venerdì 18 luglio 2014

Ecco tutti i trucchi della Merkel per nascondere i buchi di Berlino Germania più virtuosa? No, i tedeschi sono soltanto più bravi a celare le proprie magagne. Ecco i trucchi usati per spadroneggiare in Europa

Eppure i tedeschi non sono migliori di noi italiani che passiamo per spendaccioni, disorganizzati e inaffidabili. In realtà i tedeschi sono soltanto molto più bravi a nascondere le proprie magagne economiche per truccare il debito pubblico e avere voce in capitolo su tutte le decisioni che vengono prese dall'Unione europea. Che non fosse otto tutto quello che luccica a Berlino era un sentore piuttosto comune. Adesso, però, un attento studio compilato da una équipe della università di Linz, riportato oggi daItaliaOggi, mette a nudo tutti i trucchi legali per nascondere lo sporco sotto il tappeto.
Andiamo con ordine. E partiamo dalla Cassa depositi e presiti, mare magnum dei buchi e degli sprechi della politica italiana. L'istituto, presieduto da Franco Bassanini e controllato per l'80% dal Tesoro, emette ogni anni 320 milioni di obbligazioni che il ministero dell'Economia è tenuto a contabilizzare nel debito pubblico. In Germania c'è un carrozzone analogo: Kreditanstalt für Wiederaufbau (la Banca della Ricostruzione). Peccato che la Kfw, sebbene per l'80% in mano al governo federale, non sia tenuta ad attenersi alle regole della Cdp. Nell'ultimo anno, per esempio, ha emesso obbligazioni per 500 miliardi di euro. Cifra monstre che è servito a finanziare una caterva di interventi pubblici ma di cui non c'è alcuna traccia nel debito pubblico della Germania. Un trucco di magia messo a segno dal governo nazionale che, grazie a una leggina ad hoc, ha escluso dal conteggio del deficit "le società pubbliche che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato".
Nel deficit non v'è nemmeno traccia di tutti i debiti degli enti locali. Qui la magia è fatta dal federalismo. Mentre in Italia i deficit di Regioni, Comuni e Province finiscono nel grande calderone del debito pubblico, i 600 miliardi di buco dei länder tedeschi restano rintanati nei bilanci locali. Il trucchetto ha una dobbia utilità: da una parte facilita la Germania a rimanere sotto il tetto del 3%, dall'altra la Merkel può permettersi di pareggiare i bilancia entro il 2020 anziché, come invece è stato imposto a noi, entro il 2015. Cinque anni di agio in più che evitano alla cancelliera di fare quella carneficina sociale a cui, dall'ex premier Mario Monti in poi, ci hanno abituato i nostri governi. 
La Germania bara anche sui tassi che calcolano l'occupazione. Il dato sbandierato dall'Eurostat, che fissa la disoccupazione tedesca al 5%, è infatti truccato. La gabola è semplice: tra gli occupati rientra anche chi ha un "mini job", ovvero un contratto trimestrale da 400 euro al mese e senza alcuna prospettiva di assunzione. Secondo lo studio riportato da ItaliaOggi, dunque, lo scarto tra il 12,7% di disoccupazione italiana e il 5% di quella tedesca la forbice è molto più stretta. Tanto che in molti ricorrono al lavoro nero. Secondo gli economisti tedeschi, 350 miliardi di euro vengono sottratti ogni anno dalle casse dello Stato (circa il 13% della produzione totale). 
La Merkel può contare anche sul sistema bancario tedesco che, a differenza di quello italiano, è ancora pubblico. Anche in questo caso il vantaggio è doppio. Dal momento che anche le banche regionali sono pubbliche, anche i crediti inesigibili (circa 637 miliardi, euro più euro meno) vanno a finire sul conto del depito pubblico. Eppure non figurano. Come non figurano i debiti delle banche nazionali. Controllandone circa il 45%, la Merkel può usare il sistema bancario tedesco a suo uso e consumo. Come? Per esempio svendendo i titoli di Stato italiani e ritoccando all'insù lo spread coi Bund. Un giochetto che è servito, guarda un po', a far leva perché Silvio Berlusconi lasciasse Palazzo Chigi. Un uso politico del sistema bancario e della finanza che Bruxelles avrebbe dovuto sanzionare. Come non sanziona mai la Bundesbank ogni qual volta che interviene in prima persona alle aste dei titoli di Stato tedeschi. Non appena i titoli rischiano di finire sul mercato secondario, ecco che la Buba ci mette lo zampino contravvenendo apertamente al trattato di Maastricht.
I ricercatori dell'università di Linz hanno, infine, messo in luce come la Germania se ne infischi del six pack, ovvero il pacchetto di direttive concordate nel 2011 per contenere ilrapporto deficit-pil sotto il tetto del 3% il surplus sotto il 6%. Ebbene, di queste direttive Berlino se ne infischia alla grandissima. Tanto che nell'ultimo quinquennio ha tenuto l'avanzo al 7% senza che a Bruxelles nessuno osasse dire alcunché alla Merkel. Finché tirerà quest'aria, la cancelliera non potrà che dormire sonni tranquilli.

http://www.ilgiornale.it/news/economia/ecco-tutti-i-trucchi-merkel-nascondere-i-buchi-economici-1038700.html

giovedì 17 luglio 2014

MORO PER SEMPRE - PARLA LO PSICHIATRA E AGENTE DELLA CIA CHE AIUTÒ COSSIGA DOPO VIA FANI “TUTTE LE ISTITUZIONI ERANO ASSENTI. L’INCOMPETENZA DELL’INTERO SISTEMA HA PERMESSO LA MORTE DI MORO” - DA SPIONE, NON HA RIVELATO UN BEL NIENTE… Il “dottor Pieczenik” interrogato dal pm Palamara: “Dovevo costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare. Rilasciare Moro. Ero terrorizzato, dormivo con una pistola (che mi diede Cossiga) tra le gambe pronto a sparare a chiunque” - “Cossiga? Ha capito molto in fretta ciò che doveva fare”…

Giovanni Bianconi per “Il Corriere della Sera

Aldo MoroALDO MORO
Davanti al magistrato italiano, il protagonista «amerikano» del caso Moro mostra di avere un’alta considerazione di sé. Vuole essere chiamato «dottor Pieczenik», rivendicando il titolo di medico psichiatra al servizio del governo degli Stati Uniti. Nella primavera del 1978, durante il sequestro del leader democristiano, fu inviato in Italia per assistere il ministro dell’Interno Francesco Cossiga.

Il suo ruolo — rimasto sempre piuttosto misterioso — venne alla luce molto più tardi, e dopo tante interviste e affermazioni spesso ambigue Steve Pieczenik, oggi settantenne, è stato interrogato per la prima volta da un inquirente italiano.

PieczenickPIECZENICK
Il 27 maggio scorso il pubblico ministero della Procura di Roma Luca Palamara è andato ad ascoltarlo in Florida, con l’assistenza di un magistrato statunitense. Quello che segue è il resoconto della sua testimonianza, raccolta a 36 anni di distanza dai fatti in un’indagine che tenta, se non di scoprire nuove verità, almeno di dissipare ombre.
 
