A quasi quattordici anni dal crac Parmalat sono stati tutti assolti i nove ex dirigenti di Morgan Stanley e Deutsche Bankfiniti nel girone di uno dei filoni del processo sul clamoroso default del 2003. Lo ha deciso il tribunale di Parma con sentenza di primo grado dopo un dibattimento durato anni, tra perizie e consulenze tecniche e finanziarie. Per Paolo Basso, Carlo Pagliani, Salvatore Orlacchio, Raffaele Coriglione, Stefano Corsi, Carlo Arosio, Giorgio Di Domenico, Marco Pracca e Tommaso Zibordi, ex manager e funzionari dei due gruppi bancari, si chiude così il capitolo che li vedeva coinvolti nel tracollo della multinazionale del latte. Erano accusati a vario titolo di concorso in bancarotta fraudolenta e usura. Il pm Giuseppe Amara lo scorso febbraio aveva chiesto per gli imputati pene dai 3 anni e 10 mesi ai 5 anni, ma il collegio di giudici presieduto da Gennaro Mastrobernardino li ha assolti “perché il fatto non costituisce reato” e “perché il fatto non sussiste”, mentre per alcuni capi di imputazione, come richiesto dalla procura, è stata dichiarata la prescrizione.
I rinvii a giudizio risalgono al 2009. Nel mirino della procura erano finite le operazioni che i dirigenti dei due istituti bancari avrebbero messo in atto in concorso con i vertici di Parmalat nonostante, secondo l’accusa, fossero al corrente che l’azienda si trovava sull’orlo del default. In particolare, l’attenzione dei magistrati si era concentrata sulla vendita di titoli (private placement) da 300 milioni di euro effettuata da parte di Parmalat Finance Corporation presso l’investitore istituzionale Nextra Investment Sgr del gruppo Intesa e curata da Morgan Stanley come mediatore nel luglio del 2003. Pochi mesi prima del crollo del gruppo. Secondo gli inquirenti l’operazione avrebbe avuto lo scopo, per i vertici Parmalat, di ingannare soci e pubblico riguardo al merito di credito (rating) del gruppo. Contestato anche un bonddella durata di sette anni emesso da Deutsche Bank a settembre 2003 e collocato presso investitori istituzionali, con la diffusione di notizie allo scopo di tranquillizzare il mercato sull’affidabilità creditizia dell’azienda di Collecchio. L’istituto inoltre sempre nel 2003 secondo l’accusa avrebbe erogato a Parmalat 23 milioni di premi per contratti derivati che, anche in conseguenza del corrispettivo usuraio talora trattenuto dalla banca, avrebbero generato un’esposizione debitoria di oltre 51 milioni al momento del default.
Tutte accuse che sono sfumate con l’assoluzione da parte del tribunale di Parma il 17 luglio 2017. Un finale che nel processo Parmalat ha accomunato in questi anni molti banchieri finiti a vario titolo nei filoni giudiziari sul crac del re del latte che ha sempre puntato il dito contro gli istituti di credito. A differenza di Calisto Tanzi, tuttavia, i banchieri sono quasi sempre riusciti a uscire indenni dalle aule dei tribunali. Con l’eccellente eccezione diCesare Geronzi, l’ex presidente di Capitalia che è stato condannato per usura nel filone Ciappazzi. Non così Morgan Stanley, Bank of America e Deutsche Bank, accusate di aggiotaggio e assolte nel processo milanese conclusosi nel 2011. Stessa sorte avevano avuto nel 2016 anche gli ex manager di Jp Morgan accusati di bancarotta fraudolenta. L’ultimo capitolo, almeno in primo grado, è stato quello di Deutsche Bank e Morgan Stanley.
Caso molto a sé, infine, quello di Citibank. Un tribunale del New Jersey, negli Stati Uniti, non solo ha confermato in appello la decisione di non riconoscere il risarcimento dei danni chiesti da Parmalat. Ma ha anche costretto Collecchio a versare 431 milioni di dollari alla banca americana. Provvedimento cui la Corte d’Appello di Bologna ha dato pieno riconoscimento. Tuttavia alla sentenza americana fa da contraltare il contenzioso milanese in cui il gruppo agroalimentare ha chiesto a Citi 1,8 miliardi di euro di danni. La sentenza è attesa entro la fine dell’anno, ma secondo quanto trapelato a margine dell’ultima udienza, a inizio giugno, ci sono già stati i primi contatti informali tra i legali delle parti per una eventuale transazione che, qualora andasse in porto, potrebbe mettere la parola fine anche alle pretese di Citigroup nei confronti di Collecchio.
Ha collaborato Roberta Benvenuto