venerdì 13 aprile 2012
LE CHICCHE PIÙ BOMBASTICHE TRATTE DAL LIBRO-TESTAMENTO DI CESARONE ROMITI - 2- A DELLA VALLE GLI DISSI: “COME SCARPARO SEI UN IMPRENDITORE CHE DESTA AMMIRAZIONE, MA COME UOMO FAI SOLO SCHIFO” (ORA SAPETE CHI INVENTÒ IL NOMIGNOLO “SCARPARO”) - 3- ENRICO CUCCIA CONSIDERAVA ANDREOTTI IL MANDANTE DELL’OMICIDIO DI AMBROSOLI - 4- FRATELLI COLTELLI: LA LOTTA TRA UMBERTO E GIANNI AGNELLI PER L’EREDITA’ FIAT - 5- COSÌ PALENZONA CAPÌ CHE CESARE GERONZI CONTROLLAVA L’AGENDA DI ANTONIO FAZIO - 6- IL MONTEZEMOLO RECUPERATO, DOPO LA CACCIATA, DALL’AVVOCATO CONTRO IL VOLERE DI CUCCIA: “LO PRENDEMMO IN RCS, DOVE CURO` LA PARTE CINEMA E VIDEO INSIEME A PAOLO GLISENTI. FU UN GRANDE INSUCCESSO, TANTO CHE DOPO SOLO UN ANNO LASCIò” - 7- “BETTINO CRAXI INDICANDO BERLUSCONI E MONTEZEMOLO, DISSE: “SENTA ROMITI, LEI MI DEVE DIRE UNA COSA: MA TRA QUESTI DUE CHI E` IL PIU` BUGIARDO?” RISPOSTA: TUTT’E DUE -
Tratto dal libro di Cesare Romiti con Paolo Madron “Storia segreta del capitalismo italiano” (Longanesi)
romiti-madron_Storia segreta del capitalismo italiano1- FRATELLI COLTELLI
Sulla designazione di John Elkann a erede, Umberto Agnelli si risentı` molto col fratello anche per la nomina a erede di John Elkann.
L'erede designato, Giovannino, il primogenito di Umberto, fu tragicamente portato via da una crudele malattia. John Elkann, il figlio di Margherita, allora era gia` in azienda. La regola era che per entrare nel consiglio d'amministrazione della Fiat ci dovesse essere l'approvazione dei soci dell'Accomandita, la cassaforte di famiglia. Ma l'Avvocato poteva prendere le decisioni anche senza tenerne conto.
DISEGNO DI FABIO SIRONI - CESARE ROMITI GIANNI AGNELLI ENRICO CUCCIA E DE BENEDETTI
Come poi in effetti fece. Inizialmente Agnelli non voleva usare questo suo potere. E io spingevo perche´ convocasse il consiglio dell'Accomandi- ta, cosa che fece, ricordo, una domenica. Di questo consiglio anche io facevo parte. Umberto arrivo` in ritardo e parlo` per ultimo. « Gianni », disse, « tu ci hai convocato oggi per decidere della designazione di John. In realta` voglio venga messo agli atti che e` esclusivamente una tua decisione. » Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replico`: « No, caro Romiti, questa e` una decisione dell'Avvocato ».
Umberto voleva che la designazione toccasse all'altro suo figlio Andrea, che di tutta la famiglia e` l'unico maschio rimasto a portare il nome Agnelli. E `per questo che l'Avvocato voleva adottare John, per dargli il suo nome. Ci voleva il benestare della moglie e dei figli, ma Edoardo si oppose.
I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni 2- CUCCIA CHE CONSIDERA ANDREOTTI IL MANDANTE DELL'OMICIDIO AMBROSOLI
Andreotti, ovvero il cinismo al potere travestito da democristiana santita`. Che idea si era fatto di lui?
All'epoca proteggeva Sindona, e questo basta a far capire perche´ i suoi rapporti con Cuccia siano stati pessimi. Vorrei raccontarle un episodio. Una volta Andreotti da presi- dente del Consiglio mando` a chiamare Cuccia, che come e` noto non andava mai da nessun politico.
agnelli enrico cuccia
Ma se negli ultimi anni ando` persino a prendere il te` da D'Alema, allora presidente del Consiglio. Sı`, lo so. Di solito usava sempre intermediari. Si vede che in quell'occasione la sua presenza diretta era indispensabile, non bastava quella di Alfio Marchini, che organizzo` l'incontro.
Cosa voleva Andreotti da Cuccia? Cuccia mi racconto` che parlarono del piu` e del meno, e che a un certo punto Andreotti lo tempesto` di domande sull'economia, l'industria, il Paese. Poi, a bruciapelo, gli chiese: «Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell'uccisione di Ambrosoli? » E Cuccia cosa rispose? Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio termino`.
3- QUANDO D'ALEMA SCOPRÌ DI ESSERE DIVENTATO IMPORTANTE NEL PCI
Com'erano i suoi rapporti con D'Alema, che in fondo non e` mai stato molto amico della Fiat?
Anche se non ci ha mai avversato per partito preso, io di D'Alema mi fidavo poco e ancora oggi mi fido poco per questo suo modo strano di intendere il potere. Una volta, in un incontro, mi disse: « Sa quando io ho capito di essere diventato importante nel Partito comunista? Quando una notte vennero a prelevarmi a casa alcuni compagni perche´ temevano che ci fosse un colpo di Stato e volevano salvaguardare i membri importanti del partito. Ecco, fu allora che mi accorsi che nel Pci contavo qualcosa, perche´ ero stato incluso nel piccolo gruppo, una decina non di piu`, di persone che il partito riteneva di dover salvaguardare in caso di golpe ».
MASSIMO D ALEMA E SILVIO BERLUSCONI
Giovanni Spadolini, marella e Susanna Agnelli, Marco Benedetto, Cesare Romiti4- COSÌ GERONZI CONTROLLAVA L'AGENDA DI FAZIO
Che tipo di influenza esercitava Geronzi su Fazio?
Per farle capire le racconto di un episodio che mi ha riferito Fabrizio Palenzona, l'attuale vicepresidente di Unicredit. Un giorno Palenzona ando` in Banca d'Italia per un appuntamento con Fazio. A un certo punto, durante l'incontro, la segretaria del governatore si avvicino` a Fazio pregandolo di uscire un momento perche´ era arrivata una telefonata. Lui uscı`, stette fuori per un po', poi rientro` e continuarono a parlare. In quello stesso giorno Palenzona aveva un successivo appuntamento con Geronzi che, appena lo vide, gli disse ridendo: « Dottor Palenzona, che cosa grave mi ha combinato! Si e` dimenticato di avvertirmi che prima di me lei doveva incontrare Fazio ». E Palenzona: « Come fa a saperlo? » «Ma scusi, quando lei era da Fazio non e` arrivata una telefonata? Bene, ero io ».
DELLAVALLE GERONZI Perfetto, meglio di qualsiasi editoriale su capitalismo di relazioni e conflitto di interesse.
Morale, io penso che Fazio sia una persona onesta e competente. Ma penso anche che forse in un certo momento della sua attivita` abbia perso quel senso di imparzialita` che dovrebbe sempre contraddistinguere un governatore della Banca d'Italia.
montezemolo dellavalle 5- IL TRADIMENTO DI DELLA VALLE
E di Cesare Geronzi cosa pensava Cuccia?