All’epoca Pieczenik veniva considerato un esperto di sequestri: «Ero appena riuscito a negoziare il rilascio di circa 500 ostaggi americani a Washington in tre diversi palazzi utilizzando tre ambasciatori arabi… Cossiga è venuto a sapere di me e ha chiesto al segretario di Stato Cyrus Vance di chiedermi se potevo andare ad aiutarli nel rapimento di Aldo Moro».
 
Allo psichiatra statunitense sbarcato a Roma una decina di giorni dopo la strage di via Fani in cui le Brigate rosse avevano sterminato la scorta del presidente della Dc e portato via il prigioniero, erano state date consegne precise per la sua collaborazione col governo italiano: «L’ordine non era di far rilasciare l’ostaggio, ma di aiutarli nelle trattative relative ad Aldo Moro e stabilizzare l’Italia». Poi aggiunge: «In una situazione in cui il Paese è totalmente destabilizzato e si sta frantumando, quando ci sono attentati, procuratori e giudici uccisi, non ci possono essere trattative con organizzazioni terroristiche… Se cedi l’intero sistema cadrà a pezzi».
 
cossiga scarpa xCOSSIGA SCARPA X
Aveva paura anche per se stesso, il consigliere americano: «Ero terrorizzato, non avevo nessuna protezione, mi hanno messo in una abitazione sicura con due carabinieri senza pistola e senza munizioni, e sono andato via… Cossiga mi ha dato una pistola Beretta 7.4 mm e qualcuno che venisse con me per allenarmi a sparare, non ero vestito in modo formale ma con i jeans, in incognito… Mi ero trasferito all’hotel Excelsior. Ho trascorso tutte le notti con una pistola tra le gambe, pronto a sparare a chiunque».
 
Pieczenik trascorse le sue giornate romane per lo più nell’ufficio di Cossiga, insieme a «uno psichiatra italiano» (probabilmente il criminologo Franco Ferracuti, iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli) e al giudice Renato Squillante, all’epoca consigliere del ministro dell’Interno.

Luca PalamaraLUCA PALAMARA
Il pm Palamara gli chiede che cosa ha fatto in concreto, e il testimone risponde: «Dovevo valutare che cosa era disponibile in termini di sicurezza, intelligence, capacità di attività di polizia, e la risposta è stata: niente. Ho chiesto a Cossiga cosa sapeva delle trattative con gli ostaggi e lui non sapeva niente; in terzo luogo dovevo assicurarmi che tutti gli elementi che negoziavamo dovevano diminuire la paura e la destabilizzazione dell’Italia; quarto: dovevamo valutare la capacità delle Br nelle trattative e sviluppare una strategia di non-negoziazione, non-concessioni».
 
Nella sostanza, Pieczenik voleva «costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro». Andò al contrario, come il consigliere statunitense ha confidato in un libro scritto da un giornalista francese e crudamente intitolato «Abbiamo ucciso Aldo Moro». Ma adesso Pieczenik prova a fare marcia indietro: «Programmi tv e interviste per me sono solo spettacolo e finzione, ciò che dico alla stampa o nelle interviste è disinformazione».

E dunque, quasi si spazientisce il pm Palamara, è vero o no che secondo Pieczenik lo Stato italiano ha lasciato morire il presidente dc? Risposta: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo Moro. Nessuno era in grado di fare niente, né i politici, né i pubblici ministeri, né l’antiterrorismo. Tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti».

MOROMORO
Lo specialista arrivato da Washington sostiene di essersi limitato a leggere i comunicati delle Br, che avevano una «strategia molto facile», rendendosi conto che il governo italiano non era in grado di fare nulla. Quindi, dopo aver sponsorizzato la linea della fermezza appoggiata dal partito comunista, ripartì alla volta degli Usa, a sequestro ancora in corso.

Come se la sua missione fosse compiuta: «Cossiga era un uomo estremamente intelligente che ha capito molto in fretta ciò che doveva fare, ed è stato in grado di attuarlo… Continuare a cercare di stabilizzare l’Italia e continuare la politica di non-negoziazione, nessuno scambio di terroristi e nessun altro scambio».

Rientrato in patria, il consigliere venne a sapere che Moro era stato assassinato: «Ho pensato che sfortunatamente le Br erano dei dilettanti, e avevano fatto davvero un grande sbaglio. La peggior cosa che un terrorista possa fare è uccidere il proprio ostaggio. Uccidendo Aldo Moro hanno vinto la causa sbagliata e creato la loro autodistruzione».
 
Dopo il sanguinoso epilogo, Pieczenik sostiene di non aver seguito gli sviluppi del caso Moro, né avuto altri contatti con il governo italiano: «Ho fatto il mio lavoro e sono tornato a casa, ero felice di aiutare l’Italia… Poi sono stato impegnato nella caduta dell’Unione Sovietica… L’America e io abbiamo abbattuto l’Urss, portato la libertà in Cambogia, abbattuto il partito comunista cinese e integrato l’Unione Europea, ma l’Italia non è cambiata, ha un tasso di crescita negativo, una disoccupazione elevata… Penso che abbiate oggi un problema più grave di quello che avete avuto nel rapimento di Aldo Moro».

domenica 13 luglio 2014

PUÒ UNA BANALE CAUSA DI DIFFAMAZIONE FAR SCORGERE IL DIETRO LE QUINTE DI UN CAPITOLO DELLA MANI PULITE SULLA FIAT A METÀ ANNI ‘90, DEI RAPPORTI TRA LA PROCURA DI TORINO E IL LINGOTTO, E DEI CONTRASTI FAMILIARI TRA UMBERTO AGNELLI E DALL’ALTRO LATO IL FRATELLO GIANNI E L’ALLORA AMMINISTRATORE DELEGATO CESARE ROMITI? - 2. L’ACCUSA-BOMBA DI ROMITI: ALL’EPOCA UNO DELLO STAFF DI UMBERTO AGNELLI (GIRAUDO?) AVREBBE SPIFFERATO A MADDALENA I “FINANZIAMENTI” FIAT AI PARTITI PER SPUTTANARE L’AD ROMITI IMPOSTO DA MEDIOBANCA/CUCCIA AL POSTO DEL FRATELLO DELL’AVVOCATO - 3. MADDALENA NEGA SECCAMENTE TUTTO: “MI SI FA PASSARE PER UNO CHE HA FAVOREGGIATO LA FIAT AVVISANDOLA CHE DAL SUO INTERNO PROVENIVANO INFORMAZIONI ALLE INDAGINI, E QUESTO NON SOLO NON È VERO MA SECONDO ME NON È NEPPURE L’INTERPRETAZIONE CHE NE VOLEVA DARE ROMITI”. ROMITI PARLERÀ NELLA PROSSIMA UDIENZA, MA INTANTO DEPONE L’ALLORA CAPO UFFICIO LEGALE FIAT, GANDINI. E SONO DOLORI PER IL PROCURATORE CAPO DI TORINO: SPUNTA IN AULA UN PROMEMORIA DEPOSITATO PRESSO UN NOTAIO

Luigi Ferrarella per Corriere della Sera
GIANNI AGNELLI E CESARE ROMITI GIANNI AGNELLI E CESARE ROMITI

Può una banale causa di diffamazione far scorgere il dietro le quinte di un capitolo della Mani pulite torinese sulla Fiat a metà Anni 90, dei rapporti tra la locale Procura e il gigante automobilistico, e perfino dei contrasti familiari tra Umberto Agnelli e dall’altro lato il fratello Gianni e l’allora amministratore delegato Cesare Romiti? Sì. No. Forse.

