sabato 28 settembre 2013

UN CIRINO ACCESO SULLE PRIVATIZZAZIONI AD MINCHIAM DEGLI ANNI ’90: “CON LA SCUSA DI DOVER RIDURRE IL DEBITO PUBBLICO, HANNO PRODOTTO I DISASTRI STILE TELECOM” “Non vogliamo tirare in ballo il Britannia o ipotesi complottarde, ma colpisce che a destra come a sinistra negli ultimi vent’anni parte rilevante della nostra classe dirigente è stata sul libro paga di banche d’affari come la Goldman Sachs, spesso al centro di indagini e di sanzioni internazionali”

Paolo Cirino Pomicino per "Il Foglio" Al direttore - L'indignazione è forte, fortissima. Né ci può confortare il fatto di averlo anticipato e denunciato da almeno 15 anni a questa parte. Ci riferiamo al passaggio di mano del controllo di Telecom Italia agli spagnoli di Telefonica, ultima tappa di una spoliazione del sistema produttivo italiano iniziato con la fine della Prima Repubblica. Paolo Cirino Pomicino PAOLO CIRINO POMICINO Da domani potremo essere l'unica grande democrazia europea priva di un'azienda nazionale di telecomunicazioni. Francia e Germania mantengono un saldo controllo nazionale pubblico mentre la Spagna come nel caso di Telefonica, mantiene una presenza nazionale forte (Banco di Bilbao e la Caixa) in una public company. E così accade anche per la Gran Bretagna nella quale British Telecom e Vodafone costituiscono campioni nazionali e internazionali in un paese che pure ha scelto di essere una piazza di riferimento della finanza internazionale. Paolo Cirino Pomicino PAOLO CIRINO POMICINO Nelle polemiche degli anni Novanta fummo tacciati di antica vocazione statalista allorquando contrastavamo lo sciagurato disegno delle privatizzazioni purchessia con la scusa di dover ridurre il debito pubblico. In vent'anni abbiamo venduto aziende o quote di maggioranza di aziende strategiche per circa 160 miliardi di euro e il nostro debito pubblico è aumentato di ben 1.200 mld di euro a fronte degli 839 mld lasciati in eredità da quella Prima Repubblica che pure aveva trasformato il nostro paese da nazione prevalentemente agricola in uno dei paesi più industrializzati del mondo battendo nel contempo il più grande Partito comunista dell'occidente, le Brigate rosse e il terrorismo stragista di destra. Tutto questo poteva avvenire grazie anche all'apporto delle vituperate partecipazioni statali che consentirono all'Italia di entrare nei grandi settori a tecnologia avanzata, dalle telecomunicazioni all'energia, dall'avionica al settore spaziale, dai sistemi di armamenti alla chimica fine e via di questo passo facendo crescere una classe manageriale di grande qualità. TELECOM ITALIA jpeg TELECOM ITALIA JPEG Invano abbiamo tentato di convincere che il tema vero per il nostro paese era quello di internazionalizzare il suo sistema produttivo e finanziario senza immaginare, come è invece accaduto negli ultimi vent'anni, che l'internazionalizzazione fosse la vendita in blocco del migliore patrimonio tecnologico del paese tenuto sino al '92 in mano pubblica. L'obiettivo dell'internazionalizzazione cui pensavamo era quello di rendere il nostro capitalismo uno dei protagonisti del riassetto del capitalismo europeo come peraltro hanno fatto Germania e Francia mantenendo in mani pubbliche alcuni asset produttivi di valore strategico tra cui, appunto, quello delle telecomunicazioni. Una linea essenziale per un paese come l'Italia che stava perdendo il suo ruolo geopolitico. Dopo anni di polemiche contro quel pensiero unico che riteneva la modernità sinonimo di privatizzazioni purchessia, una valutazione politica finale di un ventennio sciagurato sotto tutti gli aspetti va pure fatta. Non sappiamo ancora se per inadeguatezza politica e culturale o per complicità remunerata, certo è che l'Italia di oggi, impoverita economicamente e socialmente, non ha più nelle proprie mani quegli strumenti finanziari, produttivi e tecnologicamente innovativi che avrebbero potuto garantire quel ruolo strategico negli equilibri internazionali. Seat Pagine Gialle SEAT PAGINE GIALLE Quel che è più grave è il fatto che nel percorso delle privatizzazioni vi siano stati scandali e plusvalenze private da capogiro che solo la nostra flebile voce ha denunciato negli anni, dalla Seat pagine gialle alla Avio, per finire alla stessa Telecom. E pensare che dopo sollecitazioni infinite il paese si era convinto a utilizzare in maniera più moderna la nostra Cassa depositi e prestiti come strumento di politica industriale ed economica. Addirittura era stato creato un apposito fondo strategico affidato a tal Tamagnini che si è limitato a entrare nei supermercati, nelle assicurazioni generali, in una azienda farmaceutica e nella Metroweb, l'azienda milanese che gestisce la banda larga del capoluogo lombardo. alitalia vignetta ALITALIA VIGNETTA Questo fondo ha visto passare ultimamente sotto i propri occhi la società Avio e la vicenda Telecom senza che muovesse un dito probabilmente per indicazione di una politica sciatta e forse compromessa. Non vogliamo tirare in ballo il Britannia o ipotesi complottarde di "spectre" internazionali, ma colpisce che a destra come a sinistra negli ultimi vent'anni parte rilevante della nostra classe dirigente è stata sul libro paga di banche d'affari come la Goldman Sachs molto spesso al centro di indagini e di sanzioni internazionali. Senza andare oltre per amor di patria vogliamo dire al governo che su questa vicenda ha ancora a disposizione gli strumenti per intervenire interrompendo questo folle passaggio di mano nel controllo di Telecom. Ci riferiamo alla Cdp e al suo fondo strategico che, peraltro, ha fatto una joint-venture con il fondo sovrano del Qatar per investimenti di rilievo. A chi poco capisce o fa finta di capire poco vogliamo dire che non è senza conseguenze per l'Italia privarsi del controllo di grandi aziende a tecnologia avanzata perché mai come oggi l'equilibrio tra paesi si regge sulla finanza, la ricerca e la formazione del capitale umano. colaninno alitalia COLANINNO ALITALIA Un paese come il nostro che ha il 95 per cento del suo sistema produttivo fatto di piccole e medie imprese ha bisogno di grandi società internazionalizzate capaci di attivare cospicui investimenti a redditività differita nei settori della ricerca e della innovazione distribuendone, poi, i risultati nell'universo mondo delle piccole imprese. Ci pensino Letta e i responsabili della maggioranza perché la storia li giudicherà prima di quando si pensi proprio sul terreno dell'interesse nazionale e della prosperità dell'intera società italiana. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/un-cirino-acceso-sulle-privatizzazioni-ad-minchiam-degli-anni-90-con-la-scusa-di-63544.htm

giovedì 26 settembre 2013

LA LISTA DI CHI HA SPOLPATO TELECOM, E CHI LO HA PERMESSO, È LUNGA, FITTA E COMPOSTA DAI SOLITI NOTI (AGNELLI, ROBERTO COLANINNO, D’ALEMA, BAZOLI, ETC ETC) Ma il campionissimo è Gabriele Galateri di Genola e Suniglia. Il quale, nel corso degli anni, ha comprato Telecom come presidente di Mediobanca, gestito Telecom come presidente di Telecom e rivenduto Telecom come presidente di Generali. E adesso non ci dà nemmeno una spiegazione…

