giovedì 31 marzo 2016

''IL TEMPO'' FA STRAGE DEL FILM DI MARTINELLI SU USTICA: ''16 BUONI MOTIVI PER NON VEDERLO: UNA SEQUELA DI PRESUNTI FATTI INEDITI, SPACCIATI PER VERI, QUAND’INVECE SONO GIA’ STATI SMENTITI DA PERIZIE, TESTIMONI OCULARI, SENTENZE PASSATE IN GIUDICATO - IL "CATTIVO" SI CHIAMA FRAGALÀ, COME L'AVVOCATO UCCISO NEL 2010 E CHE FU CRITICO CON MARTINELLI Dal mig libico caduto insieme all’aereo civile (quand’invece e’ preciptato sui monti della Calabria tre settimane dopo) alle “morti sospette” che tali non sono mai state, dai colpi di mitragliatrice al mig 23 sparate dai caccia americani al testamento scritto dal pilota libico precipitato (circostanza completamente inventata) ... -

Luca Rocca per Il Tempo

«Ustica», l’ultimo film di Renzo Martinelli, presentato come la «verità rivelata» sulla strage del 27 giugno 1980, è l’opposto della verità. La sola cosa certa, dopo averlo visto in anteprima, è che il regista ha rimesso in circolo ipotesi scartate da anni di inchieste, respinte anche dai magistrati che processarono per depistaggio i generali dell’Aeronautica (tutti assolti), resettate dai più grandi periti internazionali.
CATERINA MURINO IN USTICA CATERINA MURINO IN USTICA

Lo ha fatto, Martinelli, con un film scritto male e a nostro modesto avviso recitato peggio, proiettando immagini fantasiose, facendoci ascoltare dialoghi mai avvenuti e ricostruendo una vicenda dolorosa, che costò la vita a 81 innocenti, dando sfogo al più classico cliché del complottismo. Di motivi per ignorarla, la pellicola di Martinelli, ce ne sono anche troppi.


1. IL BLUFF DEL MIG
La tesi del film è che, cercando di inseguire un Mig23 libico «nascosto» sotto la pancia del Dc9, un caccia americano provoca la caduta del velivolo civile italiano. Dal Dc9, incredibilmente, non parte nessun allarme. E che fine fa il caccia Usa? Si lascia intendere, senza mostrarlo, che sia precipitato in mare nei pressi del Dc9. Ma non esiste alcuna prova. E da dove sarebbe partito? Per anni si è sostenuto dalla portaerei Usa Saratoga. Fino a quando è stato provato che quella nave era attraccata al porto di Napoli (come dimostrano alcune foto che ritraggono due sposini con alle spalle proprio la Saratoga), e nessun caccia può decollare da una portaerei non in navigazione.


2. CACCIA INVISIBILE
Nel film viene evidenziato che, stando sotto la pancia del Dc9, il Mig non è visibile al radar che scorge un solo segnale. Ma il caccia non compare dal nulla, là sotto ci deve pur arrivare. E nessun radar segnala il suo tragitto, né quello dei caccia Usa, prima e dopo?


3. VENTUNO GIORNI DOPO
IL FILM DI MARTINELLI SU USTICA IL FILM DI MARTINELLI SU USTICA
Il 27 giugno 1980 la pilotessa, protagonista del film, si reca sulla Timpa delle Magare, in Calabria, e scopre che un Mig libico si è schiantato su quel costone. Il pilota è morto. Ma i riscontri sulla caduta del Mig 21 giorni dopo, cioè il 18 luglio, sono così lampanti da aver indotto i magistrati a dire: «Le prove acquisite su questo episodio non sono state tali da far ipotizzare un coinvolgimento di tale velivolo con la caduta del Dc9». E infatti le relazioni dei carabinieri e dei vigili, le testimonianze a caldo di sei cittadini calabresi, fax, dispacci e fonogrammi, lo confermano: insomma, non è caduto lo stesso giorno del dc9 ma tre settimane dopo.


4. FANTASIOSI SPARI
La pilotessa nota dei buchi sulla fusoliera del Mig. Pensa (anche perchè nel film il caccia Usa spara) siano stati provocati da una mitragliatrice. Non è così. I fori, come emerso dalle indagini, si formano perché il Mig viene trascinato via per tre chilometri su di una pietraia, ridotto a pallottola e ingabbiato con i cavi.


5. FUSOLIERA USA INESISTENTE
La pilotessa afferma che «in mezzo agli oggetti» ritrovati in mare nei pressi del Dc9 c’è «un pezzo della fusoliera di un caccia americano». Pura invenzione. Tanto che Priore (la cui sentenza-ordinanza su Ustica ha dato adito ad anni di sospetti) scrive che quel pezzo di metallo non è mai stato repertato.


IL FILM DI MARTINELLI SU USTICA IL FILM DI MARTINELLI SU USTICA
6. IL PERDONO DI ALLAH
La pilotessa trova accanto al corpo un foglio sul quale il pilota del Mig ha appuntato, in arabo, una richiesta di perdono indirizzata ad Allah. Un testamento mai esistito. Ma poi, quando lo avrebbe scritto? Mentre i caccia Usa lo inseguivano? Dopo la caduta perché rimasto vivo dopo lo schianto?


7. ECCO IL MISSILE
A un certo punto il marito della pilotessa, il deputato «Acquaformosa», spiega alla moglie che il Dc9 è stato colpito, per sbaglio, da un missile di un caccia Usa. Teoria cassata per la totale assenza di tracce di impatto esterne sul Dc9.


8. SEGGIOLINO MAI REPERTATO
La moglie del politico spiega che il quotidiano «Paese Sera» parla di un giubbotto Usa e un seggiolino eiettabile recuperati vicino al Dc9. È vero che fra i reperti c’è un giubbotto statunitense della Saratoga (che per anni ha solcato quelle acque e, dunque, un giubbotto perso è una non notizia), ma anche Priore esclude la presenza del seggiolino: «Nessuna traccia né nelle relazioni di recupero né tra i reperti».


9. MORTI (NON) SOSPETTE
A un certo punto muore, precipitando con un elicottero, prima un possibile testimone in grado di rivelare che il Mig è precipitato il 27 giugno, poi, in un incidente stradale, la pilotessa. Sono le cosiddette «morti sospette» che per anni hanno alimentato dietrologie folli. Un capitolo che persino Priore liquida così: «Il numero delle morti violente si azzera se si tiene conto della durata delle indagini e quindi di un tasso fisiologico dei decessi», e ancora di più «se tali vicende vengono vagliate escludendo deduzioni di fantasia».
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10. RADAR «PULITI»
Poco prima di morire la pilotessa parla con una giornalista investigativa, mamma di una bambina che si trovava a bordo del Dc9, e le spiega che il velivolo dell’Itavia non era in volo da solo. Ma la presenza dei plot radar -12 e -17, che per i magistrati rappresenterebbero la prova di jet vicino al Dc9, è stata definita dai giudici «un salto logico ingiustificabile».