Dipende da chi abbia ragione nell’aula della IV sezione penale del Tribunale di Milano, dove ieri, a pochi passi dai giornalisti che seguono il processo Ruby, compaiono in corridoio l’imputato Romiti, il procuratore generale torinese Marcello Maddalena come parte lesa, il teste ex capo dell’ufficio legale Fiat Enzo Gandini, e il coimputato giornalista Davide Giacalone.
IL PROCURATORE GENERALE DI TORINO MARCELLO MADDALENA IL PROCURATORE GENERALE DI TORINO MARCELLO MADDALENA Romiti Agnelli Romiti Agnelli

LA VERSIONE DEL LIBRO DI ROMITI
Sul quotidiano Libero il 29 aprile 2012 Giacalone, difeso dai legali Vittorio Virga e Lucio Lucia, scrive un articolo nel quale prende spunto da un passaggio del libro-intervista di Romiti al giornalista Paolo Madron, «Storia segreta del capitalismo italiano».
DISEGNO DI FABIO SIRONI - CESARE ROMITI GIANNI AGNELLI ENRICO CUCCIA E DE BENEDETTI DISEGNO DI FABIO SIRONI - CESARE ROMITI GIANNI AGNELLI ENRICO CUCCIA E DE BENEDETTI

«Secondo quanto racconta Romiti — scrive Giacalone — il procuratore di Torino, Marcello Maddalena, in quei giorni caldi in cui le inchieste producevano arresti di massa e qualche suicidio, chiamò il responsabile dell’ufficio legale della Fiat, Ezio Gandini, e gli disse: “Basta, non si può più andare avanti così, bisogna che le lotte interne finiscano, perché qui ogni giorno arrivano soffiate anonime da parte di alcuni manager interni alla Fiat”.

Come faceva Maddalena a sapere che erano manager? Ecco la risposta: Gandini gli chiese da che ambiente arrivavano le soffiate e lui, serafico, lo informò che i mittenti erano riconducibili all’entourage di Umberto Agnelli». Dunque, per Giacalone, «Maddalena commise un reato, violando i doveri d’ufficio e informando la parte indagata, addirittura suggerendo un preventivo inquinamento delle prove».
agnelli lamalfa mau ces romiti agnelli lamalfa mau ces romiti

LA VERSIONE DEL PM MADDALENA.
L’oggi procuratore generale di Torino premette al Tribunale milanese che, come «in 45 anni di servizio, neanche stavolta avrei querelato» Romiti e Giacalone per diffamazione «se non vi fossi stato tirato per i capelli dalla provocazione di Giacalone che nel libro mi aveva quasi sfidato, scrivendo: “Naturalmente è possibilissimo che il reato lo abbia commesso Romiti distorcendo le parole di Maddalena e diffamandolo, e in questo caso il signor procuratore sa cosa deve fare”».
Agnelli Romiti Agnelli Romiti

I manager Fiat indagati in Mani pulite, ricorda il magistrato, erano difesi da Chiusano, non da Gandini. Che però «spesso andava dal procuratore capo Scardulla, per esprimere magari doglianze sull’eco delle nostre perquisizioni o per conversare amabilmente... A volte Scardulla mi chiamava, sarà stato due o tre volte, si parlava di qualcosa, in un’occasione mi pare della fede calcistica di Romiti, e poi me ne andavo».

UMBERTO E GIANNI AGNELLI UMBERTO E GIANNI AGNELLI
Ma quella frase, virgolettata da Romiti e Giacalone rinviati a giudizio per diffamazione dal gup Luigi Gargiulo su richiesta del pm Paolo Filippini, «escludo di averla mai pronunciata. Mi si fa passare per uno che ha favoreggiato la Fiat avvisandola che dal suo interno provenivano informazioni alle indagini, e questo non solo non è vero ma secondo me non è neppure l’interpretazione che ne voleva dare Romiti nel libro». Romiti parlerà nella prossima udienza, ma intanto depone l’allora capo ufficio legale Fiat, Gandini.
agnelli umberto E GIANNI agnelli umberto E GIANNI

LA VERSIONE DELL’UOMO FIAT
Smentisce Maddalena già sulla prima circostanza: «Vidi il procuratore Scardulla una sola volta, chiamato da lui in ufficio all’indomani di una perquisizione di cui mi ero lamentato con gli ufficiali GdF per il clamore giornalistico». E lo smentisce anche sulla sostanza: «Quando entrò in ufficio, Maddalena quasi si alterò, rispose che loro erano obbligati a fare le perquisizioni se avevano elementi, e aggiunse: “Avete poco da lamentarvi, la Procura non vuole essere strumentalizzata per le vostre lotte di potere, tutti questi documenti arrivano da voi all’interno, dalla famiglia (Agnelli, ndr), dall’entourage di Umberto», all’epoca notoriamente in urto con Romiti e in dissidio con il fratello Gianni sulle strategie del gruppo.

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Secondo Gandini, «Maddalena mi disse: “Quindi se avete qualcosa da dire, venite a dircela”. Io gli feci presente: «Dottore, lei mi sta mettendo in mano una bomba, guardi che io la faccio esplodere?», andando cioè a riferire all’Avvocato l’ipotizzato ruolo del fratello. «Chiesi a Maddalena se a fare uscire notizie, nell’entourage di Umberto Agnelli, fosse Galateri, che sapevo essere stato compagno di scuola del pm Sandrelli titolare dell’indagine, ma Maddalena disse “no no”. Gli chiesi allora se fosse Giraudo, e Maddalena rimase zitto».

I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni Antonio Giraudo Antonio Giraudo
Così asserisce il capo dell’ufficio legale Fiat, oggi 86enne, che non si ferma qui: «Tempo dopo, Gianni Agnelli mi disse che aveva parlato con il fratello Umberto, il quale aveva assicurato di non essere stato lui. Io dissi all’Avvocato che era stato Maddalena a dirmelo, e l’Avvocato volle parlare con lui. Gianni Agnelli poi mi disse che Maddalena, in un incontro dal prefetto di Torino, gli aveva detto che non era stato Umberto. Allora io tornai da Maddalena, e gli chiesi perché avesse negato all’Avvocato quello che aveva detto a me: lui rispose allargando le braccia, “e come facevo... ”. Raccontai tutto a Romiti, che mi chiese di metterlo per iscritto», in un promemoria «a un notaio mio amico da 40 anni». E la fotocopia compare in udienza, in mano alla difesa di Romiti, l’avvocato Giulia Bongiorno.
agnelli enrico cuccia agnelli enrico cuccia

Fuori dall’aula, Maddalena commenta: «Gandini se l’è sognato, è assolutamente non vero. Io certo non posso sapere se Gandini abbia capito fischi per fiaschi, o se abbia davvero dette quelle cose a Romiti: di certo so che sono cose non vere, che io non ho mai detto. E purtroppo quelli a cui fa riferimento sono tutti morti».

