giovedì 16 agosto 2012

L’IMPORTANTE È ESSERE FRANCHI - ECCO COME SI RESISTE ALLA CRISI: LA LEZIONE DI ECONOMIA DEGLI GNOMI SVIZZERI - DOPO UN FORTISSIMO APPREZZAMENTO DEL FRANCO, LA BANCA CENTRALE, SPAVENTATA DA UN IMMINENTE CONTAGIO, DAL CALO DELL’EXPORT E DA UNA DISOCCUPAZIONE CRESCENTE, HA FISSATO IL TASSO DI CAMBIO CON L’EURO A 1,20 - E I MERCATI HANNO DOVUTO SOTTOSTARE ALLA FERMEZZA DELLA SVIZZERA…


Tonia Mastrobuoni per "La Stampa"
Nella guerra globale che contrappone la politica e i mercati, quella svizzera è una discreta storia di successo. Quasi una favola anti-crisi. Frutto di una felice convergenza tra il governo e la banca centrale, avvenuta all'ombra del palcoscenico della grande crisi e lontano dai riflettori sempre accesi, invece, sugli scandali fiscali e finanziari delle banche elvetiche. E oggi gli svizzeri hanno molto da insegnare ai disorientati governanti e banchieri europei.
SvizzeraSVIZZERAConti in Svizzera l'Italia lavora per recuperare fino a 70 miliardiCONTI IN SVIZZERA L'ITALIA LAVORA PER RECUPERARE FINO A 70 MILIARDI
Un anno fa, il quotidiano svizzero Neue Zürcher Zeitung scrisse un articolo dal titolo eloquente. «Il franco è la valuta più ambita del mondo». Il pericolo di una disgregazione dell'euro e la crisi finanziaria mondiale stavano favorendo da mesi e mesi una spettacolare fuga di capitali verso la valuta svizzera, percepita ormai solida «come l'oro», insomma più stabile del dollaro canadese o australiano ma anche delle rocciose valute scandinave. Ma quell'articolo compiaciuto era un'eccezione.
L'affluenza di capitali verso la moneta elvetica, che ne aveva già causato dall'inizio del 2010 un apprezzamento del 48% rispetto alla moneta unica e del 46% contro il dollaro, stava suscitando preoccupazioni crescenti tra i politici e i vertici della Banca centrale svizzera. Il superfranco stava soffocando le esportazioni e alimentando velocemente il tasso di disoccupazione. Così, neanche un mese dopo, quando la banca centrale diffuse un comunicato destinato a fare storia, aveva dalla sua parte l'intero parlamento. Anche i più convinti liberisti capirono che quell'azione si era resa necessaria. E il comunicato usò parole che furono un messaggio talmente chiaro ai mercati da fargli chinare la testa.
BANCHE SVIZZEREBANCHE SVIZZERESvizzeraSVIZZERA
All'inizio di settembre, quando la Snb, la banca centrale, fece sapere che avrebbe fissato il tasso di cambio all'1,20 contro l'euro, usò parole inequivocabili. L'apprezzamento del franco, si leggeva nel comunicato, «è una minaccia acuta per l'economia svizzera e nasconde il rischio di una dinamica deflazionistica». L'obiettivo dichiarato della Snb era quello di un indebolimento «forte e duraturo» del franco: la banca centrale avrebbe perseguito l'obiettivo del tasso di cambio fisso all'1,20 «con ogni mezzo», dunque anche «comprando senza limiti» valuta estera. Gli analisti più acuti battezzarono subito quella misura come il «bazooka» svizzero contro la crisi. Il mercato capì, fece qualche tentativo di assaggiare la resistenza della banca centrale svizzera, ma desistette presto. Il messaggio era passato, il tasso di cambio stabilizzato, il peggioramento della crisi economica scongiurato.
BANCHE SVIZZEREBANCHE SVIZZEREEveline_Widmer-Schlump MINISTRO FEDERALE DELLE FINANZE SVIZZEROEVELINE_WIDMER-SCHLUMP MINISTRO FEDERALE DELLE FINANZE SVIZZERO
«L'efficacia di quell'iniziativa poggiava su due pilastri, la realizzabilità e la credibilità», ragiona Paolo Guerrieri, economista del College d'Europe di Bruges. La banca centrale svizzera, avendo capito che il giudizio dei mercati «non poggiava sui fondamentali della Svizzera, ma sulla paura della rottura dell'euro, ha dato una risposta immediata e sistemica per porre rimedio a un' evidente distorsione». Ogni riferimento alla Bce non è affatto casuale. Il tasso di cambio fisso, ovviamente, è inimitabile a Francoforte, ma non la sostanza del messaggio, fa notare Guerrieri: la determinazione e l'incondizionalità con la quale la banca centrale svizzera ha sfidato i mercati sfoderando il suo bazooka.
FRANCHI SVIZZERIFRANCHI SVIZZERI
Il verdetto del Fondo monetario internazionale, a febbraio di quest'anno, è stato, dunque, inequivocabile: quella decisione è stata una risposta «adeguata» agli squilibri monetari. Aggiungendo, però, che si dovrà trattare di una «soluzione temporanea». Anche per non rischiare un surriscaldamento dell'economia: l'ultima volta che Berna fissò il cambio, nel 1978, l'inflazione schizzò quattro anni dopo al 6%.
FRANCO SVIZZEROFRANCO SVIZZERO
In più, la Svizzera sembra aver imparato la grande lezione dello tsunami da subprime meglio delle altre economie occidentali. Il cataclisma da derivati e le forzate nazionalizzazioni di numerose banche avvenute dal 2007, dovrebbero aver convinto anche i politici più riottosi che una delle urgenze per prevenire una catastrofe di questo genere ma soprattutto, nuove «socializzazioni delle perdite», doveva essere un rafforzamento delle banche e una soluzione al problema del «too big to fail». Al male, cioè, delle banche talmente grandi da mettere a rischio interi paesi con i loro fallimenti.
BANCA CENTRALE SVIZZERABANCA CENTRALE SVIZZERALUGANO-BANCHE SVIZZERELUGANO-BANCHE SVIZZERE
Dopo anni di trattative, il G20 ha partorito i famosi parametri di Basilea III, che obbligano le banche dei paesi che li adottano, a un deciso rafforzamento dei capitali. Ebbene, in Svizzera questi parametri sono stati adottati con una severità molto maggiore. Le banche sistemiche, nella confederazione svizzera, sono due, Ubs e Credit Suisse. Da marzo del 2012 la legge le obbliga ad aumentare la quota di capitale proprio al 19% degli attivi, contro il parametro del 10,5% di Basilea III. E la possibilità di indebitarsi (leverage ratio) è stabilità al 5% contro il 3% delle clausole internazionali. Le riserve devono salire per entrambi gli istituti di credito a 76 miliardi di franchi circa.

