giovedì 29 novembre 2018

È VERO CHE MARIO MONTI HA SALVATO L'ITALIA? - Alessandro Greco

Blitz in Deutsche Bank: raffica di perquisizioni per sospetto riciclaggio Perquisizioni nella sede di Francoforte della Deutsche Bank per sospetto riciclaggio di denaro Luca Romano -

Perquisizioni nella sede di Francoforte della Deutsche Bank per sospetto riciclaggio di denaro. 
Il tribunale tedesco ha ordinato la perquisizione in sei locali della Deutsche Bank, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio di denaro che coinvolge almeno due dipendenti del gruppo. L’accusa sospetta che la prima banca tedesca abbia "aiutato i clienti a creare società in paradisi fiscali" per riciclare denaro. Nell’operazione sono coinvolti circa 170 tra agenti di polizia e investigatori. Il sospetto della Procura è che la prima banca tedesca abbia "aiutato dei clienti a creare società in paradisi fiscali» per riciclare denaro "proveniente da attività criminali".
E dopo le perquisizioni è stato registrato un brusco scivolone per Deutsche Bank a Francoforte. Il titolo segna la performance peggiore del Dax con un calo del 2,85% a 8,35 euro. Il tribunale tedesco ha ordinato la perquisizione in sei locali della Deutsche Bank, nell’ambito di un’indagine per riciclaggio di denaro che coinvolge almeno due dipendenti del gruppo. L’accusa sospetta che la prima banca tedesca abbia "aiutato i clienti a creare società in paradisi fiscali" per riciclare denaro.
http://www.ilgiornale.it/news/economia/blitz-deutsche-bank-raffica-perquisizioni-sospetto-1609079.html

Deutsche Bank, perquisita la sede per indagini su riciclaggio. Il titolo cade

Oltre 170 agenti e inquirenti stanno effettuando una perquisizione nel quartier generale di Deutsche Bank, a Francoforte, e in altre sedi a Eschborn e Gross-Umstadt. Le indagini riguardano un caso di riciclaggio di denaro, collegato all’inchiesta sui cosiddetti Panama papers. Secondo quanto riferisce la Procura in un comunicato, i sospetti si stanno concentrando su due dipendenti di 50 e 46 anni. A quanto riportano le agenzie internazionali, Deutsche Bank avrebbe aiutato i clienti ad aprire conti off-shore, senza riferire all’autorità di casi sospetti di riciclaggio operati attraverso filiali dell’istituto tedesco. La banca ha confermato di essere sotto indagine con un tweet dal suo account ufficiale, dichiarandosi intenzionata a collaborare con le autorità.
Solo nel 2016, scrive il quotidiano finanziario Frankfurter Allgemeine Zeitung, oltre 900 clienti con un volume d’affari da 311 milioni di euro sarebbero stati assistiti da una sede della società registrata nelle Isole Vergini. Il titolo soffre in Borsa, cedendo fino a quasi il 5% del suo valore. 

Il caso Danske Bank sullo sfondo
Nelle scorse settimane, il colosso bancario tedesco era finito sotto ai riflettori per un altro scandalo: il coinvolgimento nelle indagini su Danske Bank, l’istituto di credito danese travolto da uno scandalo riciclaggio da 200 miliardi di euro. In questo caso, Deutsche Bank avrebbe gestito tramite una sua filiale americana un totale di 150 miliardi di dollaridi provenienza sospetta. L’istituto è stato contattato dal dipartimento di giustizia che si occupa delle indagini, ma non è il solo gruppo ad aver attirato l’interesse degli inquirenti americani: fra gli altri colossi nel mirino ci sono Bank of America e JP Morgan.
https://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-11-29/deutsche-bank-perquisita-sede-indagini-riciclaggio-titolo-cade-103703.shtml?uuid=AEUZIQpG

domenica 25 novembre 2018

Perché Deutsche Bank è la banca più pericolosa al mondo Crollo di utili e valore. Taglio di 10 mila dipendenti. Pressing di Fmi e Bce sul record mondiale di derivati. Agenzie di rating pronte a declassarla. E feroci regolamenti di conti. La bomba è disinnescabile? BARBARA CIOLLI Twitter

