istanza crescita.
Il tutto senza che nulla giunga all’economia reale.
Le politiche di QE adottate, sebbene abbiano impedito il prodursi di una catastrofe finanziaria ed economica come accadde nel 1929, sono ben lungi dal poter essere considerate le migliori strategie possibili. Infatti, sempre per chi ancora non lo avesse ben chiaro, il problema dell’economia attuale non è la dimensione dei debiti pubblici, bensì l’enorme grandezza del debito privato e la mole d’interessi passivi che questo drena all’economia reale. In Italia, si pagano interessi passivi complessivi sul debito totale pari al 14% del PIL! Essi rappresentano un costo insostenibile per famiglie ed imprese. Certo, aver potuto contare sulla disponibilità di una banca centrale, in grado di assorbire il debito sovrano, limitandone i tassi passivi e mettendo in sicurezza il sistema bancario nazionale, avrebbe fatto comodo anche al nostro Paese.
Ma se si comprende cosa non va oggi, quali sono i punti su cui intervenire, vi sono allora altre e più incisive pratiche che andrebbero adottate per uscire dalla depressione in cui siamo costretti da sei anni.
Il problema, se lo si vuole semplificare al massimo, è che in Italia c’è troppo debito totale (pubblico e privato), poca moneta (perché il sistema bancario ha ridotto il credito e lo Stato ha ridotto i deficit) ed un livello eccessivo e punitivo di tasse. Si deve mettere la moneta nelle tasche di famiglie ed imprese; il riacquisto di debito sovrano da parte delle banche centrali non porta un centesimo nelle tasche dei privati, ed anzi, abbassando i tassi, riduce anche il flusso d’interessi.
La soluzione migliore sarebbe quella, secondo cui, da un lato lo Stato dovrebbe poter ricomprare il proprio debito (attraverso la banca centrale od una banca nazionalizzata), abbattendo gli interessi sul debito stesso (risparmiando circa 60 miliardi di euro l’anno) e contestualmente, provvedere ad una riduzione delle tasse dell’ordine di 200 miliardi di euro all’economia reale (utilizzando i Certificati di Credito Fiscale, ad esempio), con l’obiettivo di aumentare i consumi e, parallelamente, migliorare la competitività delle aziende. Il più prestigioso ed illustre economista monetario, Mike Woodford si esprime in questi termini: “Occorre una creazione permanente di moneta tramite trasferimenti diretti a famiglie ed imprese che consistono in riduzioni di tasse, accoppiati ad acquisti addizionali di debito governativo, per cui i tagli di tasse vengono effettivamente finanziati con creazione di moneta”.
Non è fantasia; è la realtà che da sempre guida i paesi asiatici ed anglosassoni, che dopo la crisi del 2007, hanno messo in atto politiche atte a sostenere la domanda aggregata, proprio mentre in Europa, la Germania e la Troika, riuscivano ad imporre la follia suicida delle politiche di austerità il cui più grande risultato è espresso dal seguente grafico:
Tanto per dare un’idea della dimensione del fenomeno di cui stiamo parlando, ecco lo stimolo che la Cina ha prodotto a seguito della crisi del 2008:
La Cina ha prodotto uno stimolo monetario pari a 15.400 miliardi di dollari, quasi il doppio dello stimolo delle banche centrali di USA, Giappone, Inghilterra ed UE messe assieme.
Questo “alleggerimento quantitativo e qualitativo”, pur nei limiti evidenziati in precedenza, ha permesso nei paesi che l’hanno attuato, la messa in sicurezza dei mercati, del debito e del sistema bancario, rilanciando l’economia e riassorbendo la disoccupazione dopo la crisi del 2007, mediante il finanziamento di deficit governativi a doppia cifra.

http://www.ioamolitalia.it/blogs/vivere-senza-l-euro/il-giappone-riacquista-il-debito-pubblico-aumentando-le-riserve-di-60-miliardi-di-dollari-al-mese-loro-con-la-sovranita-crescono-noi-con-l%E2%80%99austerita-moriamo.html

martedì 11 novembre 2014

“DOVE SEI MATTEO?” - DA UNA PICCOLA RADIO DI MARSALA, GIACOMO DI GIROLAMO SFIDA DA DIECI ANNI IL BOSS MESSINA DENARO DENUNCIANDO GLI AFFARI DI COSA NOSTRA: “IN SICILIA SEMBRA CHE IL PROBLEMA NON SIA LA MAFIA MA CHI LA RACCONTA” Giacomo Di Girolamo combatte con le parole: nel suo c’è Borsellino che si rivolge all’amico Falcone: “Chi lo poteva dire: lottare ogni giorno senza riposo, morire da eroi, diventare simboli di una ribellione. E poi riempire le pagine di Tuttocittà”…