11. TESI «DECOMPOSTE»
Il deputato incontra il perito che ha eseguito l’autopsia sul pilota del Mig. Il medico gli riferisce che il corpo del cadavere era «pieno di vermi» e la morte risaliva ad almeno 20 giorni prima del 18 luglio. Ma nella realtà i due periti che eseguono l’esame autoptico scrivono che la morte risale proprio al 18 luglio. Dopo sei anni cambiano idea e, in una presunta «memoria aggiuntiva» (mai trovata), la collocano a prima di quella data. Dopo pochi mesi tornano alla versione originale: il pilota è morto il 18 luglio e l’avanzato stato di decomposizione è dovuto «all’esposizione all’aria aperta per parecchie ore», al «tipo di cassa con cui venne tumulata» e al forte caldo.


12. IMPICCATO SOSPETTO
Quando il deputato vedovo e la giornalista vanno a casa del maresciallo dell’Aeronautica Mario Alberto Dettori (forse in servizio la sera del 27 giugno al radar di Poggio Ballone, anche se non esiste conferma ufficiale), lo trovano impiccato a un albero. Un’altra morte sospetta per Martinelli. Che ignora, ancora, la verità storica.


DC 9 USTICA DC 9 USTICA
13. GOLA PROFONDA
Un radarista incontra, in un buio parcheggio sotterraneo, la giornalista (una scena simile a quella di «Tutti gli uomini del presidente» sullo scandalo Watergate). Le lascia un nastro registrato nel quale viene spiegato che la sera del 27 giugno c’era in volo un «Hawacs», un aereo d’avvistamento radar. La «gola profonda» svela che il radarista di Ciampino, notando la traccia del Dc9 che si sposta dalla sua rotta, contatta il pilota per dirgli di rimanere sulla linea di volo prefissata. Ma il pilota replica di non aver virato. Il radarista, sottolinea la «gola profonda», aveva visto, in realtà, la traccia del Mig 23 mettersi in coda al Dc9. Ma allora, di tracce ne avrebbe dovuto vedere due, del Dc9 e del Mig, e non una sola. Illogicità.


14. ALLARME FASULLO
ustica big ustica big
Lo stesso messaggio della «gola profonda» svela che due F104 italiani vedono il Mig e lanciano tre volte l’allarme. Martinelli non dice che ogni giorno di quel mese, da quello stesso caccia, è stato accertato che partiva un allarme per via di un’anomalia tecnica più volte segnalata.


15. TRAFFICO INVISIBILE
Ai due caccia italiani, e ai due francesi decollati dalla Corsica, viene ordinato di rientrare. Del Mig si occupa la coppia di jet americani. Un traffico da ora di punta che esiste solo nella fantasia di Martinelli.


16. COLLISIONE IMPOSSIBILE
strage di ustica strage di ustica
Il film si conclude con il caccia Usa che si accorge tardi della presenza del Dc9 e gli piomba addosso spezzandolo in due. Come ha potuto non vederlo prima attraverso il radar? 


USTICA 2, LA VENDETTA. UNA STRAORDINARIA COINCIDENZA O UN COLPO BASSO? IL PARLAMENTARE “CATTIVO” DEL FILM SI CHIAMA FRAGALA', COME IL PARLAMENTARE DI AN CHE FECE FUOCO E FIAMME CONTRO IL PRECEDENTE FILM SU MORO DI MARTINELLI (PIAZZA DELLE CINQUE LUNE)

Maurizio Gallo per Il Tempo

Una «vendetta», un’«offesa voluta e dolosa», che ha come obiettivo diffamare un parlamentare tragicamente scomparso sei anni fa. Il film su Ustica di Renzo Martinelli ha colpito una famiglia già distrutta dal dolore, quello per la perdita di Enzo Fragalà, ucciso a Palermo nel 2010 in circostanze ancora da chiarire. Potrebbe essere una semplice coincidenza, un’omonimia casuale.

ustica ustica
Ma la figlia Marzia, 36 anni, madre di due bambine e anche lei penalista come il padre, è convinta del contrario. «Siamo sconvolti, non ci aspettavamo un colpo del genere - spiega al telefono - L’intenzione è chiaramente diffamatoria e stiamo preparando una diffida immediata sull’uscita del film e una querela per diffamazione».

La sua amarezza si estende ad alcuni ex colleghi del papà e al Governo: «Mio padre ha sempre ricercato la verità su Ustica e sosteneva l’ipotesi della bomba, ne parlavamo spesso a casa e ho il garage pieno di faldoni della commissione d’inchiesta - racconta - La cosa che mi stupisce di più è che, malgrado Martinelli ne abbia parlato in conferenza stampa, nessuno si sia indignato per quello che ha messo in bocca a mio padre».

Marzia Fragalà non pensa che il riferimento sia stato involontario: «Sono certa del dolo, il nostro nome non è così comune e poi rammento ancora la querelle che ci fu in merito al film di Martinelli su Moro - precisa - Il regista sosteneva che mio papà non voleva conoscere la verità solo perché aveva criticato la ricostruzione della vicenda. Ora fa dire al personaggio delle frasi vergognose. E noi prepariamo la querela».

enzo fragala enzo fragala
Rincara la dose Giovanni Pellegrino, ex presidente della Commissione parlamentare stragi tra il ’94 e il 2001, nello stesso «settennato» di Fragalà: «Assolutamente no - è la sua risposta - Fragalà non ha mai ostacolato la ricerca della verità. Era uno dei membri più attenti e presenti della commissione. A lungo sposò la tesi del duello aereo e poi, con tutto il centrodestra, abbracciò quella della bomba a bordo».

Dopo la denuncia de Il Tempo, anche il mondo politico si è svegliato. Carlo Giovanardi, senatore di «Idea», sottolinea che il film «non si limita a riciclare ipotesi-spazzatura già fatte a pezzi nel processo penale», ma tira in ballo «un sedicente onorevole Fragalà che l'ignaro spettatore rischia di confondere con l’onorevole di Alleanza nazionale» e, quindi, «infanga la memoria di chi non si può più difendere».
RENZO MARTINELLI RENZO MARTINELLI

Sulla stessa linea, l’ex Ccd Eugenio Baresi, ex segretario della commissione: «È inaccettabile che si offenda la memoria e il lavoro di un parlamentare corretto e perbene». Maurizio Gasparri, vicepresidente del Senato, sospetta «una sorta di ritorsione postuma» contro «il mio amico Fragalà» che «ebbe modo di criticare il precedente film di Martinelli» e che «si è sempre battuto a 360 gradi per la verità in tanti campi, compreso quello di Ustica».

GIOVANARDI GIOVANARDI
Sorpreso anche Federico Mollicone, già consulente della commissione Stragi e Mitrokhin, vicinissimo a Fragalà: «Ci addolora vedere come il nome di Enzo venga usato per descrivere un rappresentante del governo depistatore e, addirittura, mandante di omicidi». Per l’ex forzista Ruggero Manca, «il cognome Fragalà dato al "cattivo" del film vuole essere una vendetta postuma» e «si è di fronte a una vicenda squallida, orribile e di ignobile gusto».

Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, spera «che Martinelli faccia al più presto chiarezza. Il suo silenzio non fa che accrescere il sospetto che questa "coincidenza politica" sia figlia delle critiche che Fragalà aveva rivolto al regista per il film su Moro». Gaetano Quagliariello (Idea), infine, parla di «una scelta poco edificante, che nessuna passata polemica tra il politico e il regista può giustificare».

 http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/tempo-fa-strage-film-martinelli-ustica-16-buoni-motivi-121690.htm


venerdì 25 marzo 2016

LA BENZINA E’ FINITA – GLI EREDI ROCKEFELLER ABBANDONANO IL PETROLIO CHE LI HA RESI UNA DELLE FAMIGLIE PIU’ RICCHE DI TUTTI I TEMPI – “I COMBUSTIBILI FOSSILI NON HANNO FUTURO” – SARA’ VERO, MA I CONSUMI DI GREGGIO CRESCONO DI ANNO IN ANNO Clamorose le critiche dei Rockefeller alla ExxonMobil, erede della compagnia di famiglia, accusata di «condotta moralmente riprovevole». Il colosso è oggetto di indagine per il sospetto che abbia mentito sugli effetti dei cambiamenti climatici…

Luigi Grassia per La Stampa

È la storia che volta pagina: la dinastia Rockefeller, nata dallo sfruttamento del petrolio, dà l’addio all’oro nero che li ha resi ricchi e a tutti gli altri combustibili fossili. Un fondo d’investimento gestito dai discendenti del magnate del petrolio John D. Rockefeller ha annunciato l’intenzione di uscire completamente dal settore del petrolio, del metano e del carbone. 

Il fondo ha anche criticato il colosso energetico statunitense ExxonMobil per «condotta moralmente riprovevole». La compagnia petrolifera è oggetto di indagine da parte del procuratore generale di New York per il sospetto che abbia mentito al pubblico e agli investitori, manipolando i risultati degli studi sugli effetti dei cambiamenti climatici. La Exxon Mobil è la maggiore fra le società petrolifere nate dalla Standard Oil creata da John D. Rockefeller. 

PETROLIO ROCKEFELLER PETROLIO ROCKEFELLER
La decisione del fondo segue una mossa analoga da parte del più grande Rockefeller Brothers Fund, che ha annunciato nel mese di settembre 2014 che si sarebbe gradualmente allontanato dagli investimenti nel settore. «Mentre la comunità internazionale lavora per eliminare l’uso di combustibili fossili, non ha molto senso - finanziariamente o eticamente - continuare a tenere gli investimenti in queste aziende», ha spiegato il fondo in un comunicato stampa. 

EXXON PETROLIO 1 EXXON PETROLIO 1
Il capostipite John D. Rockefeller è stato co-fondatore della Standard Oil nel 1870, che crebbe fino a diventare quasi monopolista dell’estrazione e della raffinazione del petrolio negli Stati Uniti. Il semi-monopolio andò incontro nel 1911 a una sentenza anti-trust della la Corte Suprema degli Stati Uniti a seguito della quale il gruppo si divise in 34 compagnie separate. Ma poi ci furono nuovi accorpamenti. L’attuale Exxon Mobil è erede della Standard of New Jersey (poi ribattezzata Esso, e successivamente Exxon) e della Standard of New York (poi ribattezzata Mobil). 
ROCKEFELLER CENTER NEW YORK ROCKEFELLER CENTER NEW YORK

Quanto al presunto tramonto dei combustibili fossili, molti analisti sostengono che sia inevitabile, e questo è di certo vero nel lunghissimo termine, ma per quanto riguarda il presente va notato che il consumo di petrolio nel mondo continua a crescere, anno dopo anno, e anche nel 2016 aumenterà e anche a un ritmo sostenuto, circa un milione di barili al giorno. La debolezza attuale del prezzo del barile si deve al fatto che in anni recenti la produzione è cresciuta ancora più della domanda, soprattutto grazie allo “shale oil” americano, ma non c’è mai stato un calo dei consumi. 

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/benzina-finita-eredi-rockefeller-abbandonano-petrolio-che-li-121354.htm

mercoledì 23 marzo 2016

FINANCIAL TELECOM - IL QUOTIDIANO INGLESE SI LANCIA IN UN ARTICOLO-SPIEGONE SUL CASO BOLLORÉ: AVEVA PERSO FIDUCIA IN PATUANO, VUOLE VENDERE TIM BRASIL E PUNTA A UN MEGA-GRUPPO CON ORANGE (VIDEO) - IL PREDONE BRETONE VORREBBE IBARRA (WIND) O OBERMANN (EX DEUTSCHE TELEKOM), MA IL GOVERNO GLI HA DETTO: NON ESAGERARE, PRENDI UN ITALIANO (CATTANEO) Intanto gli investitori attivisti stanno bussando alla porta di Vivendi, che è piena di cash dalle precedenti vendite: loro vogliono dividendi e riacquisto di azioni, e non gradiscono questa campagna d'Italia dagli esiti incerti. Ma Bolloré fa come gli pare, e finora non gli è andata male...

.IL PEZZONE DEL ''FINANCIAL TIMES'' SU BOLLORÉ E LA SITUAZIONE DI TELECOM ITALIA



3.TELECOM: FT, BOLLORÉ GUARDA A BRASILE E RUOLO ORANGE
vincent bollore dal financial times vincent bollore dal financial times
 (ANSA) - Che cosa ha in mente Vincent Bolloré per il futuro di Telecom Italia? Se lo chiede il Financial Times in un articolo che ipotizza quali potrebbero essere le prossime mosse di Vivendi e del suo maggiore azionista dopo l'addio di Marco Patuano, citando una persona vicina ai francesi secondo cui Vivendi aveva perso fiducia nella capacità di Patuano di elaborare "una strategia per cambiare la situazione" in Telecom Italia, che negli ultimi 20 anni "è andata indietro invece di crescere" e necessita di "enormi investimenti" in Italia, e in particolare per Tim Brasil.

"Alcuni banchieri - scrive il quotidiano della City - suggeriscono che l'intenzione di Bolloré potrebbe essere quella di scegliere un amministratore delegato che venda le attività brasiliane per liberare risorse", anche se il collasso dell'economia del Brasile rende la vendita una scelta più difficile. Il Financial Times, poi, non esclude un legame con Orange, concorrente francese di Telecom Italia. "Se Orange dovesse cercare di comprare Telecom Italia - è il ragionamento del Ft - "Bolloré diverrebbe un azionista forte del gruppo post-fusione guadagnando ulteriore influenza in Francia".


4.TELECOM SI AFFIDA A RECCHI E ASPETTA CATTANEO COME AD
Da “il Giornale

rene obermann con steve jobs rene obermann con steve jobs
Il presidente di Telecom Giuseppe Recchi scrive ai dipendenti. Una mail per spiegare il momento della società che è alla ricerca di un nuovo ad dopo le dimissioni di Marco Patuano. Dimissioni indotte e, certamente, sofferte nonostante la buonuscita da 6 milioni ma ai quali vanno aggiunti la liquidazione dei suoi 25 anni in Telecom e lo stipendio fino al termine del contratto.

maximo ibarra maximo ibarra
Anche Patuano ieri ha inviato un videomessaggio ai dipendenti per rivendicare il lavoro fatto: «Parliamo di una Tim in grande salute, che pensa all' innovazione». Ieri le deleghe dell' ad sono passate a Recchi che nel suo messaggio ha garantito che il nuovo ad che sarà prescelto «sarà un manager competente, capace e che soprattutto condividerà i valori e gli obiettivi che abbiamo voluto darci, che saranno sempre più ambiziosi».