Il problema numero uno per Angela Merkel, che in merito non smette di gettare acqua sul fuoco, è disinnescare a breve la bomba globale dei derivati di Deutsche Bank. Niente affatto nuova: nel 2016, in occasione degli stress test della Federal reserve americana falliti dal primo istituto bancario tedesco che aveva diverse pendenze legali negli Usa, il Fondo monetario internazionale definì Deutsche Bank «fonte dei maggior rischi sistemici tra le banche al mondo». La situazione, nonostante i ripetuti cambi al vertice, non è da allora cambiata e non è neanche più prorogabile: esploderà? Alle strette, scatta il maxi piano di risanamento contenuto e dilazionato nel tempo, con migliaia di nuovi esuberi a bilancio per il 2018. Mentre i 4.500 azionisti, in riunione il 24 maggio 2018, chiedono sempre più insofferenti nuove teste ai vertici.

REGOLAMENTO DI CONTI INTERNO. È appena saltato l'amministratore delegato, due anni in anticipo dalla scadenza, il britannico John Cryan, e si vuol far fuori l'austriaco Paul Achleitner, dal 2012 presidente del Consiglio di sorveglianza accusato di aver avallato scelte strategiche sbagliate. Le agenzie di rating incalzano il colosso tedesco che dalla crisi del 2007 sta perdendo sempre più terreno, scavalcato in Europa dai grandi gruppi francesi e inglesi e in rosso dal 2015, quando scattarono blitz e perquisizioni finanziarie. Fitch, che a settembre 2017 ha declassato Deutsche Bank da A- a BBB+, ammonisce sul riassetto «lento e insufficiente». Standard & Poor's deve esprimersi sul downgrade, Moody's è scettica sui dettagli delle strategie future dell'istituto e anche Dbrs non nasconde previsioni negative.

Il problema di Deutsche Bank sono gli assodati 48 mila miliardi di euro - 14 volte il Prodotto interno lordo della Germania - in pancia all'istituto
Ormai è una corsa contro il tempo. Ma per i guru della finanza neanche i tagli più estremi (dal comunicato aziendale gli assunti devono scendere dagli oltre 97 mila attuali a «chiaramente sotto i 90 mila», secondo il Wall Street Journal fino a 10 mila posti sono in bilico, per risparmi fino a 800 milioni di euro nel 2018) sono sufficienti. Perché il problema di Deutsche Bank sono gli assodati 48 mila miliardi di euro lordi - 14 volte il Prodotto interno lordo della Germania - in pancia all'istituto. Dall'istituto tedesco fanno notare come i derivati vadano considerati sul valore netto, più di 20 mila miliardi per Deutsche Bank, «non di più delle americane Goldman Sachs o Jp Morgan», e che i derivati non siano tutti prodotti a rischio.
NUOVA RICAPITALIZZAZIONE NEL 2019? Ma è un dato che la forte esposizione per la gestione all'americana del gruppo, unita ai miliardi finiti in spese legali, risarcimenti e patteggiamenti nei veri processi e procedimenti legali negli Usa, abbiano affossato la credibilità internazionale dei banchieri delle lussureggianti torri gemelle di Francoforte. Deutsche Bank risparmia (è avviata dal 2015 la ristrutturazione per 9 mila dipendenti tagliati) e non macina utili da anni: ancora un tonfo secco del 79% nel trimestre 2018 (120 milioni di euro), rispetto ai 575 milioni dei primi tre mesi del 2017. Per l'investitore che previde il crollo finanziario e immobiliare del 2008, l'americano gestore di hedge fundSteve Eisman, «Deutsche Bank ha problemi di redditività. Non investe in tecnologia da moltissimo tempo e probabilmente è sottocapitalizzata».