Ferruccio Sansa per "il Fatto quotidiano

matteo messina denaroMATTEO MESSINA DENARO
“Dove sei Matteo?". Ogni giorno, da dieci anni, la voce di Giacomo viaggia nell'etere di Marsala e Trapani. Arriva nei bar, nelle auto, nelle case, nelle gallerie bunker dei mafiosi. E arriva senz'altro fino a lui: a Matteo Messina Denaro. Lo stana, almeno quella voce, visto che nessuno ancora ci è riuscito dopo anni e anni di ricerche, di inseguimenti. Matteo, però, non è il solo destinatario dei messaggi di Giacomo Di Girolamo, uno dei migliori cronisti italiani di mafia. No, i primi destinatari forse sono i cittadini: perché si ricordino di quella presenza che strozza la Sicilia e la loro vita.

Le inchieste - centinaia - di Giacomo De Girolamo da anni raccontano una grande terra, che racchiude ed esalta i segreti dello splendore e della crisi di tutta l'Italia. Nomi, dati, che fanno tremare giunte comunali, che mettono in discussione una classe politica e tutto il mondo che la sostiene. Che fanno male proprio perché ricordano la speranza. Ma anche la storia di Giacomo merita di essere raccontata.

matteo messina denaroMATTEO MESSINA DENARO
Bisogna, per una volta, andare dietro il microfono della sua radio, Rmc101, Radio Marsala Centrale. Merita conoscere chi c'è dietro le parole che ogni giorno compaiono sul sito www.tp24.it  . Giacomo con il suo impegno racconta quanto sia essenziale la figura del cronista quando con il suo lavoro svela i mali del potere. Quando descrive i mali di una terra, lasciando però aperta la speranza che è nei suoi 37 anni. In quei capelli scompigliati come le mille idee cui è difficile a volte tenere dietro.

“Dove sei Matteo?”, eccolo ancora una volta, come ogni giorno, come una campana che segna un tempo che sembra non passare. E invece proprio Giacomo è il testimonedi una Sicilia nuova, che può farcela. A cominciare da quella asciuttezza, quel rifuggire da vittimismi e retorica, come è nel vero carattere siciliano. Perché quando gli chiedi se lui, cronista scomodo, si senta in pericolo, ti risponde: “No, non mi uccidono”, taglia corto. Aggiunge: “I rischi sono altri”.

Boss Matteo Messina Denaro - L unica foto di lui dal vivoBOSS MATTEO MESSINA DENARO - L UNICA FOTO DI LUI DAL VIVO
Quali? “Tempo fa mi hanno recapitato a casa una lettera con il mio estratto conto. Per farmi capire che loro possono sapere tutto della mia vita. Ma io non ho nulla da temere”. Il vero nemico di Giacomo sono le carte, le querele, le cause civili, che come una ragnatela qualcuno cerca di avvolgere intorno al suo lavoro: “A ogni articolo scomodo mi arriva a casa l'ufficiale giudiziario. Io lo so che ogni parola, ogni virgola dei miei articoli è provata. Ma puoi sempre trovare un giudice che ti condanna. E poi difendersi comunque costa, tempo, energie e soprattutto denaro”.

