domenica 29 gennaio 2017

Una costituzione che favorisca la Comunità prima che lo Stato sintesi dell'intervento del Prof. Giulio Sapelli


Non sono un costituzionalista ma, in omaggio all’uomo che qui ce- lebriamo, un punto di vista non strettamente accademico, nel senso più nobile che ci appartiene, può rappresentare un utile contributo al dibattito. Gli illustri maestri del diritto che sono a questo tavo- lo sanno meglio di me che no alla ne del 1800, inizio 1900, quando si parlava della nascente scienza costituzionale italia- na, si diceva che i costituzionalisti italiani pensano in inglese ma lavorano in france- se. Naturalmente, questa antinomia è pre- sente in tutto il libro di Luzzatti. Un libro molto interessante che inizia osannando il sistema inglese, il sistema della common law che vive, nasce e si rafforza in un Pae- se che non ha una sua data di fondazione. Beate le nazioni che non hanno una data che ricorda la loro fondazione! L’Inghil- terra, ma anche la Francia, non ha questa data. Anche se alla Francia ne è stata attri- buita una che ricorda la parte più nobile e, oggi diremmo, più smagliante della sua storia anche se non priva di ombre. Il li- bro è molto interessante e su questo aveva scritto, anni or sono poco prima di mori- re, Mario Galizia un interessante articolo che mirava a ricostituire le fondamenta e le basi ermeneutiche anche del giovane co- stituzionalista Luzzatti.
Nell’affrontare questo libro ho seguito le mie passioni cercando di leggere in ligra- na cosa trasmettesse, nel faticoso percorso di costruzione dell’unità nazionale. Luz- zatti è imbevuto di amore per la
common law e anche le osservazioni che fa sulla Co- stituzione turca e sulla questione messica- na sono piene, per certi versi, di disgusto per l’elemento monocratico-autoritativo presente in questi sistemi. Non gli piace la costituzione francese del 1791 e non solo perché dietro c’è il “terrore”, non solo per- ché non nasce dagli usi e consuetudini di un popolo, ma perché ne intravede la cadu- cità. In questo libro è chiara, netta la con- traddizione tra i sistemi di civil law ad or-

dinamento romanico-germanico e di com- mon law di origine anglosassone. In Italia la colossale piramide di Vittorio Emanuele Orlando, che sembrava imperitura, si co- struisce, mattone dopo mattone, dall’inizio del penultimo decennio dell’800, quando lo stesso Orlando comincia ad affrontare il problema che non è quello della rappresen- tanza e della libertà, ma è quello dello State building, quello, cioè, della costruzione del- lo Stato che non ha più niente a che vedere con la tradizione inglese e, dunque, con il tema dello Stato di libertà. È la stessa idea di Crispi che scioglie le opere di assistenza perché avverte l’esigenza di avviare un fati- coso percorso di State building in un Paese che non era unito, che non aveva una sua identità se non quella geogra ca. Luzzat- ti è da tutt’altra parte. Non a caso è stato sottolineato l’aspetto sulla libertà religiosa. Luigi Luzzatti, sulla cui opera di costitu- zionalista sarebbe necessario approfondire con un attento lavoro storiogra co anche per recuperare altri suoi studi, si muove in questo universo con una profonda e spic- cata originalità. La Costituzione che ha in mente è una Costituzione che limiti i po-
teri dello Stato e favorisca ciò che nasce dalla società civile, che lasci la libertà alla comunità di organizzarsi dal basso. Il suo ideale di uomo è quello che può organizzarsi ed organizzare la comunità alla quale appartiene.
La sua preferenza è per gli ordinamenti giuridici di fatto –come gli statuti delle banche, che altro non sono che ordina- menti giuridici di fatto. Probabilmente, se l’Italia avesse fatto quella scelta, l’av- vento dell’autoritarismo fascista sareb- be stato più dif cile. Uomo eclettico, uomo vario, uomo che organizza lo spirito della comunità, uomo cattolico, sentito modernista. E così, con questa idea, va letto tutto ciò che ha scritto anche sulla libertà religiosa che gli ser- ve a superare l’ordinamento germanico. Uomo aperto allo spirito del tempo, amante della tradizione, patriottico e non nazionalista. Insomma tutto quello che vorremmo fossero i giovani d’oggi: “proprio perché sono uomo a nulla mi nego”.
http://www.goware-apps.it/free/free_pub/Banca_Coperazione_articolo_Sapelli.pdf

Generali, Sapelli: "Francia e Germania si stanno spartendo gli asset italiani"

L'economista e storico Giulio Sapelli, intervistato da Affaritaliani.it spiega cosa cambierebbe se Generali finisse in mano straniera



di Andrea Deugeni
twitter11@andreadeugeni
"Come avvenuto nell'Italia del 500, descritta da Macchiavelli e da Guicciardini, il Paese è diventato terra di conquista fra Parigi, l'imperatore e Venezia. Oggi, Venezia non esiste più e sono attivi i francesi e i tedeschi che si stanno spartendo gli asset tricolori". L'economista e storico Giulio Sapelli (nella foto sotto), intervistato daAffaritaliani.it interviene sul caso Generali e spiega perché è importante che la compagnia assicurativa non finisca in mano straniera. Poi il ruolo di Banca Intesa e del governo, "che deve farsi sentire".