Al tempo in cui si affaccio` l'ipotesi di unire Comit e Banca di Roma io avevo un ottimo rapporto con Geronzi. Cuccia, che lo sapeva, mi disse: « D'accordo, proviamo anche a metterli insieme. Ma cosa troveremo dentro Banca di Roma? ».
Uno dei grandi oppositori delle nozze fu Diego Della Valle.
Della Valle un giorno mi venne a trovare. Mi disse che aveva un po' di soldi da parte e che gli sarebbe piaciuto investirli. Ne parlai con Cuccia, che volle subito vederlo. Gli propose di investire il suo denaro nella Comit, cosa che accadde consentendo all'imprenditore di entrare anche nel consiglio d'amministrazione. Furono soldi che poi si riprese con grandi guadagni.
7cap93 dellavalle tremonti
Il giorno in cui fu portato al consiglio di Comit il progetto del matrimonio con la Banca di Roma, Della Valle fece una scena madre. Non solo. Vi si oppose a mezzo stampa rilasciando un paio di interviste violentissime contro Cuccia e Maranghi. Cuc- cia ci rimase molto male, e pure io, che Della Valle gliel'avevo presentato. Fu allora che rompemmo i rapporti.
umberto agnelli MONTEZEMOLO Se non ricordo male lo insulto` pubblicamente.
Eravamo con un gruppo di imprenditori e gli dissi: «Come scarparo sei un imprenditore che desta ammirazione, ma come uomo fai solo schifo ». Da allora non ci siamo piu` parlati, fino a un anno fa, quando e` morta sua madre e gli ho scritto dicendo che conosco il dolore di chi perde un genitore. Lui mi ha telefonato e mi ha detto che mai avrebbe immaginato il mio gesto.
6- L'ASTIO VERSO MONTEZEMOLO
Da dove nasce questo suo astio verso Montezemolo?
Nessun astio. Perche´ se e` vero che una volta dovette uscire dalla Fiat, non fui io a licenziarlo.
montezemolo agnelli Chi fu a licenziarlo? Fu Agnelli che volle allontanarlo dalla Fiat.
Se e` vero quello che mi dice, perche´ mai, dopo la parentesi a Italia 90, Montezemolo fu riassunto in Rcs, casa editrice di cui Fiat era il primo azionista? Fu sempre Agnelli a chiedermelo. Mi chiamo` e mi disse: « Senta Romiti, vorrei ricuperare Montezemolo. Perche´ non ne parla con Cuccia? » La reazione del banchiere fu stizzita, quasi mi mando` al diavolo. Allora gli dissi che ero imbarazzato, ma ero latore di una richiesta dell'Avvocato.
Morale, lo prendemmo in Rcs, dove curo` la parte cinema e video insieme a Paolo Glisenti. Fu un grande insuccesso, tanto che dopo solo un anno lascio`
h mo70 montezemolo su agnelli
BOBO CRAXI BETTINO E SILVIO BERLUSCONI 7- CRAXI INDICANDO IL CAVALIERE E MONTEZEMOLO, DISSE: « SENTA ROMITI, LEI MI DEVE DIRE UNA COSA: MA TRA QUESTI DUE CHI E` IL PIU` BUGIARDO?
Craxi fu anche determinante per l'ascesa imprenditoriale di Berlusconi, fu quello che riaccese i ripetitori delle sue televisioni che i pretori avevano spento. Berlusconi riuscı` quasi subito a entrare nelle grazie di Craxi. Le racconto un episodio. Bettino era molto amico della cantante, poi discografica, Caterina Caselli, donna intelligente e molto simpatica. Una volta lei e il marito, l'industriale discografico Piero Sugar, ci invitarono a casa loro. C'eravamo io, Craxi, Berlusconi e Montezemolo. Craxi era gia` potente e mi ricordo che Berlusconi, allora completamente fuori dalla politica, aveva appena ultimato Milano 2 e iniziava ad avere qualche timido interesse per la televisione. Il segretario socialista, che aveva voglia di scherzare, a un certo punto rivolgendosi a me, ma indicando il Cavaliere e Montezemolo, disse: « Senta Romiti, lei mi deve dire una cosa: ma tra questi due chi e` il piu` bugiardo? Perche´ che siano bugiardi si sa, ma lei che li conosce meglio di me forse puo` aiutarmi a risolvere il dubbio ».
Bettino Craxi
Per lei un dubbio amletico.
Mi colse di sorpresa, poi me la cavai con una battuta: « Concordo con lei che sono due grandi bugiardi, ma se proviamo a tirare una moneta in aria, sono sicuro che cadendo rimarrebbe dritta ».
by dagospia
giovedì 12 aprile 2012
ROMITI AMARCORD - UMBERTO AGNELLI CONTRO L’AVVOCATO PER LA NOMINA DI JOHN ELKANN A “EREDE”: VOLEVA SUO FIGLIO ANDREA - AGNELLI ERA CONVINTO CHE BERLUSCONI AVREBBE AVUTO UNA VITA EFFIMERA - CUCCIA ERA AMICO DI LIGRESTI SOLO OPPORTUNISMO. CHE VENNE FUORI AI TEMPI DELLA PRIVATIZZAZIONE DI MEDIOBANCA: L'OPERAZIONE PASSÒ SOLO GRAZIE AI BUONI UFFICI DI LIGRESTI, CHE AVEVA OTTIMI RAPPORTI CON BETTINO CRAXI - IL GIORNO IN CUI BERLUSCONI CHIESE A CESARONE DI GUIDARE IL SUO IMPERO
Sergio Bocconi per il "Corriere della Sera"
Cesare Romiti
Umberto e Gianni AgnelliI libri-intervista spesso raccontano le vite degli altri, più che del protagonista. E anche in questo caso Cesare Romiti, rispondendo alle domande di Paolo Madron, narra, svela, cuce, ammicca, irride, critica e talvolta elogia, costruisce un ritratto individuale e collettivo della élite che con lui ha rappresentato e rappresenta la finanza e l'industria del nostro Paese. Personaggi e interpreti della Storia segreta del capitalismo italiano (Longanesi, pagine 288, 14,90, prefazione di Ferruccio de Bortoli) sono 210, fra imprenditori, banchieri, politici, giornalisti e anche qualche star dello spettacolo.
Ma le figure chiave sono Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli. Non poteva essere altrimenti, così come ritrovare ai primi posti del cast Carlo De Benedetti, al quale lo stesso Romiti ha chiesto un testo introduttivo al libro, cogliendolo di sorpresa: poi però fra i «due nemici necessari», definizione dell'ex top manager della Fiat, l'accordo alla fine non si trova e lo scritto (pubblicato qui sotto) viene rifiutato. Del resto, come conclude l'Ingegnere, «la storia la si racconta, non la si cambia».
John Elkann
Andrea Agnelli Ventiquattro anni dopo il suo primo libro-intervista ( Questi anni alla Fiat, con Giampaolo Pansa), Romiti riserva questa volta tanto spazio alle storie degli altri, viste da così vicino che il binocolo della memoria e della interpretazione riesce a riservare non pochi inediti.
