giovedì 14 dicembre 2017

L’EUROPA SARA’ ANCHE PERFIDA MA NOI SIAMO COGLIONAZZI - L’ITALIA E’ RIUSCITA A SPENDERE SOLO 2,4 MILIARDI DEI 42,6 CHE L’UE CI HA DATO PER LE AREE PIU’ DEBOLI - SIAMO IN RITARDO SUL FRONTE DELLA SPESA MA ANCHE SU QUELLO DELLA PROGRAMMAZIONE: ABBIAMO IMPEGNATO SOLO IL 37% DEI FONDI A DISPOSIZIONE

Antonio Troise per “il Giorno”


La storia si ripete. E, anche questa volta, la classifica che arriva da Bruxelles è impietosa: l' Italia continua ad essere il fanalino di coda nell' utilizzo dei fondi europei. Certo, non siamo proprio gli ultimi della lista. Ci sono almeno quattro paesi, sui 28 dell' Unione, che sono stati in grado di fare addirittura peggio di noi: Spagna, Romania, Irlanda, Austria.

Altri due, Croazia e Slovacchia hanno le stesse percentuali di spesa. Ma c' è poco da stare allegri. Perché i fondi comunitari sono strutturati, come si sa, per cicli di sette anni. L'ultimo è partito nel 2014 e si chiuderà inesorabilmente nel 2020. Oggi, insomma, siamo praticamente a metà strada.


E, nei primi 36 mesi, l'Italia è riuscita a spendere appena il 3% della montagna di soldi che l' Europa ha stanziato per le aree più deboli: 42,67 miliardi. Eppure siamo il secondo Paese dell' Unione destinatario di questi denari, superati solo dalla Polonia, che può contare su una dote di circa 105 miliardi di euro.

Ma anche l' Italia non scherza. I fondi europei, insieme con il cofinanziamento a carico del Tesoro, possono infatti attivare investimenti per 73,67 miliardi. Quasi 10 miliardi all' anno da destinare allo sviluppo, una cifra che in tempi di vacche magre per il bilancio dello Stato vale più dell' oro. Ma non basta. Perché siamo fortemente in ritardo non solo sul fronte della spesa ma anche su quello della programmazione. Abbiamo impegnato, infatti, solo il 37% dei fondi a disposizione.


Nella speciale classifica contenuta nella relazione della commissione Ue sui fondi europei, nelle posizioni inferiori troviamo solo Slovacchia, Croazia, Cipro, Romania e Spagna. Per ora nessuno nel governo ha fatto suonare campanelli di allarme. Anzi, c' è un certo ottimismo.

Anche perché negli ultimi tempi, l' Italia ha accelerato il passo. Un dato per tutti. Nel 2011, a due anni dal ciclo di programmazione 2007-2013, la spesa era inchiodata al 15%, con il rischio concreto di dover restituire una buona parte delle risorse assegnate. Poi, però, il ministro della Coesione Claudio De Vincenti ha fatto un piccolo miracolo ed è riuscito a spendere il 110% dei fondi incassando, in più, i complimenti della commissaria Ue per le politiche regionali, Corina Cretu. Inoltre, per il nuovo ciclo, la scelta è stata quella di concentrare le risorse nei cosiddetti patti territoriali, che dovrebbero ribaltare le statistiche. Sempre che, ovviamente, non si perda altro tempo.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/rsquo-europa-sara-rsquo-anche-perfida-ma-noi-siamo-coglionazzi-162867.htm

domenica 3 dicembre 2017

AGNELLI, “UN MILIARDO NASCOSTO ALL’ESTERO”