Fa una pausa: “C’è stato addirittura un sindaco che mi ha fatto causa perché diceva che con il mio lavoro rovinavo la reputazione di Marsala, come se il male di questa terra non fosse la mafia, ma chi la racconta. Come se le mie inchieste spaventassero i turisti”. E la tentazione di smettere per Giacomo e i tanti cronisti coraggiosi in giro per l'Italia c'è. È tanto più facile evitare le rogne, sistemarsi sotto l'ala protettrice di qualche potente. Ma Di Girolamo continua. Chissà se il boss davvero lo sente o se è all'altro capo del mondo.
Boss Matteo Messina Denaro - Identikit elaborato dalla poliziaBOSS MATTEO MESSINA DENARO - IDENTIKIT ELABORATO DALLA POLIZIA

Giacomo è convinto di no: “C'è un controllo capillare del territorio, ci sono attività che da sole valgono quanto l'intero pil della provincia di Trapani, che non potrebbero resistere se il capo fosse lontano. Deve essere qui, da qualche parte”. È il mistero della mafia: c’è, te la senti addosso sulla pelle come una patina appiccicosa, ma non la vedi. E lui, Messina Denaro, potrebbe essere vicino, accanto a te. Magari vivere ricoperto di miliardi, ma costretto a passare anni come un topo in un cunicolo sotto i tuoi piedi.

Già, Matteo, il simbolo. Ti viene quasi il dubbio che abbiano bisogno gli uni degli altri: gli investigatori e il latitante, il cronista e il suo bersaglio. Di Girolamo sa tutto del capo mafia: i parenti, le amicizie, gli appoggi politici, gli intrecci societari. Però liquida subito il pensiero, il cronista non si “affeziona” al protagonista dei suoi articoli: “La mafia oggi non è più solo Messina Denaro.

Bernardo provenzano arrestatoBERNARDO PROVENZANO ARRESTATO
Anzi, i grandi padrini contano meno. Oggi esiste una Cosa Grigia (è anche il titolo di un libro di Giacomo Di Girolamo, ndr) che finora abbiamo avuto difficoltà a capire e a raccontare. Non ha quasi più bisogno di uccidere, usa altre forme di pressione, soprattutto economica. E conta su un appoggio che nasce dai benefici diffusi che garantisce”. Ecco la mafia che non ammazza quasi più gli uomini, ma strozza la Sicilia: “Nella nostra terra non esiste l'iniziativa privata.

Provenzano MafiaPROVENZANO MAFIA
L'economia si fonda quasi esclusivamente sui fondi pubblici. Il denaro arriva da Roma, da Palermo e gli amici degli amici si riempiono le tasche. Basta guardarsi intorno, ci sono sprechi ovunque ti giri. Con un gruppo di amici anni fa abbiamo organizzato perfino un tour nelle grandi opere incompiute. Ogni comune della Sicilia ne ha almeno una. Andate a vedere qui a Marsala i monumenti per ricordare Garibaldi, andate a vedere i porti. Qui si prendono i soldi per le vendemmie, ma anche incentivi se le vendemmie non le fai, se tagli via l'uva dalle piante. Prendi i soldi comunque”.

Giacomo scrive, scrive, scrive. Ti viene da chiedergli se non abbia la tentazione di arrendersi, o di andarsene, come fanno tanti giovani siciliani. Molti giornalisti. Ma lui resta: "Io qua sto. Sono un giornalista residente. A Marsala e Trapani ogni giorno hai una storia da prima pagina”. Eccola l'importanza dei cronisti che presidiano il territorio. Li trattiene una passione per un mestiere essenziale, ma soprattutto la passione per questa terra. Di Girolamo non lo dice, non ne ha bisogno, basta il suo lavoro per dimostrarlo. E poi è schivo, non è tipo. Anche in questo è siciliano.
FALCONE E BORSELLINOFALCONE E BORSELLINO

Non è difficile capirlo, basta spostarsi di un paio di chilometri. Ecco le saline di Marsala che sono una tavolozza di colori per gli occhi. Poi, a nord, la riserva dello Zingaro. E all'orizzonte la visione-miraggio delle Egadi. Ma gli occhi di Giacomo vedono anche l'albergo costruito in una zona vincolata dall'amico degli amici, le costruzioni abusive che crescono ovunque.

È anche questo il paesaggio siciliano, dove non c'è soltanto quello che vedi, ma anche un'ombra che si intreccia ai colori. Quella che ritrovi nelle parole di Giacomo Di Girolamo: “Qui sono davvero pochi i comuni sciolti per mafia. L'unica arma che hanno gli inquirenti per combattere la corruzione e lo sperpero immane di denaro pubblico è il reato di frode a pubbliche forniture”.

giacomo DI girolamoGIACOMO DI GIROLAMO
Acqua fresca, intaschi decine di milioni e non fai un giorno di galera. Del resto la Legge a Marsala ha un simbolo: il nuovo Palazzo di Giustizia intitolato a Paolo Borsellino e costato 13 milioni. Ma inutilizzabile nonostante i suoi 6mila metri quadrati: colpa delle colonne in mezzo alle aule, delle finestre troppo piccole, della mancanza di vie di fuga per i detenuti. È diventato subito simbolo, ma non della Giustizia.