Il procuratore Scandurra no. Ma l’avvocato di Maddalena, Paolo Tosoni, spiega che a 93 anni pare stia molto male. Provano a convocarlo dopo l’estate. Sempre che si faccia udienza, dopo che ieri la giudice Guadagnino ha invitato le parti a trovare una conciliazione.






http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/pu-banale-causa-diffamazione-far-scorgere-dietro-quinte-80806.htm



mercoledì 9 luglio 2014

TUTTE LE FACCE DI “FACCIA DA MOSTRO” - DALL’EVERSIONE NERA ALLE BOMBE DI MAFIA: L’EX POLIZIOTTO DAL VOLTO SFREGIATO È STATO TRASCINATO IN UN DEPISTAGGIO O È UN KILLER AL SOLDO DI PEZZI DEVIATI DELLO STATO? - AL SUO FIANCO UNA DONNA “MILITARMENTE ADDESTRATA” Diversi pentiti lo accusano l’accusano di avere ucciso Ninni Cassarà e Falcone e Borsellino, di avere messo bombe in giro per l’Italia - Tutte farneticazioni? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d’accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti anche quello di un bambino ucciso a Palermo...

Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo per “La Repubblica”

falcone borsellino falcone borsellino
Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l’accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l’Italia bombe «su treni e dentro caserme». Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l’Antimafia e l’Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato.

Lo chiamano «faccia da mostro» e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in «lavori sporchi». Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna «militarmente addestrata ». Nessuno l’ha mai identificata. Forse nessuno l’ha mai nemmeno cercata con convinzione.
STRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA STRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA

Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l’hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all’Addaura fino all’esplosione di via Mariano D’Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all’esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l’ intelligence . Anche se, ufficialmente, «faccia da mostro» non è mai stato nei ranghi degli 007.

STRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA STRAGE DI CAPACI FALCONE MORVILLO FOTO REPUBBLICA
Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c’è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro.

La sua scheda biografica intanto: «Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l’ex giudice di pace.., la figlia insegna in un’università della California». Reddito dichiarato: 22 mila euro l’anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore.

GIOVANNI AIELLO "FACCIA DA MOSTRO" GIOVANNI AIELLO "FACCIA DA MOSTRO"
Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è «un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona», ma nel suo foglio matricolare è scritto che «è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro». Il suo dossier al ministero dell’Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punizioni, per molti anni una valutazione professionale «inferiore alla media», un certificato sanitario che lo giudicano «non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ».

GIOVANNI AIELLO "FACCIA DA MOSTRO" GIOVANNI AIELLO "FACCIA DA MOSTRO"
Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati «in riferimento all’attentato dell’Addaura e alle stragi di Capaci e di via D’Amelio». Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese «faccia da mostro» è scivolato un’altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un’accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione.

PIERLUIGI CONCUTELLI PIERLUIGI CONCUTELLI
Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui.
Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: «Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l’Addaura, ho saputo che era coinvolto nell’omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D’Amelio». Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda «un uomo con il bastone» amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a «faccia da mostro» regalavano un po’ di cocaina.
PIERLUIGI CONCUTELLI PIERLUIGI CONCUTELLI

Dice alla fine: «Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere». E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all’omicidio di Ninni Cassarà e dell’agente Roberto Antiochia: «Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell’Arenella. Dopo, alcuni uomini d’onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara.

Insieme a loro c’era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell’omicidio, da un piano basso dell’edificio». Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell’Acquasanta. Dichiara: «Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ».

PALERMO 19 LUGLIO 1992 - STRAGE IN VIA D'AMELIO PALERMO 19 LUGLIO 1992 - STRAGE IN VIA D'AMELIO
Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, ’ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: «Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c’era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza». E poi: «Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa.

LA STRAGE DI VIA D AMELIO IN CUI MORI BORSELLINO LA STRAGE DI VIA D AMELIO IN CUI MORI BORSELLINO
In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell’uomo ». E ancora: «Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci».


Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di «faccia da mostro» ne ha sentito parlare ma non l’ha mai visto: «Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l’appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr).
Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ». Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: «È lui l’uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino».

STRAGE DI VIA D'AMELIO - I SOSPETTI CHE HANNO POTUTO TRAFUGARE L'AGENDA ROSSA DI BORSELLINO STRAGE DI VIA D'AMELIO - I SOSPETTI CHE HANNO POTUTO TRAFUGARE L'AGENDA ROSSA DI BORSELLINO
Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d’accordo per incastrarlo?
Fra tanti segreti c’è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: «Quell’uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino». Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi.

 http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/tutte-facce-faccia-mostro-dall-eversione-nera-bombe-80594.htm

martedì 8 luglio 2014

Gli smemorati di Berlino (tutti i debiti che la Germania non ha mai pagato)

La Germania, che fa tanto la moralizzatrice con gli altri Paesi europei, è andata in default due volte in un secolo e le sono stati condonati i debiti di due guerre mondiali per consentirle di riprendersi. Fra i Paesi che le hanno condonato i debiti, la Grecia, prima di tutto, che pure era molto povera, e l'Italia. 
Dopo la Grande Guerra, John Maynard Keynes sostenne che il conto salato chiesto dai Paesi vincitori agli sconfitti avrebbe reso impossibile alla Germania di avviare la rinascita. L'ammontare del debito di guerra equivaleva, in effetti, al 100% del Pil tedesco. Fatalmemte, nel 1923 si arrivò al grande default tedesco, con l'iperinflazione che distrusse la repubblica di Weimar. Adolf Hitler si rifiutò di onorare i debiti, i marchi risparmiati furono investiti per la rinascita economica e il riarmo, concluso, come si sa, con una seconda guerra, ben peggiore, in seguito alla quale a Berlino si richiese un secondo, enorme quantitativo di denaro da parte di numerosi Paesi. L'ammontare complessivo aveva raggiunto i 23 miliardi di dollari (di allora!)
La Germania sconfitta non avrebbe mai potuto pagare i debiti accumulati in due guerre, peraltro da essa stessa provocate. 

