martedì 17 luglio 2018

UN CIRINO ACCESO SULLE PRIVATIZZAZIONI AD MINCHIAM DEGLI ANNI ’90: “CON LA SCUSA DI DOVER RIDURRE IL DEBITO PUBBLICO, HANNO PRODOTTO I DISASTRI STILE TELECOM” “Non vogliamo tirare in ballo il Britannia o ipotesi complottarde, ma colpisce che a destra come a sinistra negli ultimi vent’anni parte rilevante della nostra classe dirigente è stata sul libro paga di banche d’affari come la Goldman Sachs, spesso al centro di indagini e di sanzioni internazionali”

Paolo Cirino Pomicino per "Il Foglio"
Al direttore - L'indignazione è forte, fortissima. Né ci può confortare il fatto di averlo anticipato e denunciato da almeno 15 anni a questa parte. Ci riferiamo al passaggio di mano del controllo di Telecom Italia agli spagnoli di Telefonica, ultima tappa di una spoliazione del sistema produttivo italiano iniziato con la fine della Prima Repubblica.


Nelle polemiche degli anni Novanta fummo tacciati di antica vocazione statalista allorquando contrastavamo lo sciagurato disegno delle privatizzazioni purchessia con la scusa di dover ridurre il debito pubblico. In vent'anni abbiamo venduto aziende o quote di maggioranza di aziende strategiche per circa 160 miliardi di euro e il nostro debito pubblico è aumentato di ben 1.200 mld di euro a fronte degli 839 mld lasciati in eredità da quella Prima Repubblica che pure aveva trasformato il nostro paese da nazione prevalentemente agricola in uno dei paesi più industrializzati del mondo battendo nel contempo il più grande Partito comunista dell'occidente, le Brigate rosse e il terrorismo stragista di destra.
Tutto questo poteva avvenire grazie anche all'apporto delle vituperate partecipazioni statali che consentirono all'Italia di entrare nei grandi settori a tecnologia avanzata, dalle telecomunicazioni all'energia, dall'avionica al settore spaziale, dai sistemi di armamenti alla chimica fine e via di questo passo facendo crescere una classe manageriale di grande qualità.

Invano abbiamo tentato di convincere che il tema vero per il nostro paese era quello di internazionalizzare il suo sistema produttivo e finanziario senza immaginare, come è invece accaduto negli ultimi vent'anni, che l'internazionalizzazione fosse la vendita in blocco del migliore patrimonio tecnologico del paese tenuto sino al '92 in mano pubblica.
L'obiettivo dell'internazionalizzazione cui pensavamo era quello di rendere il nostro capitalismo uno dei protagonisti del riassetto del capitalismo europeo come peraltro hanno fatto Germania e Francia mantenendo in mani pubbliche alcuni asset produttivi di valore strategico tra cui, appunto, quello delle telecomunicazioni. Una linea essenziale per un paese come l'Italia che stava perdendo il suo ruolo geopolitico.
Dopo anni di polemiche contro quel pensiero unico che riteneva la modernità sinonimo di privatizzazioni purchessia, una valutazione politica finale di un ventennio sciagurato sotto tutti gli aspetti va pure fatta. Non sappiamo ancora se per inadeguatezza politica e culturale o per complicità remunerata, certo è che l'Italia di oggi, impoverita economicamente e socialmente, non ha più nelle proprie mani quegli strumenti finanziari, produttivi e tecnologicamente innovativi che avrebbero potuto garantire quel ruolo strategico negli equilibri internazionali.

Quel che è più grave è il fatto che nel percorso delle privatizzazioni vi siano stati scandali e plusvalenze private da capogiro che solo la nostra flebile voce ha denunciato negli anni, dalla Seat pagine gialle alla Avio, per finire alla stessa Telecom. E pensare che dopo sollecitazioni infinite il paese si era convinto a utilizzare in maniera più moderna la nostra Cassa depositi e prestiti come strumento di politica industriale ed economica. Addirittura era stato creato un apposito fondo strategico affidato a tal Tamagnini che si è limitato a entrare nei supermercati, nelle assicurazioni generali, in una azienda farmaceutica e nella Metroweb, l'azienda milanese che gestisce la banda larga del capoluogo lombardo.