Giorgio Meletti per "Il Fatto Quotidiano" TELECOM c c fa a ca dd TELECOM C C FA A CA DD Sempre gli stessi. Per vent'anni, dandosi il turno, scambiandosi pacchetti azionari e poltrone, intermediando amicizie politiche, dandosi consulenze reciproche, hanno lavorato alacremente, coralmente, appassionatamente per spolpare il gioiello: Telecom Italia. C'è un prima e c'è un dopo. Fino al 1994 non c'è Internet e c'è lo spezzatino telefonico. C'è la Sip, che gestisce le reti urbane, poi la Asst, azienda di Stato, che gestisce le interurbane, la Italcable per le internazionali, la Telespazio per i satelliti. Sono aziende pubbliche e c'è il monopolio. La regola della Prima Repubblica è che i partiti nominano i manager, alcuni dei quali rubano per i partiti o lasciano rubare gli amici dei partiti. TELECOM ITALIA jpeg TELECOM ITALIA JPEG Quando mancano i soldi si fa una capatina al ministero delle Poste e si concorda un aumento delle tariffe. Telefonare è un lusso, però la Sip è così ricca che quando i manager disonesti finiscono di rubare quelli onesti possono investire e fare ricerca. Il laboratorio di ricerca Cselt di Torino è invidiato da tutto il mondo. Lì, un signore piemontese sconosciuto agli italiani, ma famoso nel mondo, Leonardo Chiariglione, inventa lo standard video Mpeg e quello audio Mp3. La Seconda Repubblica e gli arricchimenti facili Ma fatalmente nel laboratorio Telecom attecchisce più facilmente il know-how dell'arricchimento facile, a spese dei piccoli azionisti. Nel 1994, con la nascita della Seconda Repubblica, scocca l'ora di Telecom Italia, che riunisce gli spezzoni di cui sopra. La regia dell'operazione è dell'Iri, e del suo presidente Romano Prodi, che pochi giorni dopo il faticoso parto, avendo Silvio Berlusconi vinto le elezioni, saluta e se ne va. Gabriele Galateri di Genola GABRIELE GALATERI DI GENOLA Inizia l'era della concorrenza. L'Italia ha bisogno di soldi per entrare nell'euro, e riecco Prodi che diventa presidente del Consiglio e mette in campo il suo dream team delle privatizzazioni: Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro, Mario Draghi direttore generale del Tesoro (oggi presidente della Bce), Vittorio Grilli suo braccio destro. Vengono cacciati a furor di popolo i boiardi Biagio Agnes e Ernesto Pascale e arriva il professor Guido Rossi. Vendere, vendere! A ottobre ‘97 il popolo corre a comprare le azioni a 10.908 lire l'una. Lo Stato incassa 26 mila miliardi di lire, 13 miliardi di euro. Ma adesso chi comanda? La soluzione è penosa e profetica insieme. Si costituisce il mitico "nocciolo duro", un gruppetto di soliti noti (Generali, Comit, Credit, Montepaschi, Ina, più gli americani di Att) che, con poco più del 6 per cento delle azioni, devono garantire stabilità al timone. Il risultato è che la Fiat, comprando lo 0,6 per cento del capitale Telecom, comanda. prodi romano PRODI ROMANO È Umberto Agnelli, con il suo fido Gabriele Galateri di Genola e Suniglia, a scegliere i manager. Chiama alla presidenza, al posto di Guido Rossi, un ex manager Fiat di sua conoscenza, Gian Mario Rossignolo, che esordisce facendo ridere la stampa di mezzo mondo spiegando a un incredulo corrispondente del Financial Times: "I am a very powerful chairman" (Sono un presidente molto potente). La sua gestione è un disastro e una comica insieme. Viene cacciato dopo dieci mesi. L'anno scorso è stato arrestato per una storia di formazione professionale. Nel novembre 1998 arriva al vertice Franco Bernabè, reduce dai successi alla guida dell'Eni. Non fa in tempo a sedersi che parte la scalata di Roberto Colaninno, il ragioniere di Mantova. Gli è venuta un'idea meravigliosa: la sua Olivetti si fa prestare i soldi dalle grandi banche internazionali e lancia un'offerta pubblica di acquisto, che si concluderà il 21 maggio 1999. La Olivetti compra dal mercato il 51 per cento di Telecom per 30 miliardi di euro. Il presidente del Consiglio Massimo D'Alema inneggia ai "capitani coraggiosi" della "razza padana", che ci mettono soldi veri, non come gli Agnelli che vogliono comandare con lo 0,6 per cento. Vero. Ma è anche vero che a Palazzo Chigi masticano poco le lingue ("L'unica merchant bank dove non si parla inglese", scolpirà Guido Rossi), e non sanno o fanno finta di non sapere che cosa vuol dire leverage buyout: compri un'azienda facendo i debiti e poi trovi il modo di scaricare il tuo debito sull'azienda che hai scalato. Umberto Paolucci, capo europeo di Microsoft, rilascia al Corriere della Sera un'intervista profetica: "Bisogna vedere se, a causa dell'indebitamento, il gestore telefonico rimane capace di investire quanto è necessario per l'innovazione del Paese. In caso contrario, rischia il declino e il passaggio da una scalata all'altra. Del resto, mai prima d'ora nel mondo un gestore telefonico è stato oggetto di una scalata ostile". Quel duro faccia a faccia tra D'Alema e Draghi La battaglia è durissima, dura mesi. Bernabè le studia tutte per fermare gli scalatori, ma il governo è contro di lui. Alla vigilia di una decisiva assemblea straordinaria degli azionisti Telecom, in cui Bernabè vuole farsi approvare misure anti-scalata, D'Alema impone a Draghi, titolare come direttore generale del Tesoro di un pacchetto di azioni forse decisivo per il numero legale, di non partecipare. C'è una tesa riunione a Palazzo Chigi. Ciampi tace. Draghi pretende e ottiene un ordine scritto. guido rossi GUIDO ROSSI Glielo scrive il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Franco Bassanini, oggi presidente della Cassa depositi e prestiti. Per D'Alema non andare all'assemblea è un atto di neutralità. Negli stessi giorni si incontra a Roma, nell'abitazione dell'amico Alfio Marchini con Enrico Cuccia, boss di Mediobanca che spalleggia Colaninno nella scalata (il lavoro tecnico lo fa un giovane direttore centrale, Matteo Arpe). Il vecchio banchiere e il giovane leader infatuato di Tony Blair parlano della scalata Telecom, neutralmente. Due anni dopo Colaninno è in difficoltà. La sua decisione di comprare Telemontecarlo, ribattezzarla La7 e usare i soldi di Telecom per sfidare Berlusconi sul mercato televisivo fa saltare gli equilibri. Il Caimano vince le elezioni nella primavera del 2001, e anche gli amici diessini gli consigliano la resa. MARIO DRAGHI ED ENRICO LETTA FOTO INFOPHOTO MARIO DRAGHI ED ENRICO LETTA FOTO INFOPHOTO C'è pronto a comprare Marco Tronchetti Provera: il salto dalla Pirelli all'impero Telecom farà di lui il nuovo capo del capitalismo italiano, il successore di Gianni Agnelli. È amico di Berlusconi, ma è anche in buoni rapporti con D'Alema, che per primo aveva candidato a Palazzo Chigi con un'intervista a Repubblica. Al suo fianco ci sono le banche Intesa (Giovanni Bazoli) e Unicredit (Alessandro Profumo), oltre alla famiglia Benetton. La trattativa si chiude a fine luglio. All'inizio tratta Emilio "Chicco" Gnutti, il socio storico di Colaninno. Poi Gnutti si sente male, soffre di cuore, e chiede all'amico Gianni Consorte, boss di Unipol, di chiudere l'operazione. Il manager abruzzese, legatissimo a D'Alema, si sta allenando per le scalate bancarie che lo vedranno sfortunato protagonista nel 2005 della calda estate dei "furbetti del quartierino". È svelto. Vende a Gnutti le azioni Telecom in mano all'Unipol a 3 euro, Gnutti le rivende a Tronchetti a stretto giro a 4,17. Per il disturbo Gnutti fa arrivare a Consorte e al suo vice Ivano Sacchetti un bonifico da qualche decina di milioni di euro. La storia finirà in tribunale con la scalata Unipol-Bnl. Morale della scalata 2001. Roberto Colaninno nel 1996 è un dipendente di Carlo De Benedetti, manager nella natia Mantova della Sogefi. Viene nominato a sorpresa amministratore delegato della Olivetti e due anni dopo, con Gnutti e la "razza padana" ne ha acquisito il controllo. La usa per scalare Telecom. UMBERTO E GIANNI AGNELLI UMBERTO E GIANNI AGNELLI Nel 2001 vende a Tronchetti ed è ricco. In cinque anni è passato da manager stipendiato a capitalista in grado di comprare dalla stessa Telecom l'immobiliare Immsi, trasformarla in holding di partecipazioni , comprarsi la Piaggio e poi investire in Alitalia. Neppure Bill Gates e Steve Jobs si sono arricchiti così rapidamente. Tronchetti conquista Telecom comprando il pacchetto di controllo di Olivetti. Colaninno, Gnutti, Consorte e soci si arricchiscono, ai piccoli azionisti niente: è il mercato, bellezza. Durante le gestione Tronchetti, Telecom inizia il suo declino. Incassa le bollette e lesina sugli investimenti, smantella lo Cselt (nel frattempo ribattezzato TiLaB), soprattutto distribuisce lauti dividendi, perché la sua scatola Olimpia, con cui controlla l'impero, è piena di debiti da ripagare alle banche. Dal 2001 a oggi, i vari azionisti che si sono passati di mano la Telecom l'hanno costretta a pagare non meno di 15 miliardi di dividendi. Se quei soldi fossero rimasti in cassa, com'era giusto per un'azienda così scassata dal punto di vista finanziario, adesso il debito netto non sarebbe di 28, ma di 13 miliardi. Nel 2006 arriva un nuovo cataclisma. Torna al governo Romano Prodi, e Tronchetti comincia a innervosirsi. Scoppia lo scandalo dei dossieraggi illegali che coinvolge il capo della security Telecom, Giuliano Tavaroli. Nella bufera, Tronchetti comincia a gridare allo scippo: esce un piano di Angelo Rovati, amico e collaboratore di Prodi, che ipotizza lo scorporo della rete telefonica per risolvere i problemi patrimoniali del colosso indebitato (esattamente lo stesso copione di oggi). Tronchetti si dimette della presidenza e la affida a Guido Rossi (rieccolo), ma capisce che è ora di vendere. L'ennesimo pasticcio in nome dell'italianità Inizia la tiritera dell'italianità. Vorrebbe comprare Carlos Slim, imprenditore telefonico messicano, oggi l'uomo più ricco del mondo. Bocciato. Bussa alla porta di Tronchetti Cesar Alierta di Telefónica. Bocciato anche lui. Alla fine fiorisce la impagabile "operazione di sistema". Il governo Prodi battezza un pasticcio in cui una nuova scatola, battezzata Telco, strapaga a Tronchetti le sue azioni: 2,8 euro contro i 2,2 della quotazione in Borsa. ANDREA RAGNETTI E ROBERTO COLANINNO ANDREA RAGNETTI E ROBERTO COLANINNO Ai piccoli azionisti, che detengono l'80 per cento del capitale, niente nemmeno stavolta. La Telco è formata da Telefónica España, Assicurazioni Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca. E chi è il presidente di Mediobanca? Gabriele Galateri di Genola, l'immancabile. Chi il direttore generale? Alberto Nagel, che ieri ha rivenduto. E chi è il numero uno di Intesa Sanpaolo? Bazoli, profeta delle operazioni "di sistema". L'operazione si chiude a fine aprile 2007. Mediobanca e Intesa Sanpaolo litigano fino a dicembre per scegliere il nuovo manager. Nel frattempo l'azienda rimane affidata a Riccardo Ruggiero, l'uomo di Tronchetti, famoso per gli stipendi, le buonuscite, e l'autovelox che lo becca a 311 all'ora sulla Porsche. MASSIMO DALEMA MASSIMO DALEMA Finirà invischiato nell'inchiesta sulle sim false di Tim. A dicembre arriva la scelta di Franco Bernabè (di nuovo lui), decisa dal comitato nomine di Mediobanca di cui fa parte Tronchetti, che dunque è chiamato a scegliere il successore nell'azienda che ha venduto ma anche, evidentemente, comprato. bernabee mucchetti BERNABEE MUCCHETTI Elegantemente Tronchetti non si presenta alla riunione, dalla quale esce anche il nome del nuovo presidente di Telecom Italia: Gabriele Galateri di Genola, che lascia così la poltrona di Mediobanca a Cesare Geronzi. Poi Geronzi passerà alle Generali, da dove sarà cacciato, e al suo posto alla presidenza oggi c'è lui: Gabriele Galateri di Genola e Suniglia. Il quale ha dunque: comprato Telecom come presidente di Mediobanca, gestito Telecom come presidente di Telecom e rivenduto Telecom come presidente di Generali. E adesso non ci dà nemmeno una spiegazione. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/la-lista-di-chi-ha-spolpato-telecom-e-chi-lo-ha-permesso-lunga-fitta-63430.htm