Mentre i sovietici pretesero e ottennero il pagamento della somma loro spettante, fino all'ultimo centesimo, ottenuta anche facendo lavorare a costo zero migliaia di civili e prigionieri, il 24 agosto 1953 ben 21 Paesi, Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia, con un trattato firmato a Londra le consentirono di dimezzare il debito del 50%, da 23 a 11,5 miliardi di dollari, dilazionato in 30 anni. In questo modo, la Germania poté evitare il default, che c'era di fatto. L'altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l'eventuale riunificazione delle due Germanie, ma nel 1990 l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo, che avrebbe procurato un terzo default alla Germania. Italia e Grecia acconsentirono di non esigere il dovuto.
Nell'ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro.
Senza l'accordo di Londra che l'ha favorita come pochi, la Germania dovrebbe rimborsare debiti per altri 50 anni. E non ci sarebbe stata la forte crescita del secondo dopoguerra dell'economia tedesca, né Berlino avrebbe potuto entrare nella Banca Mondiale, nel Fondo Monetario Internazionale e nell'Organizzazione Mondiale del Commercio. 
Quindi: che cos'ha da lamentare la Merkel, dal momento che il suo Paese ha subito e procurato difficoltà ben maggiori e che proprio dall'Italia e dalla Grecia ha ottenuto il dimezzamento delle somme dovute per i disastri provocati con la prima e la seconda guerra mondiale? La Grecia nel 1953 era molto povera, aveva un grande bisogno di quei soldi, e ne aveva sicuramente diritto, perché aggredita dalla Germania. Eppure... Perché nessun politico italiano ricorda ai tedeschi il debito non esigito? 
Roberto Schena

Fonte: ilnord.it

 http://informatitalia.blogspot.it/2014/07/gli-smemorati-di-berlino-tutti-i-debiti.html