 tesoro segreto di Gianni Agnelli esiste ed è ben nascosto all’estero. È un malloppo di almeno un miliardo di euro, forse più. Difficile scoprirlo e quantificarlo, perché schermato da fiduciari e prestanome e protetto in paradisi societari che rispondono picche alle rogatorie dei magistrati italiani. Eppure le tracce sono inequivocabili. Lo sostengono i pm di Milano Eugenio Fusco e Gaetano Ruta, in una richiesta d’archiviazione che chiude una vicenda giudiziaria lunga e complicata messa in moto dalla figlia dell’Avvocato, Margherita Agnelli, ma apre uno squarcio sul tesoro e sui suoi custodi eccellenti.
Tutto era nato dopo la morte di Gianni Agnelli. Margherita Agnelli de Pahlen sostiene che l’accordo di ripartizione dell’eredità, sottoscritto dalla famiglia nel 2004, nasconde un imbroglio: non considera una parte del patrimonio, nascosta all’estero. Avvia dunque una causa contro i gestori dei beni del padre: Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Siegfrid Maron, tutti uomini di fiducia della madre, Marella Caracciolo. Ne nasce una grande Dynasty all’italiana. Margherita contro suo figlio, il presidente della Fiat John Elkann, e tutto il resto della famiglia. Un processo civile a Torino, uno penale a Milano. Una storia contorta: a Milano, l’avvocato Emanuele Gamna, già difensore di Margherita, dichiara ai magistrati di avere ricevuto pressioni dalla sua ex cliente e dal suo nuovo legale, Charles Poncet, affinché restituisse parte della parcella ricevuta, 15 milioni di euro. Margherita minacciava di denunciarlo per evasione fiscale, se non gli avesse restituito una fetta dei suoi soldi: sosteneva infatti che l’avvocato aveva fatto il doppio gioco e si era accordato con i suoi avversari. La denuncia di Gamna provoca l’iscrizione di Margherita e di Poncet tra gli indagati. Ma fa partire anche le indagini per verificare se sia vero quanto sostiene la figlia di Agnelli.
Ora Fusco e Ruta chiudono l’inchiesta. Chiedono al gip di archiviare le accuse a Margherita e al suo legale (tentata estorsione) e a Gamna (falso in scrittura privata). Ma mettono nero su bianco che il tesoro di Agnelli esiste: è “verosimile l’esistenza di un patrimonio immenso in capo al defunto Giovanni Agnelli, le cui dimensioni e la cui dislocazione territoriale non sono mai stati compiutamente definiti”. Per questo, “l’iniziativa giudiziaria promossa da Margherita Agnelli non può essere liquidata come una pretesa avventata”, né “possono escludersi, in linea teorica, accordi tra le persone coinvolte per marginalizzare Margherita Agnelli sul piano economico”. Dov’è, però, il tesoro? Quanto è grande? Le domande rimangono senza risposte compiute, perché le indagini sono state bloccate sia in Liechtenstein sia in Svizzera dalla “mancata collaborazione delle autorità locali”. Eppure qualche frammento di verità emerge: società offshore, finanziarie, un conto segreto in terra elvetica. Ne parla un testimone, Paolo Revelli, ex managing director di Morgan Stanley. “Questi ha affermato”, scrivono Fusco e Ruta, “di avere sempre saputo che presso la filiale di Zurigo esisteva una provvista direttamente riferibile all’avvocato Giovanni Agnelli per una cifra compresa fra gli 800 e il miliardo di euro, fiduciariamente intestata e detenuta attraverso molteplici conti da Siegfrid Maron”, uno dei consulenti personali dell’avvocato per la gestione del patrimonio. A Vaduz, in Liechtenstein, secondo i pm sono domiciliate invece fondazioni, trust e anstalt riconducibili a Gianni Agnelli. La fondazione Alkyone, per esempio, che faceva riferimento a “protectors” eccellenti come Gabetti, Grande Stevens e Maron. Erano dell’Avvocato anche tre moli (il 25, il 26 e il 27) del porto francese di Beaulieu, in Costa Azzurra, usati da Gianni Agnelli fin dagli anni Settanta. Uno è della Triaria Investments di Jersey, intestataria anche di uno dei conti correnti di Maron presso la Morgan Stanley di Zurigo. Gli altri due sono riconducibili alla Delphburn Limited (Isola di Man) e Celestina Company Limited (Jersey). Ma erano dell’Avvocato, secondo le testimonianze dei figli di Achille Boroli, l’imprenditore che nel 2004 li aveva rilevati.


L'immenso patrimonio in nero dell'Avvocato AgnelliI pm di Milano elencano le proprietà off-shore di Gianni: c'è un immenso patrimonio scheamato in Svizzera e Liechtenstein. Spunta anche un conto segreto da 1 mld a Zurigo