SOF-FITTA DI DOLORE - L’ENNESIMO PROBLEMA PER IL BANANA VIENE FUORI DALLA POLVEROSA SOFFITTA DELL’EMINENZA GRIGIA DELLA DC MILANESE EZIO CARTOTTO - “BERLUSCONI HA OTTENUTO I PRIMI CAPITALI GRAZIE ALLA P2 E AD ANDREOTTI. ED ERANO CAPITALI MALEODORANTI” - “HO DEI DOCUMENTI, CHE HO CONSEGNATO ALLA PROCURA DI FIRENZE, SU UN AUMENTO DI CAPITALE PER MILANO 2. ERA IL ’73. BERLUSCONI FIGURAVA COME DIPENDENTE EDILNORD, UNA SOCIETÀ CONTROLLATA DA FINANZIARIE SVIZZERE”…


Lancio stampa "L'Espresso" in edicola domani
Di Paolo Biondani, Andrea Sceresini e Maria Elena Scandaliato
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Un baule di documenti ingialliti dal tempo, conservati da un'eminenza grigia della Dc milanese, Ezio Cartotto. Atti che potrebbero fare luce sui misteriosi canali che permisero a Silvio Berlusconi di finanziare la costruzione di Milano 2 e cominciare la sua scalata al potere. E che ora sono stati consegnati ai magistrati di Firenze. "L'Espresso" nel numero in edicola domani ricostruisce questo sviluppo imprevisto nelle inchieste sul Cavaliere. Al centro c'è Cartotto, 69 anni compiuti da poco, un pensionato della politica che vanta una memoria di ferro. Negli anni Novanta è stato il consulente arruolato da Marcello Dell'Utri per creare Forza Italia, ma ora si scopre che i rapporti con sono molto più antichi.
Ezio CartottoEZIO CARTOTTO
Nel 1972 Cartotto, allora responsabile enti locali della Dc milanese e fedelissimo di Giovanni Marcora, aiuta Berlusconi a superare gli ostacoli posti dalle nuove legge urbanistiche. E racconta a "L'Espresso": «Con la nascita delle Regioni, in Lombardia cambiavano tutte le regole edilizie. Berlusconi venne a trovarmi perché temeva il fallimento: l'Edilnord rischiava di non poter più costruire. Il problema fu risolto dai tre direttori del Pim: oltre al nostro della Dc, gli presentai l'architetto Silvano Larini per il Psi, mentre per il Pci c'era Epifanio Li Calzi». Due nomi destinati a entrare nella storia di Tangentopoli.
Da allora e fino alla nascita di Forza Italia, Cartotto stringe un rapporto sempre più stretto con il costruttore emergente. Raccoglie sfoghi e confidenze. Ed è proprio incrociando le fonti più riservate con le indiscrezioni carpite al Cavaliere, che Cartotto sostiene di aver capito come fu finanziata la sua ascesa: «Ha ottenuto i primi capitali grazie alla P2 e ad Andreotti. Ed erano capitali maleodoranti».
Già nel '96 aveva raccontato ai magistrati le rivelazioni che gli avrebbe fatto Filippo Alberto Rapisarda: presunti pacchi di soldi «spediti da Palermo negli anni '70 e divisi con Dell'Utri» proprio da quel chiacchierato finanziere siciliano, destinato nel '94 a ospitare il primo club di Forza Italia a Milano. Parole rimaste senza riscontri e cadute nel vuoto. Ora Cartotto sostiene di avere documenti inediti. E propone un racconto che parte dalla Banca Rasini, dove lavorava il padre di Berlusconi, passa per la loggia di Licio Gelli e arriva all'allora vertice del Monte dei Paschi di Siena, facendo tappa tra la Svizzera e un istituto di credito italo-israeliano.