Servirebbe insomma per Eisman una «nuova raccolta di capitali nel 2019» - dopo l'aumento di capitale di 8 miliardi nel 2017 - e una pezza potrebbe essere la fusione, ventilata da tempo ma mai conclusa, con il secondo istituto bancario tedesco Commerzbank. Con una fusione importante si ammortizzerebbero alcuni costi e affluirebbero capitali. Ma senza ripulire davvero - e rapidamente - tutto il marcio del settore dell'investment banking, che dalla sede centrale di Londra ha lanciato e gestito una massa di operazioni spericolate, il matrimonio presenta enormi rischi. Tra alti e bassi Commerzbank tiene, ma i suoi conti non fanno certo faville e risanare Deutsche Bank è un'impresa che potrebbe trascinare a picco. Già nei primi Anni 2000 The Economist dipingeva le due torri di Francoforte come un «gigantesco contenitore di hedge fund».

NESSUNO HA INVERTITO IL TREND. Le speculazioni in espansione sotto la lunga era dello svizzero Josef Ackermann, amministratore delegato dal 2002 al 2012, avrebbero reso Deutsche Bank la prima cassaforte di derivati al mondo. Da allora nessun nuovo capo è riuscito a invertire davvero corso. Sotto il primo successore di Ackermann, l'anglo-britannico Anshu Jain, i derivati si erano ulteriormente impennati al record di 75 mila miliardi. Il giovane neo amministratore delegato Christian Sewing ha messo nero su bianco, nell'urgente piano di riassetto, un drastico ridimensionamento del vituperato settore, così da ridurre l'esposizione e l'accumulo di titolo tossici. Il bilancio opaco di Deutsche Bank è sotto la lente anche della Banca centrale europea, che ad aprile 2018 ha chiesto all'istituto di calcolare i costi di un'eventuale liquidazione delle attività di trading. E da gennaio le azioni della società hanno perso il 32%. Un trend drammatico per diversi osservatori.
https://www.lettera43.it/it/articoli/economia/2018/05/25/germania-derivati-deutsche-bank-banca-rischi-pericolo/220444/?fbclid=IwAR1V-wkB47hrUdizz9fW5mFTvmC4YwzOi5nPAcC_ydy-wLQWmf-vOv5PCOc

venerdì 23 novembre 2018

L’INCUBO AMERICANO – SI PARLA SOLO DI SPREAD MA NEGLI USA STA PER SCOPPIARE LA BOMBA DELLA NUOVA “LEHMAN BROTHERS”. IL SOVRANISTA FABIO DRAGONI: “SI CHIAMA “GENERAL ELECTRIC”, È PASSATA DI MODA COME MODELLO DI BUSINESS E IL SUO RATING È STATO ABBASSATO A BBB+ (APPENA SOPRA L’ITALIA) – “GE” HA 120 MILIARDI DI SOFFERENZE E POTREBBE CONTAGIARE TUTTO IL MONDO. OCCHIO ANCHE A DEUTSCHE BANK

 SIAMO OSSESSIONATI DALLO SPREAD MA LA BOTTA VERRÀ ANCORA DAGLI USA
Fabio Dragoni per “la Verità”
Le vecchie miniere di carbone non avevano sistemi di ventilazione e i minatori portavano quindi con sé un canarino in gabbia. Particolarmente sensibile al metano e al monossido di carbone, il canarino involontariamente rivelava la presenza di gas pericolosi. Fino a che si sentiva il cinguettio vi era la certezza che l' aria fosse respirabile e sicura. La morte del canarino segnalava invece l' allarme rosso di immediata evacuazione.

Mentre tutti i mezzi di informazione si perdono nel guardarsi l' ombelico favoleggiando di come lo spread potrebbe irrimediabilmente sconvolgere l' economia italiana, quella che per decenni è stata un caso di scuola nelle più importanti scuole di management del pianeta oggi rischia di fare la fine del canarino preannunciando forse l' arrivo di una prossima crisi planetaria a dieci anni esatti di distanza dal crack Lehman Brothers.