Lui sa di avere l'esperienza e l'età per concedersi talune «rivelazioni», tanto è vero che nel suo testo conclusivo, nel quale invita «coloro che oggi hanno 20, 30, 40 anni» a «fare una rivoluzione pacifica» e a «creare una nuova classe dirigente», dice di essersi ispirato per l'intervista a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo: «Sono le memorie fantastiche di ottantenne immaginario. Io invece, veramente ottuagenario, posso scrivere un libro frutto di alcune mie reali memorie».
Così rispondendo a Madron, fondatore e direttore del quotidiano online «Lettera43», Romiti coglie diverse occasioni per affidargli episodi che prima non ha «mai raccontato». Uno dei quali riguarda Silvio Berlusconi, in politica secondo lui sottovalutato da Agnelli («era convinto che avrebbe avuto una vita effimera, che non sarebbe durato molto»), ma imprenditore il cui fiuto lo porta a fare un'offerta a Romiti mentre è ancora in Fiat: «Voleva che andassi a dirigere il suo gruppo».
Romiti rifiuta. Ha «in mente di fare altro» e poi aggiunge: «Non credo che con un padrone accentratore come Berlusconi avrei avuto grandi margini di manovra». Agnelli invece «voleva occuparsi solo delle strategie».
Verso Giovanni Agnelli Romiti descrive una «fedeltà assoluta». Che si manifesta in particolare anche ai tempi di Tangentopoli: «Io volevo innanzitutto difendere l'azienda e naturalmente l'Avvocato». Rivela quindi che sono stati i magistrati del pool di Mani Pulite a «suggerirgli» di scrivere la lettera-articolo sul «Corriere della Sera» nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici. Lealtà che ritorna fra l'altro nella occasione della nomina di John Elkann a «erede» dell'Avvocato in Fiat.
Berlusconi e Agnelli (da Il Riformista)
agnelli enrico cuccia
Umberto Agnelli, racconta, voleva per la designazione suo figlio Andrea e nel corso del consiglio dell'Accomandita, la «cassaforte» della famiglia, dice: «Gianni, tu ci hai convocato oggi per decidere la designazione di John. Voglio venga messo agli atti che è esclusivamente una tua decisione». Romiti ribatte: «Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replicò: "No, caro Romiti, è una decisione dell'Avvocato"». Una sola cosa di Giovanni Agnelli, confessa Romiti, «un po'» lo aveva infastidito: l'attrazione che su di lui aveva esercitato De Benedetti per il suo carisma.
Ed è Cuccia, con il suo carisma «che resta il migliore esempio della differenza fra autorevolezza e autoritarismo», ad attrarre Romiti dal loro primo incontro, «intorno al 1968». Ne descrive «la superiorità intellettuale e morale», ma lo definisce anche «machiavellico» e con una «proverbiale abilità nell'usare le persone senza guardare in faccia a nessuno». Tanto è vero per esempio che a Salvatore Ligresti non l'unisce amicizia ma «solo opportunismo. Che venne fuori ai tempi della privatizzazione di Mediobanca: l'operazione passò solo grazie ai buoni uffici di Ligresti, che aveva ottimi rapporti con Bettino Craxi».
«Tutto per il bene della sua banca che considerava perno e strumento della ricostruzione del capitalismo italiano: voglio ricordare che Cuccia è morto povero». Romiti difende il banchiere anche sull'episodio che gli è costato più critiche, il mancato avviso a Giorgio Ambrosoli che Michele Sindona lo voleva uccidere.
Romiti ripete che il banchiere «disse al suo avvocato di avvertire i magistrati». Ma su queste vicende tragiche un'altra è la rivelazione. Il manager racconta che Cuccia gli ha descritto un suo incontro con Giulio Andreotti: «Parlarono del più e del meno, poi a bruciapelo Andreotti gli chiese: "Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell'uccisione di Ambrosoli?" Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio terminò».
craxi agnelli
Salvatore LigrestiPerò non il fondatore di Mediobanca è stato, per Romiti, il miglior banchiere italiano, bensì Raffaele Mattioli, presidente di Comit. E a Madron che gli cita Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, risponde così: «Bazoli è un avvocato che ha il grandissimo merito di aver salvato il Banco Ambrosiano. Ma non ha mai gestito la banca operativamente. E Geronzi nemmeno». Qui torna la «lente» di Cuccia, che «fu molto amareggiato quando vide che il marchio storico» della Comit «era scomparso dalla scena finanziaria». E che, sulla proposta di fondere Comit e Banca di Roma, poi non andata in porto «mi disse che non sapeva cosa ci fosse veramente dentro la Banca di Roma, e che temeva le conseguenze di quel matrimonio».
by dagospia
IO ALLA FIAT CON GIANNI E CESARE COSÌ NEL 1976 LASCIAI L'AZIENDA»
Il brano che segue è un estratto di un testo (mai pubblicato) che Carlo De Benedetti, come spiega, aveva preparato per il libro autobiografico di Cesare Romiti (scritto con Paolo Madron). I dubbi espressi dall'Ingegnere all'inizio del testo erano premonitori. Romiti e De Benedetti non hanno trovato un accordo sull'impostazione
Un giorno di gennaio di quest'anno mi dicono che c'è Romiti al telefono che ha urgenza di parlarmi. Prendo la chiamata e, con molta cordialità, Cesare mi dice che sta completando una sua autobiografia e che desidererebbe che io facessi una prefazione.
Confesso che rimango sorpreso, ma piacevolmente, e gli rispondo di getto: «volentieri, se mi mandi il libro, lo leggo e poi ti richiamo». Lo leggo. Richiamo Romiti e gli dico: «Ma come faccio a farti la prefazione del libro quando su molte, troppe cose non sono d'accordo con te e in particolare non sono e non sono mai stato d'accordo con te su molti passaggi del capitolo "Io e Carlo De Benedetti: due nemici necessari?".
CESARE ROMITI MARISELA FEDERICI - Copyright Pizzi
Giovanni Spadolini, marella e Susanna Agnelli, Marco Benedetto, Cesare Romiti
A cominciare proprio dal titolo di quel capitolo. Che cosa significa "due nemici necessari?"». Risposta pronta di Romiti: «Tu sai che noi ci siamo sempre, pur nelle differenze delle nostre opinioni, reciprocamente stimati. Scrivi quello che vuoi, compreso che non sei d'accordo». Ebbene, la mia reazione è: a un gesto di eleganza che francamente mi sorprende, non posso che accettare.
Ricordo l'arrivo di Romiti in Fiat, come direttore amministrativo e finanziario. Io in quel momento ero presidente dell'Unione Industriale di Torino. Era il 1974.
Di lui ho in mente quanto mi disse Cuccia: «I conti della Fiat non ci convincono e abbiamo deciso di mandare una persona di cui ci fidiamo per cercare di capire la vera situazione economica e finanziaria».
ibe54 carlo debenedetti
CESARE ROMITI ROSI GRECO
Quella di Cuccia fu certamente una decisione giusta, perché nella mia ormai lunga esperienza di aziende non ho mai incontrato una persona che in questo specifico settore avesse la competenza, l'autorevolezza e la determinazione che aveva Cesare Romiti. Attraverso gli anni gli ho sempre riconosciuto queste caratteristiche e anche la rapidità e la professionalità con cui in pochi minuti era capace di analizzare bilanci e di memorizzarne i dati essenziali.