Ieri mattina un rapido cda Telecom ha accettato all' unanimità le dimissioni di Patuano mentre nei prossimi giorni si riunirà il comitato nomine, composto da Arnaud de Puyfontaine, Stephan Roussel, Luca Marzotto, Denise Kingsmile e Davide Benello. Il comitato formulerà una raccomandazione non vincolante al cda, il quale poi definirà le modalità per la scelta del candidato. Secondo fonti autorevoli, il nome sarebbe quello di Flavio Cattaneo - oggi ad di Ntv - che deve però superare alcuni ostacoli legati al suo incarico.
flavio cattaneo flavio cattaneo

Tra gli altri candidati ci sarebbero René Obermann, ex ceo di Deutsche Telekom e il numero uno di Virgin Media, Tom Mockridge. Si era anche fatto il nome di Corrado Sciolla, presidente di Bt Global Services Europe e Maximo Ibarra di Wind ma entrambi hanno smentito.

marco patuano telecom italia marco patuano telecom italia
Tra i papabili, anche Luigi Gubitosi ex ad di Wind. Resta ora da vedere quale sarà il ruolo del presidente Giuseppe Recchi. L' interrogativo è se resterà con le attuali deleghe oppure se, più probabilmente, le aumenterà in un ruolo più esecutivo, come era stato quello di Franco Bernabè. Recchi ai dipendenti ha sottolineato gli obiettivi «con il perseguimento del piano industriale, massima attenzione al cliente, efficienza operativa e contenimento dei costi».

MOCKRIDGE MOCKRIDGE
Promessa che sarà difficile mantenere visto che il cambio dell' ad voluto dal primo socio di Telecom, Vivendi, rappresenta un fattore di discontinuità. Sulle strategie del patron della società francese, Vincent Bollorè si interrogano anche dall' estero. Il quotidiano britannico Financial Times ha bollato come «misteriose» le strategie dell' imprenditore francese su Telecom, mentre per Les Echos, sta «lanciando la campagna d' Italia». I nodi da chiarire restano. Il più importante riguarda la possibile cessione del Brasile che permetterebbe a Telecom di ridurre il suo pesante debito da 27 miliardi di euro.


luigi gubitosi con la moglie 

 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/financial-telecom-quotidiano-inglese-si-lancia-articolo-spiegone-121211.htm

domenica 20 marzo 2016

ECCO SMASCHERATE LE CAZZATE DI PITTIBULLO - L’ECONOMISTA (EX) RENZIANA VERONICA DE ROMANIS, SPOSA DI BINI SMAGHI, SVELA LE BALLE DEL GOVERNO: “MACCHÉ TAGLI DI 25 MILIARDI ALLA SPESA PUBBLICA: IL RENZI FA IL GIOCO DELLE TRE CARTE” La De Romanis ha smentito il premier, ricordando come il taglio di spesa non sia affatto di 25 miliardi di euro, ma addirittura inferiore ai 400 milioni. Per farlo ha utilizzato un documento dello stesso governo Renzi sulla legge di stabilità 2016, scritto dalla Ragioneria generale dello Stato… -

Fosca Bincher per “Libero quotidiano”

Matteo Renzi sostiene di avere utilizzato al massimo possibile le forbici della spending review, e di non avere più spazi a disposizione, perché nel solo 2016 avrebbe già tagliato la spesa pubblica di ben 25 miliardi.

VERONICA DE ROMANIS VERONICA DE ROMANIS
Come sempre il premier legge a modo suo cifre che spesso la realtà gli ributta in faccia, e lo fa sia per ragioni propagandistiche (Renzi è perennemente in campagna elettorale) che per la necessità di utilizzare la presunta buona pratica di fronte a quei cagnacci della commissione europea che non vogliono concedergli la flessibilità di finanza pubblica che ha chiesto. Di solito pochi fanno il controcanto alle sparate del premier italiano. La sorpresa è arrivata ieri da il Foglio.

VERONICA DE ROMANIS VERONICA DE ROMANIS
Perché a fare un puntuto contraddittorio a Renzi è stata una economista che è anche un' amica di famiglia, come Veronica De Romanis. Una economista di primissimo piano che è anche la consorte di Lorenzo Bini Smaghi, il banchiere che spesso viene annoverato in cima alla lista dei potenti renziani.

La De Romanis ha smentito il premier, ricordando come il taglio di spesa non sia affatto di 25 miliardi di euro, ma addirittura inferiore ai 400 milioni. Per farlo ha utilizzato un documento dello stesso governo Renzi sulla legge di stabilità 2016, scritto dalla Ragioneria generale dello Stato. Ecco quanto scrive la De Romanis: «I risparmi per 25 miliardi di euro realizzati nel 2016 - grazie a iniziative intraprese tra il 2014 e il 2015 e alla legge di Stabilità 2016 - hanno consentito di finanziare alcune delle misure a sostegno della crescita e dell' occupazione».
lorenzo bini smaghi con veronica de romanis nozze carrai lorenzo bini smaghi con veronica de romanis nozze carrai

I dettagli di queste misure non sono illustrati nella Nota, tuttavia una cosa è chiara: i tagli effettivi non possono essere 25 miliardi di euro dal momento che sono stati utilizzati per coprire incrementi di "altra" spesa pubblica. Per sapere a quanto ammontano i tagli "netti" per il 2016, anche in questo caso, bisogna andare sul sito del Mef. Nella tabella a pagina 4 del documento redatto dalla Ragioneria generale dello stato («La Manovra di Finanza Pubblica per il 2016-2018»), si evince che, per l' anno 2016, la cifra totale della «variazione netta delle spese» è pari a 360 milioni di euro, di cui 41 di spesa corrente e 319 di spesa in conto capitale».
VERONICA DE ROMANIS VERONICA DE ROMANIS

Da cosa deriva quella incredibile differenza? Da un particolare che Renzi omette nei suoi comizi: la spesa non è stata tagliata, ma semplicemente spostata da un capitolo all' altro. La De Romanis è perfino tenera nel sottolinearlo, parlando di «qualificazione della spesa», ossia di un migliore utilizzo delle risorse pubbliche.

Che però escono dalle casse dello Stato, finanziate dalle entrate, esattamente come avveniva prima. «Quello che emerge dai dati è che il governo», scrive la De Romanis, «più che tagliare la spesa pubblica, l' ha spostata da un capitolo a un altro: una linea destinata a proseguire con l' implementazione della riforma della pubblica amministrazione.
RENZI PADOAN RENZI PADOAN

Del resto, che questo sarebbe stato l' approccio seguìto lo aveva precisato lo stesso ministro della Funzione pubblica al momento della presentazione del ddl delega: «Non so quanti risparmi porterà la riforma della Pubblica Amministrazione e sono contenta di non saperlo perché l' impostazione non è di spending review: non siamo partiti dai risparmi».
Insomma, tagliare non sembra essere una priorità. Ma tagliare la spesa è l' unica via per crescere, spiega l' economista: l' opposto da quanto sostenuto dal premier italiano.

