sabato 27 agosto 2016

COME PAGARE MENO TASSE E GARANTIRE UN FUTURO SERENO AL PUPO - TUTTE LE SOLUZIONI ADOTTATE DAGLI AGNELLI, PIRELLI, BERLUSCONI, DE BENEDETTI, BOROLI (DE AGOSTINI), DEL VECCHIO, MORATTI, POLEGATO (GEOX) PER METTERE IN SICUREZZA LA RICCHEZZA DI FAMIGLIA - LA STRADA TRACCIATA DAI FORD: COMANDARE IN AZIENDA SENZA LA MAGGIORANZA

Stefano Cingolani per “Il Foglio

Giovanni Agnelli e famiglia Giovanni Agnelli e famiglia
Quando la società fece il suo debutto a Wall Street, il 17 gennaio 1956, nove anni dopo la morte di Henry Ford che aveva sempre rifiutato di quotarla in borsa (cioè di "metterla nelle mani degli speculatori ebrei") la già numerosa famiglia decise di riservare per sé una quota di azioni di "classe B" che incorporano uno speciale diritto pari a sedici voti per ogni cedola.

In termini assoluti il pacchetto oggi posseduto dai Ford è un' esigua minoranza (si stima circa il due per cento), però equivale al 40 per cento dei diritti di voto, quindi al controllo reale del gruppo multinazionale. Le azioni si pesano e non si contano soltanto. Per aver enunciato questo truismo, Enrico Cuccia è stato bollato come nemico numero uno della democrazia economica. In realtà, il conflitto tra peso specifico e quantità è vero sempre e ovunque, sia pure in forme diverse.

John Elkann con Gianni Agnelli allo stadio John Elkann con Gianni Agnelli allo stadio
Il modello Ford sembra aver conquistato anche gli eredi Agnelli. Il progetto nasce da lontano, ma è stato messo a punto nell' ultimo mese. Il 25 luglio John Elkann che il nonno, Gianni detto l' Avvocato, aveva cooptato al vertice della piramide, ha informato che dopo la Fiat Industrial, confluita nella Case New Holland, la Fiat -Chrysler e la Ferrari, emigrano in Olanda anche Exor, cioè la holding finanziaria dell' intero gruppo e la Giovanni Agnelli & C, società in accomandita per azioni, in breve la cassaforte di famiglia.

Exor diventa una spa olandese e l' altra una BV, Besloten Ven notschap, cioè l' equivalente di una nostrana srl, società a responsabilità limitata. Resta in Italia la Dicembre dei due fratelli John e Lapo Elkann, che detiene il 33 per cento della nuova BV. Intanto, la Giovanni Agnelli & C. cambia anche statuto. La nuova carta prevede che per l' approvazione di una delibera del consiglio di amministrazione su qualsiasi atto di vendita o trasferimento di azioni Exor, non sia più necessario avere almeno il 51 per cento del capitale.

henry ford henry ford
Dunque, perdere la maggioranza delle azioni non è tabù a patto di continuare a mantenere la maggioranza dei diritti di voto. Exor Nv adotterà in Olanda, dove ciò è consentito, un meccanismo speciale, attribuendo cinque diritti di voto per ogni azione posseduta da quei soci che deterranno le quote per almeno cinque anni; e 10 diritti di voto per chi le terrà più a lungo. Per vie diverse e più tortuose, insomma, si arriva allo stesso obiettivo dei Ford: il massimo del comando con il minimo esborso di denaro.

Gli Agnelli, a partire soprattutto dagli anni Settanta, hanno controllato la Fiat con un grande effetto leva: in media un euro di capitale proprio ogni 13 euro conferiti dagli azionisti di minoranza.

Ma non sono gli unici. Tutte le grandi famiglie del capitalismo italiano hanno fatto lo stesso attraverso una struttura talvolta barocca, riconducibile alle scatole cinesi. Le cose stanno cambiando? E come? Per capirlo gettiamo uno sguardo nei piani alti, anzi altissimi del potere economico, addirittura dentro i caveau più protetti e, talvolta, persino segreti. Sarà pur vero che non conta chi possiede il capitale e dove, eppure l' alfa e l' omega della società borghese, anzi di mercato, sta sempre lì, nelle relazioni di scambio tra liberi proprietari.
silvano boroli lap silvano boroli lap

La famiglia, o meglio le due famiglie (Boroli e Drago) che controllano il gruppo De Agostini, hanno seguito le orme degli Agnelli. Dieci anni fa hanno creato una spa dove raggruppare le azioni dei circa 40 parenti, ma nel momento in cui la vecchia casa editrice, resa famosa dagli atlanti, è diventata una multi nazionale diversificata tra giochi, tv, finanza, è stato necessario rivedere almeno altre due volte l' intero castello di carta.

L' ultimo rimescolamento, il più importante, è avvenuto un anno fa quando, per chi nella famiglia aveva quote nella holding De Agostini scadeva la possibilità di svincolare parte di questi titoli. A comprare le azioni è stata l' accomandita che già controlla la De Agostini con il 72 per cento: la B&D Holding, dove i discendenti di Giuliana Boroli Drago detengono il 34,6 per cento, il ramo di Anna Boroli Drago il 20, quello di Adolfo Boroli il 22,6 e quello di Achille Boroli il 22,69.
marco drago marco drago

Questa soluzione ha permesso di liquidare una parte delle azioni senza alterare il controllo del gruppo che nel frattempo ha cambiato indirizzo (sede a Londra, quotazione a Wall Street e sede operativa a Las Vegas) e mestiere. Dopo l' acquisizione dell' americana Igt, dai giochi proviene un fatturato di 4,2 miliardi di euro su un totale di 5 miliardi dell' intero gruppo, secondo i dati del 2015. La De Agostini, come la ex Fiat, ormai è l' appendice di una realtà industriale sempre più americana.

La proprietà della Pirelli, invece, è diventata cinese, anche se la vendita alla China National Chemical Corporation (ChemChina) posseduta dallo Stato, cioè dal Partito comunista, ha lasciato al vertice Marco Tronchetti Provera (vicepresidente operativo) fino al 2021 e la società resta in Italia, quotata alla borsa di Milano.

marco tronchetti provera e afef marco tronchetti provera e afef
Il controllo è in capo alla società Marco Polo, due terzi della quale è in mano a ChemChina e il resto a Tronchetti attraverso la finanziaria Camfin che condivide con i russi di Rosneft. La cassaforte di famiglia si chiama Mgpm e controlla la Mtp spa la quale possiede il 55 per cento di Nuove partecipazioni che, attraverso Coinv (dove sono presenti anche Banca Intesa e Unicredit) ha il 50 per cento di Camfin.

Finora la Mgpm era divisa equamente con i figli i figli Giada, Ilaria e Giovanni avuti con la seconda moglie Cecilia Pirelli, ma ai primi di luglio è entrata anche Afef Jnifen sposata nel 2001.

Tronchetti ha ceduto la nuda proprietà che a questo punto è divisa in quattro parti uguali, ma ha l' usufrutto vita natural durante. Il lungo addio alla Pirelli durerà ancora cinque anni, c' è tempo per trovare un nuovo nocciolo duro nel mondo degli affari.