martedì 24 settembre 2013

La strana morte dell’uomo che inventò il motore ad acqua

n un periodo di prezzi alle stelle per benzina e gasolio, ritrova spazio la strana storia di Stan Mayer, l’ingegnere americano che aveva ideato questo economico motore e che morì poco dopo in circostante particolari: per i familiari fu avvelenato. I prezzi di benzina e gasolio sono alle stelle ormai da tempo, la crisi si fa sentire ed i distributori hanno nettamente alzato il proprio tariffario facendo impallidire gli automobilisti di tutta Italia. Eppure c’era chi, qualche anno fa, aveva progettato un modo efficace ed assolutamente economico per alimentare il motore delle autovetture. Si tratta di Stan Meyer, un ingegnere statunitense che negli anni ’90 cominciò un progetto tanto spavaldo quanto impensabile per far funzionare attraverso l’elettrolisi ottenuta con la sola presenza di acqua un motore intero. Nessun utilizzo di bombole ad idrogeno, bensì lo sfruttamento di qualche litro del liquido più semplice presente sul pianeta Terra per far camminare una qualsiasi automobile. Questo Video datato 1996 mostra uno dei primi esperimenti pratici di Meyer inclusi i pareri sorpresi ma successivamente convinti dei giornalisti e tecnici presenti sulla scena. L’inventore americano riuscì ad ottenere tutti ibrevetti necessari per rendere fruibile il proprio progetto, pubblicizzando in quegli anni la sua iniziativa come un semplice intervento meccanico a favore di qualsiasi automobilista. “Con soli 1500 dollari renderò il vostro mezzo in una water-car” fu l’epiteto di Meyer, il quale rifiutò persino una miliardaria offerta da parte di un proprietario petrolifero arabodichiarando di voler sfruttare la sua tecnologia al servizio di chiunque, senza vendersi alle multinazionali. La sua avventura di tecnica e meccanica però lo condusse ad un tragico destino: nel 1998 Meyer fu trovato morto in un parcheggio di Grove City in Ohio, sua città natale. C’è chi parlò di morte naturale, ma chi, come il fratello di Stan, ammise il possibile avvelenamento, un omicidio in favore dell’economia internazionale e del mondo capitalista che bloccò un’idea che avrebbe cambiato il mondo dell’energia e forse avrebbe fatto risparmiare molti comuni automobilisti. Fonte: http://misteridalmondo2012.blogspot.it/2012/06/la-strana-morte-delluomo-che-invento-il.html http://www.signoraggio.it/la-strana-morte-delluomo-che-invento-il-motore-ad-acqua-video/

sabato 14 settembre 2013

LEHMAN: IL FALLIMENTO DI UNA CLASSE DIRIGENTE CHE HA CONTINUATO A FARE SOLDI E CARRIERE - TUTTA COLPA DI GREENSPAN? A 5 anni dal crac del secolo, Hank Paulson si toglie qualche macigno contro l’ex capo della Fed: “Tutta colpa di una bolla creditizia che nessuno ha fermato” - Paulson si inventò il piano da 700 miliardi che spostò sui contribuenti americani l’onere di salvare le banche, e ora promuove la bolla monetaria di Bernanke…

Paolo Mastrolilli per "La Stampa" La «tempesta dei cento anni». Così l'ex segretario al Tesoro americano Hank Paulson, che costruì l'architettura del pacchetto di salvataggio del sistema finanziario, ha descritto la crisi cominciata cinque anni fa con il fallimento di Lehman Brothers. Un disastro storico, che nessuno aveva previsto nella sua complessità. E considerate le sue dimensioni, «siamo fortunati di trovarci dove siamo adesso», nonostante la ripresa resti molto timida. Paulson, Bernanke Sheila Bair e Timothy Geithner PAULSON, BERNANKE SHEILA BAIR E TIMOTHY GEITHNER Henry Paulson HENRY PAULSON Paulson ha fatto i suoi commenti parlando con la televisione Cnbc, canale specializzato nei temi economici e finanziari, e si è tolto diversi sassolini dalle scarpe. Valutazioni che pesano molto anche sul piano politico, visto che lui era l'ex presidente di Goldman Sachs, prestato all'amministrazione Bush. Dopo l'esplosione della crisi, proprio Paulson aveva posto le basi del Troubled Asset Relief Program (Tarp), cioè il programma di sussidi statali da settecento miliardi di dollari, che in sostanza aveva salvato le banche ed evitato il collasso dell'interno sistema finanziario, mettendolo al riparo da un effetto domino. L'ex segretario al Tesoro ha parlato di «tempesta dei cento anni, perché gli eccessi si erano accumulati durante un lungo periodo. «Si è trattato dell'esplosione di una massiccia bolla creditizia, e credo che sia stata una enorme dislocazione». Chi sa leggere tra le righe del suo messaggio, non manca di notare l'attacco che contiene nei confronti di Alan Greenspan. 3 alan greenspan lap4 3 ALAN GREENSPAN LAP4 Durante gli anni della grande espansione economica dovuta all'avvento dell'era digitale, l'ex capo della Fed passava per il "Maestro", come lo aveva soprannominato Bob Woodward. Una volta scoppiata la crisi, però, molti critici hanno individuato proprio nella sua deregulation eccessiva dei mercati la causa della bolla. lehman brothers LEHMAN BROTHERS E' chiaro che Paulson ce l'ha con Greenspan, anche per altri due motivi: primo, elogia sperticatamente Ben Bernanke, successore del "Maestro" alla guida della Federal Reserve, definendolo come la migliore scelta fatta dal presidente Bush; secondo, si definisce «amico» di Larry Summers, che oggi è in corsa per prendere il posto di Bernanke, ma in passato è stato consigliere economico di Obama e segretario al Tesoro di Clinton. Se Summers «è un tipo molto capace», evidentemente l'origine della «tempesta dei cento anni» non può essere attribuita alle politiche adottate dall'amministrazione Clinton, e l'unico potenziale colpevole resta Greenspan. Banchieri Centrali Shirakawa Bernanke Trichet Draghi King BANCHIERI CENTRALI SHIRAKAWA BERNANKE TRICHET DRAGHI KING Paulson aggiunge che per superare la crisi ha «interagito con molti chief executive officer di grandi compagnie. Alcuni erano più capaci di altri. Penso che fossero tutte brave persone, alle prese con un disastro che non avevano mai visto nella loro vita. La maggior parte ha lavorato bene sotto stress, e ha fatto ciò che poteva per cooperare». GEORGE W BUSH E BARACK OBAMA ALL'INAUGURAZIONE DELLA GEORGE W BUSH LIBRARY - 2 GEORGE W BUSH E BARACK OBAMA ALL'INAUGURAZIONE DELLA GEORGE W BUSH LIBRARY - 2 Il problema ora è capire quanti dei cento anni di tempesta sono passati, e quanti ne restano ancora. Paulson ovviamente difende il suo piano di salvataggio, che ha dato liquidità alle banche ed è stato ripagato, con un surplus di 32 miliardi. LARRY SUMMERS LARRY SUMMERS Appoggia anche gli stimoli decisi da Bernanke: «Sono un sostenitore del suo programma. E' notevole che l'economia stia crescendo al ritmo del 2%». Ora, che il successore di Bernanke sia Summers o Janet Yellen, il problema è tornare alla normalità, perché «con i tassi bassi puoi arrivare solo fino ad un certo punto». Una normalità che Paulson descrive così: «Un nuovo mondo dove si scambiano gli asset in base al loro ritorno, e le economie sono giudicate dai loro fondamentali». http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/lehman-il-fallimento-di-una-classe-dirigente-che-ha-continuato-a-fare-soldi-e-62699.htm

venerdì 13 settembre 2013

Borsellino ucciso perché indagava sulla trattativa, trovato il fascicolo. E spuntano nomi “pesanti”.