L'INTERVISTA 

Cosa sta succedendo in Generali? Il chief financial officer, Alberto Minali, se ne va, sembra anche per contrastare il disegno sotterraneo di impacchettare le Generali per prepararla al grande takeover di Axa. Così, Intesa è pronta a muoversi intandem con Allianz...
"E' uno scenario che conferma quello che pensavamo in molti".
Quale?
"Che Banca Intesa, istituto italiano molto radicato territorialmente e banca di sistema, si sarebbe alla fine candidata ad ostacolare l'arrivo dei francesi in Generali. E' una notizia positiva".
E' positivo il rischio di perdere le Generali?
"No, è positivo il fatto che nel sistema italiano, esista ancora qualche segmento, attore che si muove per difendere un patrimonio del nostro Paese". 
Cosa cambia in Italia se Generali finisce in mano francese o tedesca?
"Succede che la nostra economia perde uno dei suoi punti di riferimento, perché Generali è collegata a Mediobanca e a UniCredit".

D'accordo, ma il Leone si trova a fine della catena di controllo che parte dal gruppo guidato da Jean Pierre Mustier e passa per Piazzetta Cuccia...
"Lo so benissimo, ci sono però dei rapporti stretti fra i tre snodi e significherebbe che la lotta con la Francia inizia a farsi pesante. Si divide una catena che produce molto valore e c'è una resistenza da parte di Banca Intesa a far sì che questo non avvenga. La questione delle Generali è importante anche dal punto di vista del risparmio. Sarebbe un rischio se la compagnia italiana finisse sotto l'insegne di Axa. Farebbe meglio che facesse parte di un fronte di bancassurance governato da Intesa e non da istituti stranieri. Il governo dovrebbe intervenire e dire la sua, esercitando la propria moral suasion. E' importante che faccia capire che è meglio che Generali non finisca in mano straniera".
D'accordo, ma come fare se le forze di mercato parlano chiaro? Generali capitalizza all’incirca 21 miliardi, meno di un terzo, ad esempio, dei 73 miliardi di Allianz...
"Purtroppo dobbiamo prendere atto che è in corso la spartizione degli asset tricolori fra Francia e Germania in una campagna d'Italia. Ricordiamo che Allianz ha già ingoiato la Ras, compagnia che apparteneva prima alla famiglia Pesenti. Come avvenuto nell'Italia del 500, descritta da Macchiavelli e da Guicciardini, il Paese è diventato terra di conquista fra Parigi, l'imperatore e Venezia. Oggi, Venezia non esiste più e sono attivi i francesi e i tedeschi che si stanno spartendo gli asset tricolori".
In tutto questo, quindi, le dichiarazioni del Ceo di UniCredit, Jean Pierre Mustier e di quello di Generali, Philippe Donnet, sull'italianità del Leone sono fasulle...
"Fanno parte del gioco di specchi e di ruoli che è tipico della finanza e dei manager mentre esercitano le loro funzioni di amministratori delegati. Aspettiamo la voce del governo che deve farsi sentire. In tutti gli altri Paesi europei, l'esecutivo si sarebbe già fatto sentire".

http://www.affaritaliani.it/economia/generali-sapelli-francia-e-germania-si-stanno-spartendo-gli-asset-italiani-460092.html

sabato 28 gennaio 2017

TRUMP COLPEVOLE DI FARE IL MURO DELLA VERGOGNA ? LEGGETE BENE CHI HA COMINCIATO A COSTRUIRLO E CHI HA VOTATO A FAVORE

Barriera di separazione tra Stati Uniti d'America e Messico

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La barriera vista da una spiaggia a Tijuana
La barriera di separazione tra Stati Uniti d'America e Messico, detta anche muro messicano o muro di Tijuana, è una barriera di sicurezza costruita dagli Stati Uniti lungo la frontiera al confine tra USA e Messico. In Messico viene però chiamato Muro della vergogna. Il suo obiettivo è quello di impedire agli immigranti illegali, in particolar modo messicani e centroamericani, cioè GuatemaltechiHonduregniSalvadoregni e Nicaraguensi di oltrepassare il confine statunitense.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]