Sembra una battaglia senza fine, ma Giacomo ha pazienza. Combatte con le parole. Articolo dopo articolo. E poi i libri. Fino all’ultimo, “Dormono sulla collina” (Il Saggiatore). Una Spoon River dei protagonisti della vita italiana dal 1969 a oggi che meriterebbe di essere studiata anche nelle scuole.
giacomo DI girolamo LIBROGIACOMO DI GIROLAMO LIBRO

Un volume tra poesia e storia. Poche righe per ognuno, senza retorica. I buoni, i cattivi, i coraggiosi e i complici. Uno accanto all’altro a comporre la storia del nostro Paese. Come Paolo Borsellino che si rivolge all’amico Giovanni Falcone: “Chi lo poteva dire: lottare ogni giorno senza riposo, morire da eroi, diventare simboli di una ribellione. E poi riempire le pagine di
Tuttocittà”. Valgono più due righe che la targa sul Palazzo di Giustizia di Marsala. Ancora vuoto.


http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/dove-sei-matteo-piccola-radio-marsala-giacomo-girolamo-88356.htm

L’EUROCRAC E’ VICINO? - LA GERMANIA CI CHIEDE RIGORE MA LE BANCHE TEDESCHE HANNO SMESSO DI COMPRARE TITOLI ITALIANI, DISMESSI IN MASSA NEL 2012 - I CRUCCHI NON CREDONO IN NOI NÉ NELLA TENUTA DELL’EURO L’Italia, quarta economia europea, è per le banche tedesche solo sesta per volume di investimenti - L’esposizione in attività italiane valeva 269 miliardi di dollari all’inizio del 2008, era crollata a 125 miliardi nella fase più drammatica della crisi nel 2012, ma è oggi ai minimi di 124 miliardi di dollari (99,5 miliardi di euro)…

Federico Fubini per “la Repubblica

DRAGHI MERKELDRAGHI MERKEL
Pochi giorni fa Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, ha gelato di nuovo le speranze di una svolta della Banca centrale europea. In Italia le sue parole sono state accolte con fastidio, non con timore: se c’è un punto sul quale le élite italiane concordano, riguarda la fiducia di poter influenzare la Germania.

Si pensa spesso che, a un passo dal precipizio, il più grande Paese d’Europa cederà e offrirà all’Italia una via d’uscita. La convinzione quasi unanime è che l’establishment tedesco non permetterà mai che il governo di Roma finisca in default sul debito e che la terza economia dell’area si trasformi in una nave pirata ai margini dell’euro.

EUROTOWER BCEEUROTOWER BCE
L’esperienza del luglio 2012 lo conferma. I dati più recenti invece no. Allora, al culmine del panico, Mario Draghi salvò il sistema grazie a un impegno della Bce sostenuto personalmente dalla cancelliera Angela Merkel. Oggi il linguaggio dei numeri racconta un’altra versione dei fatti. A credere alle loro scelte d’investimento, le banche tedesche hanno tutta l’aria di prepararsi all’eventualità (non alla certezza) di un default italiano.

Più in generale, non sembrano affatto credere fino in fondo nel futuro dell’euro. Bisogna infatti risalire al lontano 2002, agli albori della moneta unica, per trovare un grado di esposizione così basso degli istituti tedeschi a sud delle Alpi: appena 100 miliardi di euro. È meno della metà di quanto il sistema del credito della Germania aveva in gioco nella piccola Irlanda prima della crisi. Ciò significa che, senza clamori, il disinvestimento dall’Italia è lentamente proseguito anche dopo che Draghi arginò l’incendio nel 2012 mettendo lo spread su una lunga traiettoria discendente.