di Nino Sunseri

Certo non è la maniera più lusinghiera per celebrare il decennale della scomparsa dell’Avvocato Agnelli. Chiuse le celebrazioni solenni alla presenza del Capo dello Stato, spente le candele, appassiti i fiori resta una realtà oscura e limacciosa che certo non aiuta la memoria del defunto. Gian Luigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, i più stretti collaboratori di Gianni Agnelli,  concludono la carriera di fedeltà alla dinastia con una condanna a un anno e quattro mesi inflitta dalla Corte d’Appello di Torino (in primo grado erano stati assolti). Una pena che non sconteranno e certo non farà ombra alla loro fedina penale perchè fra una settimana il processo si chiuderà per la prescrizione. Resterà la macchia di cui si sono fatti carico come ultimo sacrificio offerto alla famiglia: l’operazione in derivati che, nel 2005 consentì agli eredi Agnelli di mantenere il controllo della Fiat bloccando l’avanzata delle banche creditrici. Condannati solo Franzo Grande e Gabetti: i più fedeli fra i fedelissimi di Giovanni Agnelli. Le società coinvolte, a cominciare da Ifi-Ifil (oggi Exor) e l’accomandita di famiglia assolte.
C’è amarezza nelle parole di Franzo Grande Stevens che mai si sarebbe aspettato di chiudere la carriera di avvocato dell’Avvocato con una condanna per aver servito gli interessi della famiglia fino all’estremo limite della sua sapienza giuridica.
Ma in fondo questo è ancora niente. Più mortificante per la memoria dell’Avvocato l’altra notizia uscita ieri dal Palazzo di Giustizia (Milano stavolta).  
Riguarda il ricorso di sua figlia Margherita. Un’appendice della lite che ha contrapposto la primogenita di Gianni alla madre Marella e ai figli John, Lapo e Ginevra. Uno scontro degno più di un anfiteatro da tragedia greca che non una sorda e fredda aula di tribunale. In questo cascame processuale  Margherita e l’avvocato Charles Poncet erano accusati di tentata estorsione ai danni di un altro avvocato, Emanuele Gamna accusato, a sua volta, di falso in scrittura privata. Una vicenda piuttosto intessuta di interessi incrociati che avevano tutta l’apparenza di ricatti. Ma la Procura di Milano ha archiviato.
Tutto chiuso tranne un particolare. Dai documenti emerge un conto segreto da un miliardo di euro dell’avvocato Agnelli in Svizzera. Frutto di evasione fiscale? Chi può dirlo visto che i magistrati italiani non sono mai riusciti ad avere accesso alle carte. A rivelarne l’esistenza Paolo Revelli, ex manager di Morgan Stanley. In una testimonianza del 21 dicembre 2009 dichiara di «avere sempre saputo che presso la filiale di Zurigo esisteva una provvista direttamente riferibile all’avvocato Giovanni Agnelli per una cifra compresa fra gli 800 milioni e il miliardo di euro,  intestata a Siegfried Maron». Il banchiere svizzero che gestiva le finanze personali dell’avvocato. Dall’indagine sarebbe emersa anche la presenza di due società offshore e una finanziaria riconducibili a loro volta all’Avvocato e destinate a schermare la proprietà di tre moli in Costa Azzurra. Un tesoretto nella disponibilità diretta di Gianni Agnelli e custodito all’estero. Impossibile saperne di più per la mancata collaborazione di Svizzera e Liechtenstein. «Vi sono molteplici indizi che portano a ritenere  verosimile l’esistenza di un patrimonio immenso in capo al defunto Giovanni Agnelli, le cui dimensioni non sono mai state compiutamente definite» scrivono i pm Eugenio Fusco e Gaetano Ruta.
http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/1189231/L-immenso-patrimonio-in-nero--dell-Avvocato-Agnelli.html

domenica 19 novembre 2017

AMERICA FATTA A MAGLIE - PENSATE CHE COLPO SE L'INFORMATORE DELL'FBI SUL CASO URANIUM ONE-ROSATOM DIRÀ AL CONGRESSO CHE NEL 2010 SI DOVEVA FERMARE IN NOME DELLA SICUREZZA NAZIONALE LA VENDITA DELL'URANIO AMERICANO ALLA RUSSIA, E CHE QUELL'OPERAZIONE ANDÒ AVANTI PER INTERVENTO DI OBAMA E DELLA CLINTON (LA CUI FONDAZIONE RICEVETTE 150 MILIONI DAI RUSSI) E CHE I FEDERALI LO HANNO MINACCIATO PER NON PARLARE. CHI SAREBBERO I TRADITORI ALLORA?

Maria Giovanna Maglie per Dagospia

Pensate che colpo se l'informatore dell' FBI sul caso UraniumOne-Rosatom finalmente libero di parlare dirà al Congresso che già nel 2010 c'erano informazioni sufficienti per fermare la vendita di un quinto dell'uranio americano alla Russia in nome della sicurezza nazionale, e che quell'operazione non si fermo’ per intervento di Obama e della Clinton, per un sacco di soldi, e che come beffa finale a lui e’ stato imposto il silenzio, e che è stato a lungo minacciato proprio dai federali. Chi sarebbero i traditori allora?


Pare che metà degli americani abbiano già deciso che eviteranno accuratamente di parlare di politica quando tra qualche giorno si siederanno insieme alla famiglia allargata per il pranzo di Thanksgiving, l'appuntamento tradizionale al quale è molto difficile rinunciare negli Stati Uniti.