E i Moratti amici, partner, soci di lunga data? Sono anch' essi al centro del triangolo con russi e cinesi. Tre anni fa la Angelo Moratti spa alla quale fa capo la Saras (la compagnia petrolifera di famiglia nella quale sono entrati i russi di Rosneft con il 20 per cento ) è stata divisa in due società: la prima fa capo a Gian Marco che guida le attività industriali, l' altra a Massimo alle prese con i colpi di coda della sua avventura calcistica finita con la vendita dell' Inter, sponsorizzata da Pirelli, prima all' indonesiano Tohir poi ai cinesi del Suning Commerce Group.
GIAN MARCO E MASSIMO MORATTI jpeg GIAN MARCO E MASSIMO MORATTI jpeg

I due fratelli non si sono separati, ma hanno viaggiato su strade parallele. Per la prima volta dal 2009 la Saras ha prodotto un dividendo fino a 90 milioni di euro diviso in parti uguali. La raffinazione, si sa, è ballerina.

L' incertezza sui mercati ha spinto un esponente della nuova generazione di capitalisti familiari a non cercare avventure. Mario Moretti Polegato, il patron di Geox, ha trasferito davanti al Duomo di Treviso la sede della sua spa, la Lir della quale sono azionisti anche la moglie Licia Balzano e il figlio Enrico, vicepresidente della società che oltre a Geox controlla anche Diadora.

MARIO MORETTI POLEGATO 2 MARIO MORETTI POLEGATO 2
"Avrei potuto andare a Milano, o meglio ancora a Londra - ha detto Moretti Polegato non senza polemica - Ma ho voluto dare un segnale al nostro territorio. Non andiamo via da qui".

Il vero dilemma non è geografico, bensì generazionale. Figli colpiti dalla sindrome dei Buddenbrook, figli ribelli e figli dilapidatori, figli innovatori e padri conservatori. Molti si sono arresi, come la famiglia Merloni. Vittorio che aveva portato l' azienda di elettrodomestici da Fabriano a Londra, si è spento nel giugno scorso, ma i suoi eredi due anni fa avevano già venduto la Indesit alla Whirlpool. Anche i Marzotto da tempo hanno lasciato il gruppo tessile, dilaniati da conflitti intestini.

L' elenco è lungo, noto e deprimente anche per i sacerdoti schumpeteriani della "distruzione creatrice": raramente è emerso, al passaggio di consegne, un nuovo capitalista -imprenditore.

carlo e giampiero pesenti carlo e giampiero pesenti
I Pesenti, da sempre consustanziali al cemento e a Bergamo, dopo aver cercato fortuna in Francia, hanno venduto Italcementi ai tedeschi di Heidelberg Cement perché questo oggi è un mestiere da giganti internazionali e da grandi opere mentre in Italia non si fanno nemmeno quelle piccole. Carlo, al quale il padre Giampiero ha lasciato il testimone, giura che si tratta di una metamorfosi non di un addio: continuerà a investire in Italia, sia pur da finanziere, attraverso il fondo Clessidra rimasto senza timoniere dopo la morte di Claudio Sposito.

Anche i Benetton hanno cambiato pelle: dai maglioncini agli autogrill, dall' industria ai servizi regolati come autostrade e aeroporti, da Ponzano Veneto agli Stati Uniti. Chiusa l' èra degli United Colors e del flamboyant Luciano, la guida è passata nelle mani di Gilberto.

Con il radicale cambiamento del core business anche la catena di controllo si era fatta lunga e tortuosa, un complicato reticolo che faceva capo a Ragione l' accomandita dei quattro fondatori: Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo. Dal 2009 la piramide è diventata via via più semplice e corta: Ragione ha assorbito le altre società cambiando nome e adottando quello di Edizione srl alla quale fanno capo le diverse attività con un giro d' affari che supera gli 11 miliardi di euro.
FAMIGLIA BENETTON FAMIGLIA BENETTON

I Benetton si sono affidati a manager di grande esperienza, come Gianni Mion e adesso hanno deciso di aprire all' esterno anche la cassaforte. La nuova governance prevede che Edizione abbia un consiglio di amministrazione formato non più da otto membri della famiglia, ma soltanto da quattro. Dei fondatori restano Gilberto e Carlo, Giuliana sarà rappresentata dalla secondogenita Franca e Luciano dal figlio Alessandro.
Gli altri quattro consiglieri sono manager di fiducia. Gilberto dice che prima o poi lascerà la presidenza a un esterno, perché "si apre un nuovo ciclo", magari insieme a un socio internazionale.

La cassaforte in casa Del Vecchio è chiusa a doppia mandata da Leonardo. Dopo il decennio segnato da un manager come Andrea Guerra, il fondatore ha ripreso in mano le redini, anche se molti dubitano che a 81 anni possa fare tutto da solo.

leonardo del vecchio leonardo del vecchio
Dopo l' uscita del figlio Claudio (ha imboccato la sua strada a New York comprando la Brooks Brothers), Del Vecchio deve ancora trovare due soluzioni, una per la catena della proprietà, l' altra per il comando in azienda. Negli anni Novanta il gruppo era controllato da due finanziarie: la Leonardo che deteneva il 56 per cento delle azioni e la Delfin con il 15 per cento nelle mani del delfino (nomen omen).

Restava incerta la posizione degli altri eredi avuti da mogli e compagne diverse. Il primo matrimonio con Luciana Negro è finito con un divorzio e tre figli: oltre a Claudio anche Marisa e Paola. Dalla seconda moglie Nicoletta Zampillo nasce Leonardo Maria. Ma anche questa relazione si scioglie in tribunale.

famiglia berlusconi famiglia berlusconi
Nella vita di Leonardo entra Sabina Grossi. Altri due figli, Luca e Clemente, con una separazione (niente nozze questa volta) quando torna in scena Nicoletta con la quale Leonardo si sposa di nuovo nel 2010. Per cambiare l' assetto proprietario, fonde in Delfin le due finanziarie al comando rafforzando così il proprio controllo. Ora pensa di costituire una fondazione divisa tra tutti i figli, restano irrisolti però i problemi legali legati alla quota legittima (un quarto spetta alla vedova).

Del Vecchio si trova di fronte al dilemma del capo carismatico che colpisce anche due altri grandi capitalisti italiani: Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti, gli eterni rivali. L' ex Cavaliere ha da tempo sistemato il pulviscolo di finanziarie dove aveva sparpagliato le sue proprietà.
marina berlusconi marina berlusconi

Oggi possiede il 61 per cento di Fininvest, il resto è diviso in parti praticamente uguali tra i figli, sia quelli di primo letto, Marina e Pier Silvio, sia i tre avuti con Veronica Lario: Barbara, Eleonora e Luigi. L' erede vera è Marina che si è conquistata i galloni sul campo per come ha rilanciato Mondadori e per la strenua difesa dell' azienda e del padre. L' ultima battaglia è ancora in corso, contro gli appetiti di Vincent Bolloré il quale, approfittando della grave crisi cardiaca di Berlusconi, ha svelato le sue mire su Mediaset.