sabato 5 luglio 2014

Il mondo ricorda Thomas Sankara, ucciso 20 anni fa" di Luca Cumbo

Il mondo ricorda Thomas Sankara, ucciso 20 anni fa

di Luca Cumbo

Thomas Sankara è stato l’eroe della rivoluzione popolare che nel 1983 cambiò i destini del Burkina Faso, che da decenni vedeva accrescere una miseria devastante sotto l’alternarsi di colpi di Stato. In soli quattro anni di governo, riuscì a realizzare riforme sociali epocali cambiando il volto del Paese, lasciando un segnale indelebile nelle coscienze politiche di tutti i popoli africani.
Dal 1896 protettorato e poi colonia dell’Africa occidentale francese, il Burkina Faso, col nome di Alto Volta [la regione conteneva la parte superiore del bacino idrografico del Volta], dopo aver subito smembramenti e riunificazioni, divenne nel 1947 uno Stato a sé anche se dovette aspettare il 1958 per inaugurare una forma di autogoverno all’interno della Communauté Franco-Africaine. Due anni dopo ottenne la completa indipendenza. Gli anni successivi furono segnati, come accadde in quasi tutte le ex-colonie europee in Africa, dalla cronica instabilità politica e dal saccheggio delle risorse pubbliche da parte della corrotta classe dirigente.
Nel 1960 l’Alto Volta era un Paese di sette milioni di abitanti, di questi sei milioni erano contadini; aveva un tasso di mortalità infantile al 180 per 1000 e una percentuale di analfabetismo del 98% della popolazione; l’aspettativa di vita era in media di soli 40 anni; c’era un medico ogni cinquantamila abitanti. L’Alto Volta era una nazione letteralmente assediata dalla desertificazione, dalla carestia e dal crescente debito estero. Fino al 1983 è stato uno dei Paesi più poveri del mondo, anche per la forte carenza di materie prime.
Eletto alla presidenza nel 1960, Maurice Yaméogo instaurò un regime autoritario, suscitando crescenti controversie. Nel gennaio del 1966 le misure d’austerità introdotte dal suo governo provocarono le grandi proteste dei sindacati e dei movimenti d’opposizione: Yaméogo venne costretto a dimettersi. Sangoulé Lamizana divenne il nuovo leader promulgando una Costituzione con aperture democratiche. Per risanare le finanze statati devastate, adottò una politica economica estremamente severa e rigida. Gli effetti della grave carestia e del conflitto armato con il Mali per il controllo dei giacimenti minerari nella Striscia di Agacher, la povertà estrema delle zone rurali, l’economia in mano ai poteri neocoloniali, la corruzione dilagante, le lotte per accaparrarsi scampoli di potere, uniti all’aumento dei prezzi e al blocco dei salari scatenarono nuove forti proteste di massa e determinarono una prolungata instabilità politico-istituzionale perdurata fino ai primi anni Ottanta finché, nell’agosto del 1983, la ribellione di un gruppo di militari, che si autodefinivano “rivoluzionari”, portò al potere Thomas Sankara: «Non posso contribuire a servire gli interessi di una minoranza» disse. «Non è giusto che qualcuno muoia di fame e privazioni mentre qualcun altro può permettersi di sprecare o gozzovigliare». E ancora: «Crediamo che il mondo sia diviso in due classi antagoniste: gli sfruttati e gli sfruttatori; Non possiamo esimerci dalla ricerca a oltranza della giustizia sociale». Iniziava così la rivoluzione burkinabé. Sankara ed il suo Consiglio nazionale rivoluzionario miravano a un cambiamento radicale della società. Si aprì nel Paese un’originalissima fase politica osservata con interesse da più parti; venne inaugurata una campagna di moralizzazione della pubblica amministrazione e una politica economica attenta alle esigenze delle popolazioni rurali, la stragrande maggioranza [misera] della nazione. Nell’agosto 1984, per primo anniversario della presa del potere, il nuovo corso fu sottolineato anche simbolicamente cambiando la denominazione da Alto Volta, d’eredità coloniale, in Burkina Faso che significa più o meno «Paese degli uomini liberi ed integri».
Il programma di governo era davvero rivoluzionario per un Paese africano: in meno di tre settimane il 60% dei bambini del Paese fu vaccinato contro la meningite e la malaria. Ovunque Sankara fece costruite nuove scuole, presidi sanitari, magazzini per conservare i raccolti in vista della razionalizzazione della produzione agricola. Per la realizzazione di queste opere, e per farlo nel più breve tempo possibile, Sankara puntò al coinvolgimento diretto della popolazione. Molta gente si offriva volontaria per realizzare le opere della rivoluzione, ad altri invece, come i capi-villaggio, fu imposto di seguire corsi di formazione per infermieri di primo soccorso, perché potessero essere utili agli altri abitanti, rompendo quindi gli schemi culturali di tipo feudale che permettevano, fino ad allora, ai capi-villaggio di comportarsi come signorotti locali per sfruttare i contadini. Sul piano sociale e culturale Sankara creò una frattura netta col passato. In questo modo Sankara si era procurato diversi nemici all’interno del suo stesso Paese. Pur godendo dell’appoggio delle masse, entrò sempre più in contrasto con alcuni gruppi di potere molto influenti come i proprietari terrieri, i capi tradizionali. Per la campagna di alfabetizzazione rapida delle enormi zone rurali furono imposti periodi di lavoro comunitario agli studenti universitari, impiegati oltre che nella campagna della vaccinazione di massa contro le malattie infantili, nella costruzione di opere pubbliche, nella creazione e sviluppo di cooperative agricole [anche i funzionari statali avevano l’obbligo periodico di partecipare a queste campagne]. Nel 1986 il Burkina Faso raggiunse l’autosufficienza alimentare.
Fu ridotto lo stipendio dei militari, dei dirigenti pubblici e del governo stesso imponendo una radicale politica di austerità e oculatezza a tutti i funzionari pubblici. Thomas Sankara scelse di vivere sulla propria pelle il modello di vita proposto alla sua gente: «Non possiamo essere la classe dirigente ricca di un Paese povero» amava ripetere spesso. Rifiutava di stare al di sopra delle possibilità della gente comune; fece vendere le auto blu ministeriali, sostituendole con semplici utilitarie, guidava personalmente una Renault 5 o usava una bicicletta. La denuncia pubblica e il licenziamento dei funzionari statali colpevoli di corruzione era la via praticata da Thomas Sankara che scelse di ridurre drasticamente le spese dell’amministrazione statale, fino ad allora fonte di sperpero del 70% del bilancio totale.
Il grande obiettivo della rivoluzione era far raggiungere al Paese l’autosufficienza alimentare.
A New York, durante la 39ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Sankara affermò che in «un mondo dove l’umanità è trasformata in circo, lacerata da lotte fra i grandi e i meno grandi, attaccata da bande armate e sottoposta a violenze e saccheggi […] dove le nazioni agiscono sottraendosi alla giurisdizione internazionale, armando gruppi di banditi che vivono di ruberie e di altri sordidi traffici», la priorità dei suoi programmi era quella di restituire la dignità al suo popolo, strangolato da vecchi e nuovi colonialismi; egli ricercava la “felicità” diffusa, intendendo per essa qualcosa di realmente concreto: pasti due volte al giorno e almeno dieci litri d’acqua potabile tutti i giorni per ogni persona. Si investì nello scavo di pozzi e nella costruzione di piccole dighe, fu fornito aiuto economico e tecnico alla popolazione rurale. Furono favorite politiche ambientali di salvaguardia del territorio e di riforestazione, contro l’avanzare del deserto e a favore di una agricoltura di sussistenza, non di depauperamento del territorio a causa di uno sfruttamento intensivo. «La distruzione impunita della natura continua. Noi non siamo contro il progresso, semplicemente chiediamo che esso non significhi anarchia criminale e disprezzo per i diritti degli altri Paesi». Il pane veniva fatto mischiando la farina di miglio a quella di mais perché altrimenti costava troppo e doveva essere importato con pesanti ricadute sul debito.
Mangiare quel che si produceva e vestire con tessuti locali erano due importanti conquiste volte a garantire la sussistenza a tutto il popolo del Burkina Faso, evitare il più possibile importazioni straniere che incidevano negativamente non solo sul debito pubblico: «Dobbiamo accettare di vivere all’africana, perché è il solo modo di vivere liberamente, il solo modo di vivere degnamente».
«Il nostro Paese produce cibo sufficiente per nutrire tutti i burkinabè. Ma, a causa della nostra disorganizzazione, siamo obbligati a tendere la mano per ricevere aiuti alimentari, che sono un ostacolo e che introducono nelle nostre menti le abitudini del mendicante. Molta gente chiede dove sia l’imperialismo: guardate nei piatti in cui mangiate. I chicchi di riso importato, il mais, ecco l’imperialismo. Non c’è bisogno di guardare oltre».
Sankara rifiutava decisamente gli aiuti internazionali e le politiche di “aggiustamento” indicate dal famigerato Fondo monetario internazionale, più o meno le stesse che in tempi recenti hanno portato l’Argentina sull’orlo del baratro: «L’Africa si salverà da sola. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sta nella nostra terra e nelle nostre mani». Bisogna «restituire l’Africa agli africani» poiché «dopo essere stati schiavi, siamo ora schiavi finanziari. Dobbiamo avere il coraggio di dire ai nostri creditori: siete voi ad avere ancora dei debiti, tutto il sangue preso all’Africa». L’attacco frontale al sistema di condizionamento politico ed economico che stava dietro gli aiuti internazionali spinse Sankara ad affermare: «Quelli che ci hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzato, sono gli stessi che hanno gestito per tanto tempo i nostri Stati e le nostre economie. Loro hanno indebitato l’Africa. Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo».
Fu avviata allora una grande campagna contro il debito estero dei Paesi africani. Nel 1983 il debito estero del Burkina Faso era il 40% del Pil (Prodotto interno lordo): «Il debito nella sua forma attuale è la riconquista coloniale, il debito non può essere rimborsato, quello che il Fondo monetario internazionale chiede lo abbiamo già fatto». Sankara attuò il risanamento dei conti pubblici come chiesto dal Fmi senza seguire però le loro “ricette”, si rifiutò infatti di tagliare le spese per lo Stato sociale, riducendo invece quelle per l’apparato burocratico e quelle militari: «Potete citarmi un solo caso in cui il Fmi e il suo aiuto non abbiano prodotti effetti negativi? Ci è sembrato di capire che quello che il Fmi cerca va ben al di là di un controllo sulla gestione: è un controllo politico». Un controllo politico che ha l’imperialismo occidentale come mandante.
«L’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a conquistare un territorio, imperialismo è più spesso ciò che si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente ad un pugno di uomini sulla terra di comandare tutta l’umanità». Il debito estero era visto da Sankara quindi come una forma di usura internazionale legalizzata, il grimaldello delle potenze economiche per scassinare i forzieri africani: «È il nostro sangue che ha nutrito le radici del capitalismo, provocando la nostra attuale dipendenza e consolidando il nostro sottosviluppo».
A complicare i rapporti con le potenze occidentali erano anche le “scandalose amicizie” di Sankara con Fidel Castro e con il leader del Frelimo [il Fronte di liberazione del Mozambico] Samora Machel e presidente del Mozambico, morto in un incidente aereo, in circostanze poco chiare, il 19 ottobre 1986. Il sostegno esplicito alle lotte dell’America latina, a fianco dei palestinesi e la condanna di ogni imperialismo [compreso quello sovietico] portò all’adesione, in politica internazionale, al movimento dei Paesi non allineati. Forti contrasti si erano creati con alcuni Paesi occidentali, specialmente con la Francia e gli Stati Uniti, rispetto ai quali il Burkina Faso era stato per decenni in una posizione di servitù politica ed economica.
Nella realizzazione del programma rivoluzionario di Sankara il coinvolgimento di tutto il popolo era fondamentale: «La nostra rivoluzione è e deve essere l’azione collettiva di rivoluzionari per trasformare la realtà e migliorare concretamente la situazione delle masse del nostro Paese»; le donne in particolare rivestivano un ruolo importante e raro per un Paese africano: «Se la rivoluzione perde la lotta per la liberazione della donna, avrà perso il diritto a una trasformazione positiva della società». Il divorzio divenne un diritto che poteva essere chiesto dalla donna anche senza il consenso del marito; fu favorita la partecipazione attiva e produttiva delle donne alla vita politica della società. «Il peso delle tradizioni secolari della nostra società ha relegato le donne al rango di bestie da soma. Le donne subiscono due volte le conseguenze nefaste della società neo-coloniale: provano le stesse sofferenze degli uomini e, inoltre, sono sottoposte dagli uomini ad ulteriori sofferenze. La nostra rivoluzione si rivolge a tutti gli oppressi e gli sfruttati e quindi si rivolge anche alle donne».
Il controllo dello Stato sulla cooperazione internazionale, veniva effettuato in maniera capillare in modo da evitare la creazione di condizioni tali da trasformare gli aiuti umanitari in aiuti inutili o quasi “imposti”, come una sorta di «protezione di stampo mafioso», per dirla come Luigi Cavallaro ne Il modello mafioso e la società globale [Manifestolibri, Roma, 2004], che rende di fatto schiavi delle grandi potenze finanziarie e militari. «L’imperialismo, attraverso le multinazionali, il grande capitale e la potenza economica è un mostro senza pietà, dotato di artigli, corna e denti velenosi. E’ spietato e senza cuore». Le grandi potenze «ci rimandano in un mondo di schiavitù in abiti moderni»; bisogna ricercare solo «l’aiuto che aiuta a far velocemente a meno dell’aiuto» e non quello che serve alle imprese del ricco Nord del mondo e a presunti esperti pagati con cifre da capogiro. «Con lo stipendio di un dipendente della Fao [Food and agricolture organization, struttura delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura] possiamo costruire una scuola […] Non c’è salvezza per il nostro popolo se non voltiamo completamente le spalle a tutti i modelli che ciarlatani di tutti i tipi hanno cercato di venderci per vent’anni. Non ci sarà salvezza per noi al di fuori da questo rifiuto, né sviluppo fuori da una tale rottura».
Non tutte le campagne ebbero il tempo di dare i propri frutti, del resto quattro anni sono pochissimi rispetto a decenni di sfruttamento e devastazione, tuttavia va ricordato che durante gli anni della rivoluzione il Burkina Faso intraprese una via che sembrò davvero andare nella direzione di vera alternativa alla miseria e alla dominazione straniera culturale ed economica.
L’esperimento rivoluzionario, unico di questo tipo in Africa, terminò il 15 ottobre 1987 quando un altro colpo di Stato pose fine alla vita di Thomas Sankara. A guidare il golpe fu un vecchio compagno di lotta di Sankara, Blaise Compaoré, che da quella data è presidente del Burkina Faso.
Il nuovo presidente disse che la morte di Sankara fu un «incidente», così come un «intoppo temporaneo» venne considerato il vecchio programma rivoluzionario che necessitava di presunti aggiustamenti. Molte delle riforme portate avanti nel passato quadriennio furono cancellate, si attuarono privatizzazioni, si seguirono con rigorosa precisione i “consigli” del Fmi; non mancarono ovviamente le epurazioni, gli arresti indiscriminati e si tentò in ogni modo di cancellare ogni traccia e memoria della rivoluzione.
Oggi il Burkina Faso è ai primi posti nella classifica dei Paesi più poveri del mondo. Un paese globalizzato, aperto al libero mercato e quindi alle multinazionali agroalimentari degli Ogm [organismi geneticamente modificati], l’acqua potabile per tutti non è più un diritto e la gente ha ripreso a morire di fame. L’economia nazionale è fondata principalmente sugli aiuti esteri che, come un cappio al collo, continuano a ricattare il popolo intero. La parvenza democratica del potere odierno tenta di mascherare l’immensa miseria che si aggrava anno dopo anno, mentre la classe dominante si arricchisce sulla pelle del popolo senza alcun ritegno. Il Burkina Faso è tornato quindi a essere un Paese africano “normale”, cioè poverissimo, socialmente devastato. La corruzione dilaga, gli sperperi dello Stato sono tornati a crescere ai livelli, e anche più, pre-rivoluzionari, così come il debito estero è diventato stratosferico. Nel 2004 il debito estero ha raggiunto i tredici miliardi di dollari. A completare il quadro ci ha pensato la sempre maggiore diffusione dell’Aids che colpisce il 4% della popolazione. L’enorme tasso di disoccupazione provoca un pesante fenomeno di emigrazione che va a ingrossare i capitali delle mafie trafficanti di uomini.
A 20 anni dalla sua morte, in Italia sono stati promossi seminari, convegni, spettacoli; la sorella Odile è stata in questi giorni a Roma, con la Carovana Sankara «Mèmoire de braises et futurs Tom Sank 2007» per raccontare l’opera rivoluzionaria del presidente burkinabè, della sua eredità anche per il movimento di emancipazione femminile. La Carovana è partita da Città del Messico l’8 settembre, attraversando l’Italia, quindi giungerà il 14 ottobre a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, dove il Comitato nazionale d’organizzazione dell’anniversario ha preparato, dall’11 al 14 ottobre, il «Simposio internazionale sul pensiero e l’azione del presidente Thomas Sankara» [il programma è su www.thomassankara.net]. L’incontro vedrà la folta partecipazione di delegati provenienti da tutta l’Africa, dall’America Latina e dall’Europa.
La Campagna internazionale giustizia per Sankara negli ultimi anni ha promosso vari procedimenti giuridici locali ed internazionali per ottenere giustizia. Un primo risultato si è avuto nell’aprile 2006 quando il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha condannato il Burkina Faso per il fallimento dell’inchiesta sulla morte di Sankara. Il presidente Compaoré da un lato ha proposto una «Riconciliazione nazionale» che non ha trovato supporto nell’opposizione, dall’altro non ha mancato di minacciare gli organizzatori degli eventi in ricordo di Sankara.