Con divisioni che spaziano dall' aviazione all' energia, passando per i servizi finanziari e le apparecchiature biomedicali senza dimenticare il gioiello delle turbine a gas prodotte dalla controllata Nuovo Pignone acquisita nei primi anni novanta, la conglomerata General electric è passata non solo di moda come modello di business nelle aule universitarie ma è stata di fatto esclusa dal novero delle aziende titolate a finanziarsi nel liquido mercato delle commercial papers.

Titoli a scadenza inferiore ai 12 mesi in tutto e per tutto simili alle cambiali ed emesse dalle imprese più importanti per finanziare la propria attività a tassi particolarmente bassi. Il rating di Standard and Poors è stato abbassato alla Bbb+ (un gradino sopra la Bbb dell' Italia). Una reputazione inadeguata per continuare a far parte del club.

Il più pronto a darne notizia e ad approfondire la cosa è stato Zerohedge, uno dei blog finanziari più apprezzati anche se meno allineati della business community stelle e strisce e non solo. Con i suoi quasi 120 miliardi di debito, altrettanti di fatturato, oltre tre volte di totale attivo e più di 300.000 dipendenti, General electric non è più il simbolo del grande sogno americano.


Pur continuando ad avere un rating non speculativo, il suo debito sta iniziando a pagare rendimenti equiparabili alle obbligazioni cosiddette spazzatura (ovvero con rating inferiore a Bbb-). I suoi bilanci non sono quelli di un'azienda decotta come del resto però quasi mai lo sembrano quelli delle imprese prossime a gettare la spugna. I bilanci si fanno sulla base del principio della competenza economica. I fallimenti sempre per cassa, insegna il professor Valerio Malvezzi. Ge condivide certo con il meglio del made in Usa pesanti ribassi nei prezzi delle proprie azioni.

Nell' ultimo trimestre Facebook, Amazon e Netflix hanno perso circa un quarto del proprio valore. Apple quasi un quinto mentre Google resiste con un eroico -15%. Ma General electric veleggia intorno ai 7,80 dollari. Valori che toccava soltanto negli anni Novanta e pericolosamente non troppo lontani dal minimo storico di 6,66 dollari del 2009 nel pieno della bufera finanziaria.

Ma mentre allora Ge era uno dei tanti contagiati dal morbo della crisi oggi sembra quasi esserne l' epicentro. Il canarino dentro la miniera. I suoi numeri non sono troppo lontani da quelli di Lehman Brothers.

L' America invece sì. Quella crisi la ricorda ancora eccome e i suoi vigilantes (Tesoro e la Federal reserve in primis) non si farebbero cogliere così impreparati come avvenne il 15 settembre di dieci anni fa. Gli strumenti finanziari che sarebbero capaci di mettere in campo la Banca centrale da un lato (emissione di base monetaria senza limiti) e la Casa Bianca dall' altro (acquisto di crediti problematici nei portafogli delle banche) sarebbero forse tali da evitare l' effetto domino in casa ma sicuramente non sufficienti ad impedire il propagare della crisi ad est dell' Atlantico.

Qui un' Europa incapace e deforme ancora si gingilla mettendo sul banco degli imputati l' Italia con il suo debito pubblico. Dimostrando quindi di non aver imparato nulla dalla storia. Il debito pubblico non è mai la causa bensì la conseguenza di una crisi; anche per paesi monetariamente castrati e quindi incapaci di controllare direttamente la valuta in cui è denominato il loro debito come quelli dell' eurozona.


Non è un caso che Irlanda e Spagna con debiti inferiori al 60% del Pil sono stati fra i primi ad entrare in crisi nel 2009 e per salvare i quali sono stato necessari sostegni di tutti gli altri Paesi fra i quali l' Italia.