RENZI E PADOAN RENZI E PADOAN
Lei cita «i paesi che nell' ultimo quinquennio hanno tagliato la spesa pubblica come l' Inghilterra (dal 48,8 al 43 per cento), la Spagna (dal 46 al 43,3 per cento) o l' Irlanda (dal 47,2 al 35,9 per cento) crescono, rispettivamente, del 2,3 per cento, del 3,2 per cento e del 6,9 per cento. L' Italia, che nello stesso periodo ha incrementato la spesa pubblica dal 49,9 al 50,7 per cento, è ferma allo 0,8 per cento». Un de profundis per le politiche economiche dell' esecutivo. Che fa ancora più male perché nasce in casa. Ma che non è diverso dall' analisi di altri osservatori tecnici.

 http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/ecco-smascherate-cazzate-pittibullo-economista-ex-renziana-120957.htm

venerdì 18 marzo 2016

IL CASO VATILEAKS S’ARRICCHISCE DI UN COLPO DI SCENA DA SPY STORY INTERNAZIONALE 2. TRA DICEMBRE 2014 E GENNAIO 2015, MONSIGNOR VALLEJO BALDA E’ ANDATO, PER TRE GIORNI, IN VIAGGIO A DUBAI, IN COMPAGNIA DELL’EX COLONNELLO DEI ROS GIUSEPPE DE DONNO 3. PER LA GENDARMERIA VATICANA, IL MONSIGNORE CONSEGNÒ AGLI UOMINI DEI SERVIZI SEGRETI CINESI I TEST CLINICI DEL PAPA (CHE IN REALTÀ ERANO ANALISI DELLA MADRE DI BALDA) 4. PERCHÉ IL RELIGIOSO HA MESSO IN PIEDI QUELLA MESSINSCENA? AVEVA BISOGNO DI ACCREDITARSI CON I CINESI? VOLEVA AVERE QUALCOSA DA LORO? COSA SPERAVA DI OTTENERE? 5. FITTIPALDI CONTRO LA SANTA SEDE: "È VERGOGNOSO CHE ABBIANO PORTATO A PROCESSO DUE GIORNALISTI BASANDOSI SULLE DICHIARAZIONI DI UN SOGGETTO CAPACE DI TUTTO”

Fabio Tonacci per “la Repubblica”
Il Capitano dei Carabinieri De Donno Caso Totò Riina Il Capitano dei Carabinieri De Donno Caso Totò Riina

Un misterioso viaggio a Dubai di Lucio Vallejo Balda complica, se possibile, il già complicato caso Vatileaks. Perché quel viaggio lo fece in compagnia dell’ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, tuttora sotto processo per la trattativa Stato-Mafia. E perché negli Emirati arabi il monsignore avrebbe consegnato ai servizi segreti cinesi la cartella clinica di Papa Francesco. Falsa, per giunta. In realtà erano le analisi della madre di Balda.

monsignor vallejo balda con tuta mimetica monsignor vallejo balda con tuta mimetica
C’è un po’ di Totò e Peppino e un po’ di James Bond, in questa storia che emerge dagli atti del processo in cui sono imputati, oltre al prelato e a Francesca Chaouqui, i due giornalisti Fittipaldi e Nuzzi. Ma la Gendarmeria vaticana considera le circostanze, scoperte grazie all’analisi informatica del telefonino e del pc di Balda, un affare serio. Meritevole di un approfondimento di indagine.

monsignor vallejo balda 8 monsignor vallejo balda 8
E dunque, i fatti. Nel settembre scorso i gendarmi, che già stavano indagando sull’allora segretario della commissione vaticana sulle finanze della Santa Sede (Cosea), perquisiscono la sua abitazione e gli sequestrano cellulare e pc. Dentro ci trovano le chat di whatsapp con i giornalisti e la Chaouqui, le famose password di accesso al database della Cosea e due vecchie mail nel quale Balda parla con De Donno di un viaggio a Dubai da fare insieme. Sono inclusi anche i biglietti aerei. Ma c’è dell’altro. Scoprono i file dell’elettrocardiogramma e delle analisi del sangue della madre 82enne del monsignore, su cui era stata modificata l’intestazione: al posto del nome della signora, quello di Jorge Mario Bergoglio.
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«Siamo andati a Dubai insieme per tre giorni, mi pare a cavallo tra il dicembre 2014 e il gennaio 2015», conferma a Repubblica Giuseppe De Donno, che dopo essere uscito dall’Arma (ha fatto parte anche dei servizi segreti) è diventato amministratore delegato della “G-Risk”, un’agenzia di security e intelligence con sede a Roma. La società, guidata fino a poco tempo fa dall’ex capo del Sisde Mario Mori (anche lui sotto processo per la trattativa), in cui è stato assunto anche l’ex Br Valerio Morucci. «Conosco Balda da molti mesi, almeno dal 2014. Con lui ero in ottimi rapporti. È stata la Chaouqui a presentarmelo», racconta De Donno.
monsignor vallejo balda 6 monsignor vallejo balda 6

«Io dovevo andare a Dubai per lavoro, lui per incontrare persone legate all’associazione benefica “Messaggeri della Pace” a cui voleva chiedere dei finanziamenti o non so bene cosa. Il periodo coincideva, quindi abbiamo deciso di andare insieme, tutto qua. Il biglietto me lo sono pagato da solo, ovviamente». Di quei tre giorni a Dubai l’ex colonnello ha dei vaghi ricordi. «Balda girava con l’abito talare e un trolley. Mi sembrava molto rilassato, siamo stati a cena in albergo. Non sono stato con lui tutto il tempo, quindi non saprei dire con chi si è visto».

È durante quella breve permanenza negli Emirati, ipotizzano gli investigatori della Gendarmeria in base a una ricostruzione di intelligence per cui è stata chiesta anche la collaborazione ai servizi italiani, che Balda ha incontrato un “mister x”, uno 007 cinese cui avrebbe consegnato la finta cartella clinica di Papa Francesco. Le condizioni di salute del Pontefice sono probabilmente il segreto più gelosamente custodito dalla Santa Sede, dunque anche quello su cui si può scatenare l’appetito di qualsiasi apparato di intelligence estero.
FRANCESCA CHAOUQUI E VALLEJO BALDA FRANCESCA CHAOUQUI E VALLEJO BALDA

Perché Balda avrebbe deciso di mettere in piedi quella messinscena non è chiaro. Forse per accreditarsi con i cinesi, o forse per avere da loro qualcosa in cambio. «A me pare davvero inverosimile», sostiene De Donno. «Non mi ha dato l’idea di essere coinvolto in una tresca del genere. Era il primo viaggio che facevo in sua compagnia. Dopodiché, la mano sul fuoco non ce la metterei... non mi aspettavo nemmeno che girasse documenti confidenziali ai giornalisti».
MONSIGNOR VALLEJO BALDA MONSIGNOR VALLEJO BALDA

È ragionevole ritenere che in Vaticano sapessero del misterioso viaggio a Dubai di Balda, dei contatti con De Donno, e del presunto scambio con i cinesi, almeno dall’autunno scorso. L’arresto del prelato spagnolo e della Chaouqui risale a novembre, due mesi dopo la perquisizione e le perizie informatiche sul cellulare.

