lunedì 30 aprile 2012

IL CRAC CHE CAMBIÒ LA FINANZA MONDIALE DIVENTA FILM - QUEL SABATO POMERIGGIO IN CUI I CAPI DELLE GRANDI BANCHE D’AFFARI AMERICANE DECISERO CHE LA LEHMAN BROTHERS (CAPITALISMO EBREO), DOVEVA FALLIRE. MERRILL LYNCH (CAPITALISMO WASP), L’ALTRO GRANDE MALATO DI QUEI GIORNI, VENNE INVECE SALVATO - “MARGIN CALL” METTE IN RISALTO LA MACCHINA DELLA SPECULAZIONE FATTA DI CINISMO E TITOLI TOSSICI…

IL FINE SETTIMANA CHE CAMBIÒ LA FINANZA G. Pao. per "la Stampa" JEREMY IRONS IN MARGIN CALL JPEG PAUL BETTANY E KEVIN SPACEY IN MARGIN CALL JPEG Il fine settimana che ha cambiato per sempre la storia della finanza inizia con un giro nervoso di telefonate e scambi di email tra i palazzi del potere finanziario newyorchese. Timothy Geithner, allora a capo della Federal Reserve di New York, si fa carico di convocare una riunione senza precedenti. Chiama per le sei del pomeriggio di quel sabato i capi delle grandi banche d'affari americane: sono presenti Lloyd Blankfein di Goldman Sachs, James Dimon di JPMorgan Chase, John Mack di Morgan Stanley, Vikram Pandit di Citigroup e John Thain di Merrill Lynch. Più Henry M. Paulson Jr., segretario del Tesoro di Gerge W. Bush, e Christopher Cox, numero uno della Sec, il «controllore» di Wall Street. LOCANDINA DEL FILM MARGIN CALL JPEG Una riunione drammatica, tesa ed estenuante. Durante la quale venne deciso che Lehman Brothers, fondata più 150 anni prima, uscita indenne dalla grande depressione e tutte le grandi crisi successive, doveva fallire. Merrill Lynch, l'altro grande malato di quei giorni, venne invece salvato. All'una del mattino di lunedì 15 settembre, Lehman chiedeva l'applicazione del Chapter 11, la protezione dai creditori secondo la legge Usa. E il mondo non sarebbe stato più lo stesso. 2- IL CRAC DI WALL STREET COME NON L'AVETE MAI VISTO Maurizio Molinari per "la Stampa" DEMI MOORE IN MARGIN CALL JPEG Con Margin Call arriva sul grande schermo in Italia il racconto dal di dentro di quello che i militanti di «Occupy Wall Street» definiscono «il mondo dell'1 per cento». Si tratta della ristretta comunità di speculatori, finanzieri e milionari che è sopravvissuta al crac del settembre 2008 e continua anche oggi a essere protagonista di Wall Street. Ma a differenza del recente Wall Street, Money Never Sleeps di Oliver Stone il film diretto da J. C. Chandor, attorno al thriller che ha per protagonisti Kevin Spacey e Paul Bettany, racconta in uno spazio di 36 ore cosa avviene dietro una banca di investimenti durante la tempesta finanziaria del 2007-2008 sottolineando non il carattere eccezionale bensì la normalità dei comportamenti più spregevoli. LEHMAN BROTHERS WALL STREET Vestiti con abiti firmati, intenti a macinare milioni di dollari con qualsiasi possibile espediente e indifferenti alle conseguenze nel mondo reale delle loro azioni, i protagonisti di Margin Call vivono dentro una bolla surreale, lontana anni luce dal mondo del restante 99 per cento della popolazione. Il corto circuito avviene quando il «risk analyst» Eric Dale (Stanley Tucci) consegna al nuovo impiegato Peter Sullivan (Zachary Quinto), un 29enne ex scienziato che ha cambiato lavoro solo per avere uno stipendio più alto, un documento dal quale si evince con chiarezza che la banca è condannata al fallimento, mandando in fumo miliardi di dollari ricevuti dagli investitori. Sono fotogrammi che fanno tornare in mente quanto avvenuto a Lehman Brothers, l'unica banca di investimento che fallì nel settembre 2008, perché chi la guidava scelse di andare incontro ad analoghi rischi, con un'esposizione nei conti che i dialoghi di Margin Call paragonano alla dinamite. LLOYD BLANKFEIN DI GOLDMAN SACHS Nel dialogo fra l'analista veterano di qualsiasi espediente pur di moltiplicare i profitti e il neofita sotto shock per quanto vede consumarsi sotto gli occhi c'è il contrasto fra universi opposti di valori anche se alla fine tutti ne escono ugualmente colpevoli perché nessuno, per volontà o inerzia, ferma la macchina della speculazione. MERRILL LYNCH In particolare è la top manager Sarah Robertson (Demi Moore) che potrebbe in qualche maniera invertire la rotta ma la scelta che compie in realtà diventa l'esatto contrario, con il tentativo di vendere in fretta tutti i titoli tossici accumulati sul mercato per scaricare su altri ignoti le conseguenze di una spregiudicata speculazione condotta per anni dal ceo John Tuld (Jeremy Irons), i cui tratti - e anche il cognome - ricordano da vicino quelli di Richard Fuld che guidò Lehman Brothers fino alla bancarotta nella convinzione estrema, come disse nella deposizione poi resa al Senato di Washington, che «non sarebbe potuta mai avvenire». TIMOTHY GEITHNER Il film, uscito in America nel 2011 e in arrivo in Italia il 18 maggio, è il primo firmato da Chandor a cui il New York Times ha riconosciuto il merito di aver realizzato «un'opera straordinaria» seppur quasi interamente girata negli interni di una società di Wall Street. Se il Margin Call resta attuale è perché, come osserva il deputato democratico della Pennsylvania Patrick Meehan, «pone in maniera drammatica i problemi di etica a Wall Street emersi dalla crisi del 2008 e ancora senza risposta» per il motivo che la legge Dodd-Frank sulla protezione dei consumatori finanziari, approvata nel 2010, ancora non è riuscita a modificare i comportamenti che generarono il crack, a cominciare dal metodo con cui vengono redatti e controllati i bilanci. HENRY PAULSON Con il Congresso di Washington bloccato dai veti incrociati fra democratici e repubblicani, e la campagna presidenziale che rende ancor più difficili possibili compromessi, l'iniziativa passa ai singoli Stati come avvenuto nel caso del Michigan, dove in febbraio un gruppo di deputati locali ha firmato una proposta di «riforma etica» per gli operatori delle società finanziarie basata sull'obbligo per i singoli dipendenti di «obbedire alle leggi dello Stato ed alla morale pubblica più che ai propri dirigenti» pena sanzioni severissime. È una maniera per dire che se simili leggi fossero state in vigore nel settembre del 2008 Margin Call avrebbe avuto un diverso finale perché Peter Sullivan avrebbe portato il documento-shock sul collasso della banca alla polizia. http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/il-crac-che-cambi-la-finanza-mondiale-diventa-film-quel-sabato-pomeriggio-in-cui-38410.htm

sabato 28 aprile 2012

“NATIONAL GEOGRAPHIC” SVELA, MINUTO PER MINUTO, IL BLITZ DELLA GRANDE VENDETTA - 2- IL VICEPRESIDENTE JOE BIDEN E IL MINISTRO DELLA DIFESA ROBERT GATES FRENAVANO, TEMENDO IL FALLIMENTO: FU BARACK OBAMA AD ASSUMERSI LA RESPONSABILITÀ DI UNA MISSIONE CHE AVEVA SOLO IL 40 PER CENTO DI POSSIBILITÀ DI SUCCESSO - 3- AL TERZO PIANO, IN FONDO AL CORRIDOIO C’È BIN LADEN. ENTRA IN UNA STANZA E TRE NAVY SEALS LO INSEGUONO, ENTRANO NELLA CAMERA, SI TROVANO DAVANTI ALLA MOGLIE PIÙ GIOVANE E ALLA FIGLIA MAGGIORE. LE DONNE URLANO, CERCANO DI FARE SCUDO A BIN LADEN. UNO DEI SOLDATI TEME CHE ABBIANO ESPLOSIVI E SPARA ALLE GAMBE DELLA MOGLIE. IL NAVY SEAL DIETRO DI LUI PUNTA L’ARMA CONTRO BIN LADEN, IL PRIMO COLPO LO RAGGIUNGE AL PETTO, IL SECONDO ALLA TESTA. BIN LADEN È STATO PRESO -