Vengono proposte sanzioni per quest' ultima che sta rispettando alla lettera i Maastricht e Lisbona, con la sola scusa di non essersi adeguata ad un regolamento di rango inferiore (il Fiscal compact) che si preoccupa solo ed esclusivamente di stabilità finanziaria peraltro generando disordine.

E quindi palesemente in contrasto con gli obiettivi di Maastricht e Lisbona che pongono incredibilmente al centro della propria identità anche il sviluppo e la crescita dei Paesi aderenti lasciando almeno in origine a questi ultimi margini di flessibilità nell' impostazione della politica economica.


E nel mentre l' Europa si occupa di un non problema (il nostro debito) che potrebbe invece ben presto diventare un grosso problema per le Francia (le cui banche sono esposte nei confronti dell' economia italiana per quasi 320 miliardi a fronte di un patrimonio di quasi 500) finge beatamente di ignorare l' agonia di un secondo canarino che da tempo ha smesso di cinguettare segnalando ai minatori l' arrivo di una possibile tragedia.

I poco più di 8 euro cui veleggia il titolo di Deutsche Bank sono infatti il minimo storico mai toccato da sempre. Una banca di fatto già bocciata negli stress test prima dalla Federal reserve nel giugno 2018 e poi ai primi di novembre dalla Banca centrale europea. Quella stessa istituzione che con scarso senso del ridicolo annuncia per bocca di una sua funzionaria di «incrociare le dita» per sperare nella salvezza delle banche italiane lasciando intendere che su queste ultime stia per abbattersi chissà quale cataclisma a causa del governo dei populisti mentre dovrà invece inventarsi qualcosa per rianimare il canarino tedesco nel frattempo toccato da inchieste riguardanti un sospetto riciclaggio di denaro di circa 150 miliardi.


2 – GENERAL ELECTRIC, BOND SEMPRE PIÙ A RISCHIO «RETROCESSIONE»
Marco Valsania per www.ilsole24ore.com


Accanto a Borsa e azioni, a tremare è adesso anche l’enorme mercato del debito aziendale. La “miccia” potrebbe essere rappresentata da una delle grandi regine di questo debito, non solo americano ma globale. Per l’esattezza la sesta società- esclusi i gruppi finanziari - in questa speciale classifica: il nome di General Electric spunta a ridosso di Volkswagen, Toyota, AT&T, SoftBank, Ford e Daimler.

I bond targati Ge, colosso aziendale avvitato in una profonda crisi strategica e di leadership che appare ancora distante dall’essere risolta, sono infatti considerati sempre più a rischio non soltanto di semplici declassamenti, ma ormai di una vera e propria retrocessione di categoria. Da quella di titoli “investment grade” a junk, i cosiddetti titoli spazzatura ad alto rischio e alto rendimento.


A rendere ancora più influente qualunque azione sul debito targato Ge è un altro fattore forse poco noto: la società è la prima assoluta in classifica quando si tratta di debito in circolazione. Grande abbastanza, temono gli analisti, da scuotere l’intera piazza in caso di rovesci.

I paralleli storici non mancano. Neppure troppo distanti: correva l’anno 2005 quando simili declassamenti toccarono a General Motors e Ford. Le retrocessioni causarono non poche ansie e questa volta la minaccia appare semmai maggiore, perché allora il focolaio della crisi del debito non erano le aziende bensì i mutui. Oggi è il debito corporate ad essere invece a vette massime, gonfiato da anni di tassi di interesse ai minimi che hanno reso la sua emissione particolarmente conveniente.


Alcuni segmenti più fragili del mercato del credito, oltretutto, hanno già mostrato visibili sintomi di difficoltà capaci di impensierire gli investitori, quali i prestiti auto. E i rendimenti dei titoli junk sono lievitati da 3,16 a 4,1 punti oltre i titoli del Tesoro, in risposta alla crescente avversione al rischio.


