domenica 7 dicembre 2014

Giampaolo Pansa e la profezia su Renzi: "Lo cacciano, arriva un militare. E poi..."

Il caos politico-criminale al municipio di Roma provocò le dimissioni del sindaco Ignazio Marino. E subito dopo quelle del governo di Matteo Renzi, ferito dal marciume che tracimava dal Partito democratico della capitale. Una gran parte della Casta si precipitò a strillare che il successore di Renzi, chiunque fosse, doveva essere sempre un politico professionale, pronto a riconoscere il primato dei partiti. Per questo la Casta rimase sgomenta quando apprese le intenzioni del vecchio presidente della Repubblica. Il padrone del Quirinale stava cucinando un piatto molto indigesto per la politica politicante. Voleva mandare a Palazzo Chigi un signore sconosciuto alla Casta. Un alieno, che per di più vestiva una divisa. Un generale dei carabinieri. Un certo Silvestro Rambaudo.




Il Transatlantico di Montecitorio cadde nel panico. Non si era mai visto in Italia un generale diventare capo del governo. Era successo in altri paesi e in momenti eccezionali. In Grecia, Cile, Argentina e Polonia. Ma dal 1948 in poi, a Palazzo Chigi era sempre entrato un politico eletto dal popolo, mai qualcuno imposto da un’autorità esterna come in fondo era l’inquilino pro tempore del Quirinale. E poi chi era questo Rambaudo? Verso la fine del dicembre 2014 non fu difficile tracciare il profilo del futuro premier. Silvestro Rambaudo aveva 55 anni ed era un generale di divisione dell’Arma dei carabinieri. Nato ad Asti da una famiglia di coltivatori diretti, aveva sempre desiderato entrare nella Benemerita. Dopo la laurea in Giurisprudenza, si era arruolato nell’Arma, che l’aveva subito inviato alla Scuola ufficiali.

Grazie all’intelligenza e al carattere, Rambaudo si era fatto strada rapidamente. Prestando servizio in Libano, poi in Iraq e quindi in Afghanistan. E aveva scalato la gerarchia sino a diventare colonnello, poi generale di brigata e infine generale di divisione. Il dato sorprendente è che non aveva mai goduto di protezioni politiche. Né quelle nascoste, in grado di sostenerlo nella carriera. E neppure quelle lecite, da lui sempre rifiutate. Veniva dipinto come un signore taciturno, che sapeva tutto della politica italiana, pur restandone ben lontano. Un bravo tattico e un eccellente stratega. In grado di parlare alla perfezione inglese, tedesco e francese. Aveva un aspetto fisico che colpiva: alto, magro, barba corta, capelli sale e pepe rasati quasi a zero. Il volto da contadino, lo stesso del padre e del nonno. Di carattere era un freddo, capace di mantenere la calma anche nei frangenti più rischiosi. Gli uomini al suo comando lo adoravano, perché era un comandante severo, ma giusto, che aveva cura dei sottoposti e non si sottraeva alla fatica e alle responsabilità.

Il Presidente aveva conosciuto Rambaudo all’inizio del novembre 2014, durante una visita al contingente italiano in Afghanistan. Anche il generale si trovava alla nostra base di Herat per un’ispezione. E quel giorno il capo dello Stato, con uno strappo al cerimoniale, si concesse un’ora di colloquio a tu per tu con il generale. Iniziando a chiedergli come giudicava le condizioni dell’Italia. Rambaudo gli disse di essere molto preoccupato di quanto avveniva nel paese. Vedeva una nazione sfibrata e in declino. In preda al disordine politico, l’origine di tutti i mali: la corruzione, la gigantesca evasione fiscale, la protervia della criminalità organizzata, le violenze dei gruppi antagonisti, la disperazione dei quartieri popolari, l’assenza di sicurezza. A tutto questo, aggiunse il generale, si accompagnava un’immoralità pubblica e privata senza precedenti: un altro riflesso della crisi etica, persino più corrosiva della crisi economica. Disse: «Le grandi città italiane sono diventate luoghi infernali senza legge. I miei ufficiali le descrivono in mano a politici senza scrupoli, a depravati sessuali che non risparmiano i bambini e a bande criminali capaci di qualsiasi malvagità».