di Luca Cumbo 11 Ott 2007


Tutte le citazioni di Sankara sono tratte dal discorso tenuto a New York, il 4 ottobre 1984, durante la 39ª sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, e dal libro Thomas Sankara, I discorsi e le idee, a cura di Marinella Correggia, Edizioni Sankara, Roma, 2006.
Per saperne di più si consiglia anche “L’africa di Thomas Sankara. Le idee non si possono uccidere“, di Carlo Batà, prefazione di Alex Zanotelli, Edizioni Achab, Verona, 2003

 http://www.thomassankara.net/spip.php?article500&lang=fr

ITALIA-GERMANIA, STORIA DI UN ODIO FINANZIARIO CHE DURA DA VENT’ANNI - TUTTO INIZIÒ NEL 1992 QUANDO LA LIRA ERA OGGETTO DI AGGRESSIONE SPECULATIVA E LA GERMANIA, INVECE DI SOSTENERCI COME PREVISTO DAL PATTO DI BASILEA, CI SCARICÒ Poi nel 2003 l'Italia di Berlusconi graziò Francia e Germania che rischiavano le sanzioni per deficit eccessivo - Nonostante il comportamento italiano, la Germania boccia (già dal 2003) gli euro-bond - La vera vittoria italiana matura alla fine del 2004 ed arriva nel 2005. Contro il parere di tutti, viene proposta la riforma del Patto di stabilità…

Fabrizio Ravoni per “il Giornale”
Prodi e Ciampi Prodi e Ciampi

La storia economica tra Italia e Germania è fatta di amnesie reciproche, di sconfitte e di mille compromessi.  È il 1992. La lira è oggetto di un'aggressione speculativa. La Banca d'Italia (Ciampi governatore), pur di difendere un cambio della lira con il marco irrealistico, brucia 63mila miliardi di riserve.

Confida che la Germania rispetterà il patto di Basilea-Nyborg. Prevede che quando una valuta dello Sme è sotto attacco, le altre banche centrali del Sistema la sostengano. Invece, a Ciampino arrivano con un aereo privato emissari della Bundesbank (tra cui Hans Tiettmeyer, il presidente) e comunicano che la Buba non rispetterà il Patto. Punto e basta.
SILVIO BERLUSCONI GIULIO TREMONTI SILVIO BERLUSCONI GIULIO TREMONTI

Siamo alla notte del 23 novembre 2003. L'Italia è presidente di turno dell'Unione. La Francia e la Germania  rischiano le sanzioni per deficit eccessivo, proposto dalla Commissione Ue presieduta da Romano Prodi. Giulio Tremonti presiede un Ecofin drammatico. Berlusconi lo chiama da Roma: «Ho parlato con Chirac. Ho parlato con Schroeder».