Lo dimostrò anche alla Fiat, pur in un ambiente che era estremamente ostile alle immissioni dall'esterno di persone con alte responsabilità e deleghe.
Aggiungo un'altra caratteristica peculiare di Romiti: la straordinaria capacità di gestire il potere che dimostrò in tutta la sua carriera in Fiat, tenuto anche conto che allora la Fiat era l'incontrastata e dominante potenza industriale del Paese.
Ma su Romiti capo-azienda il mio è un giudizio critico. In mancanza di conoscenza del prodotto e di visione sul futuro di quella industria, Romiti si è concentrato sulle diversificazioni finanziarie della Fiat, trascurando Fiat Auto e facendo l'errore di privarsi di Ghidella, l'unica persona che conosceva bene il prodotto auto.
Carlo De Benedetti
Anche sul piano internazionale, prima dell'arrivo di Marchionne, le uniche alleanze della Fiat furono intuizione e realizzazione di Umberto Agnelli: sia quella che si concretizzò insieme alla Peugeot nella creazione di Sevel, sia nella non riuscita iniziativa con Hitachi nelle macchine movimento terra.
A Romiti certo bisogna riconoscere un ruolo importante nel capitalismo italiano degli anni 80 e 90, gli anni che portarono peraltro al disastro del debito pubblico e ai colossali benefici che la Fiat ottenne dallo Stato e cioè dal contribuente italiano.
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Il caso Alfa Romeo-Ford che Romiti ricorda è solo un episodio, peraltro certamente non trascurabile, delle contropartite che la Fiat ottenne in quegli anni e molto per merito di Romiti che interpretò nei rapporti con la politica in modo mirabile l'insegnamento che l'Avvocato Agnelli mi diceva avere ricevuto dal nonno e cioè che la Fiat deve essere governativa. E sempre lo fu, col fascismo, con la Democrazia cristiana, con Craxi. Ma questa è storia.
Veniamo al mio impegno in Fiat, necessario per completare il quadro. Premetto che su questo punto Romiti, qualche anno fa, volle darmi atto in una conversazione a tre con un importante interlocutore che ero stato io in totale autonomia a decidere di lasciare la Fiat.
Ebbene, negli ultimi mesi del 1975 Umberto Agnelli mi invitò a una colazione (erano frequenti i nostri incontri) nella sua villa nella tenuta di La Mandria e mi chiese improvvisamente, mentre parlavamo di Fiat: «Ma tu te la sentiresti di fare l'amministratore delegato della Fiat?». Io ne rimasi sorpreso e lusingato.
Gianni agnelli e Jacqueline Kennedy
agnelli umberto E GIANNI Dopo molte riflessioni e incontri con Umberto e con l'Avvocato, accettai la proposta, a due condizioni:
1) di vendere alla Fiat le mie azioni della Gilardini in quanto non volevo trovarmi in conflitto di interesse come fornitore della Fiat;
2) di avere in pagamento azioni Fiat perché non ho mai lavorato da manager puro, ma sempre da «padrone».
Ci accordammo su questi due punti, dopodiché Umberto e l'Avvocato mi chiesero di gratificare il management interno con la nomina ad amministratore delegato anche di Romiti, con delega all'amministrazione e alla finanza. Accettai di buon grado perché Romiti aveva competenze superiori alle mie in quel settore.
L'assetto di comando al mio ingresso in Fiat era: Avvocato Agnelli, presidente; Umberto Agnelli, vice presidente e amministratore delegato; io e Cesare Romiti, amministratori delegati; un comitato esecutivo presieduto da Umberto Agnelli a cui partecipavano, oltre a lui, io e Romiti, Nicola Tufarelli, allora capo dell'Auto.
FIAT mirafiori
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È assolutamente vero che dopo qualche settimana in Fiat, siccome i bilanci li sapevo leggere anch'io ma anche le comparazioni tra le produttività nostre e quelle dei nostri concorrenti, andai dall'Avvocato e gli dissi: «bisogna mandare via 20.000 persone e 500/700 dirigenti».
L'Avvocato mi chiese: «ma dove sono questi operai che lei vede in eccesso? Sono nei corridoi?». La mia risposta fu: «Sono nei numeri». Si preoccupò. Mi disse che doveva parlarne a Roma. Erano gli anni delle Brigate rosse. Tornò da Roma e mi disse: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile una operazione di questo genere».
Da quel momento capii che la mia presenza in Fiat sarebbe stata del tutto frustrante, inutile all'azienda e lesiva del mio grande investimento in Fiat e decisi di andarmene. Lo dissi a Romiti, come giustamente lui ricorda; lo dissi a uno sbalordito Avvocato Agnelli che incontrai durante le vacanze di agosto a St. Moritz e lo dissi anche a Umberto anche se in quel momento lui non lavorava in Fiat e faceva il senatore.
ghidella-agnelli
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Quindi, nonostante le insistenze dell'Avvocato e di Umberto che vennero ripetutamente a casa mia a Torino per convincermi di non farlo, lasciai la Fiat e accettai, per fair play ma anche per senso di equità, di rivendere le mie azioni Fiat all'Ifi al prezzo che avevo pagato più gli interessi maturati, nonostante sapessi che nei mesi successivi le azioni si sarebbero ampiamente rivalutate per effetto del maxi prezzo pagato dai libici per entrare nel capitale della Fiat.
La Fiat, che non poteva tollerare l'idea che questa fosse, come è e come Romiti ha riconosciuto, l'unica causa della mia uscita dall'azienda, si inventò fantasiose ipotesi di una mia «scalata» alla società con l'appoggio di non so quale solidarietà della finanza internazionale. Una «palla» totale anche perché: primo, non ho mai fatto parte di alcuna «consorteria» nazionale o internazionale; secondo, perché, ancor più dopo l'ingresso dei libici di cui ero al corrente, non avevo neanche lontanamente a quell'epoca i mezzi per un'operazione che non ho mai pensato neppure per un attimo di fare.
Gianni e Margherita Agnelli il giorno delle nozze con John Elkann Certo, Romiti e io abbiamo avuto idee diverse in Confindustria, in Mediobanca, in Olivetti, in infinite circostanze. Ma non credo che fosse necessario che fossimo avversari. Avremmo potuto benissimo convivere nelle nostre differenze a beneficio di un contributo incisivo che insieme avremmo potuto dare al Paese come rappresentanti di due importantissime realtà industriali. Peccato! La storia la si racconta, non la si cambia.
2- CARLO E CESARE: I DUELLANTI DEL LINGOTTO
Da: Storia segreta del capitalismo italiano (Longanesi) - di Paolo Madron
Valeria Marini e Cesare Romiti
...In questo clima De Benedetti prese la palla al balzo per dare corpo alla sua idea di cambiare tutto in azienda. Secondo Carlo bisognava cacciare via quasi tutti i dirigenti, e cio` gli creo`, com'era ovvio che fosse, una infinita serie di contrasti. Poi, di punto in bianco, decise di andarsene.
Avra` avuto le sue motivazioni.