Questo fondo ha visto passare ultimamente sotto i propri occhi la società Avio e la vicenda Telecom senza che muovesse un dito probabilmente per indicazione di una politica sciatta e forse compromessa. Non vogliamo tirare in ballo il Britannia o ipotesi complottarde di "spectre" internazionali, ma colpisce che a destra come a sinistra negli ultimi vent'anni parte rilevante della nostra classe dirigente è stata sul libro paga di banche d'affari come la Goldman Sachs molto spesso al centro di indagini e di sanzioni internazionali.
Senza andare oltre per amor di patria vogliamo dire al governo che su questa vicenda ha ancora a disposizione gli strumenti per intervenire interrompendo questo folle passaggio di mano nel controllo di Telecom.
Ci riferiamo alla Cdp e al suo fondo strategico che, peraltro, ha fatto una joint-venture con il fondo sovrano del Qatar per investimenti di rilievo. A chi poco capisce o fa finta di capire poco vogliamo dire che non è senza conseguenze per l'Italia privarsi del controllo di grandi aziende a tecnologia avanzata perché mai come oggi l'equilibrio tra paesi si regge sulla finanza, la ricerca e la formazione del capitale umano.

Un paese come il nostro che ha il 95 per cento del suo sistema produttivo fatto di piccole e medie imprese ha bisogno di grandi società internazionalizzate capaci di attivare cospicui investimenti a redditività differita nei settori della ricerca e della innovazione distribuendone, poi, i risultati nell'universo mondo delle piccole imprese. Ci pensino Letta e i responsabili della maggioranza perché la storia li giudicherà prima di quando si pensi proprio sul terreno dell'interesse nazionale e della prosperità dell'intera società italiana.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/cirino-acceso-privatizzazioni-ad-minchiam-anni-90-63544.htm

Seat Pagine Gialle in macerie, a 16 anni dalla vendita La privatizzazione sbagliata di Antonio Vanuzzo