Eppure da ringraziare ci sarebbe, visto che l'economia marcia a meraviglia, disoccupazione al 4,1%, la più bassa in 17 anni, nell’ultimo anno un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, stock market più alto di sempre, a 5,4 trilioni, e anche se è tutta da vedere al Senato, la Camera ha approvato una gran riforma delle tasse che dovrebbe dare un'ulteriore spinta. Di ritorno dalla Cina Donald Trump ha pure riportato a casa tre giocatori di basket dell'Ucla arrestati e in attesa di processo per furto in un negozio.

Ma gli americani sono disuniti e arrabbiati, ed è tutto un raccontare di imbrogli elettorali, trame occulte con la Russia e il Terribile Putin, mentre lo scandalo delle denunce per molestie sessuali a vip, che da Hollywood sono arrivate ora a Washington, rischia di diventare un autentico fenomeno di isteria collettiva, alla fine della quale si saranno tutti quanti arrestati tra di loro o saranno tutti ricoverati in una clinica per riabilitazione.


Certo, che la parte del maiale, quasi paragonabile ad Harvey Weinstein, tocchi anche all’ex comico televisivo di Saturday Night Live, ora senatore del Minnesota, sempre liberal, difensore delle donne e castigatore di Trump e dei repubblicani sessisti e razzisti, Al Franken, è un colpo al cuore per i democratici.

Succedono cose strane, succede che femministe ed esponenti liberal si ricordino ora che vent’anni fa Bill Clinton avrebbe dovuto dimettersi. È un segno preciso che la Dynasty è in disgrazia, ma Hillary Clinton non sembra darsene per inteso e anche ieri, per chi sia ancora disposto ad ascoltarla, ha sostenuto che le elezioni del 2016 dovrebbero essere annullate perché non sono state un processo legale. Bisogna però vedere chi ha tentato di renderlo illegale, per il momento su Trump non esce alcuna accusa, anche se un Procuratore speciale indaga sul presidente da mesi.


Il quale Procuratore speciale ha citato una decina di uomini della campagna Trump e chiede loro di consegnare documenti e email proprio nel giorno in cui un ex collaboratore sotto copertura dell'FBI e’ stato finalmente liberato dall'obbligo del segreto, e potrà raccontare al Congresso come andò la famosa vendita dell'uranio ai russi, e perché per tanti anni l’Fbi quelle cose non le abbia rivelate e abbia proibito a lui di farlo.

Ci sono un paio di Commissioni del Congresso che indagano sul gran casino russo elettorale, tornando indietro fino a UraniumOne, e passando per il dossier ritenuto fasullo dal quale parte l'indagine del Russiagate.


Sarebbe proprio perché è in competizione con le Commissioni che il Procuratore speciale Mueller chiede ora altri documenti alla campagna Trump, a quanto dicono il Wall Street Journal e anche Fox News. Vuol essere sicuro di aver avuto accesso allo stesso materiale di deputati e senatori. Che poi è un ulteriore indizio dell'inutilità di nominare Procuratori speciali.

Robert Mueller era stato nominato a furor di stampa e tv, e per grande e persino sospetta debolezza dei repubblicani vincitori. Doveva trovare i famosi hacker russi colpevoli del furto di mail del Comitato Nazionale Democratico nell'estate del 2016, poi diffuse e rivelatesi imbarazzanti perché dimostravano che il comitato non si comportava in modo obiettivo, ma favoriva la Clinton.

Mueller avrebbe dovuto anche trovare gli eventuali legami tra costoro, mandati e pagati da Putin, e gli uomini di Donald Trump. Il tutto sulla base di un dossier commissionato a una spia inglese ormai ritiratasì, Christopher Steele, pagato dalla campagna di Hillary Clinton un sacco di soldi alla GPS fusion, ma finito anche nelle mani dell'FBI che cominciò a indagare da li’, nonostante si fosse rivelato malfatto, inaccurato e pieno di imprecisioni.

Di hacker russi, dopo mesi di inchiesta, e nonostante tutto il polverone sollevato dai media, non c'è traccia, non una parola o un contatto con il presidente nelle incriminazioni di Paul Manafort e Rick Gates. Ma dal lobbista Paul Manafort, che per Trump ha lavorato per pochi mesi, poi è stato licenziato, si è arrivati al gruppo Podesta, titolare Tony Podesta, fratello del più famoso John, capo della campagna di Hillary Clinton.

 L'intreccio e’ complicato. Il gruppo di Podesta non si è mai registrato come lobbista di interessi esteri, anche se rappresentava un think Tank ucraino, il Centro europeo per l'Ucraina moderna, vicino a Putin, e poi Uranium One, di proprietà del governo russo, a cui arrivo’ su indicazione di Paul Manafort e socio.