Marina ha spinto fino all' ultimo per vendere il Milan dove Barbara ha cercato di svolgere un ruolo dirigenziale de facto. La malattia ha rimesso al centro il "consiglio di famiglia" con i cinque figli più Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Nicolò Ghedini. L' Economist (primo azionista John Elkann) dubita che Silvio resterà al comando, ma il settimanale britannico si è sbagliato spesso.
rodolfo carlo edoardo de benedetti con il paadre rodolfo carlo edoardo de benedetti con il paadre

Carlo De Benedetti ha trasferito a titolo gratuito ai tre figli Rodolfo, Marco e Edoardo, avuti dalla prima moglie, la Carlo De Benedetti & Figli spa alla quale fa capo il gruppo Cir e di conseguenza anche l' Espresso.

Al capofamiglia resta Romed, cassaforte non quotata che utilizza per le proprie operazioni finanziarie. A Rodolfo è andata la guida, non facile in questi anni di crisi (l' azienda energetica Sorgenia è finita in mano alle banche creditrici).

Ma la mossa a sorpresa di John Elkann ha rilanciato i De Benedetti. La fusione tra la Repubblica e la Stampa è stata gestita da Rodolfo che un tempo avrebbe voluto uscire dall' editoria. Eppure, sarà sempre CDB a tirare le fila, a pensionare e nominare i direttori, a determinare la linea politica. Ingegnere, finanziere, industriale, infine editore, il mestiere che più gli piace e, forse, più gli si addice.
violetta e bernardo caprotti violetta e bernardo caprotti

I figli saranno pure piezz' e core, ma per loro non c' è spazio nel futuro di Esselunga. La famiglia Caprotti è dilaniata da un conflitto tragico, mitologico persino. La lunga saga ha riempito le cronache giudiziarie. L' ultima puntata è che il novantenne Bernardo ha vinto un' altra causa contro i suoi rampolli Violetta e soprattutto Giuseppe allontanato nel 2005 dall' azienda di famiglia nella quale era amministratore delegato. Adesso si attende solo la Cassazione.

Il fondatore di Esselunga aveva tenuto per sé solo l' 8 per cento della proprietà assegnando il resto a una fiduciaria controllata in parti uguali dai due figli di primo letto più Marina nata dalla seconda moglie. Senonché, cinque anni fa Bernardo ci ripensa, annulla il contratto e poi annuncia che non lascerà l' azienda ai figli. Che fine farà la catena di supermercati che ha saputo tenere in scacco le Coop rosse e i giganti francesi alla Carrefour?

la famiglia di giorgio armani con la sorella rosanna e il nipote andrea camerana e le due nipoti silvana e roberta la famiglia di giorgio armani con la sorella rosanna e il nipote andrea camerana e le due nipoti silvana e roberta
Uno dei più importanti imprenditori italiani, Giorgio Armani, maestro di forbici e di stile, s' è interrogato per anni sulla sorte della sua azienda che non ha mai pensato di lasciare in famiglia, e non solo perché non ha figli. Ha respinto le mire della LVMH di Bernard Arnault che da tempo gli ronzava attorno.

E, giunto all' età di 82 anni, ha deciso di creare una fondazione alla quale affidare il futuro di un gruppo che produce oltre 2 miliardi e mezzo di euro. La più personale delle imprese, così, diventa istituzionale, il sarto di genio s' è ritagliato un capospalla un po' germanico. Forse non sarà il modello per tutte le occasioni, ma fa entrare aria fresca nel sistema italiano dove il mal sottile trasmesso da parenti serpenti e fratelli coltelli ha troppo spesso consumato il capitale.



 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/come-pagare-meno-tasse-garantire-futuro-sereno-pupo-tutte-130947.htm

venerdì 12 agosto 2016

JFK OMICIDIO DI UN PRESIDENTE


la domanda nasce spontanea a chi dava fastidio la politica del presidente?
una cosa è sicura 6 mesi prima della sua morte , il presidente in un discorso alla radio parlando delle società segrete,che potevano destabilizzare le libertà degli americani, dichiarava al popolo americano sue paure e chiedeva a loro di aiutarlo.

con la legge con il memorandum 11110 con cui toglieva alla federal reserve( banca privata ) , l autorizzazione di stampare dollari a debito per il popolo americano trasferendo al ministero del tesoro l autorità di stampare dollari senza signoreggio bancario ( debito pubblico).

questi 2 avvenimenti oltre il ritiro graduale delle forze armate dal vietnam, un disgelo della guerra fredda con l urss, di conseguenza un risparmio sulle spese militari ( risparmio sul bilancio statale)
per questo motivo l industria bellica cresciuta a dismisura nella seconda guerra mondiale , la mia , l esercito e tutte le lobby che facevano affari con le varie guerre fredde o calda create dagli usa nel dopo guerra, le banche proprietarie della federal reserve ( banca privata) che senza il signoreggio bancario ( tassa per stampare banconote) vedevano crollare il loro potere economico.

cominciano a vedere jfk come un ostacolo ai loschi affari , dunque cominciarono a pianificare  l omicidio del presidente , che aveva molte possibilità di essere rieletto e dimostrare nel secondo mandato che con la nuova politica ( nuova frontiera , avrebbe cambiato in positivo la vita del popolo americano senza più guerre in vietnam e la fine della guerra fredda assai costosa con l unione sovietica.

con l eliminazione del signoreggio bancario tramite la federal reserve  e di conseguenza di un drastico diminuzione del debito pubblico,e per cui meno tasse e più’ capitali per migliorare la vita del popolo americano.

i media collusi con le lobby non appoggiarono il presidente e il popolo non informato non capi’ lo scenario dei futuri cambiamenti positivi, e il 22/11/1963 con uccisione di jfk la dittatura ombra delle lobby militate ed economica con l appoggio di parti dell fbi e cia non solo tolse di mezzo un nemico ma , avviso chiunque altro presidente che se in futuro , qualcuno voleva emulare jfk avrebbe fatto una brutta fine ( colpirne uno per educarne 100)

il complotto del mantecatore


“Capitano Ultimo”, è tutto oro quello che luccica? Dettagli Pubblicato: 25 Agosto 2015