Maurizio Molinari per "la Stampa" MOGLIE OSAMA È stato lo «Squadrone Rosso» dei Navy Seals a eliminare Osama bin Laden con un blitz di 40 minuti che ha concluso la caccia iniziata all'indomani dell'11 settembre 2001. Ma il vicepresidente Joe Biden e il ministro della Difesa Robert Gates frenavano, temendo il fallimento: fu Barack Obama ad assumersi la responsabilità di una missione che aveva solo il 40 per cento di possibilità di successo. OSAMA GUARDA TRAVAGLIO A segnare l'inizio della ricostruzione - raccontata in un documentario del «National Geographic» - è l'ammissione di Michael Hayden, capo della Cia fino al 2009, che «oramai avevamo perso le tracce di Bin Laden» quando «nel 2007 gli agenti impegnati nella ricerca vennero da me, sostenevano di poterlo trovare seguendone i corrieri perché Bin Laden comunicava ma non ricorreva a mezzi elettronici e dunque doveva averne». Gli interrogatori dei membri di Al Qaeda detenuti, alcuni a Guantanamo, svelano che il corriere più fidato è Abu Ahmed al Kuwaiti. LA OSAMA BIN LADEN Ci vogliono tre anni per rintracciarlo ma alla fine l'intelligence pakistana trova l'indizio decisivo. Nel corso di intercettazioni di telefonate di Al Qaeda in Pakistan viene identificato nel 2010 un uomo che si presenta come Al Kuwaiti. «Chiamò qualcuno nel Golfo, lo intercettammo e inoltrammo la chiamata alla Cia» dice Athar Abbas, generale pakistano. È l'informazione che permette alla Cia di localizzare il cellulare del corriere. Si trova a Peshawar e il segnale conduce a un furgone bianco che si sposta in continuazione. I satelliti lo seguono e la pista porta al tranquillo quartiere di Abbottabad, a 65 km da Islamabad. 'KILL OSAMA' VERSIONE PAINTBALL I BALCONI RECINTATI Dopo settimane di sorveglianza gli agenti vedono il furgone in un grande complesso. Sono edifici recenti, di dimensioni superiori rispetto alle altre abitazioni e a distinguerli sono balconi recitati con muri, che nessun altro ha. «È un particolare che convince gli agenti, lì dentro doveva nascondersi qualcuno di importante» sottolinea Hayden. Ad Abbottabad Bergen incontra gli architetti che hanno costruito il complesso. Gli raccontano che a commissionarlo fu «un certo Arshad Khan», pseudonimo di Al Kuwaiti, che «chiese 4-5 stanze al piano terra e altrettante al primo piano». SITUATION ROOM - SUPEREROI Il terzo piano dunque non era nel progetto originale, Al Kuwaiti lo fece abusivamente. «Abbiamo usato fonti umane e tecnologiche - dice John Brennan, capo del controterrorismo alla Casa Bianca lavorando alla vecchia maniera, più analizzavamo il posto più ci convincevamo che Bin Laden potesse esserci». «È UN BLACK SPOT»... La National Security Agency usa satelliti e droni per sorvegliare il complesso. Scopre che è un «black spot» senza linee telefoniche, Internet o collegamenti esterni. Chi vi abita non vuole essere trovato. Il direttore della Cia, Leon Panetta, ordina di studiare «un'operazione sicura». «Non dovevamo agire in maniera impulsiva - ricorda Hayden - perché il minimo passo falso avrebbe rovinato la migliore occasione di catturare Bin Laden». OSAMA-BIN-LADEN-HOME- Oramai gli Stati Uniti sono convinti che i corrieri che vivono nel complesso possono portare allo sceicco del terrore. Gli agenti prendono posizione davanti alla palazzina, si confondono tra gli abitanti ma c'è una limitazione: non possono usare mezzi hi-tech perché avrebbero allertato i servizi pakistani. L'osservazione è a occhio nudo. KILL OSAMA VIDEOGAME GIOIELLI SVENDUTI Gli 007 di Langley osservano la routine dell'edificio. Ogni giorno vengono consegnati diversi litri di latte e una volta alla settimana arrivano delle capre ma i contatti esterni sono limitati. Bin Laden e i due fratelli che lo proteggono hanno pochi fondi, mandano un corriere a vendere gioielli antichi a Rawalpindi per scambiarli con gioielli nuovi più contanti, ma sono cifre modeste. Per risolvere il problema dei fondi Bin Laden progetta di rapire stranieri. Il complesso è trasandato, le pareti spoglie, ha una sola caldaia e manca l'aria condizionata. Le bollette di gas ed elettricità sono basse per un edificio così grande e anche per mangiare fanno economia: sfruttano l'orto, allevano polli e hanno delle mucche. MAGLIETTA 'OSAMA IS DEAD' IL «CAMMINATORE» MISTERIOSO La Cia si convince che dentro il complesso vivono «altre persone» oltre a quelle osservate a distanza. Soprattutto c'è un uomo misterioso che non esce mai. «Non c'erano molte spiegazioni possibili, questo dettaglio si aggiungeva ad altri indizi importanti» spiega Philip Mudd, vicedirettore del centro antiterrorismo della Cia fino al 2005. L'uomo misterioso viene soprannominato «il camminatore». LA MOGLIE YEMENITA DI OSAMA D BD D CD C FDFB A Nel dicembre 2010, a quattro mesi dall'individuazione di Al Kuwaiti, Panetta incontra Obama e sottolinea che è opportuno intervenire prima che Bin Laden si insospettisca. Obama chiede «quante sono le possibilità che Bin Laden si trovi nel complesso?» e Panetta risponde «il 60 per cento». Il maggior problema, come riassume Mudd, viene dal fatto che non si può identificare una persona dall'alto perchè nessuno riesce a vederlo o sentirlo». LA SCELTA DI OBAMA Pur senza prove certe, Obama autorizza il blitz. «Obama non voleva perdere tempo, voleva che entrassimo in azione» ricorda Brennan, precisando che «avevamo 3 opzioni, l'assalto di terra assieme ai pakistani, un bombardamento con i B2 e un blitz delle forze speciali elitrasportate». «Il presidente chiese a tutti noi un parere» ricorda Brennan. Robert Gates, ministro della Difesa, paventa il rischio di una ripetizione di «Desert One», il fallito salvataggio degli ostaggi in Iran, a monito sul rischio di un flop come quello di Jimmy Carter. La scelta spetta al Presidente, che opta per il blitz delle truppe speciali perché vuole essere sicuro dell'identificazione di Bin Laden. È una decisione rischiosa ma offre la maggiore probabilità di prendere Osama, vivo o morto. OSAMA LA PROTESTA DEGLI INTEGRALISTI LO SQUADRONE ROSSO L'ultimo capitolo della caccia è affidato agli addestratori top secret della Cia. Il 10 aprile 2011 sono 24 soldati del «Red Squadron» dei Navy Seals a svolgere la prima esercitazione. «Quando seppero che il bersaglio era Bin Laden i soldati furono entusiasti» assicura Eric Greitens, comandante dei Navy Seals. Per cinque giorni lo Squadrone Rosso prova ogni mossa. OSAMA LA PROTESTA DEGLI INTEGRALISTI Obama chiama Michael Leiter, direttore del Centro nazionale antiterrorismo fino al 2011, e lo mette al corrente del segreto chiedendogli di assicurarsi dell'efficacia del blitz. Leiter confessa dubbi sulle mogli di Bin Laden che vanno e vengono dal complesso ed hanno anche dei cellulari. «Se Bin Laden è lì e deve essere protetto perché mai tali carenze di accorgimenti?» si chiede Leiter, temendo una trappola. Obama dà a Leiter 48 ore per esaminare un'ultima volta tutti gli indizi e ottiene una stima sulla possibilità che Bin Laden sia nel complesso. «Gli dissi che la probabilità era dal 40 al 70 per cento» ricorda Leiter. OSAMA LA PROTESTA DEGLI INTEGRALISTI Gates esprime remore, il vicepresidente Joe Biden anche. Ma Leiter è per tentare: «Dissi al Presidente che anche se la percentuale minima era il 40 per cento, o perfino il 38, era comunque la più alta mai avuta in dieci anni». Obama assicura che prenderà presto una decisione. OBAMA HA BECCATO OSAMA IL BLITZ Alle 8,20 del mattino del 29 aprile il presidente convoca i consiglieri. «Ci disse "Procedete pure"», rammenta Brennan. L'1 maggio le visite alla Casa Bianca vengono cancellate, nessuno deve vedere Obama e i consiglieri nella Sala Operativa. Alle 14,30, poco dopo le 23 in Pakistan, due elicotteri Black Hawk decollano dalla base di Jalalabad, in Afghanistan. «Effettuiamo operazioni ogni notte ma questa era la più imponente dopo l'11 settembre», assicura David Petraeus, all'epoca comandante delle forze Afghanistan e ora alla guida della Cia. CIOCCOLATINI OSAMA «Nel quartier generale ero stato l'unico a venire informato perché alcuni miei reparti avrebbero potuto essere coinvolti», aggiunge Petraeus. A conoscere il bersaglio è solo il comandante delle forze speciali. «Ho seguito l'operazione dal quartier generale della Nato a Kabul, chiesi un unico uomo per monitorare cosa avveniva», continua Petraeus. Il nome in codice dell'operazione è «Neptune Spear» (Lancia di Nettuno). La distanza fra Jalalabad e l'obiettivo è di circa 260 km ma il percorso per gli elicotteri è maggiore perché volano a 6 metri da terra, al fine di non essere intercettati. È una notte senza luna. «I nostri soldati dice Chris Marvin, pilota di Black Hawk - si trovavano ad operare in condizioni molto difficili». OSAMA COMPOUND E Sui Black Hawk vi sono 23 Navy Seals, un interprete e Cairo, un cane segugio. Sono elicotteri «Stealth», invisibili ai radar. Obama ha ordinato ai capi della missione di aggiungere anche elicotteri Chinook, come rinforzi in caso di necessità. Decollano 45 minuti dopo i Black Hawk, seguono la stessa rotta e atterrano in un'area deserta a due terzi della distanza dal complesso di Abbottabad, è un posto non controllato né dai pakistani né dai taleban. Sui Chinook vi sono altri 12 Navy Seals. Obama e i consiglieri seguono gli eventi in tempo reale grazie a un drone che trasmette segnali video da 4600 metri di altezza. «La sala dove si svolgono di solito le nostre riunioni non era attrezzata - spiega Leiter così andammo in una più piccola». OSAMA ZAWAHIRI Quando tutte le unità Navy Seals sono in Pakistan la tensione sale. «Era un momento di ansia, le squadre si dirigevano verso il complesso e non dovevano essere intercettate» dice Brennan. All'1 del mattino, ora del Pakistan, i Black Hawk raggiungono l'obiettivo. Il piano prevede che scesi i soldati, si allontanino rapidamente. Tutto doveva concludersi in due minuti, una squadra doveva atterrare dal cortile e l'altra sul tetto per entrare da punti diversi. Ma non va così perché il pilota di uno degli elicotteri perde il controllo mentre sorvola le mura esterne. Hillary Clinton ha un'espressione di sorpresa e paura che rispecchia lo stato d'animo di tutti. Il rotore di coda è impazzito e l'elicottero finisce a terra, spezzato. OSAMA RESIZE «Era inevitabile in quel momento pensare a una replica di Desert One - ammette Leiter - quando perdemmo un elicottero nel salvataggio di alcuni ostaggi». Il blitz è appena iniziato ma la missione è già in pericolo. La sorte degli uomini a bordo è sconosciuta. Obama e i consiglieri guardano i video terrorizzati, sperando in qualche segno di vita. «Se vi fossero state delle vittime la missione sarebbe abortita», assicura Marvin. Alcuni minuti dopo, il sollievo. I 12 Navy Seals escono illesi dal velivolo ed entrano in azione. Nessuna delle due squadre è nei punti stabiliti. Si passa a quello che Brennan chiama «il Piano B». OSAMA RESIZE IL «PIANO B» I Navy Seals avanzano con gli esplosivi, fanno saltare tutte le porte. I boati svegliano gli abitanti del complesso e i vicini. Ishan Khan, residente a Abbottabad e giornalista di «Voice of America» viene svegliato: «Ho sentito un'enorme esplosione e sono corso fuori a vedere cosa stava avvenendo». È Khan il primo che dà la notizia al mondo, l'elicottero caduto arriva su Twitter. I Navy Seals a gruppi di tre, entrano nel complesso, si dirigono nella dependance, vedono correre Al Kuwaiti che gli spara contro e lo uccidono. Entrati nell'edificio vanno verso le scale, trovano delle barriere e le fanno saltare, avanzano verso i piani superiori. COVO OSAMA Al secondo piano incontrano il figlio di Bin Laden e lo abbattono con un sol colpo. Continuano a salire, evitando la confusione circostante. Vi sono numerosi gruppi di bambini. Giunti al terzo piano, in fondo al corridoio c'è Bin Laden. Entra in una stanza e i Navy Seals lo inseguono mentre la Casa Bianca è all'oscuro di quanto sta avvenendo perché il drone non vede all'interno. «Non sapevamo, cercavamo di indovinare», rammenta Brennan. OSAMA RESIZE «GERONIMO» Sono tre i Navy Seals che inseguono Bin Laden, entrano nella camera, si trovano davanti alla moglie più giovane e alla figlia maggiore. Le donne urlano, cercano di fare scudo a Bin Laden. Uno dei soldati teme che abbiano esplosivi e spara alle gambe della moglie. Il Navy Seal dietro di lui punta l'arma contro Bin Laden, il primo colpo lo raggiunge al petto, il secondo alla testa. Nella sala operativa della Casa Bianca si sente la voce di uno dei soldati: «In nome di Dio e della nazione, Geronimo, Geronimo, Geronimo». BLITZ OSAMA, LE FOTO DEGLI ALTRI CORPI È la parola in codice per dire che Bin Laden è stato preso. Ma l'operazione non è ancora finita. I Navy Seals devono lasciare il complesso assieme alla salma di Osama. Le truppe speciali restano 20 minuti più del previsto per prendere documenti e computer con i segreti di Al Qaeda. I pakistani non sanno cosa sta avvenendo, temono un attacco agli impianti nucleari e fanno decollare gli F-16. Gli servono però 15 minuti e tanto basta ai Navy Seals per allontanarsi con 5 computer, 10 hard drive, 110 pen drive e un diario scritto a mano. BLITZ OSAMA, LE FOTO DEGLI ALTRI CORPI All'esterno del complesso, l'interprete, quattro agenti e il cane Cairo tengono alla larga i vicini mentre all'interno viene fatto esplodere l'elicottero caduto e un medico preleva un campione di dna dal corpo di Bin Laden per l'identificazione definitiva. All'1,45 del mattino, ora pakistana, i Navy Seals decollano con il Black Hawk rimasto. BLITZ OSAMA, LE FOTO DEGLI ALTRI CORPI Sono passati 40 minuti dall'inizio del blitz. «I più lunghi della nostra vita», confessa Brennan. «È stata un'operazione estremamente delicata, portata a termine in modo estremamente efficiente», riassume Petraeus. Il commento a caldo di Obama è «avete fatto un ottimo lavoro», poco dopo parla alla nazione: «Osama Bin Laden è stato ucciso, giustizia è fatta». http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-national-geographic-svela-minuto-per-minuto-il-blitz-della-grande-vendetta2-il-vicepresidente-38323.htm