ELLEKAPPA SU DELL UTRI E BERLUSCONI DA LA REPUBBLICAELLEKAPPA SU DELL UTRI E BERLUSCONI DA LA REPUBBLICANOVEMBRE BERLUSCONI A PIAZZA SAN BABILA ANNUNCIA LA NASCITA DEL POPOLO DELLA LIBERTANOVEMBRE BERLUSCONI A PIAZZA SAN BABILA ANNUNCIA LA NASCITA DEL POPOLO DELLA LIBERTA
«La banca fondata dai nobili Rasini fu acquistata nei primi anni '70, tra lo stupore generale, da un certo Giuseppe Azzaretto, un affarista di Misilmeri, periferia di Palermo. Un commercialista milanese di altissimo livello, G. R., amico di Marcora e molto addentro alla Rasini, mi disse subito che quell'istituto mono-sportello era "la chiave per il passaggio di capitali maleodoranti"». E spiega: «Ufficialmente la Rasini era di Azzaretto padre e di suo figlio Dario, ma in realtà era controllata da Andreotti. Era la sua banca personale. C'è un riscontro che nessuno sa: Andreotti andava in vacanza tutti gli anni nella villa degli Azzaretto in Costa Azzurra. Di questo ho la certezza. Per verificare le mie fonti, ho fatto in modo che Sergio, l'altro figlio di Azzaretto, incontrasse a Roma il nipote di Andreotti, Luca Danese. Si sono visti davanti a me. Baci e abbracci. Si dicevano: "Ti ricordi quando giocavamo insieme...".
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Detto questo, basta ragionare: la Cassazione, con la sentenza di prescrizione, ha stabilito che fino al 1980 Andreotti è stato il referente politico dei più ricchi boss di Cosa nostra. E a quel punto chi ha comprato, o si è intestato, la Rasini? Nino Rovelli, l'industriale legatissimo ad Andreotti, ma anche all'avvocato Cesare Previti. Come vedete, tutto torna».
Tra ricordi, confidenze, deduzioni e convinzioni personali, Cartotto parla anche di carte segrete che proverebbero fatti certi. E qui spunta il baule di documenti che, non a caso, gli sono stati richiesti dai magistrati di Firenze. «Riguardano un aumento di capitale per Milano 2, che avevo seguito personalmente. Era il 1973. Allora Berlusconi figurava come dipendente dell'Edilnord, che era una società di persone controllata da finanziarie svizzere intestate a una domestica o a un fiduciario». E lei per tutti questi anni ha tenuto i documenti in un baule? «Sì, in una soffitta». E perché? «Per poter dimostrare che Berlusconi ha raccontato bugie fin dall'inizio».
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E conclude ricostruendo la rottura recentissima dei suoi rapporti con il Cavaliere: «Al processo di Palermo avevo l'obbligo di dire la verità, quindi rivelai ai giudici che Dell'Utri, negli anni '70, mi aveva chiesto voti per Vito Ciancimino. Dell'Utri si arrabbiò e si lamentò con Berlusconi. E io feci l'errore di rispondere al Cavaliere che solo Dell'Utri poteva affidare Forza Italia a Milano a uno come Rapisarda».

APOCAL-ISRAEL - ISRAELE VUOLE ACCELERARE I TEMPI E ATTACCARE L’IRAN, PREOCCUPATA DAI SUOI PROGRESSI NELLO SVILUPPO NUCLEARE - MA OBAMA, SOTTO ELEZIONI, SI OPPONE E NELLO STATO EBRAICO MONTANO LE PROTESTE - SENZA L’APPOGGIO DEGLI USA UN BOMBARDAMENTO ALL’IRAN ENTRO POCHE SETTIMANE SCATENEREBBE UN INFERNO NEL MEDIO ORIENTE…