Le ipotesi più pessimistiche potrebbero ancora non avverarsi. Ge rimane tuttora tre gradini sopra la soglia junk, dando agli investitori quantomeno un po’ di respiro. La protratta crisi del gruppo, con ripetute delusioni nei bilanci trimestrali e cambi della guardia al vertice, hanno funzionato da monito potenzialmente attutendo lo shock di ulteriori declassamenti. E i più recenti piani di riorganizzazione aziendale potrebbero finalmente dare i frutti sperati, stabilizzare il business e scongiurare terremoti. Gli hedge fund, in passato molto esposti al debito aziendale, secondo alcune stime oggi sarebbero meno investiti in simili titoli, semmai più a rischio sull’azionario.

La montagna stessa del debito corporate crea tuttavia un pericolo di valanghe, qualora cominciassero a rotolare i titoli Ge. Dai picchi del 2008 questo indebitamento outstanding è ulteriormente lievitato del 40%, di oltre 2.500 miliardi di dollari negli Stati Uniti, pari a una percentuale record del 45% del Pil. Forse non è il rischio sistemico per l’intera finanza degli anni della grande crisi, ma potrebbe comunque scatenare contagi e pesare significativamente su mercati e investitori.

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/rsquo-incubo-americano-ndash-si-parla-solo-spread-ma-usa-sta-188643.htm

giovedì 22 novembre 2018

Franco CFA Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Franco CFA (che significava all'origine nel 1945, Franco delle Colonie Francesi d'Africa, abbreviato FCFA, e oggi diventato acronimo di Comunità Finanziaria Africana) è il nome di due valute comuni a diversi paesi africani, constituente in parte la zona franco.

Il franco CFA è la valuta utilizzata da 14 paesi africani:
Franco CFA (CEMAC) (ISO 4217: XAF e 950)
Franco CFA (UEMOA) (ISO 4217: XOF e 952)

La maggior parte di questi paesi sono stati colonie francesi (con le eccezioni rappresentate dalla Guinea Equatoriale, ex-colonia spagnola, e la Guinea-Bissau, ex-colonia portoghese).
Le Isole Comore, nell'Oceano Indiano, sono associate al franco CFA, dentro la cosiddetta "zona franco" (franco comorano).
Il Franco CFA fu creato come il Franco CFP il 26 dicembre del 1945, al momento della ratifica da parte della Francia degli accordi di Bretton Woods. A quei tempi la sigla indicava il franco delle colonie francesi africane (Colonies françaises d'Afrique).
Senza la necessità di modificare la sigla, il nome cambiò in "franco della Comunità Francese dell'Africa" nel 1958, ed oggi indica :
  • il franco della Comunità Finanziaria dell'Africa (XOF) nel caso dell'UEMOA,
  • e il franco della Cooperazione Finanziaria dell'Africa Centrale (XAF) per il CEMAC.
L'esistenza di due nomi distinti evidenzia la divisione della zona in due: la prima ha come istituto di emissione la BCEAO (Banque centrale des États de l'Afrique de l'Ouest), la seconda la BEAC (Banque des États de l'Afrique centrale); le rispettive valute non sono intercambiabili.
Gli accordi che vincolano i due istituti centrali con le autorità francesi sono identici e prevedono le seguenti clausole:
  • un tipo di cambio fissato alla divisa europea;
  • piena convertibilità delle valute con l'euro garantita dal Tesoro francese;
  • fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, che in tal modo si fa garante del cambio monetario);
  • in contropartita alla convertibilità era prevista la partecipazione delle autorità francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA.
Il franco CFA mantenne la parità rispetto al franco francese salvo in casi particolari. Gli economisti hanno ritenuto che il valore di cambio sia stato, nonostante alcune svalutazioni, troppo alto e sfavorevole per i paesi partecipanti agli accordi monetari.
Successivamente all'introduzione dell'euro, il valore del franco CFA è stato fissato alla nuova valuta; è comunque la Banca di Francia e non la Banca centrale europea che continua a garantire la convertibilità del franco CFA.