di Movimento Agende Rosse - 25 agosto 2015
Lo scorso venerdì 21 Agosto 2015 è stata resa nota l'esautorazione del “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio) dalle funzioni operative di coordinamento tra i vari reparti del Noe, il Nucleo Operativo Ecologico (di cui rimane comunque vice comandante, ma senza compiti operativi). Accanto alla notizia, giustamente denunciata, si sono affiancati elogi e difese ad honorem del colonnello De Caprio.
E' forse il caso, quindi, di ricordare alcuni episodi, dimenticati da alcuni giornalisti, che aiuteranno ad avere un'idea più completa del personaggio che deve la sua notorietà alla cattura di Totò Riina nel gennaio del 1993 e che venne consacrato come eroe da Mediaset, che gli dedicò ben tre fiction (e sembra ce ne sia una quarta in arrivo).
L'arresto di Totò Riina e la mancata perquisizione del “covo”.All’arresto del boss numero uno di Cosa Nostra fa da contraltare la ormai famosa mancata perquisizione del covo di Riina.
Dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993, i magistrati della procura di Palermo erano pronti a perquisire da cima a fondo il complesso abitativo di Via Bernini, nel quale si era nascosto per tanto tempo il boss, ma il capitano Sergio De Caprio, avallato dall'allora colonnello Mario Mori, li convinse ad aspettare, promettendo di contro una sorveglianza continuativa dello stabile. I magistrati accettarono la proposta ma quella sera stessa De Caprio diede l'ordine di sospendere la sorveglianza. Nulla riferì all'Autorità Giudiziaria, né in quel momento né per i successivi 15 giorni, quando Mario Mori comunicò ai magistrati la notizia, il 30 gennaio. A quel punto la procura, con l'aiuto della territoriale dei Carabinieri di Palermo (escludendo quindi, comprensibilmente, il Ros di Mori e De Caprio), si precipitò ad operare una perquisizione a tappeto di tutto il complesso di Via Bernini 52/54 ma, ovviamente, arrivò tardi: il covo era stato svuotato di ogni cosa di eventuale interesse investigativo dai sodali di Riina, che avevano potuto lavorare indisturbati.
Per questa storia, l'allora capitano De Caprio e il colonnello Mori, vennero iscritti nel registro degli indagati dall'Autorita Giudiziaria di Palermo per favoreggiamento aggravato. I pubblici ministeri dell'epoca, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, chiesero al Gip Vincenzina Massa l'archiviazione del procedimento per insufficienza di prove ma, quest'ultima, il 2 novembre 2004, impose l'imputazione coatta dei due ufficiali. I due pm, a quel punto, chiesero di essere esonerati dal rappresentare l'accusa contro Mori e De Caprio ma, non essendo stato possibile per il loro procuratore capo assecondarli, portarono il processo a conclusione, chiedendo, per entrambi gli imputati, l'assoluzione; fatti oggettivi che fanno risultare davvero poco credibili le accuse di “persecuzione giudiziaria” che il Capitano Ultimo ha sempre mosso nei confronti di Antonio Ingroia. "In aula, durante il dibattimento, non vedevo il pm Ingroia, ma Riina", disse Ultimo in una video-intervista trasmessa in occasione della consegna del premio “Atreju 2010”, durante la festa omonima dei giovani del partito del “Popolo delle Libertà”. [LiveSicilia.it, 10 settembre 2010]
Le condotte per le quali i due ufficiali vennero imputati di favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato Cosa nostra riassunte all'inizio della sentenza di assoluzione, furono:
- l'avere dato il 15.1.93 false assicurazioni ai magistrati della procura di Palermo che la casa di Salvatore Riina sarebbe rimasta sotto stretta osservazione, così ottenendo la dilazione della perquisizione che stava per essere effettuata lo stesso giorno;
- l'aver disposto, invece, la cessazione del servizio di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini n. 54 a far data da quello stesso pomeriggio;
- l'averne omessa la comunicazione all'autorità giudiziaria;
- l'aver, quindi, posto in essere un comportamento reiterato volto a rafforzare la convinzione che il servizio fosse ancora in corso, così inducendo intenzionalmente in errore i predetti magistrati ed i colleghi dei reparti territoriali dell'Arma dei carabinieri e, pertanto, agevolando gli uomini di “cosa nostra”, che svuotarono il covo di ogni cosa di eventuale interesse investigativo. [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
De Caprio, all'epoca, giustificò la scelta di non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto con la volontà di non “bruciare” il covo e la neo-collaborazione del pentito Baldassarre Di Maggio. Quest'ultimo, infatti, fu il pentito che, per primo, mise in relazione Riina con i fratelli Sansone, che abitavano in Via Bernini, e che permise quindi, secondo Mori e De Caprio, l'individuazione del covo. Bruciare covo e pentito avrebbe reso dunque inutile continuare le investigazioni sui Sansone, che avevano, secondo Ultimo, un alto interesse investigativo, al contrario del “covo”, dentro il quale – disse – non si sarebbe trovato comunque nulla di importante.  
Eppure, in merito all'argomento "salvaguardia del covo e del pentito", i giudici che lo assolsero fecero notare alcuni particolari:
“Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni - come da loro deposto in dibattimento all'udienza dell'11.7.05 - ricevettero da parte dell'allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest'ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico. Si recarono, quindi, immediatamente sui posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e, troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. "covo".
Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad "indiscrezioni" che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato.
Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che "un siciliano di nome Baldassarre" stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa [del 16.1.93, ndA] acquisito all'udienza del 9.1.06).” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Per di più due giorni dopo l'arresto, sul quotidiano La Stampa, usciva un articolo a firma di Francesco La Licata dal titolo “Tutti i segreti della cattura”, nel quale i lettori poterono leggere il suggestivo sottotitolo “Il covo bruciato” e un riferimento esplicito alla collaborazione di Balduccio Di Maggio, citato con nome e cognome. Tutto questo meno di 48 ore dopo la sospensione della videosorveglianza del complesso. [“Tutti i segreti della cattura”, Francesco La Licata, Corriere della Sera, 17 gennaio 1993]
I giudici quindi concludono: “non v'è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ornai "bruciato", essendo gli uomini di "cosa nostra" già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-DiMaggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione, ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l'interesse a sviare l'attenzione dei mass media dal vero obiettivo.”
Mentre sullo scarso interesse investigativo del covo, additato da Ultimo come uno dei motivi per ritardare la perquisizione, i giudici si espressero così:
“La posizione apicale del Riina, ai vertici dell'organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l'interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero.
Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall'organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato.
Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss.
Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Alla luce di quanto letto, oltre ad evidenziare le grandi perplessità che non possono fare a meno di emergere in merito alle scelte dei due ufficiali, non possiamo non sottolineare anche il superficiale operato di una procura che, certamente, non seguì in modo impeccabile le fasi di un'indagine così importante e delicata, affidandosi totalmente al Ros di Mori e De Caprio nonostante i motivi addotti dai due carabinieri per ritardare la perquisizione si fossero sgretolati dopo appena due giorni, viste le notizie che gli organi di stampa avevano diffuso circa il ruolo svolto da Balduccio Di Maggio e la localizzazione del covo, ormai bruciato (16 e 17 gennaio 1993), e vista la segnalazione dei Carabinieri di Corleone che informarono del rientro in paese della moglie e dei figli di Riina (16 gennaio 1993). Tutte le riunioni che si susseguirono tra il 16 gennaio e la fine del mese, infatti, avvennero sempre e solo tra l'Autorità Giudiziaria e la territoriale dell'Arma, avendo dato per scontato che, del complesso di Via Bernini, se ne stesse occupando il Ros. I magistrati, inoltre,  vennero a sapere del ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina che abitava con lui in via Bernini, ascoltarono – durante la riunione del 26 gennaio – alcuni ufficiali dell'Arma prospettare la avvenuta cessazione del servizio di sorveglianza, ed ebbero modo, il 27 gennaio, di visionare le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, constatandone l'interruzione il giorno dell'arresto di Riina. Eppure non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni.
La sentenza della 3^ sezione del Tribunale di Palermo del 20 febbraio 2006, che mise in luce le pecche operative dei due ufficiali, assolse alla fine Sergio De Caprio e Mario Mori dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
“Ad di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell'abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare "cosa nostra".
(…)
“L'omissione della comunicazione all'Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo "spazio di autonomia decisionale consentito" nell'ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive "varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo" delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero "raffreddati".
Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell'ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L'art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l'Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse. (…) Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all'insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell'affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Non è stato ritenuto, dunque, che le azioni poste in essere da De Caprio e Mori avessero l'obiettivo consapevole di favorire la mafia.
Infatti, conclude il Collegio giudicante, “non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata.”
Nessuna “ragione di Stato” dimostrata, nessun intento di favorire la mafia dimostrato, quindi solo un grande errore di valutazione.