Un giorno, eravamo sul finire del luglio 1976, partecipammo a una riunione dell'Iveco in Lungo Stura e mentre andavamo la` in macchina lui mi disse: « Sai, Cesare, ho deciso di andarmene ».
Gianni Agnelli durante un incontro a mosca nel 1984 con l'allora presidente dei ministri URSS Tichonov (lapresse)
E lei che reazione ebbe?
Gli dissi di riflesso: « Carlo, tu sei matto! Sei qui da meno di tre mesi ». E lui: « No, ho deciso cosı` perche´ qui non riesco a fare quello che ho in mente, quindi tanto vale che lasci ». Ora, come e` noto, De Benedetti era anche azionista perche´ aveva scambiato le azioni Gilardini con il 5% delle azioni della Fiat. La trattativa era stata condotta personalmente da Umberto e dall'Avvocato, ma siccome lui era molto abile negli affari, il valore attribuito alla Gilardini fu spropositato rispetto a quello attribuito alle azioni del Lingotto.
Questo per dire che se fosse stato lei a fare la trattativa sarebbe andata diversamente?
Certo, io a quei valori nettamente svantaggiosi per la Fiat non avrei mai concluso l'operazione. Che alla fine Carlo sfrutto` anche in chiave mediatica, perche´ gli consentiva di dire ai giornali che era diventato il piu` grande singolo azionista della Fiat, addirittura piu` dell'Avvocato, visto che le partecipazioni della famiglia Agnelli erano raggruppate in una societa`, l'Accomandita, divisa in tante quote possedute dai numerosi membri della famiglia.
BERLUSCONI CARLO DE BENEDETTI
I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni E l'Avvocato non disse nulla?
Apparentemente non batte´ ciglio, perche´ in questi casi Agnelli non aveva mai reazioni di tipo scomposto, e poi inizialmente era come ammaliato da Carlo. Era solo preoccupato, al di la` di quello che l'Ingegnere dichiarava ai giornali, dell'agitazione che aveva creato in azienda il fatto di sapere che De Benedetti voleva cambiare tutto e mandar via molta gente. Tanto che un giorno, e la cosa mi sorprese molto, mi chiamo` Umberto e mi disse: «Ma se per caso con De Benedetti le cose non dovessero andare, lei che fa, va via o rimane? » Gli risposi che sarei rimasto. Anche perche´ il modo in cui erano state suddivise le deleghe tra i tre amministratori delegati non creava interferenze: Umberto si occupava dell'auto e dei camion, De Benedetti degli altri settori non auto, io di finanza, amministrazione e personale. Quindi operavo in totale autonomia.
John Elkann con Gianni Agnelli allo stadio Provi a descrivere l'attrazione che De Benedetti esercitava sull'Avvocato.
Lo faccio raccontandole quel che mi diceva l'Avvocato di De Benedetti quando, appena arrivato in Fiat, era ancora poco conosciuto e lontano mille miglia dalla scena mediatica: « Caro Romiti, porto con me l'Ingegnere a Roma e a Milano, lo faccio partecipare a convegni e incontri, e ovunque riscuote un grande successo ». Insomma, credo che Agnelli provasse piacere nel vedere come le varie persone erano subito attratte dal carisma di quell'uomo. La stessa cosa che capitava a lui. Non le nascondo che un po' mi infastidiva.
7cap30 carlo debenedetti
Tra lei e De Benedetti furono molte le occasioni di scontro?
No, eravamo entrambi abbastanza navigati per saper evitare i conflitti diretti. Ricordo per esempio, una volta che non gli piacque per niente quando, in occasione dell'uscita di un bilancio Fiat, rilasciai un'intervista al Sole 24 Ore in cui raccontavo com'era andato l'anno di esercizio, niente di particolarmente clamoroso. Ma lui voleva essere il primo, soprattutto da quando aveva capito che Umberto avrebbe lasciato l'azienda per la politica. La sua ambizione fu alla base dei nostri contrasti, che non sfociarono mai in litigi veri e propri, quanto piuttosto in una conflittualita` strisciante e sotterranea. Nel caso di quell'intervista, l'Avvocato mi disse che De Benedetti era andato da lui a lamentarsi del fatto che prendevo iniziative senza avvertirlo.
De Benedetti lascio` la Fiat nell'agosto del 1976, dopo appena tre mesi dal suo arrivo. Secondo lei aveva gia` in mente altro?
Sostanzialmente se ne ando` perche´ aveva chiesto carta bianca senza pero` ottenerla. Poi, all'epoca, la Fiat risentiva ancora dei postumi della crisi petrolifera, i suoi bilanci erano veramente brutti. Non escludo che Carlo fosse convinto dell'impossibilita` di rimetterli in sesto, e che l'azienda fosse entrata in una fase di declino irreversibile. Sta di fatto che verso il 20 agosto, con gli stabilimenti ancora chiusi per ferie, Agnelli mi chiamo` pregandomi di tornare subito a Torino perche´ era stato trovato l'accordo per congedare De Benedetti.
Gianni Agnelli
lingotto
Si disse che lei non fu spettatore neutrale della vicenda, ma che ebbe un ruolo attivo mettendo nell'orecchio dell'Avvocato la pulce che De Benedetti stava rastrellando azioni Fiat perche´ voleva scalarla. Una circostanza che l'interessato ha per altro sempre smentito.
Non fui ne´ neutrale ne´ parte attiva. Mi limitai a far notare alla proprieta` che non si poteva andare avanti in quel clima di incertezza, che la notizia dell'uscita di De Benedetti o diventava ufficiale o era un continuo disturbo per l'immagine di una societa` quotata. Tanto piu` che all'esterno il peso dell'Ingegnere aumentava proprio per il fatto che non era un semplice manager, ma un azionista che deteneva una importante partecipazione nel capitale.
Nella storia della finanza De Benedetti passa per un raider svelto, audace, un mago che sa leggere al volo i bilanci quant'altri mai. Invece lui ha sempre puntigliosamente difeso la sua vocazione di industriale puro.
Ricordo una volta che eravamo insieme, e io ricostruendo i suoi inizi raccontai che le prime esperienze le aveva fatte in borsa, lavorando fianco a fianco con un agente di cambio. De Benedetti se la prese a male, e sbotto`: « Non e` vero, io non ho fatto esperienza in borsa, l'ho fatta in officina, nelle fabbriche ».
Gianni Agnelli e Jacqueline Kennedy
Umberto e Gianni Agnelli
Come fu la vostra separazione?
Alla fine di agosto Umberto Agnelli mi disse che avevano ricomprato da De Benedetti le azioni Fiat, mentre il gruppo rimaneva azionista della Gilardini. In questo modo le strade si separarono definitivamente. La sera di quello stesso giorno incontrai Carlo che mi disse: « Cesare, io me ne vado ma ho messo una condizione: che tu prenda il mio posto alla presidenza della Gilardini ».
by dagospia
mercoledì 11 aprile 2012
Le responsabilità dell'euro se l'Europa va male
ra poche settimane la crisi dei debiti sovrani europei, che descrivemmo subito come crisi strutturale dell’euro, compirà un anno. Un anno perso. I 1.000 miliardi della Bce hanno avuto un effetto sintomatico, passato il quale si torna dove eravamo. Chi, oggi, dicesse che il risalire degli spread è colpa del governo Monti sarebbe un volgare imbroglione. Lo era anche chi lo sosteneva l’estate scorsa, addossando al governo italiano responsabilità che erano europee. Allora si gridò alla necessità di fare in fretta, dopo un anno si mormora senza avere il coraggio di riconoscere che noi azzeccammo la diagnosi, sostenendo che solo quella europea era la sede per risolvere il problema, mentre chi ci diede lezioni prese fischi per fiaschi, o, peggio, fece finta di non capire.