ANDREOTTI FASCIO! - IN UNA BIOGRAFIA DEL DIVO SPUNTA LA TELEFONATA TRA IL SUO BRACCIO ‘DESTRO’ FRANCO EVANGELISTI E LA GIORNALISTA NERA, GIANNA PREDA: “ANDREOTTI ERA ANTIFASCISTA SOLO PER FAR TORNARE ALLA DC I VOTI FINITI AL MSI. SE L’MSI FOSSE STATO IL PRIMO PARTITO NON AVREBBE PROBLEMI A STARE COI FASCISTI” - NELLE SUE MANI L’ANTESIGNANA DI “GLADIO” CONTRO L’AVANZATA COMUNISTA…

Francesco Specchia per "Libero" GIULIO ANDREOTTI FRANCO EVANGELISTI Alla volte anche nelle biografie che paiono scontate si ritrovano notizie. Prendete Divo Giulio di Antonella Beccaria e Giacomo Pacini (Nutrimenti,pp.288, euro14). Si ritrova qui il testo originale di una conversazione telefonica dell'aprile 1972 tra il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, e la giornalista del Borghese Gianna Preda. La telefonata fu registrata da Preda. Tra le altre cose, in essa vi sono alcuni passaggi in cui Preda dice a Evangelisti: «So che tu ed Andreotti siete fascisti al pari di me». Lui annuisce e, poco dopo, le rivela apertamente che Andreotti «si era dichiarato antifascista solo perché era necessario che i voti finiti al Msi tornassero alla Dc. Ma se l'Msi fosse stato il primo partito italiano, lui non avrebbe alcun problema a stare coi fascisti». GIANNA PREDA Poi c'è un inquietante passaggio sulla morte dell'editore Feltrinelli: vi si lascia intendere che era stato un bene che l'editore fosse morto quando a Palazzo Chigi c'era un monocolore Andreotti. Inedita anche la notizia che De Gasperi affidò a Giulio la delicata gestione dei rapporti con apparati di sicurezza ufficiali e clandestini e le prime strutture segrete a carattere armato, poi parzialmente confluite in Gladio. GIULIO ANDREOTTI I documenti dimostrano che Andreotti era uno dei responsabili politici del cosiddetto Ufficio Zone di Confine, organismo segreto che si occupava di inviare fondi riservati a tutte le organizzazioni, anche a carattere armato, contro i comunisti slavi. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/andreotti-fascio-in-una-biografia-del-divo-spunta-la-telefonata-tra-il-suo-braccio-38297.htm

“WALL STREET JOURNAL” SI DISPERA: “NON BASTAVA HOLLANDE, CI SI METTE PURE L’HOLLAND” - IL VOTO ANTI-EURO IN FRANCIA E LA CRISI POLITICA IN OLANDA (PAESE CONSIDERATO FINORA STABILE), SOMMATI ALLA RECESSIONE DILAGANTE, TERRORIZZANO I POTERI INTERNAZIONALI - USA, CINA, BRASILE, INDIA VOGLIONO TENERSENE ALLA LARGA E RINVIANO IL LORO APPOGGIO ALL’EUROZONA - STAVOLTA È DIFFICILE CHE L’UNIONE EUROPEA POSSA USCIRNE INTATTA…

Federico Rampini per "la Repubblica" MÉLENCHON MARINE LE PEN «L´euro-angoscia mette in fuga i capitali» secondo il Financial Times che avverte una «crisi di legittimità dell´Unione». Il doppio shock politico, Francia e Olanda, non risparmia Wall Street e da qui dilaga su tutti i mercati mondiali. «Una virata nella direzione dei venti politici, più una collisione di indicatori negativi» è il giudizio del New York Times. All´indomani di un weekend cruciale per gli equilibri politici del Vecchio continente, la ripresa mondiale si ritrova di nuovo in ostaggio dell´eurozona in crisi. L´accumularsi di eventi è micidiale. Al primo posto: la massiccia dimensione del voto anti-europeo in Francia, se si sommano le due ali estreme Le Pen-Mélenchon che auspicano l´uscita di Parigi dall´euro, più le ripetute promesse anti-Schengen di Nicolas Sarkozy, più l´impegno di François Hollande a «rinegoziare» daccapo tutto il patto fiscale europeo con Angela Merkel. MERKEL SARKOZY ANGELA MERKEL E NICOLAS SARKOZY Al secondo posto arriva a sorpresa la crisi politica in Olanda, che minaccia la tenuta della «roccaforte germano-centrica» nell´eurozona. Al terzo posto: una raffica di indicatori negativi (inattesa caduta dell´indice manifatturiero tedesco, contrazione degli ordinativi d´imprese in tutto il continente, conferma della recessione spagnola) fanno dire a Mark Miller di Capital Economics che «la recessione si aggrava e l´intera Unione non ne uscirà per tutto l´anno», un giudizio che l´Associated Press lancia all´apertura del mercato americano. Il quarto fattore di preoccupazione nasce dal bilancio che viene fatto, alla riapertura dopo il weekend, sul meeting di primavera del Fondo monetario internazionale che si è tenuto a Washington. Nessuno ha considerato credibile il bilancio ufficiale positivo. E´ vero, al summit si è deciso di aumentare le risorse dell´Fmi che potranno contribuire al «muro di fuoco» da usare per eventuali salvataggi nell´eurozona (vedi Spagna). MARIO DRAGHI ALLA BCE Ma da quell´operazione si sono chiamati fuori, oltre agli Stati Uniti, anche due potenze emergenti come Cina e Brasile che rinviano continuamente il loro impegno concreto in favore dell´eurozona. Un pessimo segnale anche quello, in una fase in cui l´arsenale di aiuti di Mario Draghi, cioè i prestiti d´emergenza della Bce agli istituti di credito, comincia a mostrare i suoi limiti. FRANCOIS HOLLANDE Sugli eventi politici il Wall Street Journal si permette una battuta: «Non bastava un Hollande, ci si mette pure l´Holland (l´Olanda in inglese, ndr)». Quel che accade nei Paesi Bassi è «un trauma perfino superiore al risultato elettorale francese» secondo il maggiore quotidiano economico e finanziario, perché indica una «polarizzazione del dibattito fra crescita e austerità» anche nei Paesi finora più stabili e virtuosi. L´Olanda è un modello di buona gestione, ha un debito pubblico che pesa solo per il 65% del suo Pil. I mercati hanno sempre visto i titoli del Tesoro olandese come un surrogato dei Bund tedeschi, tanto che lo spread fra i due paesi è un irrisorio 0,8%. Le dimissioni del premier olandese, la fronda di una destra locale che non accetta l´austerity, indicano che la resistenza al rigore germanico non è più solo un problema della periferia dell´Unione. Di qui la paura che si diffonde sui mercati mondiali, così sintetizzata dallo stesso Wall Street Journal: «Se perfino il nocciolo duro dell´eurozona nordica si dissocia dagli impegni di rigore nel bilancio pubblico, gli investitori tornano a dubitare che l´Unione possa uscirne fuori intatta». Il giudizio del Financial Times è simile: dalla crisi economica il suo pessimismo si allarga alla tenuta dell´Unione europea. BARACK OBAMA Nel 2008 e nel 2009 era ancora credibile una narrativa della crisi che la descriveva importata dagli Stati Uniti, una terra di banchieri-pirati, di debitori irresponsabili, per di più governata fino agli albori del disastro da un presidente repubblicano. Quel mito, secondo il Financial Times, «aveva tenuto insieme un´identità europea», oggi non regge più. Stremata dalla seconda recessione in quattro anni, e stavolta una recessione «fatta in casa», l´Europa sta perdendo fiducia nella costruzione comunitaria avviata mezzo secolo fa: i partiti tradizionali che ne furono i fautori, e in generale le classi dirigenti pro-europee, perdono consensi tra le opinioni pubbliche. HU JINTAO I requiem per l´Unione europea si sono sentiti già altre volte, a Londra o da questa parte dell´Atlantico dove l´euroscetticismo ha radici antiche. Stavolta però una preoccupazione unisce gli Stati Uniti alle potenze emergenti, dalla Cina al Brasile. Già si avvertono i segnali di rallentamento della crescita americana, cinese e brasiliana: e dietro questa frenata c´è il «buco nero» dell´economia europea, il più vasto mercato del pianeta, così depresso da contagiare (attraverso la caduta delle importazioni) anche chi sta meglio. Lo scenario politico visto da Washington, Brasilia e Pechino, nella migliore delle ipotesi sfocia su un lungo negoziato tra la Francia e la Germania per rivedere il patto fiscale dell´eurozona. L´esatto contrario di una luna di miele tra Merkel e il neopresidente francese, semmai una sorta di «prova di divorzio» nell´asse storico Berlino-Parigi. Anche se la ragione dice che alla fine quell´asse dovrebbe sopravvivere, Wall Street e la Casa Bianca, così come i leader dei Brics, mettono in conto mesi di instabilità sul Vecchio continente. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/wall-street-journal-si-dispera-non-bastava-hollande-ci-si-mette-pure-lholland-il-38245.htm

venerdì 27 aprile 2012

VAFFANEURO! - NELLO STESSO GIORNO DEL SUCCESSO DI LE PEN IN FRANCIA, L’ESTREMA DESTRA OLANDESE FA CADERE IL GOVERNO, CONTRASTANDO L’AUSTERITÀ BY MERKEL - L’OLANDA È UNO DEI 4 PAESI AD AVERE ANCORA LA TRIPLA A, MA LA SITUAZIONE VOLGE AL PEGGIO - GEERT WILDERS DA TEMPO PREDICA IL RITORNO AL FIORINO - SECONDO UNA RICERCA L’EUROZONA NON ARRIVEREBBE AL 2015, E L’ABBANDONO DELL’EURO SAREBBE UNA BUONA SOLUZIONE ANCHE PER L’ITALIA…