È ormai da dieci anni che il gruppo Seat Pagine Gialle continua ad annaspare. A fine luglio sono state ammesse al concordato preventivo in bianco Seat PG e Seat PG Italia, mentre nel corso dell’assemblea chiamata ad approvare la semestrale (in perdita per 1 miliardo) il consiglio d’amministrazione ha dato mandato agli avvocati Fabio Franchini ed Ettore Negro di capire se ci siano elementi per un’azione di responsabilità nei confronti degli ex amministratori e sindaci. A loro volta, alcuni investitori istituzionali hanno incaricato Davide Contini e Luca Dezzani dello Studio Grimaldi per tutelare i loro interessi. Il gruppo Nuovo Mille, con gli avvocati Ugo e Nicola Scuro, ha promosso una class action. Il commercialista Stella D’Atri rappresenta i piccoli risparmiatori. Circa 300mila, i veri perdenti in questa partita finanziaria zeppa di conflitti d’interesse. 
La due diligence dello Studio Franchini non arriverà prima di tre mesi, ma l’ex cda si è già messo al sicuro un anno fa ottenendo una manleva, che comprende anche i sindaci, sull’operato a partire dal 2009. Una misura che è stata oggetto, nel giugno 2012, addirittura di un’interpellanza da parte del senatore Pdl Stefano De Lillo. La Procura di Torino, intanto, lo scorso febbraio ha aperto un fascicolo sulla vicenda come atto dovuto. 
«Noi siamo arrivati a fine ottobre (2012, ndr) e nessuno avrebbe immaginato una situazione di dissesto di questo genere, che dopo due mesi ci ha portato ad accedere alla procedura di concordato», ha dichiarato recentemente Guido De Vivo, presidente di Seat PG. Il riferimento è agli effetti delle svalutazioni, che ha mandato in rosso per 968 milioni il patrimonio netto della società, positivo per 710 milioni di euro a settembre 2012. Un fulmine a ciel sereno?
Un passo indietro. Correva l’anno 1997, e l’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, metteva in vendita la Seat, di proprietà della Stet – l’emanazione dell’Iri che si occupava di telecomunicazioni – scindendola dal gruppo Telecom Italia. Bain Capital (fondata da alcuni ex manager di Bain & Co tra cui Mitt Romney, ex candidato repubblicano alla presidenza Usa), assieme ad altri investitori riuniti nella holding Ottobi, promossa dalla Comit (composta da De Agostini Bain Capital, Bc Partners, Abn Amro, Cvc Capital, Investitori Associati, Sofipa) rileva il 61,2% di Seat. Nel 1998 Ottobi si fonde con Seat in Seat Pagine Gialle. Come ha ricordato Bloomberg, fu Gianfilippo Cuneo, ex McKinsey che ha portato in Italia Bain & Co., a intermediare l’acquisto da parte di Mitt Romney. Ottenendo per la sua Investitori Associati un ritorno pari a 28 volte l’investimento iniziale. Un’operazione grazie alla quale nel 1999 i soci intascano un dividendo iperbolico: 1.700 miliardi di lire.
Bruscolini rispetto ai 6,7 miliardi di euro cash sborsati dalla Telecom Italia di Gnutti e Colaninno – azionisti di minoranza di Seat – nel 2000 per fondere le due compagnie. Nel 2003 la botta finale: Telecom Italia Media rimane sotto il controllo di Telecom, mentre Seat passa a Spyglass, cordata in cui troviamo ancora Cvc, Bc Partners e Permira. Per il 61,5% di Seat mettono sul piatto 960 milioni di equity, ma scaricano sulla società debiti per 2,2 miliardi. Di questi, 1,7 miliardi saranno ripagati parzialmente da un altro maxidividendo, stavolta da 3,5 miliardi, distribuito nel 2004. Non basterà: dal 2003 a oggi i fondi hanno perso 700 milioni. L’occasione per vendere di nuovo tutto si palesa nel 2005, il pretendente è Blackstone, ma l’accordo non andò mai in porto. 
Nel 2003 fu la società di consulenza Bain & Co. a fare la due diligence per conto dei fondi. Così come per l’aumento di capitale da 200 milioni del 2009, il bond da 650 milioni emesso nel 2010, e infine per il piano di ristrutturazione del 2011-2012, seguito direttamente da Andrea Buonomo, che aveva già lavorato in passato con Vincenzo Santelia, attuale amministratore delegato ed ex numero uno di Bain & Co. in Olanda. 
Il presidente Guido De Vivo – che figura tra i manager del fondo di private equity Progressio Sgr (ex azionista rilevante di Moncler, ndr) assieme a Giovanni Cagnoli, capo di Bain & Co. e azionista di minoranza di Seat – è stato invece membro del comitato istituito da alcuni sottoscrittori del bond Lighthouse, per tutelare i loro interessi. Il bond da 1,3 miliardi, emesso nel 2004, è stato convertito in azioni l’estate scorsa per 1,23 miliardi, mentre altri 65 milioni sono stati trasformati in senior bond e distribuiti pro quota agli obbligazionisti Lighthouse. Una mossa prodromica alla riduzione del debito da 2,7 a 1,5 miliardi e soprattutto al riscadenziamento a cinque anni dei pegni con le banche, contestuale alla creazione della newco Seat Pagine Gialle Italia, in cui sono stati conferiti gli asset di Seat Pagine Gialle, che ora è soltanto una holding.
Poi sono arrivate le svalutazioni monstre sugli intangibili, stimati in precedenza a 1,4 miliardi. Dopo la correzione di quella che parrebbe essere stata una forte svista al rialzo del valore del database, la società è andata a gambe all’aria la società e si è vanificato il piano industriale, che prevedeva 2-3 anni di tempo per ristrutturare il debito e provare a vendere le attività non strategiche – la più pregiata delle quali è la controllata tedesca Telgate – che però sono in vetrina ormai dal 2009.
A Bain & Co. sono andate commissioni per circa 15 milioni per il bond Lighthouse, mentre per la stesura del piano industriale tutti gli advisor hanno incassato complessivamente 90 milioni di euro. Domanda: come hanno fatto i Bain boys a non accorgersi di quello che stava succedendo? La società non commenta ufficialmente, ma fonti vicine al top management spiegano che De Vivo e Santelia non hanno mai avuto accesso ai numeri, ma soltanto alle linee guida strategiche, approvate dal professor Lorenzo Pozza dello studio Provasoli.  
Ora che di Seat è rimasto ben poco, l’imperativo categorico è vendere, e in fretta. Al 30 giugno i debiti commerciali sono pari a 150 milioni. Dunque nel limbo non ci sono soltanto gli azionisti/obbligazionisti, ma anche i fornitori. Vittime di una delle più clamorose operazioni di distruzione di valore d’Italia. Una storia da tenere bene a mente, quando si parla di dismissioni del patrimonio pubblico. 
Twitter: @antoniovanuzzo
https://www.linkiesta.it/it/article/2013/09/12/seat-pagine-gialle-in-macerie-a-16-anni-dalla-vendita/16357/