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Su quell’anonimo, si scopre oggi dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. IL DOCUMENTO dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, che sarà pronunciata mercoledì prossimo. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, nei giorni scorsi, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti , hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo ieri in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. NEL LANCIO Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che ieri in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”. Fonte: http://www.infiltrato.it/inchieste/borsellino-ucciso-perche-indagava-sulla-trattativa-trovato-il-fascicolo-e-spuntano-nomi-pesanti#sthash.9SqV5CHD.dpuf http://www.signoraggio.it/borsellino-ucciso-perche-indagava-sulla-trattativa-trovato-il-fascicolo-e-spuntano-nomi-pesanti/

giovedì 12 settembre 2013

BERGOGLIO SI E’ BOA-ROTTO LE SCATOLE ANCHE DEI VERTICI DELL’APSA: SI CAMBIA! L’Apsa gestisce immobili di proprietà di proprietà del Vaticano: è la “seconda banca” della Santa Sede - E Papa Francesco rivoluziona i vertici: via Monsignor Boarotto e Paolo Mennini (figlio del numero due dello Ior ai tempi di Marcinkus) - Attesa per il discorso sulla “spoliazione” della Chiesa…

M.Antonietta Calabrò per il Corriere della Sera Grandi cambiamenti in vista non solo per gli stabili dei conventi vuoti (che dovrebbero ospitare gli immigrati e non diventare alberghi), ma anche per l'Apsa, l'amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica, cioè del Papa e del Vaticano. BERTONE-BERGOGLIO BERTONE-BERGOGLIO Il 4 ottobre, il Papa ad Assisi farà un discorso molto atteso sulla «spoliazione» della Chiesa. E quasi in contemporanea con l'uscita di scena del segretario di Stato Tarcisio Bertone (15 ottobre) lasceranno l'incarico i delegati delle due sezioni in cui l'Apsa è articolata. Probabilmente, Francesco vuole modellare con nuove nomine l'organismo, secondo la sua visione dei beni della Santa Sede. La prima sezione dell'Apsa, quella ordinaria, gestisce i beni immobili di proprietà del Vaticano (il cui valore supera i 400 milioni di euro, e che si estende gran parte in Italia, ma anche in Francia, in Svizzera, nel Regno Unito ed in particolare al centro di Londra). È stata diretta dal 15 ottobre del 2007 da monsignor Massimo Boarotto (già a Propaganda Fide, dove aveva lavorato per 21 anni). Sabato scorso Boarotto è stato ricevuto da Papa Francesco che lo ha ringraziato del lavoro svolto e gli ha regalato un calice: un dono per la sua nuova attività pastorale. Tornerà a Verona a fare il parroco. Poi sarà la volta di Paolo Mennini, delegato della sezione straordinaria dell'Apsa, quella che gestisce gli investimenti in titoli, dove lavorava come contabile monsignor Nunzio Scarano, arrestato il 28 giugno scorso, attualmente in regime di detenzione presso la sezione carceraria dell'ospedale di Salerno. Mennini è alle soglie della pensione, avendo 70 anni, è figlio di Luigi, numero due dello Ior, ai tempi dell'arcivescovo Marcinkus, e fratello del nunzio apostolico a Londra Antonello Mennini. Dopo lo Ior, quindi è la volta della «seconda banca» di San Pietro, l'Apsa, appunto, la cui attività è molto meno conosciuta e che svolge anche le funzioni di banca centrale. Con il motu proprio del Papa all'inizio di agosto, anche l'Apsa è stata sottoposta al controllo dell'Aif, l'Autorità per l'informazione diretta da René Bruhelart. Come il Comitato Moneyval, è tornato a chiedere nell'ultimo rapporto annuale pubblicato a Strasburgo due mesi fa, nel luglio 2013. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/bergoglio-si-e-boa-rotto-le-scatole-anche-dei-vertici-dellapsa-si-cambia-62548.htm

IL “CLAN LEHMAN” SE LA SPASSA DOPO AVER FATTO FALLIRE IL MONDO INTERO (IL CRIMINE PAGA, SEMPRE) 5 anni dopo il fallimento di Lehman Brothers, i protagonisti del crac del secolo si godono i milioni intascati - Dall’ex presidente Dick Fuld (457 milioni) ai “boss” dell’epoca di Barclays, Bank of America e Merril Lynch, se la spassano alla faccia delle nazioni in default - Persino il candidato tedesco Steinbrueck girò 300 milioni a Lehman…

Giuliana Ferraino per il Corriere della Sera Cinque anni fa, il 15 settembre 2008, falliva Lehman Brothers. Non è stata soltanto la più grande bancarotta della storia, ma ha segnato uno spartiacque che ne ha cambiato il corso (in peggio): rischiando di far crollare il sistema finanziario mondiale, ha sconvolto la vita della gente comune. lehman brothers LEHMAN BROTHERS La tremenda distruzione di valore, ha impoverito le famiglie, soprattutto quelle più indebitate, ha spazzato via milioni di posti di lavoro, soprattutto per i giovani, ha aumentato le disuguaglianze sociali, contribuendo da questa parte dell'Atlantico a mettere in ginocchio l'euro e l'ideale europeo. Dove sono e che cosa fanno, cinque anni dopo, i protagonisti di quel crac che ha provocato tanto sconquasso? Pochi processi, multe irrisorie: il grande scandalo per molti di loro è diventato una pensione dorata, grazie a buonuscite milionarie. Lehman Brothers LEHMAN BROTHERS Dick Fuld, 67 anni, ex presidente e Ceo di Lehman Brothers, soprannominato da Wall Street «il gorilla», per i suoi metodi spicci, ha incassato 34 milioni di dollari nel 2007, l'anno prima del fallimento della banca che ha guidato per 14 anni, e 22 milioni nel 2006, bonus che hanno fatto salire a 457 milioni il tesoro accumulato dal 2000. Oltre a tre case di lusso: una magione a Greenwich, Connecticut; un ranch a Sun Valley, Idaho e una villa a Jupiter Island, in Florida. Qualche mesi fa Fuld è tornato a fare notizia, perché ha fatto causa al marito della figlia. L'ex banchiere ha accusato il genero, che lavora a Bank of America Merrill Lynch (BofA), di non voler restituire un prestito che gli aveva concesso per comprare e ristrutturare un appartamento nell'Upper East Side di Manhattan, pagato 9,75 milioni in contanti nel 2007. Dick Fuld capo Lehman Brothers DICK FULD CAPO LEHMAN BROTHERS Ken Lewis, 66 anni, ex Ceo di Bank of America, è andato in pensione a fine 2009. BofA era in trattativa per comprare Lehman, ma poi Lewis decise di tirarsi indietro, preferendo acquistare Merrill Lynch. A febbraio l'ex banchiere ha venduto la sua casa di Charlotte per 3,1 milioni di dollari (aveva chiesto un prezzo di 4,5 milioni). Bob Diamond, 62 anni, ex Ceo di Barclays, emerso indenne dalla tempesta dei subprime, è stato costretto a dimettersi il 3 luglio 2012 in seguito alle manipolazioni dell'indice Libor. Quel fatidico lunedì mattina del 15 settembre 2008 Diamond rinunciò all'acquisizione di Lehman, dopo una notte di trattativa, sostenendo che la banca britannica non avrebbe potuto garantire le sue obbligazioni senza il voto dei suoi azionisti, che non sarebbe potuto avvenire prima di martedì. Troppo tardi. OBAMA E GEITHNER NEL FOTOMONTAGGIO CON LA FRANGETTA OBAMA E GEITHNER NEL FOTOMONTAGGIO CON LA FRANGETTA John Thain, 58 anni, l'ultimo presidente e Ceo di Merrill Lynch prima della sua fusione con Bank of America, siglata proprio il 15 settembre 2008, ha lasciato il gruppo pochi mesi dopo, nel gennaio 2009, costretto da Lewis. Da sempre uno dei manager più pagati a Wall Street, dopo aver incassato 83,1 milioni di dollari nel 2007, si è visto rifiutare dal board un extra bonus di 10 milioni nell'autunno 2008, chiesto per «aver salvato Merrill» con la vendita a BofA. SCHAEUBLE E GEITHNER SCHAEUBLE E GEITHNER Hank Paulson, 67 anni, ex banchiere di Goldman Sachs e all'epoca dei fatti ministro del Tesoro di George W. Bush, oggi è presidente del Paulson Institute all'Università di Chicago. Nel famigerato weekend Paulson riunì nella sede della Fed di New York i grandi banchieri di Wall Street per annunciare che Lehman non era troppo grande per fallire e che non ci sarebbero stati fondi pubblici per un bailout , perciò toccava a loro trovare una soluzione. draghi bernanke DRAGHI BERNANKE merkel e steinbruck MERKEL E STEINBRUCK Tim Geithner, 52 anni, allora alla guida della Federal Reserve di New York, e poi segretario del Tesoro di Barack Obama durante il suo primo mandato, ha lasciato la vita pubblica nel gennaio 2013. Ben Bernanke, 59 anni, si prepara a lasciare la guida della Federal Reserve, che ha guidato dal 2005. Il suo mandato scade a fine gennaio 2014. BOB DIAMOND BOB DIAMOND Tra i protagonisti di allora anche Peer Steinbrück, oggi sfidante di Angela Merkel alla cancelleria per i socialdemocratici alle elezioni del 22 settembre. Nel 2008 era il ministro delle Finanze tedesco nel governo di coalizione guidato da Merkel, e in quanto tale responsabile ultimo della banca Kfw, controllata all'80% dallo Stato federale e per il restante 20% dai Länder. Il 16 settembre, quando Lehman annunciò la bancarotta, mentre gli investitori di tutto il mondo correvano a ritirare i fondi dalla banca fallita, Kfw girò 300 milioni di euro a Lehman, guadagnandosi l'appellativo di «banca più stupida della Germania» dal quotidiano Bild, che diffuse la notizia . http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/il-clan-lehman-se-la-spassa-dopo-aver-fatto-fallire-il-mondo-intero-il-62582.htm