Francesco Battistini per "Corriere della Sera"
Alla Danza Macabra sono tutti invitati. Da venerdì, davanti alla lussuosa casa di Ehud Barak, duecento pacifisti ballano e cantano coi cartelli «io non muoio per l'Iran»: uno, che ha pure disegnato il ministro della Difesa in divisa da Ss, è stato arrestato. «Da venerdì - dice il giornalista israeliano Nahum Barnea - da quando ho rivelato in prima pagina che il governo vuole attaccare gl'iraniani in autunno, prima del voto americano, non faccio che ballare qua e là per rispondere al telefono: tutta gente nel panico, che mi chiede se deve riempire il frigo del rifugio antiatomico».
obama netanyahuOBAMA NETANYAHUHILLARY CLINTON INCONTRA SHIMON PERES IN ISRAELEHILLARY CLINTON INCONTRA SHIMON PERES IN ISRAELE
Da venerdì, da quando si riparla d'attacco, i futures sul greggio sono schizzati al rialzo: in ballo finisce il governatore della Banca centrale, Stanley Fischer, costretto a riconoscere in tv che, sì, tra gli scenari «realistici» della grande crisi finanziaria c'è anche quello d'un attacco all'Iran. Col viceministro degli Esteri, Dan Ayalon, che in ballo tira il Gruppo 5+1, i Paesi incaricati di trattare con gli ayatollah: «Il tempo è scaduto - è il suo appello -, i negoziati sono falliti. Dovete imporre all'Iran un ultimatum di poche settimane».
«È la Danza Macabra», scrive sornione un editorialista vicino al premier Bibi Netanyahu: mesi di pacati dibattiti e, di colpo, ecco giornali e politici israeliani agitarsi tutt'insieme. S'è sempre parlato d'un attacco all'Iran in termini di mesi? Ora lo si ritiene possibile in poche settimane. Tanta urgenza non è per caso. C'è un rapporto americano del Nie (National Intelligence Estimate) che avverte: da giugno a oggi, le capacità nucleari iraniane sono cresciute. C'è una data, 1° ottobre, che fonti israeliane danno come sicura: quel giorno, Teheran raggiungerà i temuti 250 kg d'uranio arricchito al 20%, ben oltre i limiti consentiti. Quanto basterebbe a produrre «da due a quattro» superbombe, a montarle sui nuovi missili Shahab-3, a lanciarle oltre i 1.300 km: fino al deserto del Negev e alla centrale nucleare di Dimona, dove lo Stato ebraico ha prodotto il suo arsenale segreto.
IPOTESI DI ATTACCO ISRAELIANO AI SITI NUCLEARI IRANIANIIPOTESI DI ATTACCO ISRAELIANO AI SITI NUCLEARI IRANIANI
Crederci o no: è soltanto strategia per premere sull'Occidente o davvero si teme che il voto per la Casa Bianca sia uno sgradito ostacolo alla soluzione militare? I segnali sono contraddittori. Il capo di stato maggiore, Gantz, invita a prepararsi su «fronti multipli». L'esercito raddoppia ai soldati le «razioni K» e pubblicizza il sistema sms in quattro lingue, introdotto mesi fa, che su tutti i cellulari avvertirà gl'israeliani d'eventuali attacchi. Nei sondaggi, solo il 35% dell'opinione pubblica è per un blitz senza l'indispensabile appoggio politico-militare americano.
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELE
E pure l'ex premier Olmert, che decise le bombe su Gaza dopo l'elezione (e prima dell'insediamento) di Obama, stavolta è cauto: i tempi non sono così stretti, dice, le sanzioni internazionali stanno funzionando e tra qualche mese l'Iran sarà al tracollo economico (dimostrazione delle difficoltà: qualche giorno fa, a Zanzibar, gli Usa hanno smascherato 34 cargo iraniani che per aggirare il boicottaggio erano stati «camuffati» con bandiere tanzaniane, maltesi, cipriote e del microstato oceanico di Tuvalu).
Obama con il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell'Anp Abu MazenOBAMA CON IL PREMIER ISRAELIANO BENJAMIN NETANYAHU E IL PRESIDENTE DELL'ANP ABU MAZEN
Se uno chiede agli alti ufficiali israeliani che cosa li preoccupi d'un eventuale attacco, la risposta è invariabile: che gli Stati Uniti non ci stiano, e in tal caso il Day After sarebbe terribile perché le perdite, da questa parte, andrebbero ben oltre i 500 morti preventivati da Barak. Ma se la stessa domanda viene fatta ai diplomatici americani, la paura è simmetrica: con Israele che bombarda l'Iran prima del 6 novembre, prevedono, un Obama a fine campagna elettorale non potrebbe non schierarsi al fianco di Netanyahu.
Anche per questo, da Washington, le pressioni sono enormi. Per raggiungere i reattori di Ahmadinejad, da Israele, ci sono almeno tre corridoi aerei, ma uno si sta già chiudendo: l'Arabia Saudita, che solo due anni fa aveva messo a disposizione basi e cieli, ora ci ripensa. E avverte gl'israeliani che non tollererà sorvoli senza «soluzioni concordate»: se la danza è così macabra, ballate da soli.

ISRAELE, I PIANI SEGRETI DI GUERRA ALL'IRAN
- UN BLOGGER SVELA UN SOFISTICATO PIANO DI ATTACCO AL REGIME DI TEHERAN - «SARÀ UN’AGGRESSIONE COORDINATA» E CON UN ATTACCO CIBERNETICO «SENZA PRECEDENTI» CHE METTERÀ KO IN POCHI MINUTI «INTERNET, I TELEFONI, LA RADIO, LA TV, LE COMUNICAZIONI SATELLITARI, LE CONNESSIONI IN FIBRA OTTICA DEGLI EDIFICI STRATEGICI DEL PAESE» - L’OBIETTIVO? «NON FAR SAPERE AL REGIME IRANIANO QUELLO CHE STA SUCCEDENDO ENTRO I SUOI CONFINI»….