La sua costruzione ha avuto inizio nel 1990, durante la presidenza George H. W. Bush quando la polizia di frontiera elaborò allora la strategia “Prevenzione attraverso la Deterrenza”, in base alla quale – tra le altre cose – iniziò a costruire recinzioni e ostacoli sul confine, in particolare nell'area di San Diego. Il primo tratto, di 14 miglia (22,5 km), fu completato nel 1993.[1]
Nel 1994 durante la presidenza Clinton, la barriera fu sviluppata ancora ma principalmente come "Barriera umana" di poliziotti.
Secondo alcuni esperti queste operazioni sarebbero solo una manovra per convincere i cittadini statunitensi della sicurezza ed impenetrabilità dei confini, mentre l'economia continuerebbe a beneficiare del continuo flusso di forza lavoro a basso costo in arrivo da oltre frontiera.
La barriera è fatta di lamiera metallica sagomata, alta dai due ai quattro metri, e si snoda per chilometri lungo la frontiera tra Tijuana e San Diego. Il muro è dotato di illuminazione ad altissima intensità, di una rete di sensori elettronici e di strumentazione per la visione notturna, connessi via radio alla polizia di frontiera statunitense, oltre ad un sistema di vigilanza permanente, effettuato con veicoli ed elicotteri armati. Altri tratti di barriera si trovano in ArizonaNuovo Messico e Texas.
Il confine tra Stati Uniti d'America e Messico, lungo 3.140 km, attraversa territori di diversa conformazione, aree urbane e desertiche. La barriera è situata nelle sezioni urbane del confine, le aree che in passato hanno visto il maggior numero di attraversamenti clandestini. Queste aree urbane comprendono San Diego in California ed El Paso in Texas. Il risultato immediato della costruzione della barriera è stato un numero sempre crescente di persone che hanno cercato di varcare illegalmente il confine, attraverso il deserto di Sonora, o valicando il monte Baboquivari, in Arizona. Questi clandestini hanno dovuto percorrere circa 80 km di territorio inospitale prima di raggiungere la prima strada, nella riserva indiana Tohono O'odham. Tra il 1º ottobre 2003 ed il 30 aprile 2004, 660.390 persone sono state arrestate dalla polizia di confine statunitense mentre cercavano di attraversare illegalmente il confine. In quello stesso periodo dalle 43 alle 61 persone sono morte mentre cercavano di attraversare il deserto della Sonora, tre volte tante quelle che nello stesso lasso di tempo hanno incontrato il medesimo destino nell'anno precedente. Nell'ottobre 2004 la polizia di confine ha dichiarato che 325 persone sarebbero morte negli ultimi 12 mesi, nel tentativo di passare la frontiera. Dal 1998 al 2004, secondo i dati ufficiali, lungo il confine tra Stati Uniti e Messico, sono morte in totale 1.954 persone.

L'iter burocratico della risoluzione[modifica | modifica wikitesto]

Il 3 novembre 2005, il parlamentare statunitense repubblicano Duncan Hunter (della California), ha proposto al Senato degli Stati Uniti d'America un piano per rafforzare la barriera di separazione tra i due paesi. La proposta è stata approvata il 15 dicembre 2005, prevedendo la costruzione di un muro di 1.123 km. Le dimensioni sarebbero paragonabili solo a quelle della Grande muraglia cinese. Infine, il Senato, il 17 maggio 2006 ha approvato a maggioranza (83 voti a favore e 16 contrari) l'emendamento che prevede la costruzione di un muro di 595 km di estensione, più 800 km di barriere per impedire il passaggio di automobili.
La risoluzione 6061 (H.R. 6061), Secure Fence Act, è stata presentata al Congresso il 13 settembre 2006. La proposta è stata approvata dalla Camera dei rappresentanti in data 14 settembre 2006, con una votazione di 283 voti a favore e 138 contrari.
Il 29 settembre 2006, il Senato, ha confermato l'autorizzazione, con una votazione di 80 a favore e 19 contrari. Tra i democratici che, in quell'occasione, votarono a favore vi furono, sorprendentemente, anche la futura candidata alla presidenza Hillary Clinton nonché l'allora senatore dell'Illinois Barack Obama. [2]
Il 26 ottobre 2006, il presidente George W. Bush ha firmato la H.R. 6061 che era stata votata da ambedue le camere del Congresso.

giovedì 26 gennaio 2017

‘IL PRESIDENTE ANDREA AGNELLI INCONTRAVA TIFOSI APPARTENENTI ALLA ‘NDRANGHETA PER MANTENERE L’ORDINE ALLO STADIO’. LA DURISSIMA ACCUSA DEL PROCURATORE DELLA FIGC 2. SECONDO IL PREFETTO PECORARO, AGNELLI COLLABORAVA CON GLI ULTRÀ, FORNENDO BIGLIETTI E ABBONAMENTI, ANCHE A CREDITO E SENZA DOCUMENTI, PER TENERLI BUONI 3. FABIO GERMANI, LEGATO ALLA COSCA CALABRESE PESCE-BELLOCCO, IL 15 GENNAIO 2014 DICEVA: "IO VADO A TROVARE IL PRESIDENTE AGNELLI IN UFFICIO OGNI TRE PER DUE" 4. MAROTTA, NEMICO DI ANDREA DENTRO LA JUVE, POTREBBE ESSERE SENTITO DALLA COMMISSIONE ANTIMAFIA, CHE INDAGA SULLA FACCENDA INSIEME ALLA PROCURA DI TORINO 5. L’ALGIDO COMUNICATO JUVENTINO: ‘NESSUN DIRIGENTE È INDAGATO, COLLABORIAMO DA MESI NELL’INCHIESTA SULLE INFILTRAZIONI MAFIOSE’. OK, MA PERCHE' NON SMENTISCE GLI INCONTRI?

L'INCHIESTA CHE FA TREMARE LA JUVE, RAPPORTI TRA AGNELLI E MAFIOSI



AGI - Il presidente della Juventus Andrea Agnelli accusato dal procuratore della Federcalcio, l'ex prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, di aver incontrato esponenti della criminalità organizzata scendendo a patti con loro per mantenere la quiete allo stadio. Come scrive  in esclusiva 'Il Fatto Quotidiano', la procura federale della Figc accusa la Juve e il suo presidente di illeciti con bagarini e ambienti criminali.