sabato 7 settembre 2013

Fuori dall'euro per ripartire in Europa

di Manuel Negri 07/09/2013 18:50:03 Fuori dall'euro per ripartire in Europa La sempre più virulenta crisi che stiamo subendo e che sta attanagliando irreversibilmente l’intero sistema economico-produttivo, imprese e famiglie; impone necessariamente ed ineludibilmente attente riflessioni che dobbiamo senza esitazione alcuna condurre a scelte di campo chiare e radicali. L’esponenziale aumento del tasso di povertà degli italiani, l’incessante crescita della disoccupazione, per lo più giovanile, e l’aggravarsi dei dati delle insolvenze e dei fallimenti, con le tragedie sociali che ne derivano, in seguito agli ormai quotidiani suicidi e gesti di disperata follia da parte di imprenditori e padri di famiglia, incapaci di affrontare le angherie del sistema bancario e le vessazioni di Equitalia, ci chiamano ad una inversione di tendenza, se non ad una rottura insanabile, con i dogmi liberisti fino ad ora distribuiti dall’alto e fatti ingoiare, senza la minima possibilità di valutazione e di critica, all’intera opinione pubblica, sempre più condizionata dai soloni di turno, dagli economisti da salotto o dai tanti scribacchini a libro paga della cupola bancaria. Ma per capire a fondo il contesto attuale, occorre fare un passo indietro e tornare all’autunno/inverno 2001-2002 quando, sospinti dai suddetti manipolatori mediatici, milioni di cittadini europei venivano pervasi dall’euforia e da prospettive allettanti e illusorie. Con l’avvento della moneta unica, che tutti aspettavano con riverenza in fila agli sportelli dei bancomat, gli scenari paventati erano rappresentati, quantomeno per il nostro paese, da una maggiore competitività sui mercati, da un più consistente potere d’acquisto, ma soprattutto andavano a descrivere quadri con economie più stabili, panieri con prezzi invariati e salari inalterati. L’euro è arrivato, sono passati oramai più di 10 anni e oggi non abbiamo bisogno degli economisti o di accademici per comprendere i suoi effetti, evidenziarne gli aspetti negativi o i benefici, vedere da che parte pende la bilancia; tanto che la signora Maria, che ne vive sulla propria pelle, o meglio sulle proprie tasche, non deve riflettere a fondo o pensare a quali alchimie per capire che con 2 milioni di vecchie lire si viveva, e anche decentemente, e con 1000 € al mese, tra affitto o mutuo e bollette, si fa la fame. E la signora Maria non è uscita dalla Bocconi e non ha frequentato Harvard. Il problema è che l’euro non è arrivato da solo, ce l’hanno imposto, nessuno ce l’ha chiesto, nessun referendum, nessuna consultazione popolare; tutto deciso tra Basilea, Francoforte e Bruxelles, da burocrati e banchieri che nessuno ha votato e che i più tantomeno conoscono. Imposto dall’alto, come una spada di Damocle che pende su milioni di cittadini europei; cosi come oggi il MES e il FISCAL COMPACT che sanciscono e pianificano le politiche economiche e finanziarie dei paesi europei per i prossimi 20 anni, senza che singoli organismi nazionali, governi e tantomeno parlamenti, possano alzare un solo flebile alito di voce. Tutto deciso in europa, dai banchieri di Francoforte e dalle commissioni di Bruxelles, mentre i singoli paesi perdono qualsiasi libertà d’azione. Questo contribuisce ad aggravare ulteriormente la situazione, quando in Italia, nel solo 2012, le aziende hanno dovuto pagare 5,5 miliardi in più di tasse, in un Paese che vanta il più alto livello di pressione fiscale d’europa, con quasi 25 punti in più rispetto alla media UE; dove i prestiti, nell’ultimo anno, sono crollati di oltre 40 miliardi e le sofferenze aumentate di oltre 14 miliardi, senza dimenticare il numero dei fallimenti. Innanzi a questi dati, come possiamo parlare di rilancio? Sinceramente non attraverso i decreti balneari del governo barzel-Letta targato PD – PDL. Innanzi ad un contesto in cui sembrano più importanti lo spread, l’inflazione e i mercati, piuttosto che la gente che non sa di che vivere o le aziende che chiudono, sfido qualsiasi “ illustre” sedicente economista a confutare il dato di fatto oramai inequivocabile che l’euro ha prodotto disastri, fame e miseria, famiglie allo stremo, aziende al collasso e messo al tappeto un intero sistema economico. Ma ipotizzando, anche una sua scomparsa, quali peggiori effetti potremo avere e soprattutto, quali nefasti scenari oltre a quelli esistenti? Si impone necessariamente una via d’uscita e la presa di decisioni forti che ci consentano una reale e concreta inversione di tendenza che può avvenire solamente attraverso una rottura con tutto ciò che ci ha condotto in questo baratro. “L’uscita dall’ euro è impensabile, produrrebbe effetti devastanti” ci dicono, o meglio, ci fanno credere, convincendo così tutti, anche la signora Maria, il negoziante sottocasa o il collega di lavoro. Ma torniamo indietro di qualche lustro, più precisamente nel 1992 quando, qualcuno si ricorderà, la lira uscì dallo SME (Sistema Monetario europeo). Non mi pare che la gente andasse a piedi o in bicicletta perché non si poteva più permettere di fare il pieno alla macchina o si andasse a fare la spesa con le carriole stracolme di banconote a causa dell’inflazione. Al contrario, dati alla mano, il 18 settembre 1992 la lira esce dallo SME e in un anno si svaluta del 25%; lasso temporale in cui i tassi di interesse iniziarono a diminuire, ma soprattutto iniziò a crescere la competitività interna; il tutto fino al 1996, momento in cui la nostra moneta rientrò nel serpentone monetario (SME). Oggi un’uscita dall’euro porterebbe ineludibilmente a benefici in termini economici di competitività, crescita economica e finanza pubblica. Innanzitutto, attraverso la svalutazione della moneta diviene possibile un riequilibrio della bilancia commerciale, perseguibile attraverso la crescita delle esportazioni, garantita dal rapporto di cambio della divisa nazionale, soprattutto per un paese manifatturiero come l’Italia. Possiamo assurgere quale altro esempio storico, quello della ben nota “Quota 90” dove, prima dell’introduzione della stessa, il rapporto di cambio tra lira e sterlina, allora divisa di riferimento internazionale, era di 120 a 1; ovvero per 1 sterlina necessitavano 120 lire. Successivamente, con l’introduzione della Quota 90, salutata come l’avvento benefico di una rivalutazione della propria moneta, il rapporto di cambio viene sancito in 1 a 90. Ma quali furono gli effetti? Se fino ad allora producevo in Italia un articolo che costava 90 lire, potevano venderlo, guadagnando, ad 1 sterlina sui mercati internazionali. In un secondo momento, lo stesso prodotto che costa sempre 90 lire, sono costretto a venderlo a 1 sterlina e 25 non essendo così più competitivo. Stessa cosa avviene oggi con l’euro, grazie al quale il nostro paese si trova fortemente penalizzato nelle esportazioni e nel settore del turismo, dove è più conveniente fare le vacanze in qualche villaggio esotico piuttosto che in qualche località balneare della penisola. Per quanto riguarda la bilancia energetica non è questione di rimanere nell’euro od uscirne per avere benefici o meno, ma di impostare una politica energetica indipendente, che salvaguardi gli interessi nazionali e la naturale proiezione geopolitica del nostro paese, improntato alla collaborazione ed intensificazione dei rapporti commerciali coi paesi che si affacciano sul Mediterraneo, senza trascurare l’interesse dell’intera europa ad intensificare il rapporto con la Russia. Per quanto concerne i tassi di interesse, perché non spiegano come mai mentre il costo del denaro della BCE è al minimo, questo non corrisponde a quelli effettivi proposti sul mercato degli istituti bancari, che rasentano ormai il 10% …? Tutta colpa dello spread sui titoli di Stato, questo ci raccontano. Ma perché non ci dicono che con il controllo della Banca Centrale, oggi privata e dei titoli di Stato, si annullerebbe così il problema dello spread; senza trascurare che con l’uscita dall’euro la bilancia commerciale, per effetto dell’aumento delle esportazioni, andrebbe prima in pareggio per poi passare in attivo, andando così a sanare gli interessi passivi sul debito estero e ricreando consequenzialmente anche cospicue riserve di valuta estera. Da sfatare anche la diceria che i mutui slitterebbero alle stelle: calmierando i tassi di interesse sul mercato monetario, ne andranno a beneficiare anche i mutui che, ridenominati nella nuova moneta, magari con cambio 1:1, verranno pagati appunto con una divisa con maggiore potere d’acquisto. In una prima fase potremmo considerare l’adozione di una doppia circolazione monetaria, mantenendo l’euro e re-introducendo la Lira sul mercato interno. Questo sarebbe possibile, come da centenaria esperienza avvenuta dal 1784 al 1975, attraverso l’emissione diretta da parte dello Stato con l’ausilio di strumenti già in suo possesso quali l’IPZS (Istituto Poligrafico Zecca dello Stato), il Ministero del Tesoro, in seno al quale occorrerebbe creare solamente un apposito dipartimento, ed il CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio), con il compito di vigilanza. L’erogazione può avvenire attraverso la realizzazione di opere pubbliche, senza così creare inflazione e generando nuovi posti di lavoro e nuove infrastrutture sempre più necessarie al paese, e attraverso le banche, che irrorate della liquidità necessaria al solo puro costo tipografico e di gestione (intorno allo 0.1%), possono così destinarla al mercato (famiglie ed imprese) al costo massimo del 2,5% onnicomprensivo. Solo in questo modo possiamo interrompere la spirale del debito pubblico, parlare di rilancio dell’intero sistema economico e produttivo e soprattutto gettare le fondamenta per un futuro che non veda i nostri figli schiavi della grande usura http://www.ioamolitalia.it/blogs/verita-e-libeta/fuori-dall-euro-per-ripartire-in-europa.html