 Il gruppo Podesta adesso chiude, un po' travolto dallo scandalo tutto ancora da verificare, un po' perché con la nuova Amministrazione forse gli affari non saranno più così rosei. Fatto sta che hanno lavorato dal 2011 al 2013 per 180mila dollari per Uranium One, il cui rappresentante, Vadim Mikerin, nel 2015 è stato condannato a 4 anni di prigione, perché è stato dimostrato che confluiva nella società denaro frutto di estorsioni e riciclaggio. Ma la società era sotto inchiesta dell'FBI già dal 2010, e sulle sue malefatte e crimini il dipartimento di Giustizia a cui i Federali riferivano, aveva deciso di tacere dal 2010 al 2015, evidentemente per non bloccare l'affare.

Queste rivelazioni le hanno scritte il New York Times, il Washington Post, the Hill, che però ora si affrettano a smentire se’ stessi, sostenendo che niente di tutto ciò riguarda Hillary Clinton o l'amministrazione Obama. Vedremo. Intanto il procuratore speciale non potrà che incriminare Tony Podesta, e dovrà verificare quali fossero i legami tra la società della famiglia Podesta, il Partito Democratico, i Clinton, e il Cremlino del Terribile Putin. Dettaglio: il procuratore speciale Robert Mueller era direttore dell'FBI all'epoca dei fatti di Uranium One.


Si chiama William Campbell l'informatore confidenziale dell'FBI che sotto copertura lavoro’ all'epoca della cessione dell'uranio americano. Testimonierà davanti a una Commissione del Congresso su quello che ha visto mentre era un informatore sotto copertura.

Il suo compito era ottenere informazioni sugli sforzi dei russi per aumentare il volume di affari di energia atomica. Facendo questo lavoro avrebbe trovato le prove che la filiale, d'Intesa con alti funzionari russi, era gestita come un centro di malavita, ed anche informazioni precise e dettagliate sugli interessi della fondazione Clinton e dell’allora Segretario di Stato. La cifra per la Fondazione di cui si è sempre parlato e’ di 145 milioni di dollari, mentre per una sola conferenza di Bill Clinton a Mosca fu pagato mezzo milione di dollari.

Era il 2009, ben prima che l'affare fosse concluso; non c'era ragione di indagare per altri quattro anni lasciando all'oscuro di tutto il Congresso o la Commissione per gli investimenti esteri, era chiaro già il tentativo dei russi di guadagnare potere nucleare su territorio americano.


Mettiamo per un attimo da parte la famiglia Clinton e i suoi lucrosi affari. Una indagine sulla Fondazione porterebbe a scoperte straordinariamente gravi. Del 2009 Obama e la Clinton erano impegnati in in un'operazione chiamata “reset”, mettere a punto le relazioni con Mosca e cooperare strettamente nel campo dell'energia nucleare. Per questo verosimilmente fu approvata l'acquisizione di Uranium One.

 Il presidente Premio Nobel per la Pace è un campione di queste cose, qualche anno dopo ha fatto la stessa cosa con l'Iran e ha finto di credere che gli ayatollah stessero all'accordo, non lavorassero alla destabilizzazione di Iraq e Siria, non pompassero il programma di missili balistici.

Ci vorrà l'annessione della Crimea e lo scontro violento sull'Ucraina per far decidere l'amministrazione Obama a mettere in galera l'uomo del Cremlino in Usa. Ma l'arresto avvenne quasi in sordina, mai accaduto in situazioni del genere, e lui ottenne il patteggiamento. All'informatore fu imposto il silenzio. Il tutto per evitare uno scandalo enorme alla vigilia dell'inizio della campagna elettorale di Hillary Clinton.


Che cosa mi ricorda? Ma certo, la strage di Bengasi a settembre 2012, quando l'ambasciatore Stevens e i suoi uomini furono abbandonati al massacro da parte dei terroristi, l'intero caso insabbiato e coperto di menzogne,perché si era alla vigilia delle elezioni di Barack Obama.

È tutta roba che sta nelle famose mail fatte sparire da Hillary Clinton. Quando era ancora in corso quell'indagine, all'inizio dell'estate del 2016, Barack Obama dichiarò che sicuramente non c'era alcuna ragione di incriminazione, cioè detto’ la linea all’Fbi. Si capisce perché la chiamino swamp, palude.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/america-fatta-maglie-pensate-che-colpo-se-39-informatore-dell-39-fbi-161136.htm

domenica 5 novembre 2017

Cosa c'entrano i tulipani con la bolla di Bitcoin Il numero uno di JP Morgan ha detto che con la criptovaluta si farà la fine dei fiori nel 600. E una previsione: "Prima o poi ucciderà qualcuno"

di 
Certo non gli fa difetto la chiarezza: Jamie Dimon, ceo di JP Morgan, ha definito i bitcoin “una frode”, una moneta adatta a “spacciatori e assassini” ed è convinto che si tratti di “una bolla peggiore di quella dei tulipani”. Ne è proprio convinto, da tanto da ripetere il concetto due volte nella stessa giornata: prima nel corso della Barclays Financial Services Conference e, poche ore dopo, in un'intervista a Cnbc.