La conclusione indagini della giustizia sportiva attribuisce però al numero uno bianconero anche rapporti personali con esponenti della malavita organizzata. Il Fatto Quotidiano in edicola pubblica l'inchiesta dei magistrati di Torino e della Figc che fa tremare la Juventus. Secondo Pecoraro, per garantire la pace e la quiete allo stadio, il club garantiva agli stessi ultras bagarinaggio esclusivo e sugli affari della malavita organizzata.



Ecco quello che scrive il prefetto Pecoraro: "Con il dichiarato intento di mantenere l’ordine pubblico nei settori dello stadio occupati dai tifosi ‘ultras’, (Agnelli) non impediva ai tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti ‘gruppi ultras’, anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata, autorizzando la fornitura agli stessi di dotazione di biglietti e abbonamenti in numero superiore al consentito, anche a credito e senza presentazione dei documenti di identità dei presunti titolari, così violando disposizione di norme di pubblica sicurezza sulla cessione dei tagliandi per assistere a manifestazioni sportive e favorendo, consapevolmente, il fenomeno del bagarinaggio”.



L'accusa più grave per Agnelli, però, è quella di aver "partecipato personalmente in alcune occasioni, a incontri con esponenti della malavita organizzata e della tifoseria ‘ultras’". La procura, come riferisce il quotidiano, cita poi un'intercettazione di Fabio Germani, un ex ultrà legato a un esponente della cosca mafiosa calabrese Pesce-Bellocco, che il 15 ennaio 2014 diceva:"Io vado a trovare il presidente Andrea Agnelli in ufficio ogni tre per due".


Marotta potrebbe essere sentito dall'Antimafia

L'amministratore delegato della Juventus, Giuseppe Marotta - riferisce Tuttojuve.com citando il QS - potrebbe essere sentito dalla Commissione Antimafia, allarmata da alcuni mesi per il suicidio di un capo ultrà juventino. La procura di Torino sta facendo luce (al pari della Federcalcio che da tempo ha avviato una indagine interna parallela) sul legame tra la curva e la ’ndrangheta. Non si esclude che possa essere invitato lo stesso amministratore delegato bianconero, sottolineano fonti parlamentari della Commissione, per fornire un aiuto ad inquadrare meglio l’accaduto. Ma si tenterà di capire, spiega un altro membro della commissione, anche qual è il legame tra alcuni capo tifosi del Napoli e la camorra.




2. JUVENTUS, L'OMBRA DELLA MALAVITA SUI RAPPORTI AGNELLI-ULTRAS

Ci sarebbe l'ombra della malavita dietro i rapporti tra Andrea Agnelli e il tifo organizzato della Juventus. Questo, almeno, è quanto sostiene Il Fatto Quotidiano nel pubblicare gli stralci dell'accusa che la procura federale avrebbe rivolto all'indirizzo del club bianconero per la gestione dei biglietti.



«ILLECITI CON BAGARINI E AMBIENTI CRIMINALI». Nel dettaglio, il presidente della Juventus sarebbe accusato dal procuratore della Federcalcio, l'ex prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, di avere incontrato esponenti della criminalità organizzata, scendendo a patti con loro per mantenere la quiete allo stadio. Secondo quanto riportato dal quiotidiano, «la procura federale della Figc accusa la Juve e il suo presidente di illeciti con bagarini e ambienti criminali».

«INCONTRI CON ESPONENTI DELLA MALAVITA». Nell'articolo si parla «di presunto accordo tra la Juventus e i gruppi ultras per assicurare la quiete allo stadio». L'accusa più grave per Andrea Agnelli, scrive Il Fatto è nel passaggio del documento di chiusura indagini in cui il procuratore federale accusa il presidente di aver «partecipato personalmente, in alcune occasioni, a incontri con esponenti della malavita organizzata e della tifoseria ultras». L'ex prefetto, ricorda sempre Il Fatto, «ha ricevuto a novembre gli atti da Torino e, dopo ulteriori accertamenti, ha deciso di non archiviare».



NESSUN INDAGATO TRA I BIANCONERI. «I rilievi di Pecoraro e colleghi sono ispirati dalle carte di Torino e dalle deposizioni di Rocco Dominello, identificato come esponente della cosca Pesce-Bellocco della 'ndrangheta. Nel corso dell'indagine Alto Piemonte non erano emerse frequentazioni e incontri diretti con la Juventus, ma un'intercettazione ha instillato qualche dubbio» Viene precisato, poi, che «nessun dirigente è indagato», ma che «la Juve non è neanche ritenuta parte offesa». E, infine, che «il caso interessa anche la commissione parlamentare Antimafia, che nei prossimi giorni ascolterà i magistrati torinesi che conducono l'inchiesta».

«NORME DI PUBBLICA SICUREZZA VIOLATE». Ecco quello che scrive il prefetto Pecoraro: «Con il dichiarato intento dimantenere l’ordine pubblico nei settori dello stadio occupatidai tifosi ‘ultras’, (Agnelli) non impediva ai tesserati, dirigenti e dipendenti della Juventus di intrattenere rapporti costanti e duraturi con i cosiddetti ‘gruppi ultras’, anche per il tramite e con il contributo fattivo di esponenti della malavita organizzata, autorizzando la fornitura agli stessi di dotazione di biglietti e abbonamenti in numero superiore al consentito, anche a credito e senza presentazione dei documenti di identità dei presunti titolari, così violando disposizione di norme di pubblica sicurezza sulla cessione dei tagliandi per assistere a manifestazioni sportive e favorendo, consapevolmente, il fenomeno del bagarinaggio».