La sparatoria di Terme Vigliatore.Un altro episodio meno noto al quale Sergio De Caprio (e non solo lui) dovrà dare, a nostro parere, una risposta più plausibile di quelle fornite nel 1993 e nel 2008 è la vicenda avvenuta a Terme Vigliatore, una cittadina in provincia di Messina, in cui il famoso Capitano Ultimo, il 6 aprile del 1993, sparò ad un ragazzo incensurato di 26 anni, tale Fortunato Imbesi. E fortunato fu davvero, visto che uno dei colpi esplosi dall'arma di De Caprio mancò la sua tempia di pochi centimetri.
Leggiamo la versione di Sergio De Caprio, raccontata in data 15 ottobre 2008 davanti ai magistrati della DDA di Messina nell'ambito delle indagini sui mandanti occulti dell'omicidio del giornalista Beppe Alfano:
“Quell'evento si svolse in maniera del tutto casuale e fu determinato dalla sproporzionata reazione del soggetto che poi scoprimmo essere del tutto privo di interesse investigativo. Ricordo che eravamo venuti a Messina per una normale riunione di coordinamento investigativo tra i vari reparti siciliani. Sulla via del ritorno, percorrendo la litoranea Messina-Palermo, in un tratto di strada ricadente nel comune di Terme Vigliatore, uno dei militari che era con me ritenne di individuare, in un soggetto a bordo di un fuoristrada nero, il latitante Aglieri. Fermammo il soggetto qualificandoci con i tesserini ma, ciononostante, questi – riuscendo a districarsi tra le nostre vetture che lo avevano in qualche modo circondato – riuscì a scappare. Una manovra tanto repentina e ingiustificata ci indusse a dare maggiore fondatezza alla nostra ipotesi poiché quel gesto appariva quello di un lucido criminale. L'inseguimento successivo, lungo i binari della ferrovia, confermò ulteriormente i nostri sospetti. Ritenemmo cioè che anche nell'ipotesi che non si trattasse di Aglieri doveva essere un soggetto che certamente aveva qualcosa da nascondere e che temeva fortemente di essere controllato. Solo alla fine, quando riuscimmo a vederlo bene in faccia, capimmo che non si trattava di Aglieri. Ricordo che il soggetto venne identificato. Posso dire che era di piccola statura ed esile e che si trattava di una persona giovane. All'epoca non mi risultava, né risultava al mio Ufficio, la presenza di Santapaola Benedetto nel territorio della provincia di Messina. Non sono mai stato incaricato di svolgere indagini in ordine alla cattura di Santapaola.”
Per questo episodio De Caprio venne iscritto nel registro degli indagati per tentato omicidio nei confronti di Fortunato Imbesi. Olindo Canali, il pubblico ministero, titolare delle indagini, allora in servizio alla procura di Barcellona Pozzo di Gotto, nonostante avesse verificato l'assoluta gravità del comportamento del militare (“Il fatto è che il cap. De Caprio, per colpa consistita in assoluta imperizia e negligenza, e quindi senza la minima valutazione delle circostanze di fatto, abbia deciso di vertere in una situazione legittimante l'uso delle armi. La colpa è indubbiamente grave se riferita ad un ufficiale dei CC impegnato in un reparto ed in operazioni in cui la capacità di rendersi perfettamente conto di quanto succede è segno di altissima professionalità e preparazione.”) e la totale illegittimità nell'uso dell'arma da fuoco, visto che il ragazzo stava scappando (“mancanza assoluta di elementi idonei a far ritenere all'ufficiale di pg di trovarsi in imminente pericolo tale da giustificare l'uso delle armi sia avuto riguardo alla putatività di tale esimente in quanto le dinamiche dell'intera azione erano tali da far ritenere che nessun pericolo poteva venire da una persona che inseguita da un'auto dei CC potesse nuocere alla incolumità degli stessi, a meno di voler ritenere che tale fuoristrada fosse dotata di sofisticati congegni per ora visti solo nelle avventure cinematografiche di qualche finto eroe dello schermo”), archiviò l'indagine perché il fatto (tentato omicidio colposo) non era e non è previsto dal Codice penale (“L'errore determinato da colpa renderebbe il fatto punibile ove il fatto stesso fosse previsto come colposo dal Codice penale. Trattandosi di tentativo, tuttavia, la fattispecie non appare punibile.”) [richiesta di archiviazione del pm Olindo Canali, 20 ottobre 1993.]
Ma per comprendere l'importanza dell'episodio è necessario ricostruire il quadro degli avvenimenti nei quali si inserì la sparatoria e, per fare ciò, dobbiamo riavvolgere il nastro di ventiquattro ore. Il 5 aprile 1993, il Ros di Messina, su delega di Olindo Canali che indagava sull'omicidio del giornalista Beppe Alfano , ascolta una conversazione intercettata con delle microspie ambientali posizionate all'interno di un locale di Terme Vigliatore, sito in Via Verdi. A parlare erano tre uomini, Domenico Orifici, Aurelio Salvo e tale “zio Filippo”. Lo “zio Filippo”, si chiarì in modo inequivocabile nell'arco dell'intercettazione di quel giorno, altri non era che il potentissimo boss latitante Benedetto “Nitto” Santapaola. Il maresciallo del Ros Giuseppe Scibilia avverte subito il suo comandante, il colonnello Mario Mori, in quel momento a Roma. Il giorno successivo Mori è di nuovo in Sicilia, più precisamente a Catania, ed è in quella giornata che avvengono, quasi contemporaneamente, due episodi singolari: uno è quello già raccontato della sparatoria a Fortunato Imbesi, l'altro è quello passato più sotto silenzio e cioè l'irruzione del Ros all'interno della villa di tale Mario Imbesi, che non era un omonimo del ventiseienne quasi ucciso da Ultimo ma il padre di questi, imprenditore abbastanza conosciuto nella provincia.
Ma perché parliamo di “episodi singolari”? D'altronde, dalle parole degli ufficiali del Ros, si sarebbe trattato, l'uno, di un “semplice” sbaglio di persona e, l'altro, di una perquisizione in una villa di un imprenditore. Ci espongono le “peculiarità” dei due casi i procuratori generali di Palermo Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, nella memoria depositata nell'ambito della richiesta di riapertura dibattimentale del processo di appello contro il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per il reato di favoreggiamento a Cosa Nostra: “(...) è stata svolta dalla Procura Generale una intensa attività di indagine integrativa articolatasi nell'interrogatorio di Imbesi Fortunato, dei familiari del medesimo, dei carabinieri del Ros operanti quel giorno, nella nuova audizione del maresciallo Scibilia, a seguito della quale è stata accertato che sia alla Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto che nel 1993 trattò la vicenda archiviandola, sia al Tribunale di Palermo che l'ha riesaminata in questo processo al fine di valutare la condotta dell'imputato Mori, è stata fornita una versione falsa degli avvenimenti, rappresentando false circostanze, omettendo di riferirne altre determinanti ed arrivando al punto di falsificare dei documenti.”
Secondo i due procuratori, infatti, “i militari del Ros che il 6 aprile operarono a Terme di Vigliatore non si trovavano in quel luogo causalmente mentre erano di ritorno da un incontro di lavoro a Messina, ma ricevettero lo specifico ordine di servizio di recarsi quel giorno, in quel luogo, perché si doveva eseguire una operazione di polizia effettuando una preventiva ricognizione del territorio”, tant'è che “alcuni dei militari operati furono fatti venire anche da Milano e da altre sedi”; di tale missione non solo fu tenuta all'oscuro la magistratura che aveva disposto le intercettazioni che avevano rivelato il luogo in cui il Santapaola conduceva la latitanza, ma persino il maresciallo Scibilia che aveva informato il giorno prima il colonnello Mori dal quale aveva avuto assicurazione che avrebbe provveduto”.
Inoltre, secondo le nuove prove raccolte dalla Procura generale, “il pomeriggio del 6 aprile i militari del Ros iniziarono l'operazione parcheggiando le autovetture dinanzi ad una villa posta a 50 metri di distanza dal locale nel quale il giorno precedente era stato intercettato il Santapaola ed invece di fare irruzione in quel locale, fecero una irruzione armata nella villa degli Imbesi; di tale irruzione armata, riferita da tutti i proprietari della villa e dai loro familiari, non fu fatta alcuna menzione negli atti ufficiali”.
Infatti, continua la memoria, “tutti i miliari del Ros risultanti dagli atti ufficiali e che quel giorno risultavano presenti hanno affermato di non avere partecipato a tale irruzione armata e di non sapere chi fossero gli uomini che l'avevano eseguita.”
Altro particolare inquietante si aggiunge al quadro quando si va a ripescare, tra le carte dell'aprile 1993, il verbale di perquisizione della villa – effettuato ai sensi dell'art. 41 TULPS – che “non indica il nome dei miliari operanti, che non è sottoscritto dalle persone che subirono la perquisizione, e che reca in calce la firma del carabiniere Pinuccio Calvi [anch'egli membro della squadra del Ros comandata da De Caprio, ndA], il quale ha dichiarato che la propria firma è stata falsificata.”
A seguito di tale irruzione, concludono i due procuratori, Benedetto Santapaola non fece più ritorno nel luogo dove era stato intercettato. [Memoria del P.G. illustrativa delle richieste di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del processo d'appello Mori-Obinu; Palermo, 26 settembre 2014]
Nello stesso momento dell'irruzione alla villa, a qualche chilometro di distanza, il giovane Imbesi, dopo essere uscito dalla villa del padre e alla guida della macchina di quest'ultimo, si imbatte nelle auto civetta (quindi non identificabili) dei Carabinieri del Ros di Sergio De Caprio, che gli intimano l'alt. Il ragazzo, figlio di un conosciuto imprenditore, spaventato da quegli uomini armati, non si ferma (i carabinieri diranno poi di essersi qualificati ma il ragazzo negherà con convinzione, dichiarando che non avrebbe avuto nessun motivo per non fermarsi, altrimenti). Parte l'inseguimento, durante il quale Sergio De Caprio spara più colpi contro la macchina del giovane, centrando, con uno dei proiettili, il parabrezza a pochi centimetri dallo specchietto retrovisore. Imbesi, a quel punto, cerca di uscire dalla macchina e finisce tra i rovi. Al sopraggiungere di alcune auto della Polizia di Stato i carabinieri del Ros si fermano e si fanno riconoscere. De Caprio, come abbiamo letto, spiegherà, tramite una semplice relazione di servizio (visto che, nonostante l'indagine per tentato omicidio e i processi “Mori-Obinu” e quello per l'omicidio Alfano, l'ufficiale venne interrogato in merito dalla procura soltanto quindici anni dopo, nell'ottobre 2008), di aver scambiato Imbesi per il latitante Pietro Aglieri. La Procura generale non è stata convinta della versione dell'ufficiale e per questo ha chiesto – ed ottenuto – l'acquisizione della documentazione fotografica riproducente sia le sembianze fisiche di Fortunato Imbesi dell'epoca, “al fine di dimostrare che non esisteva alcuna somiglianza fisica con Pietro Aglieri”, sia la situazione dei luoghi.
Ed anche sui motivi della presenza di Ultimo e dei suoi uomini nei pressi di Terme Vigliatore e sul loro non essere a conoscenza dell'intercettazione del giorno prima, nella quale si confermava la presenza di Santapaola nel locale di Domenico Orefici, i dubbi aumentano: la squadra di Ultimo aveva il compito di catturare i latitanti, il suo superiore era stato messo a conoscenza della presenza di Santapaola in un edificio di Terme Vigliatore e De Caprio si ritrova il giorno successivo, proprio a qualche decina di metri da quel'edificio, in maniera "casuale"?
E ancora, nello stesso momento in cui viene fatta irruzione nella villa di Mario Imbesi, a pochi chilometri di distanza viene inseguito il figlio Fortunato, entrambe le azioni ad opera del Ros. Una squadra non conosceva l'operato – simultaneo – dell'altra? Infine, secondo Ultimo, la sparatoria avvenne durante il rientro della sua squadra da Messina a Palermo. C'era una via molto comoda e veloce che univa Messina con il capoluogo di regione, cioè l'autostrada, e invece De Caprio scelse la litoranea. “A Capaci era saltata l'autostrada in aria, c'erano anche persone in giro, gentaglia come Brusca, Bagarella” spiegò Ultimo durante la sua escussione nel processo di appello Mori-Obinu, affermando che la litoranea era la strada che faceva quando era Tenente a Bagheria e andava a trovare in licenza i suoi genitori. “Una strada bellissima, la litoranea” disse. Ma la litoranea, come strada che collega direttamente Messina a Palermo, non esiste.
C'è l'autostrada, che all'epoca, da Messina si fermava nei pressi di Sant'Agata di Militello per riprendere una cinquantina di chilometri dopo, vicino a Cefalù; c'è la statale che, per via del traffico che si può trovare nei tratti in cui attraversa centri abitati, consente, cercando di transitare anche dal tratto della litoranea che costeggia Terme Vigliatore (parte del quale peraltro è sterrato), di raggiungere Palermo – da Messina – in “sole” 6 ore e 37 minuti, contro le tre ore e mezza circa che ci volevano utilizzando l'autostrada e il pezzo di statale tra Sant’Agata di Militello e Cefalù (calcolo di Google Maps).
I suoi sottoposti, oltretutto, sentiti i primi mesi del 2015 nell'ambito del processo d'appello Mori – Obinu, non confermano totalmente le dichiarazioni di Ultimo: secondo l'ex carabiniere Roberto Longu, per esempio, la squadra si presentò a Terme Vigliatore per "osservare il territorio" data la possibile presenza, in quella zona, di un traffico di armi; per Giuseppe Mangano, (l'uomo che credette di riconoscere Pietro Aglieri in Fortunato Imbesi) invece, stavano percorrendo l'autostrada ma, ad un certo punto, De Caprio volle "fare una sosta".
Sono state tutte coincidenze? Sergio De Caprio ci dice di sì, le nuove indagini dei P.g. Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio ci suggeriscono che, probabilmente, le cose sono andate in modo diverso.