«Sarà un'aggressione coordinata» e con un attacco cibernetico «senza precedenti» che metterà ko in pochi minuti «Internet, i telefoni, la radio, la tv, le comunicazioni satellitari, le connessioni in fibra ottica degli edifici strategici del Paese». L'obiettivo? «Non far sapere al regime iraniano quello che sta succedendo entro i suoi confini».
HILLARY CLINTON INCONTRA SHIMON PERES IN ISRAELEHILLARY CLINTON INCONTRA SHIMON PERES IN ISRAELEIPOTESI DI ATTACCO ISRAELIANO AI SITI NUCLEARI IRANIANIIPOTESI DI ATTACCO ISRAELIANO AI SITI NUCLEARI IRANIANI
I piani di guerra d'Israele contro Teheran rivelati a Ferragosto da un blogger. Non uno qualsiasi, ma l'israelo-americano Richard Silverstein che viene da molti soprannominato il «WikiLeaks d'Israele». E quel che ne viene fuori, a dire il vero, somiglia più a un film hollywoodiano che alla realtà.
Anche se, in Israele, i tamburi di guerra iniziano a sentirsi molto più prima. Silverstein ha pubblicato sul suo sito «Tikun Olam» (Riparare il mondo, in ebraico) un estratto del documento, ufficialmente riservato, da sottoporre al gabinetto di sicurezza dove si prendono le decisioni vitali per il Paese.
Il dossier - racconta il blogger - gli è stato passato soprattutto perché, secondo la sua fonte, «Bibi (Netanyahu, premier d'Israele, ndr) e Barak (ministro della Difesa, ndr) fanno maledettamente sul serio».
MUNIZIONI IN FIBRA - Il piano, allora. Stando al documento ricorrerebbe, nella prima fase, alla tecnologia più sofisticata per mettere fuori uso l'infrastruttura dell'Iran e le basi missilistiche sotterranee di Khorramabad e Isfahan. Le centrali elettriche, poi - sempre secondo a quel che c'è scritto nel dossier -, «saranno paralizzate grazie a corto circuiti provocati da munizioni in fibra di carbonio più sottili di un capello che di fatto renderanno i trasformatori inutilizzabili».
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELE
Quindi la seconda fase: «Decine di missili balistici, in grado di coprire una distanza di 300 chilometri, saranno lanciati contro la Repubblica islamica dai sottomarini israeliani posizionati vicino al Golfo Persico». Missili «non dotati di testate convenzionali», precisa il documento, «ma con punte rinforzate, progettate per penetrare in profondità».
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELE
CENTRALI SOTTERRANEE - Le informazioni in possesso degl'israeliani, infatti, parlano di centrali nucleari sotterranee, come quella di Fardu, nei pressi della città di Qom, molto difficili da raggiungere con un semplice bombardamento e ormai isolate dalla Rete usata dall'autorità centrale.
Finita qui? Non ancora. Perché poi toccherebbe alla terza fase. Altri missili - questa volta da crociera - «saranno lanciati per mettere ko i sistemi di comando e controllo, di ricerca e sviluppo e le residenze del personale coinvolto nel piano di arricchimento» dell'uranio. «Subito dopo», scrive il dossier, «il nostro satellite di ricognizione TecSar passerà sopra l'Iran per valutare i danni agli obiettivi.
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELE
Le informazioni saranno trasferite ai nostri aerei in volo» verso Teheran, «velivoli dotati di tecnologia sconosciuta al grande pubblico e anche al nostro alleato americano», «invisibili ai radar» e inviati in Iran per finire il lavoro, «colpendo un elenco ristretto di obiettivi» che hanno bisogno di ulteriori assalti per essere disinnescati definitivamente.
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELE
L'obiettivo sembra chiaro: annientare da un lato le capacità di sviluppo nucleare del regime islamico. Dall'altro evitare una controffensiva iraniana in territorio israeliano distruggendo le installazioni missilistiche. In realtà, il documento è solo la fase più semplice dei piani di guerra di Gerusalemme. Il governo di Benjamin Netanyahu, per ora, è in minoranza dentro il gabinetto di sicurezza. E gli Usa, oltre a ribadire il loro no al conflitto, iniziano a sottolineare che lo Stato ebraico «può solo rallentare il programma nucleare iraniano, non eliminarlo».
ESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEESERCITAZIONE DOPO BOMBA NUCLEARE IN ISRAELEMahmoud Ahmadinejad E IL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANOMAHMOUD AHMADINEJAD E IL PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO
LO SCENARIO - Sempre a Ferragosto, sulle colonne del quotidiano ebraico Ma'ariv, Matan Vilnai, ex generale e prossimo ambasciatore in Cina, anticipa lo scenario «interno» al conflitto. «Israele ha preparato la popolazione a un eventuale conflitto che potrebbe durare trenta giorni su diversi fronti contemporaneamente», rivela Vilnai. E in questo mese di guerra «nelle città israeliane la replica dell'artiglieria di Teheran potrebbe provocare almeno 500 vittime, qualcosa meno o qualcosa di più».
IRAN REATTORE NUCLEAREIRAN REATTORE NUCLEAREIRAN impianto nucleareIRAN IMPIANTO NUCLEARE
Lo Stato ebraico, aggiunge l'ex militare, «dovrà far fronte anche ai missili lanciati da Hezbollah dal Libano e dal braccio armato di Hamas dalla Striscia di Gaza». Israele ha fretta. Entro ottobre - secondo gli esperti dell'intelligence - l'Iran avrà arricchito grandi quantità (circa 250 kg) di uranio al 20%, il minimo per costruire poi testate micidiali. E a dare ragione ai timori israeliani c'è il blitz di una novantina di agenti federali tedeschi, sempre a Ferragosto, in alcune case di Amburgo, Oldenburg e Weimar.
Azione speciale nel quale sono stati arrestati un cittadino con passaporto della Germania e altri tre con doppia cittadinanza tedesca e iraniana. Tutti accusati di aver esportato in Iran valvole per la costruzione di un reattore nucleare, violando così l'embargo in vigore. I sospetti - Rudolf M., Kianzad Ka., Gholamali Ka. e Hamid Kh. - tra il 2010 e il 2011 avrebbero fornito le componenti a Teheran servendosi di compagnie di faccia in Turchia e Azerbaigian in cambio di milioni di euro.