La procedura della Commissione dev'essere congelata. Alla fine, la Presidenza si astiene dalla quarta ed ultima votazione notturna. E blocca la procedura d'infrazione per Parigi e Berlino. Episodio che Matteo Renzi ricorda in continuazione alla Merkel, ben sapendo di non farla felice.

Nonostante il comportamento italiano, la Germania boccia (già dal 2003) gli euro-bond. Sono uno dei temi della Presidenza di 11 anni fa. Berlino è contraria all'operazione di emissioni di titoli pubblici europei. Il tema è un fiume carsico, tant'è che li sta rilanciando anche Graziano Delrio: l'Italia li propone da 11 anni e da 11 anni la Germania dice di no.
Chirac Chirac

La vera vittoria italiana matura alla fine del 2004 ed arriva nel 2005. Contro il parere di tutti, viene proposta la riforma del Patto di stabilità. Alla fine, dopo negoziati assai poco diplomatici, l'accordo passa. Merito anche di uno stratagemma.

Jean-Claude Juncker era ed è un politico molto esperto. Ama allungare le riunioni fino a notte fonda, così da stancare gli interlocutori. All'epoca guidava l'Ecofin e finiva gli incontri verso le 2 di notte. Per farsi trovare fresca all'appuntamento, la delegazione italiana staccava i telefoni fino alle 18: le riunioni iniziavano alle 19. Andava a riposare.

Ed anche grazie a questo accorgimento la riforma del Patto venne approvata con il principio di fondo chiesto dall'Italia (e valido tutt'oggi). Cioè, se la congiuntura peggiora i Paesi possono allentare il rigore; se migliora, devono rafforzare gli interventi per avvicinarsi al pareggio di bilancio.

Berlusconi a vedere Borussia Milan con Schroeder Berlusconi a vedere Borussia Milan con Schroeder
È con questa riforma che viene introdotto un nuovo calcolo del deficit: quello strutturale, che tiene appunto in considerazione l'andamento economico nel calcolo del deficit. Quello a cui ha fatto esplicito riferimento Barroso ieri a Villa Madama. Un indicatore dalla forte interpretazione politica, legata alle riforme strutturali avviate.

I rigoristi tedeschi provarono ad inserire nell'elaborazione del deficit strutturale anche i costi dell'Unificazione. Costi che l'Europa aveva già pagato con un cambio 1-1 del marco della Germania Ovest con quello della Germania Est. Per quanto potrà sembrare paradossale, al vertice di Cannes del 2011 l'Italia vinse la partita contro la Germania (e la Francia): proprio i Paesi che aveva salvato 8 anni prima.
I sorrisetti tra la Merkel e Sarko ea ccd e f eeedb ae I sorrisetti tra la Merkel e Sarko ea ccd e f eeedb ae

La vinse perché si rifiutò di accettare il prestito del Fondo monetario che Merkel e Sarkozy volevano che l'Italia chiedesse. Casualmente alla guida dell'Fmi c'era (e c'è) Christine Lagarde che, prima di volare a Washington, era stata ministro del governo Sarkozy.

Il resto della storia è fatta di pareggi e compromessi. È un pareggio la vicenda delle «circostanze eccezionali» da legare al calcolo del deficit. Per l'Italia sono in vigore. Per la Germania è solo una nota a «piè di pagina». La flessibilità che Renzi invoca, poi, è già compresa nei Trattati. Ma per i tedeschi è una parolaccia.
sarko merkel ridi sarko merkel ridi


 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/italia-germania-storia-odio-finanziario-che-dura-vent-anni-tutto-80353.htm

venerdì 4 luglio 2014

IL TESORO COME IL MONTE DEI PACCHI? SUPERBONUS NON SI BEVE LA STORIELLA DELL’ISTAT CHE AGGIORNA I DATI SUL DEBITO PUBBLICO “AL NETTO DEI DERIVATI” L’Istat ha appena rilasciato le ultime statistiche sul debito italiano “al netto degli swap”. È come se Mussari avesse detto: il Monte dei Paschi è in salute, al netto dei derivati. L’anno scorso, ‘Repubblica’ e ‘Financial Times’ quantificarono in 30 miliardi il buco sugli swap “di copertura”. Adesso, silenzio….

Superbonus per Dagospia

L'Istat ha rilasciato nei giorni scorsi le statistiche sul debito italiano, ma l'istituto si affretta a dire: "al netto degli swap". In pratica i cittadini italiani hanno diritto a conoscere solo un livello d'indebitamento del Paese che potrebbe non corrispondere alla realtà.

E' come se Peppiniello Mussari avesse detto: il Monte dei Paschi è in salute al netto degli strumenti derivati che l'hanno affondato.  Una dichiarazione inquietante quella dell'Istat, se la si legge attraverso gli articoli apparsi un anno fa su Repubblica e sul Financial Times, che quantificavano in almeno 30 miliardi di euro il buco nei conti pubblici che avrebbero prodotto gli strumenti derivati sottoscritti dalla Repubblica Italiana con banche d'investimento di mezzo mondo, a partire da Morgan Stanley e JP Morgan. Si proprio le due banche dove sono andati a lavorare due ex Ministri del Tesoro: Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli.
LANCIO DI MONETINE A MUSSARI IN PROCURA LANCIO DI MONETINE A MUSSARI IN PROCURA

maria cannata maria cannata
L'ultimo a promettere trasparenza sui derivati sottoscritti dal Tesoro è stato, nel luglio dello scorso anno, Gelatina Saccomanni, ma nulla si è mosso. Persino la Corte dei Conti, che era stata sollecita nel chiedere informative, si è arresa di fronte al muro di gomma degli uffici ministeriali.

La dottoressa Cannata continua a dire che i derivati sottoscritti sono tutti di copertura, ma non fornisce dettagli perché "potrebbero aprire il fronte a delle speculazioni". Ok, però se i derivati sono di copertura, una speculazione sarebbe impossibile dato che da un lato il Tesoro perderebbe ma dall'altro guadagnerebbe. O no?

SACCOMANNI VISCO LA VIA SACCOMANNI VISCO LA VIA
Per toglierci il dubbio che al Ministero del Tesoro si sia in passato giocato con la finanza per far quadrare i conti, sarebbe opportuno pubblicare i contratti integralmente, a partire da quelli sottoscritti con Morgan Stanley dal dottor La Via nel suo precedente passaggio al Tesoro e poi ristrutturati sempre da La Via durante il governo del Rigor Montis. Nel 2008, mi permisi di dire che i conti del Monte dei Paschi erano truccati e fui trattato come un pazzo, se dicessi la stessa cosa oggi del Tesoro penso che riceverei lo stesso trattamento. Quindi mi astengo, ma il problema resta.

 http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/tesoro-come-monte-pacchi-superbonus-non-si-beve-storiella-80277.htm