Eppure nelle contestazioni rivolte dal promotore di giustizia del Vaticano, di questa storia, non c’è traccia. «È vergognoso che la Santa Sede abbia portato a processo due giornalisti basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni di un soggetto capace di tutto», commenta Emiliano Fittipaldi. «Lo hanno utilizzato per denigrarci, nonostante conoscessero i suoi tentativi di contatto con i servizi esteri».

 http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/dicembre-2014-gennaio-2015-monsignor-vallejo-balda-andato-tre-120826.htm

martedì 8 marzo 2016

Quando eravamo ricchi, con la lira e l’inflazione a mille Scritto il ottobre 30, 2015 by lastella

Di libreidee.org
«Negli anni Ottanta, gli anni in cui l’Italia navigava nell’oro, quando eravamo il quarto paese più ricco del mondo, il tasso d’inflazione si aggirava mediamente attorno al 15% e raggiungeva picchi di oltre il 21%». Le famiglie spendevano e il risparmio medio dei nuclei familiare durante il periodo d’inflazione più alta superava il 25%: «Eravamo il primo paese al mondo per risparmio privato e le famiglie avevano ampia libertà di spesa», ricorda Vincenzo Bellisario. Oggi l’inflazione si aggira attorno allo 0%, e l’economia è alla canna del gas: «Le famiglie devono risparmiare su tutto, hanno scarsa libertà economica, abbiamo raggiunto e superato i livelli di consumo da fame del periodo della “grande depressione” e, nonostante ciò, la media attuale di risparmio privato è del 4% circa. E tutto va male». Secondo Bellisario, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi per contribuire alla democratizzazione della politica italiana contro lo strapotere dell’élite economica, «lo spettro dell’inflazione è una grande truffa, così come lo è stata e lo è purtroppo ancora oggi quella del debito pubblico, che altro non è se non l’indicatore che misura la ricchezza finanziaria del cittadini».
«Più lo Stato spende, più la popolazione si arricchisce», riassume Bellisario. Questo può provocare il “rischio” inflazione, cioè troppi soldi, a fronte di pochi prodotti? L’inflazione può essere facilmente contenuta, in tre modi: lo Stato spende di meno nel Nino Gallonicomparto pubblico, oppure spende di più per aumentare la produttività nel settore privato (l’inflazione non è mai un problema finché la produzione non si riduce in maniera troppo corposa), o ancora, lo Stato introduce una tassa temporanea, in modo da togliere di mezzo gli eventuali soldi in eccesso. «L’inflazione in realtà è un falso problema», insiste Bellisario. Idem il debito pubblico, agitato come spauracchio: come se lo Stato fosse una normale famiglia, nei guai con la banca (il che, nell’Eurozona, è esattamente la realtà: il governo può solo finanziarsi tassando a morte i cittadini e prendendo a prestito gli euro, a caro prezzo, mettendo all’asta i titoli di Stato). Come se ne esce? In un solo modo: recuperando la sovranità monetaria, come sottolinea l’economista Nino Galloni, altro esponente del Movimento Roosevelt.
Sulla mistificazione che vela la vera natura del debito pubblico, Bellisario lancia una provocazione: chiamiamolo “ricchezza nazionale”, così almeno la gente capisce di cosa di tratta veramente. «Invito tutti voi alla massima attenzione su questa precisa e personale proposta di modifica del termine “debito pubblico” in “ricchezza pubblica” o, molto più semplicemente, in “ricchezza dei cittadini”», scrive Bellisario sul blog del movimento. «Detto questo, immaginate che da domani tutti i vari Tg, le varie rubriche di approfondimento, giornali, Internet e quant’altro annunciassero che la “ricchezza dei cittadini” (quindi non più il “debito pubblico”, parola che spaventa la gente) è aumentata nell’ultimo anno di 100 miliardi di euro. Ecco, provate ad Giorgio Squinziimmaginare questo». Sarebbe una rivoluzione, ovviamente. Ma non partirà mai, almeno fino a quando l’oligarchia finanziaria centralizzata a Bruxelles continuerà a colonizzare partiti e fabbricare leader obbedienti.
Sotto il regime dell’euro, è praticamente impossibile raggiungere la piena occupazione, che in teoria sarebbe la ragione sociale dello Stato democratico. Serve un “futuro Nuovo Stato”, come lo chiama Bellisario: uno Stato «sovrano, con moneta sovrana e banca al 100% pubblica e direttamente sotto il controllo politico». Primo passo: «Inserire in Costituzione il principio della “piena occupazione”. E abrogare, nell’immediato, il “pareggio di bilancio”», che non è solo un obbrobrio, ma anche un delitto: «Se c’è crisi, se c’è disoccupazione – dice Galloni – puntare al pareggio di bilancio è un crimine». Uno Stato sovrano, dotato cioè di pieno potere di spesa, non avrebbe alcun problema ad «assumere immediatamente (senza se e senza ma) tutte le persone che attualmente collaborano precariamente per conto dello Stato in ogni settore della pubblica amministrazione». E inoltre «istituirebbe bandi di concorso in ogni settore per il numero che ritiene giusto, per far sì che ogni comparto possa operare a pieno organico e nella maniera più efficiente e rapida possibile». Nulla di tutto ciò è all’orizzonte, naturalmente. «Stiamo morendo di fisco», disse a Torino già nel 2012 il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Gli imprenditori sono disposti a rinunciare a tutti gli incentivi in cambio di una riduzione della pressione fiscale a carico di imprese e famiglie».
L’eventuale futuro “Nuovo Stato” italiano, auspicato dal Movimento Roosevelt, baserebbe le sue entrate fiscali su due sole aliquote, il 20% per i redditi fino ai 100.000 euro e il 23% per i redditi superiori. Altre eventuali tasse solo per «tutti coloro che investono nei beni di lusso, che creano principalmente benessere personale e non collettivo». Motivo: «Tassandola, si incoraggia la persona benestante a spendere e investire di più nei cosiddetti beni quotidiani, in modo da far girare meglio l’economia reale. Questo inciderebbe positivamente sulla costruzione di nuovi posti di lavoro». A questo punto, aggiunge ChurchillBellisario, è giusto ricordare cosa rappresentano le tasse in un paese libero, cioè sovrano, «concetto spiegato in maniera impeccabile dalla Mosler Economic, o Modern Money Theory, portata in Italia dal giornalista Paolo Barnard grazie al suo lavoro, che ho sempre senza mezzi termini definito “ai limiti dell’umano”».
Se uno Stato è libero di emettere moneta in quantità teoricamente illimitata per il benessere della comunità nazionale, non rinuncia in ogni caso al prelievo fiscale. Perché le tasse, all’interno di un “contesto sovrano”, vengono utilizzate per quattro precisi scopi. Primo: tenere a freno la ricchezza dei privati e quindi il loro strapotere. Secondo: evitare l’eccesso di inflazione. Terzo: scoraggiare o incoraggiare comportamenti (si tassa l’alcool, il fumo o l’inquinamento, mentre ad esempio si detassano le beneficenze, le ristrutturazioni). Quarto: imporre ai cittadini l’uso della moneta sovrana dello Stato dove  si vive. Tutrto questo, ovviamente, in un paese libero. Non nell’Eurozona, dove lo Stato è ridotto a super-tassare per sovravvivere. Scavandosi la fossa, come diceva – in tempi non sospetti – un certo Winston Churchill: «Una nazione che si tassa nella speranza di diventare prospera è come un uomo in piedi in un secchio che cerca di sollevarsi tirando il manico».
DA libreidee.org