mercoledì 8 agosto 2012

UNICREDIT E INTESA “SCOMMETTONO” SU UNA LUNGHISSIMA CRISI: AUMENTATI GLI ACCANTONAMENTI PER FRONTEGGIARE IL BOOM DEI CREDITI A RISCHIO - INTESA QUEST’ANNO HA “PRESTATO” 8 MILIARDI IN MENO ALLE IMPRESE, UNICREDIT 5 - PAURA? MACCHE’: HANNO PRESTATO SOLDI SOLO A CHI, TRA I PICCOLI E MEDI IMPRENDITORI, HA FORNITO GARANZIE ULTRASOLIDE, E QUINDI SE TUTTO VA MALE SI IMPADRONIRANNO DI CASE, AUTO E PROPRIETA’…


Vittorio Malagutti per il "Fatto quotidiano"
UNICREDITUNICREDIT
Fin qui è andata male, malissimo, ma tenetevi forte perché nei prossimi mesi rischia di andare ancora peggio. Questo è il messaggio che arriva dai conti di Intesa e Unicredit resi noti nei giorni scorsi. Proprio così, perché le due più importanti banche nazionali hanno aumentato, e di molto, gli accantonamenti per far fronte ai crediti a rischio. Come dire: nei prossimi mesi ci saranno sempre più aziende che non riusciranno a far fronte ai loro impegni. Di conseguenza gli istituti di credito mettono da parte denaro fresco per far fronte al previsto aumento delle insolvenze.
Insomma, brutte notizie in un panorama che appare già di per sé desolante. I prestiti alle imprese, infatti, sono in calo costante da un pezzo. Un po' perché i banchieri sono diventati ancora più prudenti. Ma anche le aziende, con l'aria che tira, investono di meno e quindi non bussano neppure più all'ufficio fidi. E la gelata continua. Questo è quanto prevedono le grandi banche e lo mettono nero su bianco nei conti chiusi al 30 giugno, pubblicati alla fine della settimana scorsa.
Banca IntesaBANCA INTESA
Intesa, per dire, segnala che i volumi medi dei crediti verso la clientela nei primi sei mesi di quest'anno sono calati del 2,2 per cento. In termini assoluti questa sforbiciata vale la bellezza di 8 miliardi di euro. Tutto denaro che è rimasto nei forzieri della banca milanese. Se passiamo a Unicredit la musica non cambia granché.
L'istituto guidato da Federico Ghizzoni ha visto diminuire dello 0,9 per cento il totale dei finanziamenti alla clientela rispetto a giugno 2011 e dello 0,6 per cento circa rispetto a soli sei mesi fa. Il taglio vale quasi 5 miliardi nel giro di un anno. Va detto però che Unicredit è una banca globale, con una fetta importante delle sue attività in Germania e nell'Europa orientale. E così, se concentriamo l'attenzione sull'Italia, si scopre che il calo è ancora maggiore, come spiega la relazione semestrale di Unicredit senza però fornire cifre precise.
FEDERICO GHIZZONIFEDERICO GHIZZONI
Il segnale più allarmante arriva però da una voce in particolare, quella delle "rettifiche nette su crediti". Ovvero il denaro accantonato per far fronte a prevedibili insolvenze o gravi difficoltà dei clienti. Nel solo secondo trimestre di quest'anno (da aprile a giugno) le rettifiche decise dai vertici di Unicredit sono cresciute del 36 per cento rispetto ai primi tre mesi dell'anno: da 1,4 a 1,9 miliardi.
E la crescita supera il 62 per cento se si prende come riferimento il secondo trimestre del 2011. Anche Intesa non ha potuto fare a meno di incrementare le riserve. Nel primo semestre dell'anno scorso l'istituto milanese aveva messo da parte 1,5 miliardi come rettifiche su crediti. Nei conti di Intesa chiusi a giugno del 2012 questa stessa voce vale poco più di 2 miliardi. Un aumento di oltre il 30 per cento.
C'è poco da fare, se l'economia è ferma, anzi, peggio se il Pil viaggia a marcia indietro, sempre più aziende si avvitano nella spirale della crisi, fanno fatica a rispettare le rate dei mutui e i loro debiti si trasformano in un problema per la banca. Ecco allora che i Intesa vede aumentare i propri crediti cosiddetti deteriorati, cioè quelli di problematica restituzione, di circa il 25 per cento nei primi sei mesi del 2012: da 22,7 a 26,1 miliardi. Le sole sofferenze, cioè i finanziamenti più difficili da recuperare per i banchieri, sono saliti da 8,9 a 9,6 miliardi nell'arco di sei mesi.
FEDERICO GHIZZONIFEDERICO GHIZZONI
Senza contare che nei mesi scorsi Intesa si è liberata, vendendolo, di un pacchetto di sofferenze iscritte a bilancio per 270 milioni. In casa Unicredit peraltro, va ancora peggio. Nei primi sei mesi di quest'anno i crediti incagliati sono aumentati del 14 per cento rispetto a giugno del 2011. "Un aumento - si legge nel comunicato che accompagna il bilancio - dovuto per circa metà all'Italia ed è indice del perdurare della crisi economica". Il guaio è che non è ancora finita. Anzi.