DataValutaValore
26 dicembre 1945Franco francese1 FCFA = 1,70 FF
17 ottobre 1948Franco francese1 FCFA = 2,00 FF
27 dicembre 1958Nuovo Franco francese1 FCFA = 0,02 FRF
11 gennaio 1994Nuovo Franco francese1 FCFA = 0,01 FRF
1º gennaio 1999Euro
(1 FRF = 0,152449 EUR / 1 EUR = 6,55957 FRF)
1 FCFA = 0,00152449 EUR
1 EUR = 655,957 FCFA
20 marzo 2018Dollaro statunitense1 FCFA XAF = 0,00187061 USD
1 USD = 534,585 FCFA XAF
20 marzo 2018Dollaro statunitense1 FCFA XOF = 0,00187017 USD
1 USD = 534,711 FCFA XOF

FRANCO CFA: L’EURO AFRICANO CHE SCONTENTA TUTTI (O QUASI) Di Alessandro Paglialunga - 8 maggio 2018

In 3 sorsi – Il franco CFA è la moneta comune di molti Paesi africani un tempo appartenenti all’ex-impero coloniale francese. E, proprio come avviene in Europa con l’euro, suscita risentimenti e antipatie, al punto che molti analisti africani lo considerano il braccio armato del neocolonialismo burocratico-finanziario messo in piedi dall’Occidente. È solo populismo in salsa africana o c’è qualcosa di vero?
1. COME FUNZIONA IL FRANCO CFA?
Il franco CFA nasce con gli accordi di Bretton Woods del 1945 come valuta comune delle colonie francesi in Africa (non a caso CFA era l’acronimo di Colonies Françaises d’Afrique). Con la dissoluzione dell’impero avvenuta a seguito delle lotte per l’indipendenza scoppiate nel corso del Novecento, alcuni Stati hanno progressivamente abbandonato tale valuta per coniare le proprie monete nazionali. Altri, invece, hanno preferito continuare a utilizzare il franco anche dopo la separazione da Parigi. Con l’avvento dell’euro, il franco ha cessato di esistere in Europa, ma non in Africa, dove ha continuato a essere la valuta ufficiale dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (UEMOA) e della Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC). In ciascuna di queste due aree, una Banca centrale è responsabile della gestione della politica del franco. A queste due Istituzioni africane si deve aggiungere anche la Banque de France, che ancora oggi svolge il ruolo di terzo attore. Lo dimostra il fatto che il franco CFA è ancorato all’euro secondo una parità fissa decisa proprio dalla Francia: è Parigi che stampa le banconote CFA ed è sempre Parigi che garantisce la convertibilità del franco con l’euro, in modo pressoché illimitato. In cambio, i Paesi africani che utilizzano il CFA hanno l’obbligo di depositare il 50% delle loro riserve in valuta estera presso il Tesoro francese. Questo complicato sistema monetario, che conferisce all’ex-potenza coloniale un ruolo ancora centrale e decisivo, ha fatto storcere il naso a molti analisti africani che propongono l’uscita dalla “zona franco” come ultimo atto del processo di indipendenza da Parigi. Non tutti però sono convinti che abbandonare il franco comporti dei benefici. Più che un’abolizione tout court della valuta, molti esperti hanno suggerito un suo adattamento alla realtà africana odierna, come dimostrato anche dall’evoluzione della sua denominazione ufficiale. Infatti, se nel 1945 il termine CFA indicava le Colonie Francesi d’Africa, oggi è diventato acronimo di Comunità Finanziaria Africana. In risposta alle tesi abolizioniste, si propone dunque una strategia moderata e integrativa, che meglio si adatta alle fragili finanze dei Paesi africani.