L’asse Merkel-Sarkozy si mosse per tutelare le banche francesi e tedesche, impoverendo gli europei e trasformando l’Ue in un vincolo capace di bruciare ricchezza. Andava fermato, invece si scelse di assecondarlo e asservirglisi. Il risultato è deprimente: pressione fiscale intollerabile, sistema produttivo allo stremo, debito pubblico sempre più pesante rispetto al Pil (dato che il secondo scema). Un esempio da manuale di quanti errori si possano commettere agendo in base ad un pregiudizio, senza essere dotati di sufficiente cultura e prestigio politico. Sostenendo che la crisi dell’eurozona era riassorbita s’è commesso un terribile errore di valutazione. Affermando che quel successo è dovuto alle riforme italiane ci s’è addossati colpe che non erano nostre. Solo l’insipienza di partiti politici in stato confusionale consente al governo di non fare i conti con tali responsabilità.
La sconfitta europea si misura nell’attesa del risultato delle presidenziali francesi, nella speranza che sia un elettorato nazionale, sfiduciato e incattivito (il fatto che la maggioranza relativa dei giovani manifesti consensi per Le Pen la dice lunga), a far saltare il banco. L’Europa che sognammo non è questa, e neanche le somiglia. La crisi poteva essere l’occasione per una maggiore integrazione e consolidamento istituzionale, invece ha fatto annegare ciascuno nei propri egoismi e miopie nazionali. Noi compresi, che ci tirammo gli spread nella schiena, come coltellate, felici di vendette miserabili.
I greci sono tenuti in bancarotta, ma senza volerla chiamare con il suo nome. Gli spagnoli dismettono il welfare sanitario, ma non in una logica di riforma europea, come si dovrebbe, bensì in un inutile sforzo contabile. Gli italiani si stanno dissanguando pagando tasse che assecondano l’inutilissimo tentativo di mostrarsi diligenti nei confronti di una dottrina anti europea. Mentre i tedeschi finanziano i loro debiti senza pagare e alimentano la loro bilancia commerciale senza curarsi delle conseguenze. Aggiungete gli inglesi che si sono sganciati dal nuovo trattato, metteteci gli irlandesi che lo bocceranno e avrete chiaro il quadro di un’Unione che s’avvia a scomparire per insufficienza mentale e storica della classe dirigente europea.
Noi italiani abbiamo, in più, un debito pubblico esagerato, che dovremmo cercare di abbattere e che, invece, c’incaponiamo a mantenere ciucciando via soldi a chi potrebbe produrre e consumare, per destinarli al rogo. La logica dell’allineamento ai dettami tedeschi non era sana, ma almeno avrebbe avuto un senso se avesse prodotto riforme a lunga gittata. Invece abbiamo fatto quella delle pensioni e lì ci siamo fermati, lasciando il resto in balia della logorrea impotente e supponente. Il dolore senza risultati alimenterà la rabbia, che metteremo sul conto di chi credette che quello italiano fosse un problema di stile, anziché di sostanza. C’era anche un problema estetico, certamente, ma occorre essere ottusi assai per considerarlo prevalente.
La ricetta diversa c’è, l’abbiamo ripetuta e ci torneremo (tagliare sia il debito che le tasse, riformando il welfare e privatizzando). Un anno dopo, però, è urgente che s’esca dall’ipocrisia che da un anno ci ammorba: il problema non sono i conti italiani, o i trucchi greci, ma l’euro, e la soluzione consiste nel portare sovranità politica nella sua gestione, non nel cedere sovranità nazionale alla Bundesbank. Da un anno si va nella direzione sbagliata. Il tempo perso è costato a noi e all’Unione. Che altri ci abbiano guadagnato è un motivo in più per cambiare terapia.
di Davide Giacalone
www.davidegiacalone.it
http://www.liberoquotidiano.it/news/977591/Le-responsabilità-dell-euro-se-l-Europa-va-male.html
LE LOGGE MASSONICHE ANGLO-AMERICANE NON VOGLIONO PIÙ BENE AL TEDESCO MONTI? - 2- DOPO “FINANCIAL TIMES”, ‘’WALL STREET JOURNAL” LO BASTONA PER DUE GIORNI DI SEGUITO CON LO STESSO EDITORIALE SULL'ART 18, E OPLA’ LA RASSEGNA STAMPA ONLINE SPARISCE DAL SITO DEL GOVERNO: “RICHIESTA DEGLI EDITORI PER IL RISPETTO DEL DIRITTO D’AUTORE”. MA I MINISTERI CONTINUANO A PUBBLICARLA TRANQUILLAMENTE - 3- IL TAGLIO ARRIVA A POCHI GIORNI DAL GIALLO DELLE LODI FANTASMA DI OBAMA A MONTI E L’ARTICOLO DEL “FATTO” NON SEGNALATO SULLA RASSEGNA STAMPA DI GOVERNO.IT - 4- SUL CORRIERE IL DUO ALESINA-GIAVAZZI TORNA A SBRANARE MONTI: IL GOVERNO SI È ARENATO, L’ECONOMIA CONTINUA A RALLENTARE, LO SPREAD RISALE, MA MISURE PER LA CRESCITA NON CI SONO: L’UNICA CERTEZZA È L’AUMENTO DELLE TASSE (IVA DAL 21 AL 23%) -
MONTI INCROCIA LE PENNE CON IL WALL STREET JOURNAL. E LA RASSEGNA STAMPA SPARISCE DAL SITO DEL GOVERNO (SU RICHIESTA DEGLI EDITORI)
Filippo Sensi per "Europa Quotidiano"
Va bene che repetita iuvant, ma il copione stavolta è talmente lo stesso che pare quel film sul giorno della marmotta, dove il tempo scorreva in loop nella amena cittadina americana di Punxsutawney.
Con Mario Monti, però, nella parte di Bill Murray a rivivere quotidianamente l'editoriale del Wall Street Journal sull'articolo 18, come fosse quella I got You, Babe di Sonny & Cher che lo svegliava inesorabile sempre alle 6 in punto.
Così, quando ieri il quotidiano finanziario è tornato a bacchettare il premier per essersi «arreso» sulla riforma del lavoro «davanti a coloro che stanno conducendo il paese» verso un «abisso stile Grecia», la sensazione, fortissima, del déjà vu deve avere afferrato Palazzo Chigi. Che già sabato scorso aveva mandato una cortese letterina di precisazione di Monti, tanto sulla iniziale apertura di credito del giornale che lo aveva paragonato alla Thatcher, quanto sulla successiva bocciatura per le aperture sull'articolo 18 che al Wall Street Journal proprio non vanno giù.