Il presidente chiese a Rambaudo: «Lei ritiene possibile mettere un argine a questo sfacelo?». Il generale rispose: «Non lo so. Forse si potrebbe tentare di imporre di nuovo la legge e l’ordine. Ma per riuscirci sarebbe indispensabile l’aiuto generoso di un ceto politico ancora provvisto di un minimo di dignità e di senso del dovere. In Parlamento esistono uomini e donne così? A un militare non spetta dare giudizi sui partiti. Tuttavia non voglio esimermi dal dirle che siamo perigliosamente vicini al punto di rottura…». «Che cosa intende per rottura?» gli domandò il Presidente. «Intendo un colpo di Stato» chiarì il generale. «Di solito i golpe nascono nella testa di chi intende compierli. Ma hanno sempre bisogno di essere giustificati. Con il disordine che regna in un paese. O con l’aggravarsi di un degrado che appare privo di soluzione. Nel caso italiano sono presenti entrambe queste condizioni. Per questo credo che la nazione sia a un passo da un ciclo di violenze che ci farebbero ricordare la guerra civile. Le ho presentato uno schema teorico, signor Presidente». «E sul piano pratico che cosa potrebbe accadere?» chiese il capo dello Stato. «Niente di traumatico, a parte una nostra lenta discesa in un baratro di mediocrità e di miseria. Le gerarchie militari sono fedeli alla Repubblica. E non prenderebbero mai le armi per sostituirsi al Parlamento. Del resto, l’Europa e i mercati finanziari sarebbero pronti a impedire un golpe in Italia. Per di più, i miei colleghi generali hanno imparato che non conviene essere golpisti. La storia del Novecento ci ha insegnato che i colpi di Stato non portano a nulla. A parte un solo caso: quello di Mussolini».

Il Presidente rimase in silenzio per lunghi istanti. Poi interrogò di nuovo Rambaudo: «Se le cose stanno come dice lei, generale, quale soluzione abbiamo per affrontare le tante crisi italiane?». Il generale si strinse nelle spalle: «Presidente, io non sono un leader politico e neppure un esperto economia o un politologo. Credo che l’unica strada da percorrere sia di mettere in sella un governo che sappia avere la mano dura nei confronti di chi tiene l’Italia sui carboni ardenti. Ma senza violare la Costituzione, né spargere sangue. Può nascere un governo siffatto? La risposta a questa domanda spetta soltanto a lei». 
Il capo dello Stato ringraziò Rambaudo, poi usci dalla tenda e si apprestò a ripartire per Roma. Un mese dopo, quando le trattative per un nuovo governo languivano, il Presidente convocò al Quirinale il generale. Gli disse: «Non ho dimenticato il nostro colloquio a Herat. Lo riassumo così: l’Italia ha bisogno di un governo affidato a un uomo di polso, che non abbia interessi elettorali, un tecnico capace di tenere in pugno un paese che si sfalda. Per questo ho pensato a lei, generale. Conosco il suo percorso professionale e il suo carattere. Lei è un militare con una grande esperienza di comando nell’arma dei carabinieri e riuscirà di certo a trasferirla nelle stanze di Palazzo Chigi».