Luigi Offeddu per "Il Corriere della sera" GEERT WILDERS In questo piccolo Parlamento senza auto blu né portaborse all'uscio, la notizia che il premier se ne va piomba come una doppia bomba. Perché tutti sanno che questa storia riguarda l'Olanda ma soprattutto l'Europa. Se Mark Rutte, il primo ministro, è andato poco fa al palazzo reale di Huis ten Bosch (scegliendo un'entrata laterale, si è saputo) e ha presentato le sue dimissioni alla regina Beatrice, è stato perché il suo ex-alleato Geert Wilders si è ribellato «ai dittatori dell'Europa, che tartassano i nostri anziani». Tutto questo nel Paese che nel 2005 bocciò con un referendum la costituzione europea. MARK RUTTE Wilders - ha detto poi - ha difeso «Henk e Ingrid», il signor Rossi, la classe lavoratrice: non ha accettato i tagli al bilancio proposti da Bruxelles a tutti i Paesi Ue. «E chi sarà il prossimo a fare lo stesso? - si chiede una funzionaria del partito cristiano-democratico seduta al bar vicino al Parlamento - sarà forse Madrid, Lisbona, sarete forse voi di Roma? Chissà se qui rivedremo più quelle Ferrari...». Le hanno viste tutte, spiega, quelle immagini. Solo un anno fa, in una via di periferia della capitale, venivano fotografate 56 Ferrari parcheggiate in un chilometro per un raduno di un club di appassionati: e fecero scalpore, vennero considerate un po' la conferma del benessere olandese. Allora, infatti, l'Olanda era nella prima fila dell'Europa virtuosa: bassa disoccupazione (meno che in Germania), basso debito pubblico, deficit appena ballerino. Che cosa sia successo dopo, nessuno ha mai saputo spiegarlo chiaramente: qualche grande banca è andata male (soprattutto fra quelle che inseguirono le fate morgane della finanza islandese), le reti protettive del welfare si sono forse allargate troppo. REGINA BEATRICE OLANDA Oggi, il debito non è ancora insopportabile, la disoccupazione è ancora minore che altrove, l'Olanda è ancora fra i 4 Paesi che mantengono un rating da «tripla A». Ma è in recessione, il deficit viaggia intorno al 4,5% del prodotto interno lordo, e fra due anni potrebbe toccare il 6%: un disastro, sanabile secondo Bruxelles solo con tagli chirurgici; e per questo Wilders - leader del Pvv, il «Partito per la libertà» - si è alzato dal tavolo e ha tolto il suo appoggio esterno alla coalizione a due fra i liberali e i cristiano-democratici. Ora si andrà a elezioni anticipate dopo l'estate. Nei sondaggi, i liberali di Rutte sarebbero in risalita, mentre Wilders avrebbe qualche difficoltà. Ma lui, dei sondaggi, sembra altamente infischiarsi. E' stato qui in Parlamento anche un'ora fa, attorniato dalle guardie del corpo come accade da 6 anni a questa parte, da quando ricevette minacce da gruppi islamisti. Il primo maggio uscirà il suo nuovo libro «Marcato per la morte, la guerra dell'Islam contro l'Occidente e me». Ma l'uomo non pensa solo all'Islam. Poco fa, oltre le schiene della scorta, un giornalista finlandese è riuscito a gridargli: «Allora, fuori dall'euro?». E lui ha fatto segno di sì. EURO SPACCATO Beppe Grillo ha infatti qui un predecessore: è già da mesi che questo «Grillo da Rotterdam» annuncia: «L'euro non è nell'interesse del popolo olandese, vogliamo essere padroni in casa nostra e così diciamo sì al fiorino. Riportatecelo indietro». L'opposizione ai tagli chiesti da Bruxelles non è stata dunque estemporanea, ma l'espressione di una linea precisa che valica le frontiere e arriva forse fino a Parigi, agli uffici della signora Marine Le Pen. E colui che i critici meno rispettosi chiamano «Mozart» (per via della chioma bionda e incipriata che avrebbe portato il musicista) è in realtà un lucido pragmatico che calibra attentamente ogni mossa. Per esempio, il «no» ufficiale all'euro e il «sì» al vecchio fiorino, Wilders li ha pronunciati dopo aver commissionato a un istituto di Londra una ricerca sui costi di sopravvivenza, o di morte, dell'intera Eurozona. Quella ricerca è ancora qui, negli uffici parlamentari del partito, e parla molto anche dell'Italia. Dice che difficilmente l'Eurozona potrà sopravvivere oltre il 2015, e che «in uno scenario ottimistico» costerebbe 1,3 trilioni di euro tenere in piedi gli Stati dell'Europa mediterranea, e 2,4 trilioni se Italia e Spagna chiedessero un pronto soccorso per i loro titoli di Stato. Dell'Italia, in particolare, si dice che la sua uscita dall'euro sarebbe relativamente facile, e che il Paese si riprenderebbe, una volta riguadagnata la libertà valutaria. A settembre, chissà, tutto questo potrebbe spiegarlo a Mario Monti un neo-rimo ministro tentatore, di nome Geert. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/vaffaneuro-nello-stesso-giorno-del-successo-di-le-pen-in-francia-lestrema-destra-olandese-38209.htm

GRECIA, DAL DRAMMA ALLA DRACMA - SALVARE LA GRECIA A TUTTI I COSTI? CERTO, COME NO, MA NON SIAMO FESSI, SOLO STROZZINI: NEI PRESTITI ALLA GRECIA, LA BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI HA INSERITO ALLA CHETICHELLA UNA CLAUSOLA CHE PERMETTEREBBE DI RISANARE IL DEBITO ANCHE IN DRACME QUALORA LA GRECIA DOVESSE USCIRE DALL’EURO - MENTRE AD ATENE IL CAPPIO DEI MERCATI SI STRINGE SEMPRE DI PIU’, L’UE SI GIUSTIFICA: “È SOLO UNA PRECAUZIONE”…

Marco Zatterin per "la Stampa" Pronti a tutto, anche a non trattare nella moneta di casa. E' una mossa precauzionale e certo ispirata dalla flessibilità, quella della Bei, che ha cominciato a inserire un'inedita clausola nei contratti con Grecia, Irlanda e Portogallo - i tre paesi che Ue e Fmi hanno salvato dalla bancarotta per consentire di rimborsare i prestiti contratti in una valuta diversa dall'euro. GRECIA - PAPADEMOS LA GRECIA AFFONDA «Così offriamo maggiori opportunità», assicurano fonti dell'istituzione lussemburghese. Vero. Però lo è anche che sarebbe una via di uscita qualora Eurolandia perdesse qualche pezzo, oppure si rompesse. Se Atene dovesse uscire, ad esempio, avrebbe pieno diritto di pagare in dracme. «Processo alle intenzioni», si difendono alla Banca europea per gli investimenti, organismo comunitario che nel 2010 ha finanziato progetti per 72 miliardi, l'88 per cento dei quali all'interno dell'Unione europea. «E' una procedura standard ha spiegato una portavoce -. In questa situazione di crisi e di alta volatilità la banca adegua i suoi contratti finanziari in diversi paesi, e non soltanto in Grecia. Il fatto che una società sia in grado di rimborsare in una valuta differente dalla sua non vuol dire che la valuta del paese debba cambiare». Se però dovesse succedere, la Bei sarebbe comunque in grado di incassare il dovuto. Non è una differenza da poco. IL PREMIER GRECO PAPANDREU I greci lo hanno notato subito e il giornale Kathimerini che ha scritto la notizia non ha fatto i complimenti. Ha notato che la clausola sotto accusa è stata inserita a inizio aprile nel contratto per un finanziamento da 70 milioni firmato con la Ppc (Public power corporation), la società elettrica ellenica, per la costruzione di una nuova centrale a gas a Megalopoli, nel Peloponneso. GRECIA SCONTRI DI PIAZZA JPEG All'occasione, la Bei avrebbe introdotto due novità: la possibilità di cambiare le regole del negoziato valutario e la scelta della legislazione britannica come foro a cui fare riferimento in caso di irregolarità del rimborso. Il quotidiano greco parla di un legame diretto fra la mossa e la possibile uscita dall'Eurozona. La quale, ricordano da sempre i portavoce della Commissione, «non è prevista dai Trattati». Gli accordi su cui è basata la moneta unica, fissano procedure per accedere al club dell'euro ma non per abbandonarlo. Cosa che, secondo più osservatori, potrebbe invece essere uno scenario possibile per Atene qualora il pesante risanamento negoziato con Bruxelles non riuscisse ad andare in porto. Trovandosi troppo debole per ripagare il suo pensante debito, non avrebbe altra scelta se non gettare la spugna e ritornare alla dracma. «Pura fantascienza», dice un portavoce Ue. OLLI REHN Messa di fronte alla fonte di dietrologie, la Commissione Ue ha risposto con un certo imbarazzo, rinviando le domande alla banca di Lussemburgo. Amadeu Altafaj, portavoce del commissario agli Affari economici e monetari Olli Rehn, ha cercato di spegnere il fuco ricordando «che la comunità internazionale insieme con l'Europa ha adottato tutte le misure necessarie per aiutare la stabilità in Grecia e scongiurare il pericolo di una uscita dall'Eurozona». GRECIA SCONTRI DI PIAZZA JPEG Sinora, almeno a vedere l'andamento quotidiano dei listini e dei mercati, il messaggio non è passato come si sperava. Ieri nelle Borse s'è vissuta una delle peggiori giornate dell'anno, prova che chi compra e vende titoli continua a pensare che la tempesta che agita l'Ue in recessione sia lungi dall'essere conclusa. Il che giustifica anche la cautela della Bei, per quanto involontaria e poco ortodossa sia. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/grecia-dal-dramma-alla-dracma-salvare-la-grecia-a-tutti-i-costi-certo-come-38208.htm

“REPORT” IMPALLINA IN PRIMA SERATA FRATELLO MONTI: CHE SIGNIFICA AVERE UN PREMIER CHE VIENE DALLA FAMIGERATA TRILATERAL? L’ITALIA È IL PRIMO PAESE CHE HA MESSO IN COSTITUZIONE IL PAREGGIO DI BILANCIO, CHE “CREA LE BASI PER LO SMANTELLAMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA STATALE E LASCIA CHE AD OCCUPARSENE SIANO I PRIVATI” - 2- IL CREDO DELLA TRILATERAL: C’È TROPPA DEMOCRAZIA, PIÙ POTERE AI GOVERNI E MENO AI PARLAMENTI (CHE VENGONO MASSACRATI CON LE CAMPAGNE CONTRO I PARTITI) - 3- PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA DUE AUTOREVOLI MEMBRI DELLA COMMISSIONE TRILATERALE SONO DIVENTATI I PRIMI MINISTRI DI DUE NAZIONI IN EUROPA: LA GRECIA E L’ITALIA - 4- L’INIZIO DELLA FINE: 1999, SOTTO L’AMMINISTRAZIONE CLINTON (EX MEMBRO DELLA TRILATERAL) FU ABOLITA LA SEPARAZIONE TRA BANCHE COMMERCIALI E D’AFFARI: LE BANCHE DI TUTTO IL MONDO SI SONO MESSE A FARE TUTTO E SI È ARRIVATI ALLA BOLLA DEL 2008 -