Ultimo, la trattativa e i familiari delle vittime di mafia che pretendono la verità.De Caprio non ha mai fatto mistero delle sue opinioni in merito all'ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia e a chi quell'ipotesi la sostiene.
Era il 19 luglio 2010 e diversi familiari di vittime di mafia, tra cui Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo) e Sonia Alfano (figlia del giornalista Beppe), parlano di Via D'Amelio come di una “strage di Stato”. Il commento di Ultimo non si fa attendere:
“Chi parla di stragi di Stato", con riferimento a quelle di Capaci e di via D'Amelio, «è un vile criminale» e lavora «per delegittimare lo Stato e legittimare Cosa Nostra. Lo Stato ha combattuto la mafia. E ha vinto». E, non soddisfatto, aggiunge: «Mi sembra che il patto tra mafia e pezzi dello Stato sia quello che stanno facendo adesso questi strani personaggi, portando avanti le tesi di Riina. I ragazzi devono invece sapere che lo Stato ha combattuto la mafia e ha vinto». «I servitori dello Stato hanno pagato prezzi altissimi e meritano rispetto». Secondo l'ufficiale dell'Arma, «bisogna riflettere su criminalità e giustizia e capire se c'è una giustizia criminale che aiuta Riina e che invece combatte quelli che hanno combattuto Riina». Una «giustizia criminale», alla quale Ultimo fa riferimento anche a proposito della recente sentenza che ha condannato a 14 anni di reclusione per droga il generale Giampaolo Ganzer, comandante dei carabinieri del Ros [la pena venne ridotta a 4 anni e 11 mesi in appello, il 13 dicembre 2013, ndA]. «Come ha detto lo stesso generale comandante, le sentenze si rispettano: e infatti noi "soldati straccioni" la rispettiamo, come la sentenza che ha condannato a morte Gesù. Ma anche lì il problema è riflettere tra criminalità e giustizia, individuare la "giustizia criminale" e combatterla».” [Ansa, 19 luglio 2010]
E non lesina critiche e invettive nemmeno alla trasmissione “Servizio Pubblico” e al magistrato Alfonso Sabella, rei di aver parlato della trattativa Stato-mafia in prima serata:
“(...) Questa della trattativa, dunque, è solo una pagliacciata, un bel business giornalistico giudiziario che delegittima lo Stato e legittima cosa nostra e che fa ridere solo Salvatore Riina”. Parlando poi della trasmissione Anno Zero, l'ufficiale dei carabinieri aggiunge: “l'unico che mi sembra veramente manovrato da cosa nostra è il dottor Sabella, per quello che dice nel programma contro il Ros e contro il valoroso generale Mori. Ed è incredibile che svolga funzioni nella magistratura: evidentemente gode di appoggi molto importanti» [Ansa, 25 novembre 2010]
Che la trattativa sia solo una pagliacciata è una valutazione smentita da voci più che autorevoli
"Ricordo che mio marito mi disse testualmente che 'c'era un colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato'. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992". [Agnese Borsellino, verbale S.I.T, 27 gennaio 2010, Procura di Caltanissetta].
"Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di “trattativa”, “dialogo”, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di “cosa nostra” per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata."
[Sentenza Corte D'Assise di Firenze, 6-6-1998, Processo "Stragi 1993"]
Buoni o cattivi.Molto spesso, anche grazie alla collaborazione di una certa stampa che tende a banalizzare e semplificare ogni questione, riducendo ogni evento, persona o comportamento ad una guerra tra buoni e cattivi, le persone tendono ad identificare i protagonisti di certi eventi di dominio pubblico come eroi o delinquenti. Ma la realtà è ben più complessa e, per comprenderla e, quando serve,  cambiarla, è necessaria una certa laicità di pensiero nella raccolta e nella lettura dei fatti.
Il colonnello Sergio De Caprio, dipinto da molti come un eroe, ha però diverse ombre che non ha mai davvero chiarito, trincerandosi dietro giustificazioni improbabili che rasentano, a tratti, un'offesa all'intelligenza.
La realtà, infatti, è ben diversa da una fiction di Mediaset.
Movimento delle Agende Rosse
Tratto da: 19luglio1992.com
http://www.antimafiaduemila.com/home/di-la-tua/239-parla/56572-capitano-ultimo-e-tutto-oro-quello-che-luccica.html