Seat Pagine Gialle, in 15 anni spariti 8 miliardi di euro. E nessuno se n’è accorto Seat Pagine Gialle, in 15 anni spariti 8 miliardi di euro. E nessuno se n’è accorto Dalla privatizzazione Prodi-Draghi ci sono stati ben cinque passaggi di mano. Ogni volta qualcuno si è arricchito, ma oggi la società non vale più nulla di Giorgio Meletti | 5 luglio 2014

Altro che tangenti. Se volete fare soldi facili quello che ci vuole è un bel fondo di investimento con cui spolpare una grande società quotata in Borsa. Il caso Seat Pagine Gialle è da manuale. Nel 2000 le sue azioni quotavano più di 7 euro, oggi il prezzo è misurato in decimillesimi di euro. O, se preferite, quindici anni fa la società valeva almeno 8 miliardi di euro, oggi ha una capitalizzazione (valore complessivo di tutte le azioni) attorno ai 25 milioni. In questi casi si parla impropriamente di “distruzione di ricchezza”. In realtà nella finanza, a meno che qualcuno non dia fuoco alle banconote, nulla si crea e nulla si distrugge. Più corretto è dire che i risparmiatori, i 5 mila lavoratori (a tanto sommano dipendenti agenti e indotto) e i fornitori della Seat sono stati derubati per miliardi di euro nella consueta totale indifferenza delle autorità di controllo. Non c’è bisogno di complicati algoritmi finanziari, basta padroneggiare l’addizione (e soprattutto la sottrazione) per capire in quali tasche si sono infilati gli 8 miliardi (pari a un Mose e mezzo) apparentemente scomparsi.

Nelle ultime settimane sono venuti al pettine i nodi di uno scandalo in grado di far impallidire il crac Parmalat. Alla Procura della Repubblica di Torino è aperto da tempo un fascicolo sui misfatti compiuti negli anni dalla meglio gioventù della finanza italiana. L’assemblea degli azionisti Seat ha avviato un’azione di responsabilità contro i manager del passato chiedendo indietro danni per 2 miliardi e mezzo di euro. Tra gli accusati i più bei nomi della finanza italiana, a cominciare dall’ex consigliere d’amministrazione Gian Maria Gros-Pietro, oggi presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, la prima banca italiana. Nella lista, oltre all’ex amministratore delegato Luca Majocchi, che se n’è andato nel 2009 con una buonuscita da 10 milioni di euro come premio per aver sfasciato l’azienda, finanzieri di rango come il docente bocconiano Maurizio Dallocchio, l’ex numero uno della Banca Commerciale Lino Benassi, i due boss della Investitori Associati Antonio Tazartes e Dario Cossutta, figlio del noto leader comunista Armando.