Da "Report" su Raitre MILENA GABANELLI STUDIO L'Italia è il primo Paese che ha messo in Costituzione il pareggio di bilancio. Cosa vuol dire nella pratica? Che tu non potrai mai forzare la spesa per rivedere le tue politiche di investimento pubblico. E' come se, una famiglia, con un reddito basso, ma decide di indebitarsi per far studiare i figli e una legge gli dice "tu non puoi affrontare questa spesa". Moltiplicato per milioni di famiglie cosa si viene a perdere? Perché alla fine i conti saranno anche a posto, ma è una gran brutta vita. TRILATERAL OBAMA DAVID ROCKEFELLER E non è vero che sei virtuoso solo se non spendi, dipende da come spendi. E' urgentissimo avviare delle politiche di riduzione del debito, ma metterlo in costituzione potrebbe creare le basi per lo smantellamento la funzione pubblica dello Stato e lasciare che ad occuparsene siano i privati. E il privato di fronte alla linea dell'autobus che va in periferia per far viaggiare 10 persone, cosa fa la taglia perché non gli conviene. La politica quando non funziona, e non funziona quando si eleggono le persone sbagliate, diventa tecnica. Una parola che non abbiamo inventato noi ma è comparsa al mondo una 40ina di anni fa. MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sono gli anni '70 e un gruppo di uomini potenti - americani, europei giapponesi - pronunciava questa parola: tecnocrazia. E' la Commissione Trilaterale - Stati Uniti, Europa, Giappone - voluta da David Rockefeller nel 1973 per disegnare il futuro del mondo, o meglio per dargli una raddrizzata. PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST E' la filosofia che ha guidato la Commissione trilaterale fin dal primo giorno, quella della tecnocrazia e che è a tutti gli effetti una filosofia politica. MICHELE BUONO FUORI CAMPO La Commissione Trilaterale ha la struttura di un parlamento globale ma i membri non sono eletti, sono invitati. Banchieri, politici, industriali, rappresentanti di multinazionali, accademici, giornalisti, editori non hanno mai smesso di riunirsi in seduta plenaria una volta l'anno. E già a metà degli anni '70 , l'analisi della Commissione Trilaterale sulla crisi mondiale - salari alti e crescita non più ai ritmi del dopoguerra - era "eccesso del sistema decisionale". Troppa democrazia. Soluzione? Più potere ai governi e meno ai parlamenti. Patrick Wood statunitense ha seguito i lavori della Trilaterale fin dall'origine. Lo intervistiamo via skype. PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST Sin dall'inizio il loro intento specifico fu quello di creare un nuovo ordine economico internazionale ed elaborarono due concetti per realizzare i loro piani: interdipendenza tra i soggetti e tecnocrazia, come mezzo per controllare la società. MICHELE BUONO Più tecnocrazia e meno politica: era questo il piano? PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST Fu questo il piano fin dall'inizio. Tant'è che la Commissione trilaterale riuscì a prendere il controllo dell'esecutivo americano dominandolo negli ultimi 30 anni. MICHELE BUONO Che genere di mondo volevano disegnare e stanno disegnando? PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST Sono convinti che non ci sia più bisogno dello stato così come lo si è inteso per centinaia di anni e quindi agiscono per poter eliminare il concetto di sovranità nazionale e di autodeterminazione. In quei giorni nessuno aveva previsto che il sistema che stavano creando avrebbe portato il mondo è quello che è oggi: talmente connesso a livello finanziario che se una nazione singhiozza, l'intero pianeta cade in ginocchio. MICHELE BUONO FUORI CAMPO C'era una volta una legge bancaria, il Glass Steagall Act che dopo la crisi del '29 regolamentava l'attività: da una parte le banche commerciali con attività tradizionali e garantite dallo Stato, dall'altra le banche d'affari con attività speculative. L'industria bancaria poi fece pressione per abolire questa distinzione. Troppi lacci e lacciuoli - si diceva - sarà solo il mercato a regolare tutto. Tant'è che sotto l'amministrazione Clinton (ex membro della Commissione trilaterale - era il 1999 -) il Glass Steagal Act fu abolito. Rotti gli argini, le banche di tutto il mondo si sono messe a fare tutto: raccolta del risparmio, speculazione, costruzione e vendita di titoli di debito. PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST Vorrei far notare che per la prima volta nella storia due membri della Commissione trilaterale sono diventati i primi ministri di due nazioni in Europa: la Grecia e l'Italia. MICHELE BUONO Qual è stato il ruolo del signor Mario Monti nella Commissione trilaterale? PATRICK WOOD - SAGGISTA-EDITOR THE AUGUST FORECAST Monti è stato il presidente europeo della Commissione trilaterale. Quindi la sua responsabilità era quella di portare avanti le operazioni europee. Ora io posso parlare di come gli uomini della trilaterale si comportano negli Stati Uniti una volta che si ritrovano ad occupare posizioni di potere: hanno la possibilità di eseguire qualsiasi strategia politica della trilaterale con o senza il consenso del popolo. MICHELE BUONO FUORI CAMPO Non è un complotto perché la stessa storia potrebbe essere raccontata partendo da altre premesse. Diciamo che ognuno, anche da sponde diverse, ci ha messo un pezzo. Interessi, buona fede, incapacità, errori, si sono intrecciati e hanno disegnato un modello. MICHAEL HUDSON - PRESIDENTE ISTITUTO STUDI TENDENZE ECONOMICHE LUNGO PERIODO Se si traccia una mappa del Giappone e Fukushima viene inondata, non diciamo che la mappa è stata allagata ma che è il Giappone a essere stato sconvolto. Il modello è solo una falsa mappa per poter convincere le persone a seguire un sentiero suicida facendo credere alle famiglie e alle industrie che sarebbero diventate più ricche solo se avessero contratto debiti senza lavorare e produrre. Il problema è che è stata seguita una falsa mappa che descriveva la realtà. MICHELE BUONO FUORI CAMPO Seguendo una mappa diversa vediamo come cambia la realtà. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-report-impallina-in-prima-serata-fratello-monti-che-significa-avere-un-premier-che-38151.htm

VIA DALL’EURO! - IL NOBEL KRUGMAN DEMOLISCE IL RIGORISMO DELL’ASSE MERKEL-DRAGHI: “L´EUROPA SI SALVA SOLO CON POLITICHE MONETARIE PIÙ ESPANSIVE ALTRIMENTI SI LIBERI DELL´EURO - È INCONCEPIBILE CONTINUARE A IMPORRE AUSTERITÀ A PAESI CHE GIÀ HANNO UNA DISOCCUPAZIONE A LIVELLI DA GRANDE DEPRESSIONE - LA SITUAZIONE DI MADRID È DOVUTA AGLI INGENTI PRESTITI CONCESSI DALLE BANCHE TEDESCHE A QUELLE SPAGNOLE”…

Articolo di Paul Krugman pubblicato da "la Repubblica" - (Traduzione di Anna Bissanti) LEURO E LA TRIPLA A BANCA_CENTRALE_EUROPEA Sabato il Times ha pubblicato un articolo che parla di un fenomeno apparentemente in crescita in Europa: suicidi imputabili alla "crisi economica", persone che si tolgono la vita in preda alla disperazione per essere rimaste senza lavoro o aver visto fallire la propria azienda. Un articolo straziante. Sono sicuro, tuttavia, di non essere stato l´unico lettore, specialmente tra gli economisti, a essersi chiesto se la vera questione non riguardi tanto i singoli individui, quanto l´evidente determinazione dei leader europei a far commettere un suicidio economico all´intero continente. Soltanto pochi mesi fa nutrivo qualche speranza per l´Europa. Forse ricorderete che alla fine dell´autunno scorso l´Europa sembrava sull´orlo di una catastrofe finanziaria. Ma la Banca centrale europea - l´equivalente europeo della Fed - corse in aiuto dell´Europa. Concesse alle banche europee linee di credito aperte a condizione che esse offrissero come collaterali i cosiddetti "eurobond". Ciò servì a puntellare direttamente le banche e indirettamente i governi e mise fine al panico. La situazione a quel punto cambiò: si trattava di capire se quell´intervento temerario ed efficace sarebbe stato l´inizio di un più ampio cambiamento; se la leadership europea avrebbe utilizzato il margine di respiro creato dalle banche per riprendere in considerazione le politiche che in primis avevano portato a una crisi tanto profonda. Così, però, non è stato. Anzi: i leader europei hanno rilanciato e ribadito le loro idee e le loro politiche fallimentari. E di giorno in giorno diventa sempre più difficile credere che qualcosa possa indurli a cambiare strada. PAUL KRUGMAN MARIO DRAGHI MERKEL Prendete in considerazione la situazione della Spagna, che è ora l´epicentro della crisi. Non parliamo più di recessione in questo caso: la Spagna è in piena e palese depressione con un tasso complessivo di disoccupazione pari al 23,6 per cento, paragonabile a quello dell´America nei tempi peggiori della Grande Depressione, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è di oltre il 50 per cento. La situazione, per tutto ciò, è insostenibile. Proprio dalla consapevolezza che la situazione non può perdurare nasce l´inasprimento continuo dei tassi di interesse in Spagna. In un certo senso, non interessa davvero in che modo la penisola iberica sia arrivata a questo punto, ma - per quel che può valere - il caso della Spagna non è conforme alla retorica morale così diffusa tra le autorità europee, specialmente in Germania. La Spagna non è stata sregolata dal punto di vista fiscale: alla vigilia della crisi aveva un basso indebitamento e un´eccedenza di bilancio. Sfortunatamente, però, aveva anche un´enorme bolla immobiliare, una bolla dovuta in gran parte agli ingenti prestiti concessi dalle banche tedesche alle loro controparti spagnole. Quando la bolla è scoppiata, l´economia spagnola si è ritrovata a secco. I problemi fiscali della Spagna sono una conseguenza della sua depressione, non ne sono la causa. Manco a dirlo, la cura prescritta da Berlino e Francoforte è stata una sola: sì, avete indovinato, un ulteriore irrigidimento dell´austerità fiscale. MANIFESTAZIONE-SPAGNA Questa - se vogliamo dirla tutta e con schiettezza - è pura follia. L´Europa aveva sperimentato per molti anni inflessibili programmi di austerità, con risultati che qualsiasi studente di storia avrebbe potuto anticipare: simili programmi spingono le economie depresse ancor più a fondo nella depressione. E dato che quando gli investitori devono valutare la capacità di un paese di ripagare il proprio debito ne studiano accuratamente la situazione economica, i programmi di austerità non hanno mai funzionato neppure per diminuire i tassi di interesse. MARIANO RAJOY Qual è l´alternativa? Beh, negli anni Trenta - un´epoca che la moderna Europa sta iniziando a ricalcare in modo sempre più fedele - il requisito basilare per la ripresa fu uscire dal sistema aureo (gold standard). Oggi una mossa equivalente sarebbe uscire dall´euro e ripristinare le valute nazionali. Si potrebbe affermare che ciò è inconcepibile, e senza dubbio si tratterebbe di una soluzione dirompente, dalle enormi ripercussioni sia a livello economico sia politico. D´altro canto, a essere davvero inconcepibile è l´idea di poter continuare lungo questa strada e imporre un´austerità sempre più intransigente a paesi che già soffrono per una disoccupazione a livelli da Grande Depressione. Se dunque i leader europei volessero veramente salvare l´euro, starebbero cercando una valida alternativa. L´alternativa possibile sta assumendo di fatto una forma molto chiara: il continente europeo ha bisogno di politiche monetarie più espansive, sotto forma di una disponibilità - una disponibilità dichiarata - da parte della Banca centrale europea ad accettare un´inflazione un po´ più alta. Ma l´Europa ha bisogno anche di più espansive politiche fiscali, sotto forma di sistemi di compensazione tra i budget tedeschi e quelli di paesi in difficoltà come la Spagna e altre nazioni inguaiate della periferia europea. Anche così, con queste politiche, le nazioni della periferia d´Europa dovranno affrontare anni di difficoltà. Ma, quanto meno, qualche speranza di ripresa potrebbe esserci. SPAGNA_PROTESTE Ciò a cui stiamo assistendo, invece, è una totale mancanza di flessibilità. A marzo i leader europei hanno firmato il fiscal pact, un´intesa che di fatto trova la risposta a ogni tipo di problema soltanto nell´austerità fiscale. Nel frattempo, gli alti funzionari della Banca centrale si piccano di sottolineare che al minimo segnale di un aumento dell´inflazione la Banca alzerà i tassi. In conclusione, quindi, è davvero difficile sottrarsi a un certo senso di disperazione. Invece di ammettere di aver sbagliato, i leader europei sembrano determinati a spingere l´economia nel baratro - e con essa le loro società. E a pagarne le conseguenze sarà il mondo intero. http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/via-dalleuro-il-nobel-krugman-demolisce-il-rigorismo-dellasse-merkel-draghi-leuropa-si-salva-38100.htm

venerdì 13 aprile 2012

ROMITI RIVELA DI COME NEL ’93 (IN PIENA TANGENTOPOLI) FU SPINTO DAL POOL DI MANI PULITE A COLLABORARE PER NON FINIRE IN MANETTE - FACCI: FORSE È LA VOLTA CHE UN PEZZO DELLA STORIA DELLA FIAT E DI TANGENTOPOLI SI PUÒ RACCONTARLA DAVVERO - ROMITI SCARICÒ LE RESPONSABILITÀ SULLE SOCIETÀ CONTROLLATE E FU RIMANDATO A CASA. IL POOL AVEVA I SUOI COLPEVOLI…