giovedì 11 agosto 2016

I 231 ulivi che bloccano il gasdotto In Albania e Grecia ruspe per Tap ma in Puglia è ancora tutto fermo Per il Trans Adriatic Pipeline, parte terminale del corridoio meridionale del gas che attraverserà sei Paesi (per 3.500 chilometri), la prima mossa prevista è quella dello spostamento degli ulivi dall’area in cui arriverà l’oleodotto. Ma Emiliano non ci sta di Michelangelo Borrillo

In Grecia e Albania le ruspe sono già all’opera. Sulle sponde pugliesi, invece, si aspetta il via libera ai lavori preliminari, ovvero lo spostamento degli ulivi. Eppure il gasdotto è lo stesso: il Trans Adriatic Pipeline, parte terminale del corridoio meridionale del gas che attraverserà sei Paesi (per 3.500 chilometri) dal Mar Caspio al Salento attraverso Scp (South Caucasus Pipeline), Tanap (Trans Anatolian Pipeline) e, appunto, Tap. Sul litorale di San Foca, comune di Melendugno in provincia di Lecce, la prima mossa prevista è quella dello spostamento degli ulivi dall’area in cui arriverà il gasdotto: 231 in una prima fase, ulteriori 1.300 successivamente. La prima scadenza è già passata: lo spostamento delle piante va fatto da novembre ad aprile, perché da maggio a fine ottobre gli ulivi in stato vegetativo potrebbero non sopravvivere al reimpianto. E se lo scorso 30 aprile è ormai lontano, il 1° novembre è sempre più vicino. 
Il pressing del governo
Il governo, però, non vuole andare oltre: all’assemblea di Confindustria dello scorso 26 maggio il neo ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda pensava proprio a ulivi e Tap quando sottolineò che «non si può affrontare così la competizione internazionale». Eppure sono passati più di 3 mesi da fine aprile ma la prescrizione A44 (quella, delle 66 previste, che fa riferimento al ripristino ambientale) di fatto blocca i lavori preliminari. L’ok alla A44 deve arrivare dalla Regione Puglia, ente vigilante. Ma il semaforo, ad oggi, anziché verde è arancione: per la Regione guidata da Michele Emiliano la prescrizione è solo parzialmente ottemperata. Gli ostacoli sono (per la Regione) o erano (per Tap) tre: il no del Comune di Melendugno, alcune osservazioni dei Vigili del Fuoco e il divieto di movimentazione degli ulivi nelle zone della Xylella. Su quest’ultimo punto ha fatto chiarezza il ministero dell’Agricoltura; sulle osservazioni dei Vigili del Fuoco quello dell’Ambiente (riguardano alberi ad alto fusto); il no del Comune di Melendugno arriva da un ente coinvolto e non vigilante. «È la Regione che deve darci una risposta — spiega Michele Elia, ex ad Fs e oggi country manager Tap — che però ancora non arriva: non possiamo rimanere nel limbo». Ma l’ultimo atto di Emiliano su Tap è stato l’invio a Calenda dell’istanza di revoca in autotutela del titolo autorizzativo. Non proprio un via libera.