3. L’EVASIVO COMUNICATO DELLA JUVE (CHE NON SPIEGA NIENTE)
In merito all'articolo pubblicato sul quotidiano Il Fatto Quotidiano la Juventus ha diramato un comunicato ufficiale per rispondere ai fatti mostrati nel suddetto articolo.

Ecco il testo del comunicato:

Juventus Football Club e il Presidente Andrea Agnelli, alla luce di alcuni articoli pubblicati in questi giorni, comunicano di aver affidato ai legali la tutela della propria onorabilità e rispettabilità.



Si precisa che la Procura della Repubblica di Torino ha avviato, e recentemente concluso, un'indagine su alcune famiglie ritenute appartenenti alla ‘ndrangheta alle quali si contestano oltre a reati contro persone e patrimonio, anche il tentativo di infiltrazione in alcune attività di Juventus Football Club. Si ricorda inoltre che nessun dipendente o tesserato è stato indagato in sede penale.

Si precisa altresì che, nel pieno rispetto delle indagini e degli inquirenti, la società ha sempre collaborato mantenendo uno stretto riserbo a tutela del segreto istruttorio. Per quanto attiene alla giustizia sportiva, la società ha già dimostrato fattivamente la propria disponibilità a collaborare.
http://www.dagospia.com/rubrica-30/sport/presidente-andrea-agnelli-incontrava-tifosi-appartenenti-140160.htm

sabato 21 gennaio 2017

VOI STANDARD, NOI POOR'S - ''LE AGENZIE DI RATING HANNO TRUCCATO I DATI PER AFFONDARE L'ITALIA''. A PIÙ DI CINQUE ANNI DA QUEL 2011 DOVE LO SPREAD SI È MANGIATO IL GOVERNO BERLUSCONI E L'ECONOMIA ITALIANA, IL PM CHIEDE LA CONDANNA PER STANDARD & POOR'S - BRUNETTA: ''FU UN COMPLOTTO ORDITO DA OLIGARCHIE, TROIKA, BANCHE DI AFFARI E MASSONERIE INTERNAZIONALI''

Gian Maria De Francesco per ''il Giornale''



Nel 2011 l' Italia «stava messa meglio di tutti gli altri Stati europei», ma da parte di Standard & Poor' s c' è stata «la menzogna, la falsificazione dell' informazione fornita ai risparmiatori», mettendo così «in discussione il prestigio, la capacità creditizia di uno Stato sovrano come l' Italia».

Le parole, pronunciate ieri dal pm di Trani, Michele Ruggiero, durante la requisitoria del processo per manipolazione del mercato a carico di cinque tra analisti e manager dell' agenzia di rating statunitense, confermano quanto emerso dal quadro probatorio: il downgrading del nostro Paese tra maggio 2011 e gennaio 2012 mancava di giustificazioni macroeconomiche e aveva in sé ragioni speculative e forse anche politiche.



Per questo motivo il pubblico ministero alla fine della requisitoria ha chiesto la condanna a due anni di reclusione e 300mila euro di multa per Deven Sharma, all' epoca presidente mondiale di S&P, e a tre anni di reclusione ciascuno e 500mila euro di multa per Yann Le Pallec, responsabile per l' Europa, e per gli analisti del debito sovrano Eileen Zhang, Franklin Crawford Gill e Moritz Kraemer. Per la società di valutazione è stata chiesta la condanna alla sanzione pecuniaria di 4,647 milioni di euro.

Insomma, mentre il quarto governo Berlusconi viveva la sua fase più angosciosa sotto la spinta della crisi da spread, l' agenzia di rating non avrebbe ottemperato agli obblighi di veridicità delle informazioni fornite. I report sotto accusa sono quattro, l' ultimo dei quali è il declassamento del rating dell' Italia di due gradini (da A a BBB+) del 13 gennaio 2012. Il confronto tra 2010 e 2011 citato Ruggiero, che ha parlato per cinque ore, attiene al fatto che il contratto tra il Tesoro e l' agenzia di rating, durato 17 anni, cessò nel 2010 «ed è dal 2011 - ha sostenuto il magistrato - che si registrano bocciature dell' Italia da parte dell' agenzia» adducendo così un «movente ritorsivo» per il delitto contestato.



Il pm ha poi fatto riferimento alla testimonianza del direttore del Debito pubblico presso il Tesoro, Maria Cannata, secondo cui S&P «avrebbe sempre enfatizzato aspetti critici rispetto all' Italia» e che parlare con i suoi analisti era come «parlare al vento». Ruggiero ha citato come «bazooka fumante» due intercettazioni.

La prima è la telefonata del 3 agosto 2011 tra l' ex manager S&P Maria Pierdicchi col presidente Sharma in cui si faceva riferimento al fatto che «serve più personale senior che si occupi dell' Italia», dunque ammettendo l' impreparazione del team di valutazione. La seconda è una mail dell' ex responsabile corporate rating Renato Panichi nella quale si sottolineava come la valutazione del sistema bancario al momento del taglio del rating fosse «esattamente contraria alla situazione reale».