Filippo Facci per "Libero" Cesare Romiti CESARE ROMITI Cesare Romiti ha scritto «Storia segreta del capitalismo italiano» (Longanesi, prefazione di Ferruccio de Bortoli) e racconta un sacco di cose, ma colpisce in particolare il passaggio dove rivela - scriveva ieri il Corriere - che «sono stati i magistrati del pool di Mani Pulite a "suggerirgli" di scrivere la lettera-articolo sul «Corriere della Sera» nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici». Interessante davvero, perché se è vero che «la storia la si racconta, non la si cambia» (parole dello stesso Romiti) forse è la volta che un pezzo della storia della Fiat e di Tangentopoli si può raccontarla davvero. TINTINNIO DI MANETTE Proviamoci. Si torna dunque alla primavera 1993, periodo di passione anche per la Fiat: il 17 aprile si diffusero voci su un possibile arresto di Cesare Romiti. Gianni Agnelli, nello stesso momento, parlava al Teatro la Fenice di Venezia (che presto sarebbe andato a fuoco) e il suo discorso fu interpretato come un segnale: «Anche da noi», disse, «si sono verificati episodi non corretti». E qui, secondo una leggenda giornalistica, accadde qualcosa. Un paio d'ore dopo, i pm Colombo e Di Pietro uscirono dall'ufficio e si chiusero in un angoletto coi loro cellulari. C'è un cronista che lo giura ancor oggi: avrebbe udito un «fermate gli arresti» mentre un altro cronista sentì distintamente «fermate l'arresto». romiti-madron_Storia segreta del capitalismo italiano Ma i pm hanno smentito. Alla fine comunque erano tutti contenti: Davigo disse che c'era stato «un segnale positivo» e altri quattro manager Fiat, già latitanti, rientrarono con dei voli privati. Solo l'avvocato Carlo Taormina non era tanto contento: «Il mio cliente Giuseppe Ciarrapico», disse con prosa non proprio indiretta, «è in galera: perché Romiti no?». GIANNI AGNELLI CARLO DE BENEDETTI Il procuratore Capo, Francesco Saverio Borrelli, rispose: «I legali della Fiat hanno espresso disponibilità a collaborare». Taormina replicò ancora: «Il codice non prevede soluzioni del genere, un arresto o è motivato o non lo è. Alla base di ogni collaborazione, inoltre, vi è sempre un accordo: quale?». IN ELICOTTERO Il 21 aprile 1993 un elicottero sorvolò Milano segnalando la propria posizione praticamente ogni secondo. Atterrò e il prezioso passeggero fu chiuso in questura, completamente isolata per l'occasione. Giunsero delle volanti a sirene spiegate: era il Pool. Questo per interrogare un semplice teste: Romiti. Il numero due della Fiat lodò dapprima Enrico Berlinguer (la questione morale) e poi disse che le responsabilità delle tangenti Fiat erano tutte addebitabili agli amministratori delle società controllate (dunque non a lui) e parlò di un conto estero di nome Sacisa. Disse ai magistrati: «In altre circostanze saremmo diventati amici». Il clima si distese. Di Pietro fece persino il burlone: telefonò all'avvocato della Fiat e gli disse davanti a tutti: «Guardi che per Romiti le cose si mettono male». E risate. Anche di Romiti. Ecco, però due giorni prima, come risulterà, Romiti aveva fatto bruciare delle carte: il manager Antonio Mosconi metterà a verbale che «A Vaduz (Liechtenstein, ndr) dovevano scegliere chi doveva attribuirsi i fatti... hanno deciso di distruggere tutto il resto del conto Sacisa, in modo da dare ai magistrati qualche informazione per farla contenta e chiudere il conto con la Procura... ritengo che tutto ciò sia stato coordinato e disposto da Romiti, in quanto fu lo stesso Romiti che dette ordine in tal senso». ANTONIO DI PIETRO Gianni Agnelli Ma tutto questo, allora, non si sapeva ancora, e Romiti era tutto preso dalla sua opera di distensione con la procura: su esplicita richiesta del Pool, apprendiamo oggi. Già, perché qui arriviamo al «suggerimento» dei magistrati che il 24 aprile sfociò in questo titolo cubitale del Corriere della Sera: «Aiutiamoli questi giudici, stanno ripulendo l'Italia». L'esortazione di Romiti, notare, giungeva a un anno e mezzo dall'inizio dell'inchiesta, dopo una quindicina di arresti in casa Fiat, dopo la minaccia del commissariamento e dopo la fuga di quattro dirigenti latitanti. Romiti, quel mattino, si presentò in procura con Corriere della Sera in mano e presentò un memoriale che accennava a «degenerazioni politico-istituzionali non addebitabili alla volontà degli imprenditori». Al chiaro compiacimento del Pool si opporranno le perplessità del gip Italo Ghitti, cui non piaceva per niente quella collaborazione. Nei fatti, Romiti non era neppure indagato e i pm accettarono che le responsabilità fossero state attribuite ai dirigenti subalterni. La maggior parte dei giornali scrisse della deposizione di Romiti definendola «una svolta» (il generale è roba da far impallidire il filo-berlusconismo del Tg4) e fece eccezione qualche altra uscita di Carlo Taormina («Devo rilevare disparità di trattamenti rispetto ad altri personaggi», disse) ma soprattutto l'articolo «latitante, ripassi domani» scritto da Frank Cimini sul Mattino il 28 aprile. Fu querelato assieme al suo direttore: «La tesi era che alcuni grandi imprenditori prima facevano accordi con i politici per avere i soldi e poi facevano accordi con i magistrati per non andare in galera. L'articolo non piacque ai pm milanesi che mi citarono in giudizio». Il 29 aprile 1993, in compenso, il Corriere della Sera titolò così: «Il Mattino: l'editore non vuole più Pasquale Nonno». L'editore era Stefano Romanazzi, in stretti rapporti d'affari con la Fiat. Pasquale Nonno lasciò la direzione trenta giorni dopo. GIUSEPPE CIARRAPICO ENRICO BERLINGUERMa per scoprire che la deposizione di Romiti era stata ridicola non sarebbe occorso molto tempo. Il 21 gennaio 1994, al valico di Ponte Chiasso, i finanzieri infatti fermarono il manager Fiat Ugo Montevecchi con una valigia di carte: stava cercando di far rientrare qualche scampolo documentale dello stesso conto Sacisa che Romiti aveva ordinato di bruciare dopo averlo fatto trasferire da Lugano a Vaduz. Nella valigia furono trovate anche delle altre carte che lasciavano intuire l'esistenza di un altro conto che Romiti aveva celato agli inquirenti. RIUNIONE A VADUZ Per capirne di più, i magistrati tornarono a torchiare il manager Antonio Mosconi, che cedette: Romiti, disse, sapeva e disponeva del conto Sacisa e aveva predisposto una riunione a Vaduz per far bruciare un po' di carte. Inoltre, a Milano, aveva presentato un memoriale che era una collezione di omissioni. Mosconi stava prefigurando una serie di esemplari inquinamenti probatori, roba da arresto. Il Pool arrestò Romiti? No, la Fiat licenziò Mosconi. Il manager Francesco Torri sostituì Mosconi e diventò amministratore delegato. E il 13 dicembre venne liquidata un'altra lingua lunga: Giorgio Garuzzo, licenziato da Giovanni Agnelli in persona. L'altro manager Paolo Mattioli, invece, condannato a due anni e mezzo, non fu licenziato: il suo nome fu stampigliato nella gerenza del quotidiano «La Stampa». Il dignitoso primato di chi ha maggiormente premiato i silenti e punito i delatori, in Mani pulite, fu conteso tra la Fiat e il Pds. by dagospia

LE CHICCHE PIÙ BOMBASTICHE TRATTE DAL LIBRO-TESTAMENTO DI CESARONE ROMITI - 2- A DELLA VALLE GLI DISSI: “COME SCARPARO SEI UN IMPRENDITORE CHE DESTA AMMIRAZIONE, MA COME UOMO FAI SOLO SCHIFO” (ORA SAPETE CHI INVENTÒ IL NOMIGNOLO “SCARPARO”) - 3- ENRICO CUCCIA CONSIDERAVA ANDREOTTI IL MANDANTE DELL’OMICIDIO DI AMBROSOLI - 4- FRATELLI COLTELLI: LA LOTTA TRA UMBERTO E GIANNI AGNELLI PER L’EREDITA’ FIAT - 5- COSÌ PALENZONA CAPÌ CHE CESARE GERONZI CONTROLLAVA L’AGENDA DI ANTONIO FAZIO - 6- IL MONTEZEMOLO RECUPERATO, DOPO LA CACCIATA, DALL’AVVOCATO CONTRO IL VOLERE DI CUCCIA: “LO PRENDEMMO IN RCS, DOVE CURO` LA PARTE CINEMA E VIDEO INSIEME A PAOLO GLISENTI. FU UN GRANDE INSUCCESSO, TANTO CHE DOPO SOLO UN ANNO LASCIò” - 7- “BETTINO CRAXI INDICANDO BERLUSCONI E MONTEZEMOLO, DISSE: “SENTA ROMITI, LEI MI DEVE DIRE UNA COSA: MA TRA QUESTI DUE CHI E` IL PIU` BUGIARDO?” RISPOSTA: TUTT’E DUE -