Trimestre dopo trimestre, la Banca dei regolamenti internazionali registra l’esposizione (stimata in dollari) delle banche di ciascuno dei principali Paesi verso tutti gli altri. Ne esce una narrazione in numeri del grado di fiducia — o del suo opposto — dei diversi banchieri verso ciascuno dei Paesi in gioco. Il quadro non è del tutto negativo per l’Italia.

renzi schulz, hollande and merkel in milanaRENZI SCHULZ, HOLLANDE AND MERKEL IN MILANA
Il sistema bancario francese da molti anni è legato a doppio filo con i suoi vicini del Sud, con la punta massima registrata all’inizio del 2008 con una colossale esposizione da oltre 500 miliardi di dollari. In seguito sono arrivati i salvataggi delle banche di Wall Street, il crac di Lehman, la tempesta del debito sovrano e anche i francesi hanno avuto paura che l’Italia non ce la facesse: alla fine del 2011, quando il governo di Silvio Berlusconi esce di scena, l’esposizione transalpina era dimezzata a 248 miliardi di dollari.

Da allora però è arrivata la svolta dell’estate del 2012, quando gli spread fra i titoli di Stato hanno iniziato a ridursi, e la Francia è tornata ad affacciarsi finanziariamente in Italia. Lo ha fatto con titoli di Stato, bond privati, azioni, credito a famiglie e imprese, attività reali. Negli ultimi due anni l’esposizione transalpina nel Paese è cresciuta di 120 miliardi di dollari, fino all’enorme quota di 366 miliardi registrati dalla Bri a metà di quest’anno.

In parallelo, anche l’esposizione francese verso la Spagna è cresciuta da 100 a 133 miliardi. Trainata da banchieri europeisti come Xavier Musca, il còrso ex sherpa del Tesoro di Parigi e oggi capo dell’internazionale del Crédit Agricole, o come il numero uno operativo di Bnp Paribas Jean-Laurent Bonnafé (ex referente della banca in Italia), dopo la crisi del 2011-2012 la Francia ha scommesso sul futuro dell’euro e del Sud Europa. Oggi un default italiano sul debito pubblico sarebbe per Parigi uno choc di proporzioni intollerabili.
merkel e hollande al vertice ue di milanoMERKEL E HOLLANDE AL VERTICE UE DI MILANO

Nel frattempo, l’élite bancaria in Germania si è mossa in direzione opposta. Ha continuato ad alleggerire la sua esposizione al rischio di un crac a Roma o di rottura dell’euro. L’Italia, quarta economia europea, è per le banche tedesche solo sesta per volume di investimenti. L’esposizione in attività italiane valeva 269 miliardi di dollari all’inizio del 2008, era crollata a 125 miliardi nella fase più drammatica della crisi nel 2012, ma è oggi ai minimi di 124 miliardi di dollari (99,5 miliardi di euro).

Francois Hollande e Matteo RenziFRANCOIS HOLLANDE E MATTEO RENZI
Anche le posizioni tedesche in Spagna, Irlanda o Portogallo — i Paesi oggi in ripresa più o meno forte — si sono ridotte o sono rimaste ai minimi dal 2012. Questi numeri raccontano una storia: dicono che i grandi banchieri di Francoforte, Amburgo o Berlino non sono sicuri che l’euro durerà. Quindi non prendono rischi, anzi se ne disfano.

Ma con la loro stessa incertezza, dissolvendo i legami finanziari nell’area, rendono il futuro della moneta ancora più indecifrabile. Inoltre, i banchieri tedeschi sono posizionati in modo tale che la vecchia teoria italiana ormai non appare più fondata: la Germania oggi è molto meno vulnerabile di prima a un cedimento sistemico dell’Italia.
EURO CRACEURO CRAC

L’esposizione verso questo Paese è appena il 4% del rischio totale che le banche tedesche hanno verso l’estero. In caso di rottura dell’euro e svalutazione della (nuova) lira, molte imprese tedesche comprerebbero a prezzo meno caro i componenti made in Italy di auto o macchinari made in Germany poi destinate alla vendita in Cina o negli Stati Uniti. Poche imprese tricolori sarebbero in grado di competere con le tedesche.

La Germania del 2015 è una realtà diversa. Non si lascerà ricattare facilmente da un’economia del Sud che si lega alla vita la cintura esplosiva del suo stesso debito

 http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/eurocrac-vicino-germania-ci-chiede-rigore-ma-banche-tedesche-88374.htm