«Molti indizi raccolti fanno più di una prova sul complotto ordito da oligarchie, troika, banche di affari e massonerie internazionali, per abbattere e sostituire con un loro fiduciario, un governo democraticamente eletto, quello presieduto da Silvio Berlusconi», ha commentato il capogruppo di Fi alla Camera, Renato Brunetta, parlando di «un vero e proprio colpo di Stato» e invocando ancora una commissione d' inchiesta parlamentare. «Le agenzie di rating sono state gli esecutori di un complotto che però ha mandanti politici», ha chiosato la deputata azzurra Elvira Savino. S&P ha ribadito che «le accuse non sono suffragate da prove degne».

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/voi-standard-noi-poor-agenzie-rating-hanno-truccato-dati-139809.htm

martedì 10 gennaio 2017

DOPO IL TITANIC, IL MONTEPASCHI – STORIA E FLOP DI JPMORGAN, UNA BANCA CHE E’ PASSATA DA MUSSOLINI A RENZI, MA HA AIUTATO ANCHE PRODI, VATICANO E FIAT – CON L’OPERAZIONE MPS PRETENDEVA GUADAGNI SUPERIORI ALLA CAPITALIZZAZIONE DI BORSA DELLA BANCA – IL SUO FONDATORE E’ MORTO A ROMA

Bernardo Fanti per La Verità



Qualcuno in Italia, nello stendergli il tappeto rosso, l' aveva definita «l' ancora di salvezza dei governi e degli istituti centrali» per come si è sempre affiancata alle istituzioni nelle più delicate operazioni finanziarie. Tuttavia, prima di ripercorrerne la storia, sarebbe utile ricordare che Jp Morgan, come tutte le banche, non fa beneficenza ma soltanto affari in giro per il mondo. E la partita che ha voluto giocare in Italia nell' operazione Monte dei Paschi è stata forse, per il nostro paese, la più visibile di sempre, sia in termini di reputazione che di remunerazione. Sennonché, il fatto è stranoto, il suo piano è stato un totale fiasco e al salvataggio dell' istituto senese ci ha dovuto (e ci dovrà) pensare lo stato italiano.




Ripasso veloce. A fine luglio 2016 Mps viene bocciata agli stress test (è la peggiore banca tra le 50 analizzate). Decide allora di affidare il suo destino a Jp Morgan, la più grande banca americana, numero tre al mondo per capitalizzazione, sponsorizzata direttamente da Palazzo Chigi. Si racconta di una cena in quei giorni tra il numero uno di Jp Morgan, Jamie Dimon, e l' allora inquilino di Palazzo Chigi, un Matteo Renzi preoccupatissimo di sporcarsi nuovamente l' immagine con una banca. Il primo rassicurò: a risolvere il problema ci penseranno i miei ragazzi; e il secondo garantì un mandato in bianco sulla terza banca italiana. Dimon passa il cerino a Guido Nola, capo delle attività in Italia, mentre Vittorio Grilli, che dal 2014 guida le operazioni in Europa, Medio Oriente e Africa, visto il suo recente passato al governo, per eleganza rimane dietro le quinte.





Il piano per Mps più che strategico era un vero e proprio rilancio (accezione pokerista): 1) aumento di capitale da piazzare tutto sul mercato da 5 miliardi di euro (dieci volte il valore di mercato della banca, una prodezza mai realizzata) senza nemmeno un vero consorzio di garanzia; 2) cessione completa del portafoglio sofferenze: 28 miliardi di euro il valore a libro, 9 miliardi il prezzo di vendita (la cui riscossione non sarebbe stata immediata ma successiva al collocamento di tre emissioni obbligazionarie con sottostante proprio quegli Npl); 3) prestito ponte da 6 miliardi per un massimo di 18 mesi fornito dalla stessa Jp Morgan a Mps (al tasso del 6% annuo) nell’attesa che l’acquirente delle sofferenze potesse cartolarizzarle (vedi punto 2) con garanzia pubblica; 4) tutto da fare entro fine 2016, al costo ottimistico, tra commissioni ed interessi, di circa 600 milioni di euro (più di quanto valeva Mps in borsa).





Ma lo schema non decolla. Decine di incontri con investitori vanno a vuoto. Eppure era stato fatto di tutto per facilitare la combinazione astrale. Prima vengono messi alla porta Ubs e Corrado Passera, che avevano presentato un piano alternativo. Poi è il turno di Fabrizio Viola che, su suggerimento di Jp Morgan (indispettita dalle resistenze dell' ad di Mps, a cui pretendeva di dare ordini, e dal fatto che Viola avesse voluto imporre la formula success fee: le commissioni te le pago solo se il piano funziona), viene licenziato con una telefonata di Pier Carlo Padoan e sostituito con Marco Morelli, capo della Bank of America Merrill Lynch in Italia e un passato in Jp Morgan.



Il tempo di rendersi conto della situazione e Morelli è costretto a dire che sì, forse trovare sul mercato 5 miliardi è un po' difficile, in effetti si potrebbe cominciare con la conversione dei subordinati. Si apre allora un fantozziano conto alla rovescia tra anchor investor evocati e mai apparsi e le conversioni negate e poi autorizzate (la Mifid riposi in pace). Finché il 22 dicembre il complicato piano di Jp Morgan muore ufficialmente: dispiace ma non si è fatto avanti nessuno.