L’anno scorso il presidente della Seat Guido De Vivo ha chiesto e ottenuto l’ammissione al concordato preventivo con i creditori, ed è la prima applicazione della nuova legge che, sul modello del cosiddetto chapter eleven americano, lascia al consiglio d’amministrazione la gestione della crisi anziché commissariare l’azienda. Mercoledì scorso il presidente della commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, ha convocato De Vivo in audizione per vederci chiaro: “Il concordato preventivo in continuità, introdotto per favorire la difesa del tessuto industriale, può trasformarsi se mal gestito in uno strumento di speculazione finanziaria –spiega l’esponente Pd – e nel caso Seat colpisce che la società sia stata scalata dai cosiddetti fondi avvoltoio senza passare attraverso strumenti soggetti a sorveglianza come l’offerta pubblica di acquisto”. Incredibile ma vero. La Seat ha 1,5 miliardi di debiti finanziari, e trovandosi allo stremo ha approvato la conversione di quel debito in azioni. Il problema è che quel debito, essendo in capo a una società considerata decotta, è stato rastrellato da società internazionali specializzate per pochi euro: titoli per 1,5 miliardi nominali sono finiti in poche mani forti per non più di 150-200 milioni. Il problema è che queste sono solo voci di mercato o supposizioni: fra qualche settimana il 99,75 per cento delle azioni Seat saranno in mano a entità misteriose, di cui la stessa Consob non conosce l’identità.
Ma la Seat – benché le sue Pagine Gialle siano azzoppate dall’evoluzione della tecnologia – ha ancora 400-500 milioni di fatturato, un migliaio di dipendenti, 1.300 agenti, 2.000-2.500 persone che lavorano nell’indotto (soprattutto nei call center), e soprattutto – azzerato il debito con la conversione, un centinaio di milioni di liquidità in cassa. Insomma, i “fondi avvoltoio” potrebbero aver fatto l’ennesimo buon affare. Il brutto è che per realizzarlo fino in fondo potrebbero fare altri danni all’impresa, alla cosiddetta economia reale. Cioè ripetere le nefandezze che sulla Seat sono già state commesse fin troppe volte, seguendo l’unica regola aurea del capitalismo finanziario italiano: incassa lauti guadagni chi non ha investito un solo euro di tasca sua e sa come far pagare ad altri tutte le perdite.

All’inizio Seat faceva gli elenchi telefonici e le Pagine Gialle per Telecom Italia. Un ottimo business, prima di Internet le aziende pagavano un sacco di soldi per farsi pubblicità sulle Pagine Gialle. E quando un business è buono il politico non resiste alla tentazione di svenderlo. Nel 1997, alla vigilia della privatizzazione di Telecom Italia, il governo decide di scorporare la Seat e venderla a parte a una variopinta cordata della quale fanno parte, tra gli altri, ComitDe Agostini, Investitori Associati, Bc Partners e Cvc Capital Partners. Il brillante affare è concluso da un vero e proprio dream team: Romano Prodi (presidente del Consiglio), Carlo Azeglio Ciampi (ministro del Tesoro), Mario Draghi (direttore generale del Tesoro) e, guarda chi si rivede, Gian Maria Gros-Pietro (presidente dell’Iri, il gruppo statale proprietario di Telecom). La scatola finanziaria che si chiama Otto (tanti sono i suoi soci) paga il 61 per cento della Seat 845 milioni di euro. Il prezzo è talmente basso che pochi mesi dopo la Otto recupera i primi 600 milioni distribuendo con un dividendo straordinario parte della ricchezza che Seat ha in pancia. A settembre ’99, a meno di due anni dall’acquisto, la Otto viene fusa con la Seat, così il debito fatto per acquistare le Pagine Gialle finisce dentro la società comprata. All’inizio del 2000 il grande colpo: la Seat viene rivenduta a Telecom Italia, che nel frattempo è stata scalata da Roberto Colaninno prendendo i soldi in banca e poi ficcando il debito nella società comprata. I raffinati chiamano questo sistema leveraged buyout. Colaninno strapaga quel 61 per cento: 5 miliardi di euro per azioni vendute appena due anni e mezzo prima per 845 milioni, ma nel frattempo spolpate del maxi-dividendo da 600 milioni e caricate del debito fatto dalla Otto per l’acquisto. In ogni caso i soci della Otto si mettono in tasca 5 miliardi, più 600 milioni di dividendo straordinario, senza aver investito un solo euro.
Passano tre anni e Marco Tronchetti Provera, che nel frattempo ha rilevato con la sua Pirelli il controllo di Telecom Italia, rivende la Seat. La cordata acquirente è formata da tre dei soliti noti (Bc Partners, Investitori Associati, Cvc) più il Fondo Permira. Pagano per il solito 61 per cento 3,1 miliardi di euro, mentre la Telecom rivende per 3 ciò che ha pagato 5 tre anni prima.