 http://lastella.altervista.org/quando-eravamo-ricchi-con-la-lira-e-linflazione-a-mille/

lunedì 7 marzo 2016

ITALIA IN (S)VENDITA - L’ENI TRATTA LA CESSIONE DELLA CONTROLLATA “VERSALIS”, COLOSSO DELLA CHIMICA TRICOLORE CON OTTO STABILIMENTI E 5.200 DIPENDENTI. L’ACQUIRENTE SAREBBE IL FONDO USA DI PRIVATE EQUITY “SK CAPITAL” (SCARONI C'E') - MA IL DEBITO DI 1,5 MILIARDI, CHI SE LO ACCOLLA? L’advisor di Sk Capital, Rothschild, ha ingaggiato come vice presidente proprio un italiano: l'ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni, sotto la cui ala protettrice è cresciuto l'attuale amministratore delegato del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi…

Stefano Vergine per “l’Espresso

VERSALIS VERSALIS
Vendere o svendere la chimica italiana? È il dilemma su cui si arrovellano in queste settimane gli analisti che seguono Eni. L'azienda di Stato vuole infatti cedere la sua controllata Versalis, che con 5.200 dipendenti, cinque centri di ricerca, 250 brevetti e otto stabilimenti sparsi per lo Stivale rappresenta buona parte dell' industria chimica tricolore.

A comprare potrebbe essere Sk Capital, fondo americano di private equity, che attraverso uno dei fondatori, Barry Siadat, ha ammesso di essere interessato. Contattata da "l' Espresso", Eni conferma di essere in trattativa con «un' unica società», selezionata attraverso «precise specifiche», ma non rivela né il nome dell' acquirente attualmente prescelto né quelli di altri candidati al momento scartati.
Descalzi Scaroni Descalzi Scaroni

Le condizioni di vendita sono però chiare. Il nuovo socio dovrà mantenere intatte le attività per almeno cinque anni, i livelli occupazionali per almeno tre, e confermare il piano di investimenti da 1,2 miliardi di euro. Sk Capital, che secondo le indiscrezioni punta al 70 per cento di Versalis, non sarebbe alla prima esperienza nel settore.

Il fondo possiede oggi quote rilevanti in otto aziende nel mondo, tutte del comparto chimico-farmaceutico, per un fatturato complessivo di 8 miliardi di dollari e novemila dipendenti. L' Eni e la società americana non hanno voluto fornire dettagli sulla trattativa esclusiva in corso. Di certo, Sk Capital gestisce 1,5 miliardi di dollari di capitale.
VERSALIS BIG VERSALIS BIG

Un dato utile per capire quanto può sborsare per Versalis. I fondi di private equity chiusi, in genere, non possono investire più di una certa percentuale del loro capitale in una singola società: un limite fissato per non esporre gli investitori a rischi eccessivi. Secondo quanto risulta a "l' Espresso", l' asticella per Sk Capital si ferma al 20 per cento. Significa non poter mettere sul piatto più di 300 milioni di dollari.

Paolo Scaroni Paolo Scaroni
Il problema è che Versalis costa molto di più: stando alle valutazioni emerse finora, il suo 70 per cento vale circa 1,2 miliardi di euro. Che fare, dunque? Le ipotesi sul tavolo, in teoria, sono due. O Eni si accolla il debito di Versalis - che a fine 2015 ammontava a circa 1,5 miliardi di euro - e vende il 70 per cento della sua controllata a Sk Capital, per una cifra che gli analisti stimano inferiore a 300 milioni di euro.

Oppure è la multinazionale italiana a dover pagare il fondo americano per prendersi Versalis con tutto il suo debito, al quale dovrebbero aggiungersi i finanziamenti bancari necessari per il piano d' investimenti da 1,2 miliardi. Eni e Sk Capital non hanno voluto fornire dettagli su questi aspetti.

Di sicuro, se l' operazione andrà in porto, Versalis si ritroverà con un nuovo azionista di controllo, non più un' azienda di Stato italiana ma un fondo americano. Che potrebbe scegliere di imboccare la strada più semplice per inseguire il proprio profitto: tagliare i costi, aumentare la produttività e, dopo i primi anni, vendere le attività più redditizie di Versalis.
descalzi descalzi

Scenari che rischiano di preoccupare non poco i lavoratori. Dei quali, in caso di perdita del posto, si dovrebbe far carico almeno per qualche tempo lo Stato italiano. Lo stesso che tramite Eni oggi sta per vendere Versalis. A guadagnarci, invece, sarebbe soprattutto Sk Capital.

E il suo advisor, Rothschild, che ha ingaggiato come vice presidente proprio un italiano: l' ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni, sotto la cui ala protettrice è cresciuto l' attuale amministratore delegato del Cane a sei zampe, Claudio Descalzi.

 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/italia-vendita-eni-tratta-cessione-controllata-120052.htm

UN CAFFE’ LUNGO (30 ANNI) - IL 18 MARZO 1986 MICHELE SINDONA VIENE CONDANNATO ALL’ERGASTOLO: QUATTRO GIORNI DOPO MUORE AVVELENATO DA UN CAFFE’ AL CIANURO BEVUTO IN CELLA: FU SUICIDIO O OMICIDIO? E SE VOLEVA TOGLIERSI LA VITA, CHI GLI FORNI’ IL VELENO? - Michele Sindona, uno degli uomini più enigmatici della storia d’Italia, morì dopo 53 ore di agonia, il 22 marzo 1986, portando nella tomba i suoi segreti. La sua vita spericolata tra mafia, politica, massoneria, Vaticano, omicidi, banche…

Leonardo Coen per il “Fatto quotidiano

MICHELE SINDONA MICHELE SINDONA
C' è un' istantanea che è come un film. L' ha scattata trent' anni fa un fotoreporter dell' Ansa, durante un' udienza del processo Ambrosoli, alla Corte d' Assise del tribunale di Milano. L' imputato Michele Sindona, accusato d' essere il mandante del killer che la notte dell' 11 luglio 1979 uccise a colpi di pistola l' avvocato Giorgio Ambrosoli - liquidatore della Banca Privata Italiana di Sindona - è inquadrato mentre sta sorseggiando una tazza di caffè.