Cosa c'entrano i Bitcoin con i tulipani

Ma che c'entrano i bitcoin con i fiori? Quella dei tulipani è l'esempio più classico di bolla speculativa. Gonfiatasi e scoppiata nei Paesi Bassi a metà nel XVII secolo. Intorno agli anni '30 del '600, l'Olanda incontrò una enorme domanda di tulipani. Il prezzo dei bulbi, di consenguenza, inizia a salire, rendendo il mercato talmente profittevole da spingere a migrare verso un settore (in apparenza) di grandi prospettive. La bolla inizia a gonfiarsi, anche perché i commercianti vendono non solo i fiori ma anche bulbi appena piantati o non ancora acquistati. Vendono cioè “allo scoperto”,scommettendo sul continuo rialzo dei prezzi. Quando ci si rende conto che domanda e valore non sarebbero stati sostenibili a lungo, iniziarono le vendite. Un'asta andata deserta fa scattare il panico, la bolla scoppia e i prezzi crollano. Chi produce tulipani non ha più compratori. Chi ha speculato si ritrova in mano con contratti inesigibili (ancheperché erano vietati per legge). Cos'ha, tutto questo, in comune con i bitcoin?

Perché Jp Morgan è convinta che Bitcoin finirà male

Dimon è convinto che, prima o poi, “finirà male” e il valore si schianterà. È una previsione, in quanto tale non confutabile.Ma ci sono anche altri elementi da valutare. È vero che i prezzi fluttuano (nell'Olanda del '600 come sulla blockchain) su un mercato non regolamentato (il prezzo dei fiori si gonfiò sfruttando contrattazioni su mercati “informali”) ed che non può esserci l'intervento di istituti centrali. Ed è vero che esiste una certa instabilità. Ma, affermano i sostenitori del sistema bitcoin, c'è un fattore di equilibrio che i tulipani non avevano: il protocollo prevede un numero finito di bitcoin, la cui emissione rallenterà nel tempo fino al 2140 (data in cui verrà estratto l'ultimo). La loro disponibilità, quindi, sarà sempre più limitataCon due effetti: tenere a bada l'inflazione e promettere un apprezzamento strutturale nel lungo periodo. È questa la caratteristica che, da asset speculativo, renderebbe i bitcoin un bene rifugio, soggetto a variazioni ma al riparo dalle fluttuazioni economiche.

Jp Morgan vieta di usare Bitcoin ai suoi trader

Dalle parti di JP Morgan, maneggiare bitcoin è vietato: se un trader della banca cominciasse a farlo, ha detto Dimon, “lo licenzierei in un secondo, per due ragioni. È contro le regole ed è stupido”. Insomma, un tabù. Che però non viene imposto tra le mura di casa: “Mia figlia ha investito in bitcoin. Adesso li ha venduti e pensa di essere un genio”. Ma la visione di Dimon non è solo buia: è truce. La speculazione “finirà con l'uccidere qualcuno”. E ancora: “Conviene usare bitcoin anziché dollari americani se sei in Venezuela, Ecuador, Corea del Nord e in altri posti del genere. O se sei uno spacciatore o un assassino. Quindi sì, c'è un mercato, ma è molto limitato”.

"La speculazione finirà con l'uccidere qualcuno"

Il ceo di JP Morgan ha tenuto a sottolineare la distinzione tra bitcoin e blockchain, il cui utilizzo si annuncia promettente. D'altra parte la banca ha, già da un paio d'anni, avviato la sperimentazione della tecnologia per ridurre tempi e costi di transazione. E fa parte (e siede nel board) dell'EnterpriseEthereum Alliance, associazione che punta a sviluppare la piattaforma su cui viaggia Ether, l'altra grande criptovaluta. Decentralizzato o meno, regolamentato o no, quando parla il capo di JP Morgan, il mercato reagisce. Lo ha fatto anche quello dei bitcoin: dopo l'intervento di Dimon, il valore della criptovaluta ha perso poco meno di 150 dollari in pochi minuti.    

https://www.agi.it/economia/bitcoin_tulipani_jp_morgan_bolla-2148448/news/2017-09-13/

Bitcoin, parla Guido Rossi: "è uno strumento rischioso, è come i derivati, può stravolgere le regole del capitalismo"

Francesco Bisozzi, L'Huffington Post
In questo momento un Bitcoin vale 60 dollari . Ma all'origine della caduta della moneta virtuale, che una settimana fa solamente (quando per entrare in possesso di un gettone elettronico si pagavano 260 dollari) ha reso milionari per un giorno i fortunati internauti che per primi avevano scommesso sulla divisa acquistandola per pochi spiccioli, non vi sarebbero né gli attacchi degli hacker né le avarie delle piattaforme di scambio online come Mt.Gox, causate dal mastodontico numero di accessi che i siti hanno registrato in questi giorni. 