Ma il bello deve ancora venire. I quattro fondi acquirenti ripetono la consueta manovra. Prima fondono la Seat nel veicolo Spyglassutilizzato per l’acquisto, ficcando nelle casse Seat il debito contratto con le banche per l’acquisto e truffando di fatto gli azionisti di minoranza, stando alle accuse dell’azione di responsabilità. Non solo. Subito dopo la fusione, la Seat decide di distribuire un dividendo straordinario di 3,6 miliardi di euro, 2,2 dei quali finiscono in tasca ai quattro fondi che ne hanno speso 3,1 per comprare il controllo della società. Siccome Seat è già spolpata, per dare il dividendo si indebita, ed esibisce una perizia firmata Lehman Brothers (guidata in Italia da Ruggero Magnoni, recentemente arrestato per la bancarotta Sopaf) secondo cui il debito di 3,6 miliardi è sostenibile in prospettiva grazie ai profitti futuri previsti, ma solo fino al 2010, quando Seat dovrà indebitarsi per altri 1,7 miliardi per pagare le rate.
Nel 2012 l’ultima coltellata a un’azienda ancora viva per miracolo. Soffocata dai debiti contratti per far contenti gli azionisti di controllo, la Seat decide di convertire in azioni le obbligazioni in mano al veicolo Lighthouse, per nominali 1,3 miliardi che però con il noto meccanismo sono stati rastrellati a prezzo vile da “fondi avvoltoio” dai nomi esotici come Anchorage, Marathon o Monarch. Per la conversione in azioni di un debito che non vale sul mercato più di 200 milioni, Seat paga 85 milioni di euro a consulenti e studi legali, naturalmente i soliti bei nomi della finanza. I creditori diventano così padroni e mettono al vertice De Vivo, in passato uomo di fiducia di Romain Zaleski –noto per il buco da un paio di miliardi di euro scavato nei conti delle maggiori banche italiane –. De Vivo scopre che i conti della Seat sono molto peggiori di quanto veniva detto dal precedente management ed è costretto a svalutare dei cespiti patrimoniali ai quali i precedenti amministratori avevano attribuito valori quantomeno ottimistici. Il 5 febbraio 2013 De Vivo chiede l’ammissione al concordato preventivo dal quale Seat non è ancora uscita. Ma quel giorno il titolo in Borsa ha già perso l’80 per cento del valore nei dieci giorni precedenti. Come mai? Perché i “fondi avvoltoio” che hanno nominato De Vivo, chissà come, hanno intuito che stava per arrivare il ricorso al tribunale per far fronte ai debiti e si sono sbarazzati di corsa delle azioni, ficcando titoli ormai senza valore in tasca a investitori meno informati di loro. La Consob ha reagito al sospetto fuggi fuggi degli azionisti di controllo con la flemma cara al suo presidente Giuseppe Vegas, l’uomo convinto che, tra i suoi obiettivi, lo sviluppo del mercato finanziario abbia la priorità sulla più prosaica caccia al ladro, e quindi più incline alla moral suasion che alla sanzione. Infatti a sedici mesi da quelle incredibili vendite alla vigilia della richiesta di concordato preventivo dalla Consob sappiamo solo che sono stati fatti accertamenti e che ci faranno sapere.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/07/05/seat-pagine-gialle-in-15-anni-spariti-8-miliardi-di-euro-e-nessuno-se-ne-accorto/1041006/