Superata la sorpresa, Rambaudo replicò: «Signor presidente, non mi sembra un’idea felice. Affidare il governo a un generale dei carabinieri, anche se di indubbia fede democratica, farà strillare a molti che è in atto un golpe. Sia pure non dichiarato e soffice, senza carri amati per le strade, né arresti di oppositori politici…». Il capo dello Stato gli ribatté: «Se molti strilleranno, toccherà a noi convincerli del contrario. Quello che conta è la scelta dei ministri, ma in questo compito l’aiuterò io. Le garantisco che avrà la fiducia del Parlamento. Sarà un voto favorevole anche se a denti stretti. Però lo otterrà». Il generale Rambaudo si alzò e allargò le braccia, rassegnato: «Lei mi affida una croce che non immaginavo di portare. Una croce pesante che non sono sicuro di saper reggere. Però mi trovo di fronte al presidente della Repubblica e dunque obbedirò».

Nel marzo 2015, l’ingresso di Rambaudo a Palazzo Chgi fu meno difficile del previsto. La destra lo acclamò perché era un militare. La sinistra gridò al golpe, ma poi lo votò. In tutti i partiti era prevalso un calcolo cinico: «Se il generale andrà a sbattere, come è inevitabile, la colpa sarà soltanto sua e non nostra». All’opposizione rimase soltanto qualche irriducibile, ma con poche speranze di contare. Del resto, il programma del governo non poteva che essere quello dettato dall’Europa e dalla grande recessione mondiale che seguitava a infuriare. I capisaldi erano sempre gli stessi: massima austerità, taglio spietato della spesa pubblica, rigore finanziario. Le sinistre provarono per l’ennesima volta a chiedere un’imposta patrimoniale straordinaria a carico dei presunti ricchi. Ma il premier Rambaudo, dati alla mano, dimostrò che esisteva già e sarebbe stata soltanto una misura punitiva e dannosa.

Il primo guaio incontrato da Rambaudo fu tremendo. Il sistema bancario iniziò a traballare. Alcuni piccoli istituti di credito bloccarono i conti correnti dei clienti. La rabbia dei correntisti diventò feroce. Molte agenzie vennero assalite. I presidenti di due grandi banche furono assassinati da killer sconosciuti. Nei loro volantini di rivendicazione i killer si definirono i nuovi Robin Hood. Tutta l’Italia si era impoverita. Nella primavera del 2015 i consumi continuarono a ridursi. I negozi vendevano le merci sotto costo, ma gli acquirenti scemavano. La disoccupazione si fece drammatica. Le casse dello Stato erano quasi vuote. Rimaneva soltanto quanto bastava per pagare lo stipendio dei dipendenti pubblici, le pensioni e far funzionare i servizi essenziali.


Grandi opere pubbliche non se ne vedevano più. Anche la manutenzione ordinaria diventava difficile. Lo confermava lo stato delle strade, in condizioni pessime e tutte rabberciate alla meglio. In molte città, le famiglie rimaste senza soldi vendevano in bancarelle improvvisate i ricordi di un’epoca felice: corredi da sposa, vasellame di pregio, oggetti d’oro e d’argento. Da Palazzo Chigi il premier assisteva impotente all’agonia del paese. Usando la severità necessaria, Rambaudo era riuscito a imporre un minimo di ordine, a tenere a bada i corrotti, ad arrestare criminali e mafiosi, ma niente di più. L’Italia stava morendo. Anche attività ritenute tra le più salde languivano. A cominciare da quelle frivole. Non si giravano più film. I programmi della televisione pubblica a privata ripresentavano vecchi spettacoli. Venivano trasmessi soltanto i telegiornali. Godevano di un ascolto altissimo, poiché tutti volevano sapere che cosa stesse accadendo.

Pure il sistema sanitario sembrava sull’orlo del tracollo. Per garantirlo, il governo Rambaudo intensificò la caccia agli evasori fiscali. I controlli sui redditi diventarono sempre più sofisticati. Venne varata la legge «Manette agli evasori». I contribuenti infedeli erano indicati al pubblico disprezzo con nome e cognome. Nel carcere di San Vittore morì d’infarto una grande firma della moda. Un famoso attore dei cinepanettoni si uccise in cella soffocandosi con una busta di plastica. Tre banchieri vennero arrestati per aver trasferito capitali all’estero.