Tratto dal libro di Cesare Romiti con Paolo Madron “Storia segreta del capitalismo italiano” (Longanesi) romiti-madron_Storia segreta del capitalismo italiano1- FRATELLI COLTELLI Sulla designazione di John Elkann a erede, Umberto Agnelli si risentı` molto col fratello anche per la nomina a erede di John Elkann. L'erede designato, Giovannino, il primogenito di Umberto, fu tragicamente portato via da una crudele malattia. John Elkann, il figlio di Margherita, allora era gia` in azienda. La regola era che per entrare nel consiglio d'amministrazione della Fiat ci dovesse essere l'approvazione dei soci dell'Accomandita, la cassaforte di famiglia. Ma l'Avvocato poteva prendere le decisioni anche senza tenerne conto. DISEGNO DI FABIO SIRONI - CESARE ROMITI GIANNI AGNELLI ENRICO CUCCIA E DE BENEDETTI Come poi in effetti fece. Inizialmente Agnelli non voleva usare questo suo potere. E io spingevo perche´ convocasse il consiglio dell'Accomandi- ta, cosa che fece, ricordo, una domenica. Di questo consiglio anche io facevo parte. Umberto arrivo` in ritardo e parlo` per ultimo. « Gianni », disse, « tu ci hai convocato oggi per decidere della designazione di John. In realta` voglio venga messo agli atti che e` esclusivamente una tua decisione. » Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replico`: « No, caro Romiti, questa e` una decisione dell'Avvocato ». Umberto voleva che la designazione toccasse all'altro suo figlio Andrea, che di tutta la famiglia e` l'unico maschio rimasto a portare il nome Agnelli. E `per questo che l'Avvocato voleva adottare John, per dargli il suo nome. Ci voleva il benestare della moglie e dei figli, ma Edoardo si oppose. I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni 2- CUCCIA CHE CONSIDERA ANDREOTTI IL MANDANTE DELL'OMICIDIO AMBROSOLI Andreotti, ovvero il cinismo al potere travestito da democristiana santita`. Che idea si era fatto di lui? All'epoca proteggeva Sindona, e questo basta a far capire perche´ i suoi rapporti con Cuccia siano stati pessimi. Vorrei raccontarle un episodio. Una volta Andreotti da presi- dente del Consiglio mando` a chiamare Cuccia, che come e` noto non andava mai da nessun politico. agnelli enrico cuccia Ma se negli ultimi anni ando` persino a prendere il te` da D'Alema, allora presidente del Consiglio. Sı`, lo so. Di solito usava sempre intermediari. Si vede che in quell'occasione la sua presenza diretta era indispensabile, non bastava quella di Alfio Marchini, che organizzo` l'incontro. Cosa voleva Andreotti da Cuccia? Cuccia mi racconto` che parlarono del piu` e del meno, e che a un certo punto Andreotti lo tempesto` di domande sull'economia, l'industria, il Paese. Poi, a bruciapelo, gli chiese: «Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell'uccisione di Ambrosoli? » E Cuccia cosa rispose? Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio termino`. 3- QUANDO D'ALEMA SCOPRÌ DI ESSERE DIVENTATO IMPORTANTE NEL PCI Com'erano i suoi rapporti con D'Alema, che in fondo non e` mai stato molto amico della Fiat? Anche se non ci ha mai avversato per partito preso, io di D'Alema mi fidavo poco e ancora oggi mi fido poco per questo suo modo strano di intendere il potere. Una volta, in un incontro, mi disse: « Sa quando io ho capito di essere diventato importante nel Partito comunista? Quando una notte vennero a prelevarmi a casa alcuni compagni perche´ temevano che ci fosse un colpo di Stato e volevano salvaguardare i membri importanti del partito. Ecco, fu allora che mi accorsi che nel Pci contavo qualcosa, perche´ ero stato incluso nel piccolo gruppo, una decina non di piu`, di persone che il partito riteneva di dover salvaguardare in caso di golpe ». MASSIMO D ALEMA E SILVIO BERLUSCONI Giovanni Spadolini, marella e Susanna Agnelli, Marco Benedetto, Cesare Romiti4- COSÌ GERONZI CONTROLLAVA L'AGENDA DI FAZIO Che tipo di influenza esercitava Geronzi su Fazio? Per farle capire le racconto di un episodio che mi ha riferito Fabrizio Palenzona, l'attuale vicepresidente di Unicredit. Un giorno Palenzona ando` in Banca d'Italia per un appuntamento con Fazio. A un certo punto, durante l'incontro, la segretaria del governatore si avvicino` a Fazio pregandolo di uscire un momento perche´ era arrivata una telefonata. Lui uscı`, stette fuori per un po', poi rientro` e continuarono a parlare. In quello stesso giorno Palenzona aveva un successivo appuntamento con Geronzi che, appena lo vide, gli disse ridendo: « Dottor Palenzona, che cosa grave mi ha combinato! Si e` dimenticato di avvertirmi che prima di me lei doveva incontrare Fazio ». E Palenzona: « Come fa a saperlo? » «Ma scusi, quando lei era da Fazio non e` arrivata una telefonata? Bene, ero io ». DELLAVALLE GERONZI Perfetto, meglio di qualsiasi editoriale su capitalismo di relazioni e conflitto di interesse. Morale, io penso che Fazio sia una persona onesta e competente. Ma penso anche che forse in un certo momento della sua attivita` abbia perso quel senso di imparzialita` che dovrebbe sempre contraddistinguere un governatore della Banca d'Italia. montezemolo dellavalle 5- IL TRADIMENTO DI DELLA VALLE E di Cesare Geronzi cosa pensava Cuccia? Al tempo in cui si affaccio` l'ipotesi di unire Comit e Banca di Roma io avevo un ottimo rapporto con Geronzi. Cuccia, che lo sapeva, mi disse: « D'accordo, proviamo anche a metterli insieme. Ma cosa troveremo dentro Banca di Roma? ». Uno dei grandi oppositori delle nozze fu Diego Della Valle. Della Valle un giorno mi venne a trovare. Mi disse che aveva un po' di soldi da parte e che gli sarebbe piaciuto investirli. Ne parlai con Cuccia, che volle subito vederlo. Gli propose di investire il suo denaro nella Comit, cosa che accadde consentendo all'imprenditore di entrare anche nel consiglio d'amministrazione. Furono soldi che poi si riprese con grandi guadagni. 7cap93 dellavalle tremonti Il giorno in cui fu portato al consiglio di Comit il progetto del matrimonio con la Banca di Roma, Della Valle fece una scena madre. Non solo. Vi si oppose a mezzo stampa rilasciando un paio di interviste violentissime contro Cuccia e Maranghi. Cuc- cia ci rimase molto male, e pure io, che Della Valle gliel'avevo presentato. Fu allora che rompemmo i rapporti. umberto agnelli MONTEZEMOLO Se non ricordo male lo insulto` pubblicamente. Eravamo con un gruppo di imprenditori e gli dissi: «Come scarparo sei un imprenditore che desta ammirazione, ma come uomo fai solo schifo ». Da allora non ci siamo piu` parlati, fino a un anno fa, quando e` morta sua madre e gli ho scritto dicendo che conosco il dolore di chi perde un genitore. Lui mi ha telefonato e mi ha detto che mai avrebbe immaginato il mio gesto. 6- L'ASTIO VERSO MONTEZEMOLO Da dove nasce questo suo astio verso Montezemolo? Nessun astio. Perche´ se e` vero che una volta dovette uscire dalla Fiat, non fui io a licenziarlo. montezemolo agnelli Chi fu a licenziarlo? Fu Agnelli che volle allontanarlo dalla Fiat. Se e` vero quello che mi dice, perche´ mai, dopo la parentesi a Italia 90, Montezemolo fu riassunto in Rcs, casa editrice di cui Fiat era il primo azionista? Fu sempre Agnelli a chiedermelo. Mi chiamo` e mi disse: « Senta Romiti, vorrei ricuperare Montezemolo. Perche´ non ne parla con Cuccia? » La reazione del banchiere fu stizzita, quasi mi mando` al diavolo. Allora gli dissi che ero imbarazzato, ma ero latore di una richiesta dell'Avvocato. Morale, lo prendemmo in Rcs, dove curo` la parte cinema e video insieme a Paolo Glisenti. Fu un grande insuccesso, tanto che dopo solo un anno lascio` h mo70 montezemolo su agnelli BOBO CRAXI BETTINO E SILVIO BERLUSCONI 7- CRAXI INDICANDO IL CAVALIERE E MONTEZEMOLO, DISSE: « SENTA ROMITI, LEI MI DEVE DIRE UNA COSA: MA TRA QUESTI DUE CHI E` IL PIU` BUGIARDO? Craxi fu anche determinante per l'ascesa imprenditoriale di Berlusconi, fu quello che riaccese i ripetitori delle sue televisioni che i pretori avevano spento. Berlusconi riuscı` quasi subito a entrare nelle grazie di Craxi. Le racconto un episodio. Bettino era molto amico della cantante, poi discografica, Caterina Caselli, donna intelligente e molto simpatica. Una volta lei e il marito, l'industriale discografico Piero Sugar, ci invitarono a casa loro. C'eravamo io, Craxi, Berlusconi e Montezemolo. Craxi era gia` potente e mi ricordo che Berlusconi, allora completamente fuori dalla politica, aveva appena ultimato Milano 2 e iniziava ad avere qualche timido interesse per la televisione. Il segretario socialista, che aveva voglia di scherzare, a un certo punto rivolgendosi a me, ma indicando il Cavaliere e Montezemolo, disse: « Senta Romiti, lei mi deve dire una cosa: ma tra questi due chi e` il piu` bugiardo? Perche´ che siano bugiardi si sa, ma lei che li conosce meglio di me forse puo` aiutarmi a risolvere il dubbio ». Bettino Craxi Per lei un dubbio amletico. Mi colse di sorpresa, poi me la cavai con una battuta: « Concordo con lei che sono due grandi bugiardi, ma se proviamo a tirare una moneta in aria, sono sicuro che cadendo rimarrebbe dritta ». by dagospia

giovedì 12 aprile 2012

ROMITI AMARCORD - UMBERTO AGNELLI CONTRO L’AVVOCATO PER LA NOMINA DI JOHN ELKANN A “EREDE”: VOLEVA SUO FIGLIO ANDREA - AGNELLI ERA CONVINTO CHE BERLUSCONI AVREBBE AVUTO UNA VITA EFFIMERA - CUCCIA ERA AMICO DI LIGRESTI SOLO OPPORTUNISMO. CHE VENNE FUORI AI TEMPI DELLA PRIVATIZZAZIONE DI MEDIOBANCA: L'OPERAZIONE PASSÒ SOLO GRAZIE AI BUONI UFFICI DI LIGRESTI, CHE AVEVA OTTIMI RAPPORTI CON BETTINO CRAXI - IL GIORNO IN CUI BERLUSCONI CHIESE A CESARONE DI GUIDARE IL SUO IMPERO

Sergio Bocconi per il "Corriere della Sera" Cesare Romiti Umberto e Gianni AgnelliI libri-intervista spesso raccontano le vite degli altri, più che del protagonista. E anche in questo caso Cesare Romiti, rispondendo alle domande di Paolo Madron, narra, svela, cuce, ammicca, irride, critica e talvolta elogia, costruisce un ritratto individuale e collettivo della élite che con lui ha rappresentato e rappresenta la finanza e l'industria del nostro Paese. Personaggi e interpreti della Storia segreta del capitalismo italiano (Longanesi, pagine 288, 14,90, prefazione di Ferruccio de Bortoli) sono 210, fra imprenditori, banchieri, politici, giornalisti e anche qualche star dello spettacolo. Ma le figure chiave sono Enrico Cuccia e Giovanni Agnelli. Non poteva essere altrimenti, così come ritrovare ai primi posti del cast Carlo De Benedetti, al quale lo stesso Romiti ha chiesto un testo introduttivo al libro, cogliendolo di sorpresa: poi però fra i «due nemici necessari», definizione dell'ex top manager della Fiat, l'accordo alla fine non si trova e lo scritto (pubblicato qui sotto) viene rifiutato. Del resto, come conclude l'Ingegnere, «la storia la si racconta, non la si cambia». John Elkann Andrea Agnelli Ventiquattro anni dopo il suo primo libro-intervista ( Questi anni alla Fiat, con Giampaolo Pansa), Romiti riserva questa volta tanto spazio alle storie degli altri, viste da così vicino che il binocolo della memoria e della interpretazione riesce a riservare non pochi inediti. Lui sa di avere l'esperienza e l'età per concedersi talune «rivelazioni», tanto è vero che nel suo testo conclusivo, nel quale invita «coloro che oggi hanno 20, 30, 40 anni» a «fare una rivoluzione pacifica» e a «creare una nuova classe dirigente», dice di essersi ispirato per l'intervista a Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo: «Sono le memorie fantastiche di ottantenne immaginario. Io invece, veramente ottuagenario, posso scrivere un libro frutto di alcune mie reali memorie». Così rispondendo a Madron, fondatore e direttore del quotidiano online «Lettera43», Romiti coglie diverse occasioni per affidargli episodi che prima non ha «mai raccontato». Uno dei quali riguarda Silvio Berlusconi, in politica secondo lui sottovalutato da Agnelli («era convinto che avrebbe avuto una vita effimera, che non sarebbe durato molto»), ma imprenditore il cui fiuto lo porta a fare un'offerta a Romiti mentre è ancora in Fiat: «Voleva che andassi a dirigere il suo gruppo». Romiti rifiuta. Ha «in mente di fare altro» e poi aggiunge: «Non credo che con un padrone accentratore come Berlusconi avrei avuto grandi margini di manovra». Agnelli invece «voleva occuparsi solo delle strategie». Verso Giovanni Agnelli Romiti descrive una «fedeltà assoluta». Che si manifesta in particolare anche ai tempi di Tangentopoli: «Io volevo innanzitutto difendere l'azienda e naturalmente l'Avvocato». Rivela quindi che sono stati i magistrati del pool di Mani Pulite a «suggerirgli» di scrivere la lettera-articolo sul «Corriere della Sera» nella quale il 24 aprile 1993 si rivolge agli industriali invitandoli a collaborare con i giudici. Lealtà che ritorna fra l'altro nella occasione della nomina di John Elkann a «erede» dell'Avvocato in Fiat. Berlusconi e Agnelli (da Il Riformista) agnelli enrico cuccia Umberto Agnelli, racconta, voleva per la designazione suo figlio Andrea e nel corso del consiglio dell'Accomandita, la «cassaforte» della famiglia, dice: «Gianni, tu ci hai convocato oggi per decidere la designazione di John. Voglio venga messo agli atti che è esclusivamente una tua decisione». Romiti ribatte: «Io dissi che era una convinzione di tutti i presenti. Umberto replicò: "No, caro Romiti, è una decisione dell'Avvocato"». Una sola cosa di Giovanni Agnelli, confessa Romiti, «un po'» lo aveva infastidito: l'attrazione che su di lui aveva esercitato De Benedetti per il suo carisma. Ed è Cuccia, con il suo carisma «che resta il migliore esempio della differenza fra autorevolezza e autoritarismo», ad attrarre Romiti dal loro primo incontro, «intorno al 1968». Ne descrive «la superiorità intellettuale e morale», ma lo definisce anche «machiavellico» e con una «proverbiale abilità nell'usare le persone senza guardare in faccia a nessuno». Tanto è vero per esempio che a Salvatore Ligresti non l'unisce amicizia ma «solo opportunismo. Che venne fuori ai tempi della privatizzazione di Mediobanca: l'operazione passò solo grazie ai buoni uffici di Ligresti, che aveva ottimi rapporti con Bettino Craxi». «Tutto per il bene della sua banca che considerava perno e strumento della ricostruzione del capitalismo italiano: voglio ricordare che Cuccia è morto povero». Romiti difende il banchiere anche sull'episodio che gli è costato più critiche, il mancato avviso a Giorgio Ambrosoli che Michele Sindona lo voleva uccidere. Romiti ripete che il banchiere «disse al suo avvocato di avvertire i magistrati». Ma su queste vicende tragiche un'altra è la rivelazione. Il manager racconta che Cuccia gli ha descritto un suo incontro con Giulio Andreotti: «Parlarono del più e del meno, poi a bruciapelo Andreotti gli chiese: "Ma lei crede veramente che io sia corresponsabile dell'uccisione di Ambrosoli?" Diciamo che dopo la risposta di Cuccia il colloquio terminò». craxi agnelli Salvatore LigrestiPerò non il fondatore di Mediobanca è stato, per Romiti, il miglior banchiere italiano, bensì Raffaele Mattioli, presidente di Comit. E a Madron che gli cita Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, risponde così: «Bazoli è un avvocato che ha il grandissimo merito di aver salvato il Banco Ambrosiano. Ma non ha mai gestito la banca operativamente. E Geronzi nemmeno». Qui torna la «lente» di Cuccia, che «fu molto amareggiato quando vide che il marchio storico» della Comit «era scomparso dalla scena finanziaria». E che, sulla proposta di fondere Comit e Banca di Roma, poi non andata in porto «mi disse che non sapeva cosa ci fosse veramente dentro la Banca di Roma, e che temeva le conseguenze di quel matrimonio». by dagospia