http://www.corriere.it/economia/16_agosto_10/i-231-ulivi-che-bloccano-gasdotto-albania-grecia-ruspe-tap-ma-puglia-ancora-tutto-fermo-d4d68450-5f2e-11e6-bfed-33aa6b5e1635.shtml

mercoledì 10 agosto 2016

Caso Moro, nuovo colpo di scena: il pg accusa di concorso in omicidio il superconsulente Usa di Cossiga "Gravi indizi contro di lui": il procuratore generale chiede ai pm di procedere contro Steve Pieczenik, nel 1978 funzionario del Dipartimento di Stato inviato a Roma per 'gestire' la crisi aperta dal sequestro del presidente della Dc da parte delle Brigate rosse. Accuse anche a un ex ufficiale del Sismi deceduto. "In via Fani servizi segreti italiani e stranieri"

ROMA  - La storia infinita del caso Moro si arricchisce di un nuovo colpo di scena. Il procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, ha chiesto alla procura della repubblica di procedere formalmente a carico di Steve Pieczenik, funzionario del Dipartimento di Stato Usa ai tempi del sequestro, in quanto vi sarebbero "gravi indizi circa un suo concorso nell'omicidio" del presidente della Democrazia cristiana. Pieczenik, 'inviato' informale del governo americano, era il superconsulente Usa del governo di Gulio Andreotti e soprattutto del ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, per la gestione della crisi aperta dal sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.

Pieczenik è sempre stato uno dei grandi misteri della vicenda. Psichiatra, esperto di terrorismo, lauree alla Cornelle e ad Harvard e specializzato al Mit, nella sua inquietante ambiguità è spesso stato considerato dagli storici il 'commissario straordinario' inviato dagli Usa per conto del blocco atlantico e dell'Occidente intero per gestire quella crisi in sostituzione - più che in appoggio - del governo italiano. Nel 2008, in un libro-intervista pubblicato a trent'anni dagli avvenimenti, Pieczenik ruppe il silenzio, dichiarando apertamente di aver portato avanti un piano di "manipolazione strategica" perché si arrivasse all'uccisione di Aldo Moro, obiettivo irrinunciabile nel contesto della 'stabilizzazione' dell'Italia, unico paese dell'Occidente dove un partito comunista stava per avere accesso al governo. "Fino alla fine ho avuto paura che lo liberassero", aggiunse Pieczenik.

La sua 'confessione', tradotta anche in Italia, passò all'epoca quasi inosservata, ma a quanto pare la magistratura italiana avrebbe chiesto spiegazioni al Dipartimento di Stato Usa sul ruolo dell'ex funzionario e l'amministrazione Obama avrebbe aperto un'inchiesta sul caso.

Le presunte responsabilità di Pieczenik vengono messe in luce dal procuratore generale della corte d'appello nella richiesta di archiviazione, inoltrata ieri al gip del tribunale di Roma, dell'inchiesta sulle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia Enrico Rossi che aveva ipotizzato la presenza di agenti dei Servizi, a bordo di una moto Honda, in via Fani, a Roma, la mattina dell'agguato in cui venne uccisa la scorta di Moro e fu rapito lo statista.

Il pg ha quindi disposto la trasmissione della richiesta di archiviazione - un documento di cento pagine - al procuratore della Repubblica di Roma perché però "proceda nei confronti di Steve Pieczenik in ordine al reato di concorso nell'omicidio di Aldo Moro, commesso in Roma il 9 maggio 1978". La procura generale di Roma sottolinea che "sono emersi indizi gravi circa un suo concorso nell'omicidio, fatto apparire, per atti concludenti, integranti ipotesi di istigazione, lo sbocco necessario e ineludibile, per le BR, dell'operazione militare attuata in via Fani, il 16 marzo 1978, ovvero, comunque, di rafforzamento del proposito criminoso, se già maturato dalle stesse BR".

Ma quello su Pieczenik non è il solo colpo di scena incluso del documento inviato dal pg alla procura del tribunale. Secondo Luigi Ciampoli, anche un ufficiale del Sismi, il servizio segreto militare dell'epoca, il colonnello Camillo Guglielmi, avrebbe dovuto essere indagato con l'accusa più grave di concorso nel rapimento di Moro e nell'uccisione della sua scorta. Ma nei suo confronti, rileva il Pg, non si può promuovere l'azione penale perché è morto. Guglielmi era finito nelle inchieste sulla strage perché non aveva dato spiegazioni ritenute plausibili dai magistrati sulla presenza in via Fani al momento in cui scattò l'agguato delle Brigate rosse.

"L'uccisione di Aldo Moro non fu un omicidio legato solo alle Brigate Rosse. Sul palcoscenico di via Fani c'erano i nostri servizi segreti e quelli di altri Paesi stranieri interessati a creare caos in Italia". Lo ha detto il procuratore generale presso la corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli, sentito dalla commissione parlamentare d'inchiesta sul rapimento dell'ex presidente ella Dc, avvenuto il 16 marzo del 1978.

Ciampoli, ascoltato in audizione dalla commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Moro, ha detto poi che "l'uccisione di Aldo Moro non fu un omicidio legato solo alle Brigate Rosse. Sul palcoscenico di via Fani c'erano i nostri servizi segreti e quelli di altri Paesi stranieri interessati a creare caos in Italia". Quanto al ruolo di Pieczenik, Ciampoli ha spiegato: "Abbiamo chiesto alla Procura di Roma di approfondire ai fini della configurazione di un reato la posizione di Steve Pieczenik che riteniamo possa essere l'ispiratore dell'omicidio di Aldo Moro. La sua autoreferenzialità era esasperata e quasi schizofrenica - ha detto il pg - perché lui in una intervista a Giovanni Minoli su Rai Storia raccontò che
Moro doveva morire perché in questo modo si sarebbero destabilizzate le Brigate Rosse. Noi abbiamo acquisito il cd di quell'intervista televisiva e tutto il girato completo e siamo convinti - ha concluso Ciampoli - che la sua posizione meriti un approfondimento da parte della Procura".

http://www.repubblica.it/politica/2014/11/12/news/caso_moro_accusa_di_omicidio_a_superconsulente_usa-100381454/