venerdì 6 settembre 2013

Dopo aver cacciato il FMI l’Ungheria emette moneta senza debito

di Ronald L. Ray – Traduzione a cura di N. Forcheri L’Ungheria si libera dei vincoli dei banchieri • Dopo che è stato ordinato all’FMI di abbandonare il paese, la nazione adesso stampa moneta senza debito L’Ungheria sta facendo la storia. Mai più dagli anni ’30 con il caso della Germania un paese europeo aveva osato sfuggire alle grinfie dei cartelli bancari internazionali controllati dai Rothschilds. Questa è una notizia stupenda che dovrebbe incoraggiare i patrioti nazionalisti del mondo intero ad intensificare la lotta per la libertà dalla dittatura finanziaria. Già nel 2011 il primo ministro ungherese, Viktor Orbán promise di ristabilire la giustizia sui predecessori socialisti che avevano venduto il popolo della nazione alla schiavità di un debito infinito con i vincoli del FMI (IMF) e lo stato terrorista d’Israele. Queste amministrazioni precedenti erano infiltrate da israeliani nelle alte cariche, in mezzo al furore delle masse che alla fine, in reazione, hanno votato il partito Fidesz di Orban. Secondo una relazione sui siti germanofoni del “National Journal”, Orbán si è accinto a scalzare gli usurai dal trono. Il popolare e nazionalista primo ministro ha detto all’FMI che l’Ungheria non vuole né richiede “assistenza” ulteriore dal delegato della Federal Reserve di proprietà dei Rothschild. Gli ungheresi non saranno più costretti a pagare esosi interessi a banche centrali private e irresponsabili. Anzi, il governo ungherese ha assunto la sovranità sulla sua moneta e adesso emana moneta senza debito e tanta quanto ne ha bisogno. I risultati sono stati nientemeno che eccezionali. L’economia nazionale, che vacillava per via di un pesante debito, ha ricuperato rapidamente e con strumenti inediti dalla Germania nazionalsocialista. Il ministro per l’Economia ungherese ha annunciato che grazie a “una politica di bilancio disciplinato” ha ripagato il 12 agosto 2013 il saldo dei 2,2 bilioni di debito all’FMI, prima della scadenza ufficiale del marzo 2014. Orbàn ha dichiarato: “L’Ungheria gode della fiducia degli investitori” che non vuol dire né l’FMI né la Fed o altri tentacoli dell’impero finanziario dei Rothschild. Piuttosto si riferiva agli investitori che producono in Ungheria per gli ungheresi, creando crescita economica vera, e non già la “crescita di carta” dei pirati plutocratici, bensì quel tipo di produzione che assume realmente le persone e ne migliora la vita. Con l’Ungheria libera dalla gabbia della servitù agli schiavisti del debito non c’è da meravigliarsi che il presidente della banca centrale ungherese gestita dal governo per il bene pubblico e non per l’arricchimento privato abbia chiesto all’FMI di chiudere i battenti da uno dei paesi più antichi d’Europa. Inoltre, il procuratore generale, ripetendo le gesta dell’Islanda, ha accusato i tre precedenti primi ministri del debito criminale in cui hanno precipitato la nazione. L’unico passo che rimane da fare per distruggere completamente il potere dei bancksters in Ungheria, è di attuare un sistema di baratto per lo scambio con l’estero come esisteva in Germania con i nazional socialisti e come esiste oggi in Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, i cosiddetti BRICS, una coalizione economica internazionale. E se gli USA seguissero la guida dell’Ungheria, gli americani potrebbero liberarsi dalla tirannia degli usurai e sperare in un ritorno a una pacifica prosperità. Ronald L. Ray, autore freelance che risiede nel libero stato del Kansas, discendente di vari patriotti della Guerra americana di indipendenza. Fonte: americanfreepress.net Tratto da stampalibera.com http://informatitalia.blogspot.se/2013/09/dopo-aver-cacciato-il-fmi-lungheria.html

giovedì 5 settembre 2013

I pericoli occulti legati alla finanza dei derivati La Gabanelli critica la soluzione Tremonti ai derivati. Lui replica, ma non dice il vero - Milena Gabanelli