Ad affossare la valuta 2.0 sarebbe stato, più semplicemente, il crollo dell'oro. «Una volta che il metallo giallo ha iniziato a perdere vistosamente terreno sono venuti meno anche i Bitcoin, a dimostrazione del fatto che ci troviamo di fronte a un bene rifugio fasullo», chiosa l'ex presidente della Consob Guido Rossi. E in effetti fino al mese scorso l'andamento dell'oro digitale ha sempre rispecchiato quello dell'oro vero e proprio: quando quest'ultimo aumentava o perdeva di valore il suo alter ego tecnologico gli andava dietro. 

Nati come moneta virtuale con cui comperare beni e servizi online, in queste settimane secondo gli analisti i Bitcoin si sarebbero trasformati in una sorta di commodity digitale. È d'accordo? 
Assolutamente sì, hanno tradito la loro natura iniziale. Oggi rappresentano degli strumenti finanziari di nuovo conio in grado di stravolgere le regole del capitalismo.

Ovvero?
I Bitcoin sono l'espressione di una nuova forma di capitalismo. Siamo passati dal capitalismo finanziario a quello virtuale, dove a farla da padrone sono gli algoritmi. Un sistema dal futuro incerto, che apre la porta a commodity tecnologiche molto rischiose.

In che senso rischiose?
Nel capitalismo virtuale anche i diritti diventano virtuali, mentre i pericoli che si corrono al contrario continuano a produrre conseguenze concrete. Le monete elettroniche, queste nuove commodity digitali, ricordano da vicino il sistema dei derivati, al pari dei quali presentano rischi da non sottovalutare, come c'insegna il passato.
Ma i Bitcoin sfuggono a qualsiasi forma di controllo centrale. Questo non rappresenta un limite in grado di frenare lo sviluppo dei nuovi strumenti finanziari di cui lei parla?
Non direi, dopotutto l'assenza di controlli in principio non ha impedito al sistema dei derivati di assumere rilevanza. 
Intanto sulla scia dei Bitcoin nuove valute 2.0 bussano alla porta.
Esperimenti simili stanno vedendo la luce. Come OpenCoin o Ripple. L'insorgere di queste divise elettroniche è l'indice di un venir meno dell'oro come bene di riferimento della moneta tradizionale, oltre che del continuo tentativo di trasformazione del capitalismo. 

Bolla dei tulipani

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Acquerello del XVII secoloraffigurante il Semper Augustus, il bulbo più famoso, venduto ad un prezzo record
La Follia del Tulipano, di Jean-Léon Gérôme
Pamphlet sulla Bolla dei tulipani, stampato nel 1637
Il fenomeno di follia collettiva, in un'allegoria di Hendrik Pot ispirata alla Nave dei folli di Sebastian Brant
La bolla dei tulipani o tulipomania (in olandesetulpenmanie, tulpomanie, tulpenwoede, tulpengekte, bollengekte) è stata una bolla speculativa sui prezzi dei bulbi dei fiori scoppiata nell'economia olandese del Seicento, forse la prima documentata nella storia del capitalismo.
Indice dei prezzi standard per i contratti dei bulbi[1], con il brusco crollo in febbraio. Mancando i dati tra il 9 febbraio e il 1º maggio, la forma del grafico del ribasso non è nota.
Nella prima metà del XVII secolo, nei Paesi Bassi dove la domanda di bulbi di tulipano raggiunse un picco così alto che ogni singolo bulbo di tulipano raggiunse prezzi enormi; questo straordinario livello dei prezzi calò comunque drasticamente in breve tempo[2]. A partire dal 1636, il bulbo di tulipano è diventato il quarto principale prodotto di esportazione dei Paesi Bassi — dopo ginaringhe e formaggio. Il prezzo dei tulipani salì alle stelle a causa della speculazione sui futuri tulipani fra coloro che non avevano mai visto i bulbi. Molte persone ottennero e persero la loro fortuna da un giorno all'altro[3].