Lo sguardo del sessantaseienne Sindona è vigile, punta verso l' obiettivo: anche in quel momento così banale, il sorso di un caffè, mantiene l' espressione attenta, guardinga. Anzi, in quegli occhi imperscrutabili come i suoi segreti, c' è un' irrispettosa sfida, quasi a riflettervi le parole con cui sintetizzava la propria "demonizzazione", ergendosi a vittima di interessi economici potenti.

MICHELE SINDONA MICHELE SINDONA
Una linea di difesa che non lo salverà dall' ergastolo, comminato il 18 marzo 1986: "Queste sentenze mi fanno ridere", disse a Enzo Biagi, "non ho paura di morire, attendo il trapasso con una serenità".

Quel giorno si chiudeva ingloriosamente la resistibile ascesa di un personaggio fumantino che si era aggirato nei meandri delle consorterie trasversali in cui convivevano, strettamente legati, i poteri occulti finanziari, politici, eversivi, criminali, piduistici.
E mafiosi. Guido Carli, governatore della Banca d' Italia, riconobbe a Sindona una "grandezza sinistra, ma indubbia".
COPERTINA LIBRO SINDONA COPERTINA LIBRO SINDONA

Era un outsider, dalle irrefrenabili ambizioni. far denaro con il denaro. Acquisì la sua prima banca nel 1960. Elargiva ingenti somme alla Dc in cambio di favori alla sua Banca Privata, anche quando era latitante (fu inseguito da mandati di cattura spiccati nel 1974 per false comunicazioni sociali, illegale ripartizioni degli utili, operazioni in cambi non riportate nella contabilità, e bancarotta fraudolenta per il fallimento della Privata).

Tra gennaio e marzo del 1979 scrisse otto lettere a Giulio Andreotti, perché intervenisse a suo favore sulle autorità americane per "scongiurare asserite ricadute politiche negative in caso di una sua incriminazione". Incombeva il crack della Franklyn National Bank e temeva l' arresto.

Nell' agosto 1979 mise in piedi un finto rapimento ad opera di un fantomatico "Gruppo proletario di eversione per una giustizia migliore" e sparì da New York. Fu aiutato da elementi di Cosa Nostra, alla quale aveva "commissionato" l' assassinio di Ambrosoli.

Giorgio Ambrosoli Giorgio Ambrosoli
Nel memoriale della Prima Repubblica, Sindona è sconcertante personaggio centrale di moltissime trame, da quelle di Licio Gelli a Roberto Calvi, dai cardinali dello Ior al "complesso politico-affaristico-giudiziario" (copyright Paolo Baffi, governatore della Banca d' Italia").

Nella foto dell' Ansa, Sindona è impeccabile, come ai tempi della sua ascesa finanziaria: ci teneva a palesare un aplomb di moderno manipolatore del quattrino e non vi rinunziò, nemmeno in galera. Eccolo, elegante nel completo blu scuro con gilet, dal taschino della giacca spunta un signorile fazzoletto bianco, candido come la camicia, mentre la cravatta è classica.

GELLI-CALVI-SINDONA-MARCINKUS GELLI-CALVI-SINDONA-MARCINKUS
Negli anni Sessanta l' abile fiscalista arrivato a Milano dalla siciliana Patti era diventato il fiduciario finanziario del Vaticano mentre negli Stati Uniti veniva considerato un brillante banchiere "creativo", tanto da poter acquisire la Franklin National Bank e vivere all' attico dell' esclusivo Pierre hotel, davanti al Central Park.

Il premier Giulio Andreotti gli aveva consegnato l' Oscar della Lira, per averla difesa dalla speculazione, e lui in quegli anni rampanti del miracolo economico esibì indubbie doti che sedussero nuovi e vecchi ricchi, politici e banchieri: "Ha dalla sua un' intelligenza svelta e versatile, la passione per l' azzardo, la smania di affermazione, la spregiudicatezza morale che occorrono per puntare in alto, non solo in Italia", sottolinea Marco Magnani, economista della Banca d' Italia nonché storico, nel suo recentissimo saggio (uscito per Einaudi). Intitolato Sindona. Biografia degli Anni Settanta.
CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS

E non a caso, la foto che illustra la copertina di questo bel libro è proprio quella di Sindona che sorseggia il caffè. Emblematica. E profetica. Giacché, due giorni dopo la sentenza del processo Ambrosoli, il finanziere berrà nella sua cella dentro al supercarcere di Voghera un altro caffè che si rivelerà fatale, perché "corretto" al cianuro di potassio.

Sindona muore dopo 53 ore di agonia, alle 14 e 10 del 22 marzo 1986, e porterà nella tomba i suoi segreti. Il decesso, scrissero i medici, avvenne per "arresto cardiaco". L' inchiesta giudiziaria imboccò subito la pista del suicidio, non credendo all' omicidio.

Michele Sindona Michele Sindona
Del resto più volte Sindona aveva accennato a questa clamorosa "uscita di scena", la "beffa" estrema… ed è l' ipotesi accreditata dagli ex magistrati Giuliano Turone (si occupò del processo Ambrosoli) e Gianni Simoni (fece l' inchiesta sulla morte di Sindona). L' indagine giudiziaria concluse che il finanziere si era tolto la vita.

Il giudice istruttore di Voghera archiviò il caso. Senza però stabilire come il cianuro fosse arrivato in cella, e chi glielo avesse dato, nonostante tutte le precauzioni, le telecamere sempre in funzione, i secondini a controllarne i movimenti. Ovviamente, nel paese dei complotti e dei misteri, non mancarono accanite contro argomentazioni. Ma perché ucciderlo?

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O obbligarlo a uccidersi? Cosa poteva sapere di così tanto pericoloso? Turone e Simoni optano per il suicidio, motivato forse dalla disperazione, perché i fraudolenti disegni di finanza criminale erano stati smascherati. Pure il "suicidio per dispetto", come disse Rino Formica (capo del gruppo parlamentare socialista) a Paolo Guzzanti il 22 marzo, potrebbe essere un movente psicologico verosimile.

Ma il cianuro? Chi gliel' aveva portato, in un supercarcere dove, come mi assicurò trent' anni fa il direttore Aldo Fabozzi, tutto era sotto controllo? La verità? C' è quella di un sacerdote, per esempio. Sindona aveva "l' idea del suicidio" ha detto ai giudici il cappellano don Giuseppe Baschiazzore, "tra Natale e Capodanno, invitandolo a fare la comunione, Sindona mi disse che non poteva, perché aveva la riserva mentale del suicidio e la confessione non sarebbe stata valida".
MICHELE SINDONA AL PROCESSO AMBROSOLI jpeg MICHELE SINDONA AL PROCESSO AMBROSOLI jpeg

La verità? Potrebbe stare "nel contesto emotivo": nasce, matura e si radica "nel pensiero della propria scomparsa, vista come affrancamento per i familiari, come divisione delle sorti infelici, ma anche come liberazione da quella 'vendetta trasversale' giustificata a suo avviso solo dalla sua presenza". Siamo al trionfo della psicopista. A guardare nelle enormi porcherie del Belpaese, ci vuole l' accomodante Freud.