Inchiesta derivati 0 ALTRI 4 ARGOMENTI Martedì ho osato, su questo giornale, dubitare della bontà della recente proposta di legge dell’on Tremonti alla soluzione del dramma derivati: «Vietare di metterne a bilancio gli effetti (perdite o profitti) se non quando tali effetti si verificano, cioè alla scadenza». L’ex Ministro ieri ha replicato in modo sferzante, ma non veritiero. Vediamo punto per punto. Tremonti scrive che: «I derivati sono apparsi in Italia e si sono diffusi su scala crescente ed in forma anarchica negli anni ’90, tutti anni dominati dal centro-sinistra.» I derivati sono arrivati in Italia dopo la deregulation internazionale degli anni 90; la politica italiana non c’entra. Confusione strumentale di Tremonti tra i derivati in genere e quelli degli enti locali che si sono potuti fare solo dopo la legge del 2001 divenuta operativa con il suo Decreto ministeriale del 2003. «Si ricorderà ad esempio, a proposito di finanziamento via derivati, la magica stagione del “rinascimento napoletano». Il riferimento al rinascimento napoletano (metà anni 90) è fuorviante in quanto i derivati non erano accessibili agli enti locali se non per coprirsi dal rischio di cambio. Il che era ragionevole in quanto fino al 1999 avevamo la lira, e quindi poteva convenire fare una emissione in sterline o dollari o marchi per puntare ad avere dei tassi di interesse più bassi. Bassolino invece, nel 96, fece una irragionevole emissione in dollari, ma derivati di altra natura non si potevano fare fino al decreto Tremonti e nessuno li ha fatti. «All’opposto di quanto scritto da Gabanelli, sono stato io, come Ministro, prima a disciplinare i derivati degli enti locali ( Legge finanziaria n. 448/2001) e poi a vietarli ( Legge finanziaria n. 203/2008)». Il provvedimento Tremonti del 2003, che secondo il Ministro li ha disciplinati, in realtà li ha consentiti rispetto al contesto precedente, ed ha aperto il vaso di pandora. Nella legge finanziaria di Padoa Schioppa si diceva che non se ne facevano più fino all’emanazione di un regolamento (“I contratti devono recare le informazioni ed essere redatti secondo le indicazioni specificate con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze,”.) Tremonti con la legge 133 di agosto 2008 ratifica, e inserisce espressamente la parola “divieto”, ma subordina il “divieto” all’emanazione del regolamento ministeriale. «In specie questa norma introduceva un (prima inesistente) espresso divieto di sottoscrivere contratti in derivati. Si ipotizzava, in senso permissivo, in deroga rispetto al generale divieto, un Regolamento ministeriale che disciplinasse la materia. Regolamento permissivo che tuttavia non ho mai emanato». Un regolamento “permissivo”, sì, ma nel senso che avrebbe permesso di illustrare i veri rischi ed i costi occulti in pancia agli enti locali mostrando quindi le responsabilità delle banche. E infatti ebbe l’opposizione di tutto il sistema bancario, e di noti studi legali internazionali che assistono le banche di investimento estere. «Era infatti sempre più chiaro che vietare del tutto i derivati, come nel principio della legge, era molto più sicuro che permetterli, basandoli su incredibili “scenari probabilistici”.» Ma perché vietare tutto, non è meglio regolamentare, e poi vigilare sull’applicazione delle regole? Non è meglio misurare, e distinguere la finanza buona (quella di cui ha bisogno una regione per coprirsi dai rischi di variazione dei tassi quando chiede un prestito a 30 anni) da quella cattiva (prodotto speculativo che ha un forte sbilanciamento a favore della banca)? Gli “scenari probabilistici” secondo Tremonti sono “incredibili”, secondo la valutazione di un centinaio di accademici internazionali sono invece un valido presidio per la trasparenza e la difesa dei risparmiatori. La ritrosia di Tremonti è tuttavia comprensibile, dato che il convertendo emesso nel 2009 dalla Bpm del suo amico Ponzellini, a supporto della sottoscrizione dei Tremonti bond, è stato infastidito proprio dagli “scenari”, che hanno dichiarato che in quasi il 70% dei casi gli investitori avrebbero perso metà del capitale; circostanza puntualmente verificatasi. «In specie, l’obbligo di contabilizzare i risultati dei derivati solo alla scadenza blocca in radice la convenienza al loro uso distorto e/o tossico, così i derivati non potendo più essere usati come strumento per la fittizia ed anticipata creazione di “valore” (sic)! È così che si vanifica all’origine l’interesse a fare finanza derivata e/o deviata. A mio parere la norma funziona a 360 gradi: se non c’è la prospettiva di profitto da una parte, non c’è infatti neppure rischio di perdita dall’altra. Ferme in ogni caso e non derogate le generali regole di prudenza contabile». Il nodo della questione non è tanto l’anticipazione dei profitti fittizi, quanto l’occultamento di perdite che vengono rinviate fino alla loro disastrosa materializzazione (vedi Mps). Togliere l’obbligo di contabilizzare i contratti alla stipula e di rivalutarli nel tempo, equivale ad omettere delle registrazioni, e oggi si chiamerebbe bancarotta documentale. Tremonti parla di prudenza contabile che resta ferma. In che modo se i rischi di queste operazioni non vengono rilevati in bilancio? La contabilità per i derivati cattivi è come un termometro! Per essere più brutali è come dire ad una persona a rischio di non fare un check up annuale e aspettare la diagnosi delle metastasi diffuse incurabili. La proposta di Tremonti dimentica che enti e imprese che hanno sottoscritto derivati, a fronte di un po’ di cassa iniziale ricevuta dalla banche, accettavano grandi perdite potenziali. Che senso ha un bilancio dove contabilizzi quel “po’ di cassa”, ma tralasci la perdita? «Se Gabanelli mi convince tecnicamente, posso comunque emendare la mia proposta, prevedendo che le perdite non solo si segnalano nella “Nota integrativa”, ma anche si contabilizzano in bilancio. Ma solo le perdite, non i profitti, questi assolutamente no!». Il ragionamento di Tremonti, confesso, è troppo difficile da comprendere. Ogni derivato viene stipulato tra due controparti. Se una delle due è in perdita potenziale, l’altra sarà in profitto potenziale. La prima contabilizza e la seconda no? È così che funziona la contabilità dei derivati cattivi per il prof Tremonti? IL DIBATTITO LEGGI L'ARTICOLO DI MILENA GABANELLI "DERIVATI: SOLUZIONE TREMONTI" (3 SETTEMBRE 2013) E LA REPLICA DELL'EX MINISTRO "ECCO LA MIA PROPOSTA SUL CASO DERIVATI" (4 SETTEMBRE 2013) 4 settembre 2013 (modifica il 5 settembre 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA Milena Gabanelli info@reportime.it http://www.corriere.it/inchieste/reportime/economia/i-pericoli-occulti-legati-finanza-derivati-/27c71f98-15a0-11e3-8320-f9ee5bd09b2b.shtml

mercoledì 4 settembre 2013

TREMONTI RISPONDE ALLA GABANELLI: “I DERIVATI SONO APPARSI IN ITALIA NEGLI ANNI '90, TUTTI ANNI DOMINATI DAL CENTROSINISTRA” “Negli anni ’90 furono ‘una cambiale per l’euro’, io li ho proibiti - Ho proposto un sistema come quello di Roosevelt che separava le banche d’affari e commerciali e un divieto a iscrivere i derivati nei bilanci fino alla scadenza. Ma questo Parlamento non la voterà mai”… - -

Lettera di Giulio Tremonti al Corriere della Sera Giulio Tremonti GIULIO TREMONTI Caro direttore, ho letto l'articolo di Milena Gabanelli pubblicato ieri sul «Corriere» sotto il titolo «La finanza che danneggia i cittadini e l'assenza di regole per i derivati. E adesso Tremonti presenta un disegno di legge antispeculazione». Grato per l'attenzione, noto quanto segue: A) i derivati sono apparsi in Italia e si sono diffusi su scala crescente ed in forma anarchica negli anni '90, tutti anni dominati dal centrosinistra (esclusi otto mesi, nel 1994). Si ricorderà ad esempio, a proposito di finanziamento via derivati, la magica stagione del «rinascimento napoletano». Giulio Tremonti GIULIO TREMONTI All'opposto di quanto scritto da Gabanelli, sono stato io, come ministro, prima a disciplinare i derivati degli enti locali (art.41, Legge finanziaria n. 448/2001) e poi a vietarli (art.3 Legge finanziaria n. 203/2008). In specie questa norma introduceva un (prima inesistente) espresso divieto di sottoscrivere contratti in derivati. Si ipotizzava, in senso permissivo, in deroga rispetto al generale divieto, un Regolamento ministeriale che disciplinasse la materia. Regolamento permissivo che tuttavia non ho mai emanato. Era infatti sempre più chiaro che vietare del tutto i derivati, come nel principio della legge, era molto più sicuro che permetterli, basandoli su incredibili «scenari probabilistici». milena gabanelli MILENA GABANELLI Sui derivati «nazionali», sempre fatti negli anni '90, nella forma di una «cambiale per l'euro» - questa fu la matrice di tutti i derivati - è forse meglio indirizzare altrove le ricerche; B) la mia recente proposta di legge sui derivati (Atto Senato 945) è combinata con la parallela precedente proposta di legge sulla «separazione bancaria» (Atto Senato 717). Se, come banca, raccogli il pubblico risparmio, lo puoi usare solo per finanziamenti produttivi: per finanziamenti alle imprese, alle famiglie, alle comunità, etc. Se invece vuoi speculare, sei libero di farlo, ma a tuo proprio rischio e pericolo. Tremonti Giulio TREMONTI GIULIO Il modello base di questa proposta, certo non un modello «pro» speculazione, è quello della legge «Glass Steagall», introdotta dal Presidente Roosevelt nel 1933 ed abrogata dal Presidente Clinton alla fine degli anni '90. E poi ancora il modello della legge bancaria italiana dal 1936, pure simmetricamente abrogata negli anni '90. Diversamente da quanto scrive Gabanelli, gli effetti delle due proposte non sono «pro», ma all'opposto «contro» la speculazione finanziaria. GABANELLI CON IL GESSO GABANELLI CON IL GESSO In specie, l'obbligo di contabilizzare i risultati dei derivati solo alla scadenza blocca in radice la convenienza al loro uso distorto e/o tossico, così i derivati non potendo più essere usati come strumento per la fittizia ed anticipata creazione di «valore» (sic)! È così che si vanifica all'origine l'interesse a fare finanza derivata e/o deviata. A mio parere la norma funziona a 360 gradi: se non c'è la prospettiva di profitto da una parte, non c'è infatti neppure rischio di perdita dall'altra. Ferme in ogni caso e non derogate le generali regole di prudenza contabile. DERIVATI DERIVATI Se Gabanelli mi convince tecnicamente, posso comunque emendare la mia proposta, prevedendo che le perdite non solo si segnalano nella «Nota integrativa», ma anche si contabilizzano in bilancio. Ma solo le perdite, non i profitti, questi assolutamente no! Secondo Gabanelli il mio «Disegno di legge (in realtà solo una proposta, non un disegno) andrà in discussione con la riapertura dei lavori parlamentari». Magari! In realtà non se ne discuterà affatto, in Parlamento, dato che questo è impegnato su altro. Ma almeno se ne discute sul «Corriere». Ed è anche per questo che ringrazio per l'ospitalità. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/tremonti-risponde-alla-gabanelli-i-derivati-sono-apparsi-in-italia-negli-anni-90-tutti-62153.htm

martedì 3 settembre 2013

ATENE CRAC: UN FONDO EUROPEO SEQUESTRERÀ IL PATRIMONIO IMMOBILIARE GRECO - E SERVIRÀ UN TERZO BAILOUT Anche Schaeuble, nonostante le elezioni, ammette che c’è “un buco di 4,5 miliardi” nel programma di salvataggio greco - Da Bruxelles allora arriva un piano per mettere le mani sugli immobili che il governo non riesce (o non vuole) vendere, da usare per ripianare i debiti con BCE e FMI…