martedì 7 agosto 2012

I “GIOCHI” DI LACTALIS CON LA CASSA DI PARMALAT - COME BERSI 1,4 MILIARDI FOTTENDO OBBLIGAZIONISTI E DIPENDENTI - FINISCE IL ‘CASH POOLING’, CIOÉ LA GESTIONE DI TESORERIA IN MANI FRANCESI, MA I SOLDI RESTANO ALLA CAPOGRUPPO GRAZIE ALL’ACQUISIZIONE DELLE ATTIVITÀ AMERICANE - INTANTO GLI AVVOCATI-CONSIGLIERI INCASSANO PARCELLE PER 1,3 MILIONI DI EURO…

Nicola Borzi per "Il Sole 24 Ore"

Adieu cash pooling, bienvenu Lactalis American Group. Con un gioco di prestigio, dai conti al 30 giugno di Parmalat scompare la gestione accentrata della tesoreria con la quale la capogruppo Lactalis aveva messo le mani sulla maxiliquidità (inizialmente 1,4 miliardi) di Collecchio. Quel contratto, in vigore da metà ottobre 2011, aveva sollevato un vespaio di critiche e l'intervento della Consob che aveva imposto ai francesi alcuni chiarimenti da inserire tra le integrazioni al prospetto informativo dell'Opa.
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Gran parte del cash però non è mai tornata a casa: è rimasta sempre, saldamente, in mani francesi. Lo spiega sempre la semestrale: Parmalat scrive che «per garantire un migliore rendimento della propria liquidità, nel corso del semestre, ha provveduto al ritiro dal cash pooling di un importo complessivo pari a 400 milioni, che sono stati investiti in strumenti altrettanto flessibili (conti correnti ad alto rendimento e conti deposito) presso primari istituti bancari italiani».
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Rispetto ai 1.188 milioni di fine 2011 e ai 796 della semestrale, dopo il 30 giugno «a seguito del completamento dell'acquisizione di Lactalis American Group, interamente finanziata da disponibilità di Parmalat, e del successivo ritiro della disponibilità residua per circa 86 milioni, l'impiego di liquidità nel cash pooling risulta a oggi azzerato».
Dalla semestrale Parmalat emergono anche altri dettagli illuminanti. Come quello sul riconoscimento ufficiale dell'esistenza di un rapporto di direzione e coordinamento con il gruppo Lactalis.
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Rapporto che proprio alla firma del cash pooling era stato escluso da un parere legale predisposto da Luigi Arturo Bianchi, partner dello studio d'Urso Gatti e Bianchi. Nessuna spiegazione è stata fornita al mercato su cosa sia cambiato rispetto a quel parere, per cui quel coordinamento che all'epoca non c'era oggi c'è.
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Si sa che sono stati due i pareri richiesti a Bianchi (l'altro riguardava la Centrale del Latte di Roma). Si sa anche che lo stesso studio fu anche advisor legale di Lactalis e Bsa per l'Opa del 2011. Lo studio d'Urso Gatti e Bianchi è ben remunerato da Parmalat: negli ultimi 12 mesi Collecchio l'ha pagato 1,3 milioni "per prestazioni professionali svolte", indicati alla voce "altri proventi e oneri" «in relazione ai rapporti con i componenti del Cda».
Infatti dello stesso studio è partner anche l'avvocato Francesco Gatti che siede nel cda di Parmalat come consigliere non indipendente. Si tratta di parcelle per 900mila euro nel primo semestre 2012 e 400mila nel secondo semestre 2011.
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Intanto crescono i contrasti sindacali. Le segreterie nazionali dei sindacati Fai/Cisl, Flai/Cgil e Uila/Uil, insieme al coordinamento nazionale del gruppo, hanno indetto uno sciopero di quattro ore che a Collecchio scatterà martedì 28 agosto e nel resto del gruppo secondo modalità differenti di sito in sito. La protesta è contro il piano industriale con cui Parmalat vuol chiudere tre impianti e "razionalizzare" Collecchio, aprendo la strada della mobilità per 120 lavoratori in tutto il gruppo.