Il fatto è che sempre dello stesso editoriale si tratta, pubblicato venerdì scorso e ripubblicato ieri, nella edizione europea del quotidiano. Un bis in idem che, vista la giornata disastrosa dello spread e delle borse, all'inizio sembrava metterci il carico da dieci, per poi srotolarsi in un evanescente circolo vizioso. Per il quale lo staff del premier ha pensato bene di rinviare nuovamente alla precisazione di cui sopra, tanto per restare nel loop, appunto.
BARACK OBAMA
Margaret Thatcher
È vero che il vincolo esterno è tornato a farsi sentire, eccome; vuoi come pressione di mercati e poteri forti che condizionano le chances della nostra ripresa, vuoi come sponda per consentire al governo tecnico di ricordare agli stakeholder politici che la tempesta non si è affatto placata ragion per cui chi pensasse di staccare adesso la spina sarebbe un pazzo suicida.
Risiamo punto e daccapo, insomma. Nella ruota della marmotta. Con un aiutino, però, chissà quanto intenzionale. Da ieri, infatti, la rassegna stampa di Palazzo Chigi è sparita dal sito del governo.
Ufficialmente su «specifica richiesta avanzata dalle associazioni degli editori nel rispetto del diritto d'autore» (d'ora in poi sarà disponibile solo sulla rete Intranet ai dipendenti della presidenza del consiglio).
Magari, però, come qualche maligno potrebbe pensare, dopo il pasticcio sugli elogi attribuiti a Barack Obama a proposito del premier italiano e un articolo misteriosamente saltato dalla rassegna stampa dell'esecutivo, per darci un taglio con queste critiche, chissà quanto interessate, che sono tornate a piovere da fuori. Illazioni senza fondamento, figurarsi. Tanto domani, rassegnati o meno, la sveglia a Palazzo Chigi sarà puntata comunque alle sei, sul fuso di Punxsutawney.
2- RASSEGNE ONLINE: NEI SITI DEI MINISTERI RIMANGONO VISIBILI, SOLO GOVERNO.IT L'HA CASSATA
L'avranno anche chiesto gli editori, ma al momento l'unico che si è adeguato al divieto di accesso pubblico per le rassegne stampa online sembra essere il sito di Palazzo Chigi. A differenza di "governo.it", nei siti di gran parte dei ministeri le rassegne stampa rimangono visibili a tutti gli utenti. Basta navigare sui portali dell'Interno (http://www.interno.it/mininterno/site/it/sezioni/sala_stampa/rassegna_stampa/), Difesa (http://www.difesa.it/Sala_Stampa/rassegna_stampa_online/Pagine/giorno.aspx?d=11/04/2012), Esteri (http://stampanazionale.esteri.it/), Infrastrutture (http://195.45.104.212/datastampa/List.aspx?Date=Today)... Il ministero dell'Economia aveva provveduto da alcuni mesi a rendere visibile la rassegna solo alla intranet interna, mentre i siti di Camera e Senato continuano a pubblicarla regolarmente.
3- SUL CORRIERE IL DUO ALESINA-GIAVAZZI TORNA A SBRANARE MONTI
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi per il "Corriere della Sera"
FINANCIAL TIMES
MARIO MONTI ED ELISABETTA BETTY OLIVI
Il quarto trimestre del 2011 è stato molto negativo per l'economia italiana: il reddito si è contratto dello 0,7% rispetto al trimestre precedente. In un anno la spesa delle famiglie è scesa di oltre un punto, gli investimenti delle aziende di oltre 3. È assai probabile che il primo trimestre del 2012 sia andato ancor peggio. Lo sapremo fra circa un mese, ma non è il caso di farsi illusioni. E bisogna agire d'anticipo anche perché, dopo qualche mese di calma, il costo del debito ha ricominciato a salire: dal 4,8 di un mese fa al 5,6 di ieri per i Btp decennali.
Se la crescita continuasse a essere in rosso è quasi certo che mancheremo l'obiettivo di ridurre il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo (Pil), dato che il denominatore, il Pil appunto, scenderà. Come è successo con la Spagna, l'Unione Europea ci chiederà di fare qualcosa per riavvicinarci agli obiettivi di bilancio per il 2012 e 2013.
A quel punto, come reagirà il governo Monti? La risposta più semplice è anche quella sbagliata: non far nulla. Dal primo ottobre aumenteranno le due aliquote principali dell'Iva, rispettivamente dal 10 al 12 per cento e dal 21 al 23. Gli aumenti avverranno in modo automatico, per effetto di un provvedimento varato a suo tempo dal ministro Tremonti, che questo governo non ha cancellato.
Questa soluzione colpirebbe ulteriormente famiglie e imprese che già soffrono, non solo per il peso fiscale, ma anche per l'incertezza sul futuro delle aliquote. Quanto dovremo pagare per l'Imu? Ancora non si sa, e anche questo non aiuta a pianificare consumi e investimenti, sia italiani sia esteri.
alberto alesina
Un'alternativa sarebbe stata dare un impulso alla crescita, cosa non facile, ce ne rendiamo conto, ma che purtroppo non è accaduta. La riforma del mercato del lavoro, così come concepita originariamente, andava nella direzione giusta. Ma ha perso efficacia prima ancora di approdare in Parlamento (ad esempio, non si applica ai lavoratori pubblici) e probabilmente ne uscirà (se uscirà) ulteriormente annacquata, come è accaduto ai provvedimenti sulle liberalizzazioni. Immaginatevi cosa sceglierà di fare un imprenditore estero che stesse valutando l'apertura di un'azienda in Italia sapendo che potrebbe essere non lui, ma un giudice a decidere in che modo gestire i suoi dipendenti.
Francesco Giavazzi L'unica carta che rimane da giocare è quella della «spending review», l'analisi, una per una, delle spese delle amministrazioni pubbliche per decidere dove si può tagliare. È un lavoro che il governo Monti ha giustamente iniziato dal primo giorno, ma del quale non si vede ancora il risultato.
Non c'è dubbio che la spending review sia un'idea migliore dei tagli lineari tentati dall'ex ministro Tremonti. Tagli uguali per tutti evitano di dover concertare con questo o quel ministro, con questa o quella categoria, con questa o quella lobby. Ma è un modo inefficiente e ottuso di ridurre la spesa, perché non distingue fra uscite inutili e spese necessarie.
Il rischio, però, è che la spending review, addentrandosi nei meandri del bilancio, finisca per concludere che ogni spesa è necessaria perché c'è una lobby che la difende, come ad esempio i circa 30 miliardi di euro che ogni anno lo Stato paga a imprese pubbliche e private per i motivi più svariati. Se l'alternativa è non far nulla, meglio allora tagli lineari. Il tempo stringe. L'essenziale è che nelle prossime (poche) settimane il governo spieghi che cosa e come intende ridurre il peso dello Stato sull'economia.