Patetica lettera di ringraziamento a parte, per la banca americana il fallimento dell' operazione senese non può che bruciare, e non solo per la perdita di ricche commissioni, ma anche per l' orgoglio e la reputazione. Da quando John Pierpont Morgan (che la fondò insieme ad Anthony Drexel nel 1871) divenne il re di Wall Street, è entrata in tutti i grandi giochi politico -finanziari plasmando come nessuno il capitalismo del Novecento.


E i legami con l' Italia sono antichi e molto stretti. Nel 1910 John Pierpont venne invitato ad assumere l' incarico di presidente onorario nella commissione straniera per la preparazione del 50° anniversario dell' unità d' Italia. E il caso volle che trovasse la morte nel sonno proprio a Roma, il 31 marzo del 1913, all' età di 75 anni, nella suite reale del Grand Hotel dove risiedeva una volta l' anno.

I suoi successori rimarranno fedeli alla tradizione e, tra le altre cose, daranno una mano all' Italia durante la Grande guerra, negli anni Venti finanzieranno Mussolini per favorire il ritorno della lira nel gold standard e dopo la seconda guerra mondiale aiuteranno la Fiat in Italia e negli Stati Uniti. Tra i suoi clienti eccellenti ha annoverato a lungo anche il Vaticano con un conto dello Ior (poi chiuso nel 2012 per qualche sospettuccio di riciclaggio).





Restando ancora all' Italia, quando a metà degli anni Novanta diventò fondamentale il rispetto del 3% di deficit sul Pil per entrare in Europa, fu Jp Morgan a dare una grossa mano all' allora governo Prodi per allineare i parametri. Si racconta di un genietto dei prodotti derivati dell' epoca che si inventò uno swap tra lo yen e la lira che permetteva di contabilizzare immediatamente un utile per l' Italia e che veniva pagato a rate negli anni successivi senza figurare come passività nella contabilità nazionale.

Ed è nel momento peggiore della crisi, quando Deutsche Bank scarica sul mercato decine di miliardi di titoli di stato italiani, che Jp Morgan cerca di distinguersi dal coro, fedele alla tradizione, aumentando la propria esposizione verso controparti italiane: 5 miliardi nel 2011, che diventano 7,5 miliardi nel 2015 e 8,4 nel marzo 2016.







Intanto la potenza di Jp Morgan era aumentata notevolmente, sfruttando all' inizio del 2000 la possibilità offerta da Bill Clinton di diventare banca universale. Prima la fusione con la Chase Manhattan, poi con Bank One. Quando scoppia la crisi finanziaria nel 2008 è costretta dal governo a rilevare Bear Stearns sull' orlo del collasso, Washington Mutual pieno di mutui subprime, e a partecipare al salvataggio di Aig presso cui erano assicurate tutte le grandi banche del mondo. D' altronde, fu il suo fondatore a inventare quel gentleman banker' s code («la fiducia prima di tutto») che ancora si ritrova nell' attuale ceo Jamie Dimon.



Al timone dal 2005, stipendio base una ventina di milioni l' anno, da allora è sopravvissuto al crollo di Lehman Brothers, alla grande crisi finanziaria e a un cancro alla gola. Si presume quindi che sopravviverà anche al fallimento dell' operazione Mps. Non fosse altro per il fatto che recentemente ha rifiutato la carica di segretario al Tesoro offertagli da Donald Trump.



E non possiamo finire senza parlare anche di guai perché, del resto, Jp Morgan ne ha avuti parecchi. Nel 2010 arriva il cosiddetto scandalo London Whale. Un gigantesco ammanco scoperto nella filiale della City: 6 miliardi di dollari persi nella compravendita di derivati. Un anno dopo, parte una denuncia per truffa sui mutui subprime. La banca viene ritenuta responsabile del grande crac del 2008, dal quale si è salvata perché ha cominciato a uscire un anno prima dal settore immobiliare.



«Abbiamo capito prima degli altri che la bolla stava per scoppiare», si sono difesi alla Jp Morgan. Poi però ha patteggiato un risarcimento da 13 miliardi di dollari. Infine, è stata multata per parecchie centinaia di milioni di euro per aver manipolato, insieme ad altre banche, nell' ordine: il tasso Euribor, il tasso interbancario Libor e il tasso di cambio euro -dollaro.





Tornando a John Pier pont Morgan, una piccola nemesi. In pochi sanno che nel 1902 finanziò la nascita dell' International mercantile marine company, una compagnia di navigazione che puntava a controllare i trasporti oceanici. La Immc possedeva un transatlantico dal nome Titanic. E il suo affondamento nel 1912 segnò la strada verso il fallimento della compagnia. Prova che anche ai grandi banchieri, ogni tanto, capita di scommettere sul cavallo sbagliato.