Il Terrore fiscale ebbe successo. Le entrate dello Stato migliorarono, ma i conti pubblici restarono in rosso. La tivù di Stato precipitò nella depressione più nera. La Rai optò per una sola rete e lo stesso fece Mediaset. La Sette fu comprata dagli Emirati arabi. Venne mandato a casa il direttore del tigì Mentana, considerato troppo anziano e incapace di catturare telespettatori giovani. Qualche reduce dei talk show si rifugiò alla tivù albanese che aveva allestito un programmino in italiano. Anche il campionato di calcio ne risentì. In serie A giocavano soltanto dieci squadre. I compensi dei campioni erano ridotti all’osso. Gli stadi risultavano mezzi vuoti perché soltanto pochi potevano permettersi di comprare i biglietti. Lo scudetto lo vinse una squadra di Bari nata da poco: la Padrinese Fbc, finanziata da una società delle Isole Cayman e in mano alla Sacra corona unita. Rambaudo la chiuse. Le librerie persero clienti su clienti. I pochi quotidiani rimasti in vendita uscivano a otto pagine e senza pubblicità. L’uso del web venne tassato in modo pesante e crollò. Anche twittare costava un occhio della testa. Fu l’unico fatto positivo in un tempo di disgrazie.

L’inverno 2015-2016 cominciò con grandi bufere di neve che investirono l’intero paese. Il governo Rambaudo ordinò che a partire dal 1° gennaio 2016 il riscaldamento negli uffici pubblici e nelle case private venisse limitato a tre ore al giorno. Soltanto gli asili e gli ospedali furono esentati dall’obbligo. Nelle scuole elementari erano ammesse appena le stufe a legna, purché alimentate dai ceppi che gli alunni portavano in classe ogni mattina. Il presidente della Repubblica, una vera roccia, lesse il messaggio di Capodanno indossando il cappotto.
Malgrado il freddo arrivarono in Italia schiere di cinesi pronti ad acquistare aziende e palazzi. E si trovarono di fronte a una novità. Il premier Rambaduo aveva introdotto la tessera per i beni di prima necessità, tutti razionati. Informò il paese che la borsa nera sarebbe stata repressa con anni di carcere. Gli italiani misero in pratica un’arte che conoscevano da secoli: quella di arrangiarsi.
L’Italia cambiò faccia. Le università si svuotarono di migliaia di studenti sfaticati, anche perché le rette erano cresciute del trecento per cento. Molti giovani si decisero a fare mestieri che avevano sempre rifiutato. La concorrenza con gli extracomunitari diventò senza pietà. Le colf e le badanti italiane ormai si trovavano con facilità. Questo consentì di accudire gli anziani meglio di prima. Era fortunato chi possedeva un pezzo di terra: il lavoro dell’agricoltore ritornò di moda. Permaneva un solo risvolto negativo: l’aumento impressionante dei furti e delle rapine. Ma sotto la sferza del premier Rambaudo, le forze dell’ordine si dimostrarono implacabili. Una volta arrestati, i delinquenti restavano in galera, con il regime previsto per i mafiosi, il 41 bis. I campi rom non furono chiusi, ma vennero messi sotto la sorveglianza di una rete di marescialli dei carabinieri che imposero ordine e pulizia.
Rambaudo era riuscito nell’impresa più urgente: ripristinare l’imperio della legge. La condizione indispensabile per tentare di risalire dal baratro del collasso. Infine emerse una sorpresa positiva: le coppie giovani facevano più figli di prima. Poteva sembrare un paradosso. Ma soltanto a chi dimenticava quanti italiani fossero nati nell’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale. Tutto venne riassunto da un libro di grande successo, scritto un’anziana sociologa. Il titolo diceva: «Era ora!». Il sottotitolo spiegava: «La Grande Crisi ci rende migliori. Nascono più bambini e il futuro sarà rosa».

di Giampaolo Pansa

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