Fig. 1 – Summit dei paesi UEMOA ad Abidjan, Costa d’Avorio
2. QUALI SONO I SUOI VANTAGGI?
Il principale vantaggio del franco CFA è senza dubbio la sua stabilità. Poiché la moneta è sotto controllo straniero, non è soggetta a “obblighi di stampa”: i Paesi che utilizzano il franco CFA beneficiano quindi di un debito pubblico limitato (meno del 70% del PIL) e di un’inflazione controllata (meno del 3%), quando molti dei loro vicini lottano con un’inflazione dilagante. Inoltre, il Franco CFA rappresenta una garanzia anche in termini di integrazione regionale: facilita gli scambi tra i Paesi che lo utilizzano e gode di una credibilità internazionale che manca alle altre valute della regione, a causa del suo diretto legame con l’euro. Un altro vantaggio del CFA è rappresentato dunque dalla “protezione” fornitagli dall’euro, che lo rende immune da svalutazioni brusche e improvvise. Tutto ciò ha reso il franco CFA una moneta affidabile e particolarmente “adatta agli affari”. Non va inoltre dimenticato che molte delle critiche rivolte a questa valuta sono state la diretta conseguenza di dinamiche politiche interne ai Paesi africani, che poco avevano a che fare con questioni monetarie. Analogamente a quanto avvenuto in Europa con l’euro, anche il franco CFA è stato scelto come parafulmine da classi dirigenti impreparate che hanno voluto trovare un capro espiatorio cui addossare tutta la responsabilità delle loro politiche economiche fallimentari. Non a caso, il presidente francese Macron ha recentemente ribadito che la Francia non obbliga nessuno a restare ancorato al CFA, e che ogni Paese è libero di coniare la propria moneta nazionale qualora lo ritenga opportuno. Secondo l’Eliseo dunque, le accuse di neocolonialismo rivolte a Parigi sono del tutto pretestuose e prive di fondamento logico.

Fig. 2 – Giovani manifestanti durante una marcia di protesta contro il Franco CFA
3. QUALI SONO I SUOI SVANTAGGI?
Il collegamento con l’euro comporta anche degli svantaggi ai quali molto spesso non si presta la dovuta attenzione: in prima analisi, il franco CFA è costretto a subire gli effetti delle fluttuazioni che caratterizzano la valuta europea. Inoltre, il legame con una moneta così forte, non consente agli Stati di offrire prezzi competitivi sul mercato, con risultati decisamente penalizzanti sulle esportazioni. Ma più di ogni altra cosa, è utile ricordare che l’accordo monetario che obbliga i paesi della “zona franco” a depositare il 50% delle loro riserve presso il Tesoro francese, viene visto come un segno evidente della perdurante servitù economica che li lega all’Europa. A parti invertite, difficilmente succederebbe la stessa cosa: pensare che gli Stati europei siano disposti a depositare il 50% delle loro riserve a Washington o a Pechino è praticamente impossibile. Non a caso, l’ondata di populismi e di movimenti anti-euro che ha interessato il vecchio continente negli ultimi anni, si lega indissolubilmente all’idea che la sovranità monetaria è la condicio sine qua non della sovranità politica. In ultima analisi, è utile porre l’accento sulla straordinaria particolarità del sistema monetario che regola il CFA. Il fatto che la Francia, ex potenza coloniale, continui a stampare la sua moneta per Paesi terzi, anche se non la usa più all’interno dei suoi confini nazionali, rappresenta un caso unico che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo. La situazione dunque, continua a rimanere incerta: se Paesi come la Mauritania e il Madagascar hanno scelto la strada dell’abbandono, altri invece hanno confermato l’intenzione di continuare a utilizzare il CFA, che ancora oggi resta la valuta di riferimento per quasi 155 milioni di persone.
Alessandro Paglialunga
Un chicco in più
Il franco CFA è la moneta ufficiale in Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau (dal 2 maggio 1997), Mali (fino al 1962 e poi dal 1984), Niger, Senegal e Togo. Anche le Isole Comore, nell’Oceano Indiano, sono associate al franco CFA, e utilizzano la variante locale (il franco comorano).
Foto di copertina di ramnath bhat Licenza: 
https://www.ilcaffegeopolitico.org/72053/franco-cfa-africa