GRECIA/ DIJSSELBLOEM:REALISTICO CHE SERVA UN TERZO PIANO DI AIUTI (TMNews) - La Grecia potrebbe avere bisogno di altri aiuti esterni dato che esiste una "possibilità realistica" che non sia in grado di ottenere l'accesso ai tradizionali canali di mercato di rifinanziamento del debito, entro la fine del 2014. Lo ha affermato il presidente dell'Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ministro delle Finanze dell'Olanda in una lettera al parlamento. Merkel e Samaras MERKEL E SAMARAS Un documento in riposta alle interrogazioni seguite a una intervista il mese scorso, in cui aveva affermato che un terzo piano di salvataggio per la Grecia era inevitabile. Nella missiva Dijsselbloem ribadisce che la situazione della Grecia verrà valutata durante il prossimo anno, come previsto dai ministri delle finanze europei il novembre scorso. MERKEL SAMARAS MERKEL SAMARAS "Ovviamente - ha puntualizzato, secondo quanto riporta Dow Jones - un nuovo programma di aiuti avrà bisogno di adeguate condizionalità". Peraltro, secondo stime condivise l'attuale programma di aiuti alla Grecia lascia un buco da circa 4 miliardi di euro nelle sue necessità di rifinanziamenti, data la dinamica deludente di entrate fiscali e proventi delle privatizzazioni. merkel schaeuble germania MERKEL SCHAEUBLE GERMANIA 2. GRECIA: SCHAEUBLE, RISCHIO BUCO IN PROGRAMMA AIUTI GIA' 2014 (ANSA) - Nel programma di salvataggio per la Grecia attualmente in corso ci potrebbe essere un buco di almeno 4 miliardi di euro entro la fine del 2014. E' quanto ha sostenuto oggi a Berlino il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, in una seduta straordinaria della commissione bilancio del Bundestag, il parlamento tedesco. Ci potrebbe essere un certo problema, avrebbe detto Schaeuble secondo quanto riporta la Dpa. Stando ad alcuni partecipanti alla seduta il buco e' stato quantificato nell'ordine di almeno 4 miliardi. Wolfgang Schaeuble WOLFGANG SCHAEUBLE 3. UN FONDO EUROPEO SEQUESTRERÀ IL PATRIMONIO IMMOBILIARE GRECO Ugo Bertone per "Libero" E tre. Nel mese di agosto è stato licenziato in tronco ad Atene il presidente di Taiped, ovvero l'agenzia che si occupa, o dovrebbe occuparsi, di privatizzare aziende, immobili, financo isole che il governo di Atene ha promesso di liquidare per far fronte ai debiti con l'Europa. Ma l'impresa non è facile, come dimostra il fatto che, negli ultimi 12 mesi, sono saltati tre presidenti. Più delle vendite realizzate. ario Draghi e Christine Lagardee cf fc e df c a d ARIO DRAGHI E CHRISTINE LAGARDEE CF FC E DF C A D Di questo passo, non solo l'obiettivo, già dimezzato, di raccogliere 1,6 miliardi di euro entro la fine dell'anno è semplicemente impossibile, ma la meta concordata con la trojka, cioè 9 miliardi nel 2016, è solo una barzelletta. Niente paura. Un paio di giorni fa, dai cassetti dell'Ems, l'organismo messo a punto per sostenere il debito dei Paesi Ue che ne facciano richiesta (dietro severe condizioni, così severe che né Roma né Madrid si sono fatte avanti) è spuntato un progetto che, in realtà, è qualcosa di più di un'idea. Non riuscite a privatizzare? Ebbene, ci pensiamo noi. Atene ci affidi tutto il patrimonio immobiliare in vendita. Tutti i beni, isole comprese, saranno affidate ad un fondo gestito da noi, del tutto indipendente dallo Stato greco, che procederà alle vendite sulla base di valutazioni nostre. I quattrini resteranno nel fondo oppure saranno utilizzati per rimettere a posto i beni che, così come sono, spesso non sono vendibili. Insomma, una proposta che sa di esproprio. letta barroso LETTA BARROSO No, è la replica, perché la proprietà resterà in mano greca. E sarà Atene a stabilire quando vendere. Obiezione che non convince più di tanto: quando un debitore deve chiedere nuovi prestiti, il potere è nelle mani dei creditori. E la Grecia, si sa, avrà bisogno di nuovi prestiti sia l'anno prossimo che nel 2015. Né si vede come il Paese, con un tasso di disoccupazione del 27,8%, il pil in calo del 4,6% e un debito pubblico pari al 160% del pil possa ripagare i nuovi debiti o, tantomeno, immaginare di ripagare parte dei 172 miliardi ricevuti in questi anni. barroso BARROSO Di qui il piano dell'Ems, sollecitato, pare, dalla Finlandia e gradito sia al Fondo Monetario che alla Bce, un po' meno dalla Commissione Europea cui non sfugge il significato esplosivo che potrebbe avere il precedente: quando un Paese, dopo ripetute prove, non risulta in grado di portare a compimento un programma concordato con i partner ed approvato dal suo Parlamento, si potrà far ricorso ai «commissari» di Bruxelles che agiranno in piena autonomia. Ancora una volta, come è accaduto in più occasioni dal 2009 in poi, la Grecia si presenta come un caso di scuola che può avere implicazioni imprevedibili un po' per tutti, Italia e Spagna comprese. Per carità, il caso di Atene è senz'altro estremo. Il piano concordato con gli ispettori della trojka prevedeva in un primo momento 9 miliardi di privatizzazioni entro il 2013 per arrivare a 19,5 miliardi entro il 2015. Poi, di fronte ai ritardi e ai fallimenti dei vari tentativi di vender qualcosa, gli obiettivi si sono ristretti ad un terzo o giù di lì. POVERTa AD ATENE POVERTA AD ATENE Intanto, ultimo caso a Rodi, al momento di visionare i beni all'incanto, gli ispettori di Atene hanno incassato non poche brutte sorprese: alberghi abusivi su spiagge in teoria ancora intatte. Mattoni abusivi o, il più delle volte fantasma, il che non stupisce in un Paese che non ha ancora realizzato il suo primo catasto. L'ultima speranza era riposta in Stelios Stavridis, una specie di Sergio Marchionne sotto l'Acropoli: ingegnere laureato a Zurigo, imprenditore di successo alla testa di Piscines Ideales, uno dei leader del mercato europeo delle piscine. POVERTA' AD ATENE POVERTA' AD ATENE Sembrava l'uomo giusto finché un giornale di Atene non l'ha fotografato mentre scendeva da un aereo privato, sulla pista di Cefalonia, in compagnia dei proprietari di Emma Delta, una finanziaria metà greca metà ceca in corsa per la privatizzazione delle lotterie di Stato. Niente di male salvo il fatto che Emma aveva chiesto ed ottenuto, clausola un po' bizzarra ma di grande favore per l'acquirente, di poter affittare la lotteria per 12 anni prima di procedere all'acquisto. POVERTa AD ATENE jpeg POVERTA AD ATENE JPEG Insomma, non c'è da stupirsi se i falchi finlandesi, ma non solo loro, si sentono presi in giro. I tedeschi, per ora, tacciono. La parola d'ordine è sollevare il meno possibile il caso Grecia di qui alle elezioni del 22 settembre, per evitare un autogol a vantaggio delle forze antieuro. Anche il governo greco, istruito dai tedeschi, evita per ora di sollevare il tema dei nuovi aiuti. Ma il piano dell'Ems arriverà presto sulle scrivanie dei capi di governo. E sarà un dossier che scotta. La Grecia, si sa, è lo studente dell'ultimo banco che, parola di Frau Merkel, nella classe dell'euro non ci doveva proprio entrare. Ma ci sono altri Paesi, tipo l'Italia per non far nomi, che non sono riusciti a privatizzare nemmeno una caserma o una società per azioni municipale, una di quelle create solo per distribuire stipendi e sinecure agli amici. O dove, per privatizzare, ci vorrebbe un censimento dei beni che per ora non c'è (e molti non vogliono che ci sia). http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/atene-crac-un-fondo-europeo-sequestrer-il-patrimonio-immobiliare-greco-e-servir-un-terzo-62021.htm