Tremonti
Non ci sono scappatoie. Pensare che sia con la spesa pubblica (come suggeriva ieri il Financial Times) che si riprende a crescere è un errore grave. Il governo deve fare l'esatto contrario. Dare a consumatori e imprenditori un messaggio chiaro: le tasse non aumenteranno perché le spese scendono. Senza queste certezze, consumi e investimenti continueranno a rallentare. E il mondo a guardarci con rinnovata preoccupazione.
by dagospia
IKEA “RIMONTA” L’ITALIA - GLI SVEDESI PREFERISCONO RIFORNIRSI IN ITALIA E SNOBBANO LA CINA: IL VENETO CONTA PER IL 38%, SEGUONO IL FRIULI CON IL 30% E LA LOMBARDIA CON IL 26% DELLE FORNITURE “MADE IN ITALY” (IL SUD NISBA?) - QUALITÀ MIGLIORE E PREZZI PIÙ BASSI PORTERANNO IL COLOSSO SVEDESE DELL’ARREDO A INVESTIRE OLTRE 1 MLD € - L’AD PETERSSON METTE IL DITO NELLA PIAGA: “L’ART.18 NON È UN PROBLEMA, MA I TEMPI INCERTI DELLA BUROCRAZIA E DELLA POLITICA”…
Filippo Santelli per "la Repubblica"
ikea
Non sarà la prima azienda, né l´ultima, a spostare la produzione dove più conviene. Ma è una delle poche a preferire l´Italia alla Cina, e non viceversa. Per questo le parole di Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea nel nostro Paese, suonano inedite: «Di recente abbiamo individuato nuovi fornitori italiani che hanno preso il posto di partner asiatici», ha spiegato ieri.
«Sanno produrre articoli di qualità migliore e a prezzi più bassi». Per poi ribadire in serata, ai microfoni di Radio24, che nel Paese il gruppo vuole investire ancora, nonostante alcuni ostacoli: «Non l´articolo 18, ma i tempi incerti della burocrazia e della politica».
In Italia il colosso svedese già conclude l´8% dei suoi acquisti globali. Terzo fornitore mondiale, dietro a Cina e Polonia, e primo nel settore delle cucine. Una percentuale destinata a crescere dopo gli ultimi accordi, che coinvolgono produttori piemontesi. Manuex, azienda di Biella, è nata lo scorso anno e lavora solo per Ikea: «Facciamo cassetti», racconta l´amministratore delegato Giancarlo Formenti.
«Al momento impieghiamo 100 persone, ma saranno 200 a fine anno, quando avremo avviato tutte le linee. A regime ci aspettiamo un fatturato di 40-50 milioni di euro». E in Piemonte sono altre due le intese annunciate dal colosso svedese: con un´azienda di Verbania per l´acquisto di rubinetti, e una di Novara per la fornitura di giocattoli.
«Il mondo cambia», commenta Giancarlo Corò, professore di Economia all´Università Ca´ Foscari di Venezia, esperto di mercati globali. «La manodopera in Asia è diventata più costosa e il caro petrolio incide sui costi di trasporto: produrre in Cina non è più così conveniente».
IKEA
Lars Petersson
Ma invita alla prudenza: «Non si può parlare di una tendenza generale. Per Ikea l´Europa è il primo mercato, questo pesa nella scelta». E la sua domanda di mobili si è incontrata con le difficoltà del settore in Italia: «L´alto di gamma ha subito molto la crisi», continua Corò, «così per molti subfornitori convertirsi alla grande distribuzione è stata l´unica strada per sopravvivere».
Al momento sono 24 le aziende italiane che vendono a Ikea, per un indotto di circa 1 miliardo di euro e 2.500 posti di lavoro. «Questo da tempo fa del gruppo svedese il primo cliente della filiera italiana dell´arredo», si legge in una nota della società. Le prime tre regioni italiane in cui Ikea compra corrispondono ai maggiori distretti del settore: il Veneto conta per il 38%, seguono il Friuli con il 30% e la Lombardia con il 26%, nel complesso numeri più grandi che in Svezia o Germania.
«Noi abbiamo iniziato nel 1997», racconta Luca Corazza, direttore commerciale della pordenonese Friulintagli. «Fatturiamo con Ikea 300 milioni di euro, tre quarti delle nostre entrate annuali. Realizziamo per loro camere, cucine e soggiorni». Il boom delle richieste dal 2004 in avanti: «Da allora cresciamo in media del 16% all´anno. Oggi lavorano per noi 1.100 persone».
ikea
La presenza crescente di Ikea in Italia si misura nel numero dei punti vendita. Saliti a 19 quest´anno e destinati a diventare 20 nel 2012, con l´apertura di un nuovo megastore vicino a Pescara. Per riempire quegli scaffali la società chiederà ancora di più ai suoi partner italiani, articolo 18 o no: «I contratti attuali non sono flessibili, ma noi cresciamo insieme alle persone con cui lavoriamo», ha concluso Lars Petersson. «Le aziende italiane hanno dimostrato di essere molto flessibili rispetto alle nostre richieste».
by dagospia
martedì 10 aprile 2012
Così Bossi ha venduto simbolo della Lega a Silvio Berlusconi
osanna Sapori per avere denunciato la corruzione all'interno della Lega Nord ha pagato un prezzo molto salato. 53 anni, già consigliere comunale del Carroccio, membro del direttivo provinciale di Bergamo e celebre giornalista di Radio Padania vicinissima ai vertici del partito, dopo la denuncia è stata epurata. Ha lasciato sia la politica sia il giornalismo, e oggi gestisce una tabaccheria a Bergamo.
L'accordo segreto - La Sapori fu la prima a parlare di un presunto accordo segreto tra Bossi e Berlusconi che sarebbe l'origine di tutti i problemi del Senatùr. "Nel '95-'96 ci fu il ribaltone. In quella fase Bossi e altri, tra cui Borghezio - spiega in un'intervista al Corriere della Sera - accusavano Berlusconi di mafia. Berlusconi allora presenta delle querele miliardarie contro, Bossi viene condannato in ambito civile. Per cui arriviano al 2000 con tutte queste querele che devono essere pagate con maxi risarcimenti, con i giornalisti della Padania che non prendono lo stipendio da mesi". Insomma, spiega la Sapori, "è la bancarotta, la sede di via Bellerio pignorata".
Il Cav: "Tu mi cedi il simbolo" - E così succede che "Berlusconi dice: Ok, io per vincere ho bisogno di questo qua, non ci sono balle... perché nei sondaggi la Lega Nord era determinante (...). Siamo nel 2000. Le elezioni sono nel 2001, però Berlusconi i sondaggi li fa già dal 2000. In quel momento la Lega è indebitata, rischia di chiudere tutto... Berlusconi dice: ok, gli do i soldi, ritiro le querele - che erano già grossi soldi -, le congelo, però tu mi cedi il simbolo, cioè tu non ti puoi più presentare, se non sono io a dirti di sì, con questo simbolo. Lui non compra gli uomini, ma la titolarità del simbolo".
"Si sono venduti" - In sostanza, conclude la Sapori, in base a quest'intesa "tu puoi fare un accordo politico che dice che noi ci presernteremo insieme, ma siccome io non mi fido di te, tu mi cedi la titolarità del simbolo, che era di Bossi, della moglie, di Leoni". La cessione, aggiunge, "è stata fatta da un notaio: me ne parlò anche l'amico Daniele Vimercati. Mi disse: Rosanna, si sono venduti".
http://www.liberoquotidiano.it/news/976978/Così-Bossi-ha-venduto-simbolo-della-Lega-a-Silvio-Berlusconi.html
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