Storia[modifica | modifica wikitesto]

Il tulipano, introdotto in Europa nella metà del XVI secolo dalla Turchia, ebbe una crescente popolarità nei Paesi Bassi, scatenando la "gara" fra i membri della middle class a superarsi l'un l'altro nel possesso dei tulipani più rari. I prezzi arrivarono a livelli insostenibili. La coltivazione del tulipano fu presumibilmente iniziata nei Paesi Bassi nel 1593. Questo fiore divenne rapidamente una merce di lusso e uno status symbol.
Alle varietà di tulipano erano assegnati nomi esotici, a volte venivano chiamate con nomi di ammiragli olandesi. Nel 1623, un singolo bulbo di una specifica qualità di tulipano poteva costare anche un migliaio di fiorini olandesi (il reddito medio annuo dell'epoca era di 150 fiorini). I tulipani erano scambiati anche con terreni, bestiame, e case[4]. Presumibilmente, un buon negoziatore poteva anche guadagnare seimila fiorini al giorno.
Nel 1635 fu registrata una vendita di 40 bulbi per 100.000 fiorini (2500 fiorini a bulbo. A titolo di paragone, una tonnellata di burro costava circa 100 fiorini e "otto maiali grassi" costavano 240 fiorini). Un prezzo record fu pagato per il bulbo più famoso, il Semper Augustus, venduto ad Haarlem per 6000 fiorini.
Nel 1636 i tulipani erano scambiati nei "collegi" ospitati in taverne di numerose città olandesi. Agli acquirenti era richiesto di pagare una commissione del 2,5 % chiamata "soldo del vino", fino a un massimo di tre fiorini per scambio. Erano, dunque, scambi "over-the-counter" al di fuori delle normali borse valori. Questo incoraggiò tutti i membri della società al commercio di tulipani, molte persone vendevano e compravano immobili o altri possedimenti per poter speculare sul mercato dei tulipani. Alcuni speculatori fecero grandissimi profitti.
Alcuni commercianti vendevano bulbi che erano stati appena piantati o quelli che avevano intenzione di piantare (sostanzialmente dei futures sui tulipani). Questa pratica fu soprannominata "commercio del vento". Un editto statale del 1610 fece diventare illegale questa vendita allo scoperto rifiutandosi di riconoscere carattere di coercibilità legale a questo genere di contratti, ma la legislazione non riuscì a far cessare l'attività negoziale.
Nel febbraio del 1637, non potendo più spuntare prezzi gonfiati per i loro bulbi, i commercianti di tulipani cominciarono a vendere. La bolla speculativa scoppiò. Si incominciò a pensare che la domanda di tulipani non avrebbe potuto più mantenersi a quei livelli, e questa opinione si diffuse man mano che aumentava il panico. Alcuni detenevano contratti per comprare tulipani a prezzi dieci volte maggiori di quelli di mercato (ormai crollato), mentre altri si trovarono a possedere bulbi che valevano un decimo di quanto li avevano pagati. Centinaia di olandesi, inclusi uomini di affari e dignitari, caddero in rovina finanziaria.
Tutti i tentativi esperiti per risolvere la situazione in modo da accontentare entrambe le parti si rivelarono un insuccesso. In sostanza, ciascuno rimase nella situazione finanziaria in cui si trovava alla fine del crollo: nessuna corte poteva esigere che i contratti venissero onorati, perché i giudici considerarono questi debiti alla stregua delle obbligazioni naturali contratte con il gioco d'azzardo, e quindi non esigibili attraverso un'esecuzione forzata sotto la giurisdizione della legge.

Raffronti con epoche successive[modifica | modifica wikitesto]

Simili bolle dei tulipani ci furono anche in altri paesi d'Europa, ma mai di dimensione confrontabile a quella olandese. In Inghilterra, nel 1800, il prezzo di un singolo bulbo di tulipano era di quindici ghinee, somma che bastava ad assicurare a un lavoratore e alla sua famiglia cibo, vestiti e alloggio per sei mesi.
La bolla dei tulipani è stata oggetto di discussione agli inizi del XXI secolo in relazione all'emergere di fenomeni finanziari simili come la crisi dei mutui subprime, che peraltro, esplosa su scala locale, è stata all'origine di un'ondata di crisi su scala economica globale. Nel film Wall Street - Il denaro non dorme mai, diretto da Oliver Stonenel 2010, il protagonista Gordon Gekko parla estesamente della bolla dei tulipani in relazione alle cause della crisi economica del 2008.
Il co-protagonista maschile del libro "Colpa delle stelle" di John Green si chiama Augustus, con un evidente riferimento alla bolla dei tulipani. Infatti i fiori che regala all'innamorata sono tulipani, in onore del viaggio ad Amsterdam che i due stanno per compiere. Inoltre Augustus è malato di cancro, il che lo porterà alla morte entro la fine del libro, come il Semper Augustus si estinse a causa del virus che permetteva al fiore di avere la caratteristica colorazione.

https://it.wikipedia.org/wiki/Bolla_dei_tulipani