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/dopo-titanic-montepaschi-storia-flop-jpmorgan-banca-che-139016.htm 

lunedì 2 gennaio 2017

Varisco, il Colonnello dei misteri, da Pecorelli ad Andreotti

Inchiesta speciale di Cronaca&Dossier sulla morte del colonnello Antonio Varisco, testimone dei grandi misteri italiani


0Antonio Varisco aveva la divisa dell’Arma nel cuore, cresciuto com’era con il doloroso fardello delle traversie storiche della sua città: Zara.
Classe 1927, Varisco inizia la sua carriera nei Carabinieri da giovanissimo, diventando ufficiale già nel dicembre 1957. Compiuti appena 30 anni viene destinato a Roma, con il compito di organizzare la sicurezza degli uffici giudiziari.
La sua carriera ha una svolta nel 1973, siamo in piena emergenza eversiva, i giudici e gli avvocati sono bersaglio dei gruppi terroristici di estrema sinistra ed estrema destra, Varisco ottiene una promozione a Maggiore e gli viene affidata la responsabilità del Nucleo di Polizia Giudiziaria, sempre a Roma.
Anni difficili, anche perché Varisco svolge e collabora anche con indagini che toccano i nervi scoperti di quel sottobosco di terrore, che lavora alla destabilizzazione dell’ordinamento democratico.
Ed è in questo fango di collusione tra politica ed eversione che Varisco diventa un elemento cardine, tanto che nel 1976, costituisce il “Reparto Servizi Magistratura”.

Carmine Pecorelli.Attento, puntiglioso e con una capacità di relazionarsi con simpatia negli ambienti molto rigidi e abbottonati che frequenta, ha qualità che lo rendono un punto di riferimento anche per i cronisti di nera, che vedono in lui un interlocutore brillante, simpatico e rispettato anche da un cronista come Mino Pecorelli. Varisco lo considera un talento, si vedranno spesso, il Colonnello e il direttore di Osservatore Politico (OP). Una conoscenza questa che comunque si ammanterà di mistero, come ogni cosa, quando c’è di mezzo Pecorelli.



iandret001p1Varisco intanto fa carriera: si occupa dello scandalo Lockheed, viene coinvolto nell’inchiesta sulla Rosa dei Venti, per poi occuparsi dello scandalo Italcasse, inchieste che vedono coinvolti apparati dello Stato ai massimi livelli.
Sarà anche chiamato in causa dal giudice Vittorio Occorsio nelle primissime indagini sulle P2 di Gelli, delegando il Colonnello a indagare su una riunione segreta della Loggia tenutasi nel 1975; quella Loggia che il Giudice considerava implicitamente legata all’eversione nera, un mostro inafferrabile e dalle mille teste.
Tra le più scottanti seguite da Varisco c’è l’inchiesta sul caso Moro.
Si diceva di Mino Pecorelli. Varisco frequentava un ufficio in piazza delle Cinque Lune ed è certo che anche il giornalista direttore di OP frequentasse quell’ufficio nei giorni del sequestro Moro. Quale che sia il motivo, alcuni memoriali dello statista ucciso dalle Brigate Rosse vengono pubblicati da Pecorelli, che sembra molto informato a dispetto dei suoi colleghi. È un uomo sicuramente geniale, ma anche molto informato.

Di quante informazioni Mino Pecorelli fosse a conoscenza non potremo mai saperlo con certezza perché il 20 marzo del 1979 viene ucciso sotto la sede del suo giornale, in via Tacito 50. Giuseppe D’Avanzo, sul Corriere della Sera del 25 settembre 1999 scriverà che quella sera Varisco, insieme a Domenico Sica arriva sul posto poco dopo l’omicidio, salgono in redazione e mentre stanno perquisendo l’ufficio trovano un biglietto dalla firma illustrissima. «Caro Pecorelli, le invio questo medicinale perché possa lenire la sua cefalea. Io, come lei sa, soffro del medesimo male. Importante è comunque che lei si prenda un periodo di riposo. Giulio Andreotti».
Un invito cordiale o un “ordine”? Varisco ne rimase colpito, anche perché pochi giorni dopo quella morte, in un taxi a Roma viene ritrovato (quanto casualmente) un borsello con appunti eversivi e alcune schede di persone in vista, tra qui quella di Pecorelli, con un appunto che riguarda da vicino il Colonnello.


Colonnello Antonio Varisco.Su quella scheda, falsa, vera o ad uso e consumo di un depistaggio, c’era un appunto inquietante: «Mino Pecorelli (da eliminare) preferibilmente dopo le 19 nei pressi della redazione di OP». A margine poi, un’altra importante annotazione: «Martedì 6 marzo 1979 causa intrattenimento prolungato presso alto ufficiale dei Carabinieri, zona piazza delle Cinque Lune, l’operazione è stata rinviata».
L’alto ufficiale era proprio lui. Si dice che quell’omicidio lo abbia convinto a lasciare l’Arma, a soli 52 anni e con una carriera sicura, c’è chi ipotizza invece un possibile salto di qualità del suo ruolo investigativo proprio uscendo dal ruolo palese ed istituzionale che si era ritagliato, fatto sta che il colonnello Varisco rassegna le dimissioni subito dopo quell’omicidio. Concluderà il suo mandato il 30 luglio del 1979, andando a dirigere la sicurezza di un colosso dell’industria italiana.
Il 13 luglio, a bordo della sua BMW 2002 sta percorrendo Lungotevere Arnaldo da Brescia. Deve recarsi a Piazzale Clodio, sono gli ultimi giorni di lavoro, siamo al passaggio di consegne con l’ufficiale che lo sostituirà. Due auto gli si affiancano in un tratto dove la strada si restringe per un cantiere della metropolitana. Gli sparano 4 colpi con due fucili a canne mozze, uccidendolo all’istante.

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