http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/i-giochi-di-lactalis-con-la-cassa-di-parmalat-come-bersi-14-miliardi-fottendo-42496.htm#Scene_1

DEFAULT GAME - LE BANCHE, I FONDI D’INVESTIMENTO E LA GRANDE INDUSTRIA SI RIATTIZZANO CON LE “SCOMMESSE” ANTI-ITALIA E ANTI-EURO - JP MORGAN, UBS E CREDIT SUISSE HANNO AUMENTATO LA PROPRIA COPERTURA ASSICURATIVA SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO - GLI ISTITUTI DI CREDITO USA, OLTRE AD AVER RIDOTTO L’ESPOSIZIONE VERSO I ‘PIGS’, STANNO LAVORANDO PERCHÉ LA RISCOSSIONE DEL CREDITO RESTI IN EURO E NON NELLE NUOVE (E SVALUTATE) MONETE NAZIONALI...

Dal "Corriere della Sera"
JPMORGANJPMORGAN
C'è l'industria, ci sono i fondi e ci sono anche le banche: nel mondo anglosassone del dollaro e della sterlina continua a crescere la sfiducia verso l'euro. E l'Italia.
Prendiamo l'esempio di una delle più grandi banche americane, la JpMorgan. Nel secondo trimestre dell'anno, l'istituto a stelle e strisce ha aumentato la propria copertura assicurativa sul debito pubblico italiano: la percentuale di Bot, Btp e Cct associata alle polizze dei «credit default swap» è salita dal 52 al 61%.
CITIGROUPCITIGROUP
Certo, la banca può sbagliare nelle sue valutazioni, visto che nello stesso trimestre JpMorgan ha perso 4,4 miliardi di dollari sulle attività di trading, per scommesse sbagliate sui derivati. Ma non è, comunque, un buon segno per l'Italia.
Insieme a JpMorgan, ma questa volta in Europa, hanno alzato l'asticella della propria copertura assicurativa anche Credit Suisse e Ubs. Come riportato dal quotidiano tedesco «Handelsblatt», la prima ha incrementato la percentuale di titoli di Stato italiani accompagnati da «cds» dal 69 al 90 per cento.
BANK OF AMERICABANK OF AMERICA
E la seconda dal 60 al 62 per cento. E c'è di più. Secondo il quotidiano londinese «Financial Times», il mondo delle banche americane - in generale - non si è limitato semplicemente a ridurre la propria esposizione, con i «cds», verso gli Stati europei in crisi. Gli istituti finanziari statunitensi starebbero infatti lavorando perché la riscossione del credito resti in euro. Il timore, altrimenti, è che - nell'ipotesi che Atene torni alla dracma o Madrid alla peseta - gli incassi possano avvenire nelle nuove (e svalutate) monete nazionali.
GOLDMAN SACHSGOLDMAN SACHS
Forse è anche per questo che, negli ultimi mesi, tra le banche americane che hanno ridotto la propria esposizione verso Grecia, Spagna, Irlanda, Italia e Portogallo non c'è solo JpMorgan ma anche Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs.
Sempre sul «Financial Times», ad accendere una «spia rossa» sul nostro Paese è nientemeno che Bill Gross, fondatore e co-direttore degli investimenti di Pimco, società che gestisce il più grande fondo obbligazionario del mondo.
BANCA CENTRALE EUROPEA EURO NELLA POZZANGHERABANCA CENTRALE EUROPEA EURO NELLA POZZANGHERA
Secondo Gross, anche un tasso del 4% sui Btp decennali (ora siamo al 6%) non sarebbe poi una notizia tanto bella: «Tassi d'interesse al di sopra della crescita del Prodotto interno lordo - ha fatto notare - inevitabilmente aumentano il debito in percentuale del Pil, anche se il bilancio è in pareggio primario». Quindi si può «"annegare" anche al 4% sui titoli decennali, finché la crescita del Pil è quasi piatta». Inoltre, adesso siamo pure in recessione, anche se con un avanzo primario di bilancio.
Gross, in passato, non sempre ha «visto giusto». E' successo - e lo ha ammesso lui stesso - quando l'anno scorso decise di vendere i titoli del Tesoro americano a 10 anni nel portafoglio del Total Return Fund, scommettendo su un aumento dei rendimenti dei T-bond quando invece si verificò il contrario, con un conseguente aumento dei prezzi. Bisognerà ora vedere se questa volta - con il suo invito a «stare all'asciutto», cioè lontano da una parte del debito pubblico europeo - Gross ha ragione.

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