IO ALLA FIAT CON GIANNI E CESARE COSÌ NEL 1976 LASCIAI L'AZIENDA»

Il brano che segue è un estratto di un testo (mai pubblicato) che Carlo De Benedetti, come spiega, aveva preparato per il libro autobiografico di Cesare Romiti (scritto con Paolo Madron). I dubbi espressi dall'Ingegnere all'inizio del testo erano premonitori. Romiti e De Benedetti non hanno trovato un accordo sull'impostazione Un giorno di gennaio di quest'anno mi dicono che c'è Romiti al telefono che ha urgenza di parlarmi. Prendo la chiamata e, con molta cordialità, Cesare mi dice che sta completando una sua autobiografia e che desidererebbe che io facessi una prefazione. Confesso che rimango sorpreso, ma piacevolmente, e gli rispondo di getto: «volentieri, se mi mandi il libro, lo leggo e poi ti richiamo». Lo leggo. Richiamo Romiti e gli dico: «Ma come faccio a farti la prefazione del libro quando su molte, troppe cose non sono d'accordo con te e in particolare non sono e non sono mai stato d'accordo con te su molti passaggi del capitolo "Io e Carlo De Benedetti: due nemici necessari?". CESARE ROMITI MARISELA FEDERICI - Copyright Pizzi Giovanni Spadolini, marella e Susanna Agnelli, Marco Benedetto, Cesare Romiti A cominciare proprio dal titolo di quel capitolo. Che cosa significa "due nemici necessari?"». Risposta pronta di Romiti: «Tu sai che noi ci siamo sempre, pur nelle differenze delle nostre opinioni, reciprocamente stimati. Scrivi quello che vuoi, compreso che non sei d'accordo». Ebbene, la mia reazione è: a un gesto di eleganza che francamente mi sorprende, non posso che accettare. Ricordo l'arrivo di Romiti in Fiat, come direttore amministrativo e finanziario. Io in quel momento ero presidente dell'Unione Industriale di Torino. Era il 1974. Di lui ho in mente quanto mi disse Cuccia: «I conti della Fiat non ci convincono e abbiamo deciso di mandare una persona di cui ci fidiamo per cercare di capire la vera situazione economica e finanziaria». ibe54 carlo debenedetti CESARE ROMITI ROSI GRECO Quella di Cuccia fu certamente una decisione giusta, perché nella mia ormai lunga esperienza di aziende non ho mai incontrato una persona che in questo specifico settore avesse la competenza, l'autorevolezza e la determinazione che aveva Cesare Romiti. Attraverso gli anni gli ho sempre riconosciuto queste caratteristiche e anche la rapidità e la professionalità con cui in pochi minuti era capace di analizzare bilanci e di memorizzarne i dati essenziali. Lo dimostrò anche alla Fiat, pur in un ambiente che era estremamente ostile alle immissioni dall'esterno di persone con alte responsabilità e deleghe. Aggiungo un'altra caratteristica peculiare di Romiti: la straordinaria capacità di gestire il potere che dimostrò in tutta la sua carriera in Fiat, tenuto anche conto che allora la Fiat era l'incontrastata e dominante potenza industriale del Paese. Ma su Romiti capo-azienda il mio è un giudizio critico. In mancanza di conoscenza del prodotto e di visione sul futuro di quella industria, Romiti si è concentrato sulle diversificazioni finanziarie della Fiat, trascurando Fiat Auto e facendo l'errore di privarsi di Ghidella, l'unica persona che conosceva bene il prodotto auto. Carlo De Benedetti Anche sul piano internazionale, prima dell'arrivo di Marchionne, le uniche alleanze della Fiat furono intuizione e realizzazione di Umberto Agnelli: sia quella che si concretizzò insieme alla Peugeot nella creazione di Sevel, sia nella non riuscita iniziativa con Hitachi nelle macchine movimento terra. A Romiti certo bisogna riconoscere un ruolo importante nel capitalismo italiano degli anni 80 e 90, gli anni che portarono peraltro al disastro del debito pubblico e ai colossali benefici che la Fiat ottenne dallo Stato e cioè dal contribuente italiano. deb49 carlo silvia debenedetti Il caso Alfa Romeo-Ford che Romiti ricorda è solo un episodio, peraltro certamente non trascurabile, delle contropartite che la Fiat ottenne in quegli anni e molto per merito di Romiti che interpretò nei rapporti con la politica in modo mirabile l'insegnamento che l'Avvocato Agnelli mi diceva avere ricevuto dal nonno e cioè che la Fiat deve essere governativa. E sempre lo fu, col fascismo, con la Democrazia cristiana, con Craxi. Ma questa è storia. Veniamo al mio impegno in Fiat, necessario per completare il quadro. Premetto che su questo punto Romiti, qualche anno fa, volle darmi atto in una conversazione a tre con un importante interlocutore che ero stato io in totale autonomia a decidere di lasciare la Fiat. Ebbene, negli ultimi mesi del 1975 Umberto Agnelli mi invitò a una colazione (erano frequenti i nostri incontri) nella sua villa nella tenuta di La Mandria e mi chiese improvvisamente, mentre parlavamo di Fiat: «Ma tu te la sentiresti di fare l'amministratore delegato della Fiat?». Io ne rimasi sorpreso e lusingato. Gianni agnelli e Jacqueline Kennedy agnelli umberto E GIANNI Dopo molte riflessioni e incontri con Umberto e con l'Avvocato, accettai la proposta, a due condizioni: 1) di vendere alla Fiat le mie azioni della Gilardini in quanto non volevo trovarmi in conflitto di interesse come fornitore della Fiat; 2) di avere in pagamento azioni Fiat perché non ho mai lavorato da manager puro, ma sempre da «padrone». Ci accordammo su questi due punti, dopodiché Umberto e l'Avvocato mi chiesero di gratificare il management interno con la nomina ad amministratore delegato anche di Romiti, con delega all'amministrazione e alla finanza. Accettai di buon grado perché Romiti aveva competenze superiori alle mie in quel settore. L'assetto di comando al mio ingresso in Fiat era: Avvocato Agnelli, presidente; Umberto Agnelli, vice presidente e amministratore delegato; io e Cesare Romiti, amministratori delegati; un comitato esecutivo presieduto da Umberto Agnelli a cui partecipavano, oltre a lui, io e Romiti, Nicola Tufarelli, allora capo dell'Auto. FIAT mirafiori mer20 cesare romiti È assolutamente vero che dopo qualche settimana in Fiat, siccome i bilanci li sapevo leggere anch'io ma anche le comparazioni tra le produttività nostre e quelle dei nostri concorrenti, andai dall'Avvocato e gli dissi: «bisogna mandare via 20.000 persone e 500/700 dirigenti». L'Avvocato mi chiese: «ma dove sono questi operai che lei vede in eccesso? Sono nei corridoi?». La mia risposta fu: «Sono nei numeri». Si preoccupò. Mi disse che doveva parlarne a Roma. Erano gli anni delle Brigate rosse. Tornò da Roma e mi disse: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile una operazione di questo genere». Da quel momento capii che la mia presenza in Fiat sarebbe stata del tutto frustrante, inutile all'azienda e lesiva del mio grande investimento in Fiat e decisi di andarmene. Lo dissi a Romiti, come giustamente lui ricorda; lo dissi a uno sbalordito Avvocato Agnelli che incontrai durante le vacanze di agosto a St. Moritz e lo dissi anche a Umberto anche se in quel momento lui non lavorava in Fiat e faceva il senatore. ghidella-agnelli qsie34 cesare romiti Quindi, nonostante le insistenze dell'Avvocato e di Umberto che vennero ripetutamente a casa mia a Torino per convincermi di non farlo, lasciai la Fiat e accettai, per fair play ma anche per senso di equità, di rivendere le mie azioni Fiat all'Ifi al prezzo che avevo pagato più gli interessi maturati, nonostante sapessi che nei mesi successivi le azioni si sarebbero ampiamente rivalutate per effetto del maxi prezzo pagato dai libici per entrare nel capitale della Fiat. La Fiat, che non poteva tollerare l'idea che questa fosse, come è e come Romiti ha riconosciuto, l'unica causa della mia uscita dall'azienda, si inventò fantasiose ipotesi di una mia «scalata» alla società con l'appoggio di non so quale solidarietà della finanza internazionale. Una «palla» totale anche perché: primo, non ho mai fatto parte di alcuna «consorteria» nazionale o internazionale; secondo, perché, ancor più dopo l'ingresso dei libici di cui ero al corrente, non avevo neanche lontanamente a quell'epoca i mezzi per un'operazione che non ho mai pensato neppure per un attimo di fare. Gianni e Margherita Agnelli il giorno delle nozze con John Elkann Certo, Romiti e io abbiamo avuto idee diverse in Confindustria, in Mediobanca, in Olivetti, in infinite circostanze. Ma non credo che fosse necessario che fossimo avversari. Avremmo potuto benissimo convivere nelle nostre differenze a beneficio di un contributo incisivo che insieme avremmo potuto dare al Paese come rappresentanti di due importantissime realtà industriali. Peccato! La storia la si racconta, non la si cambia. 2- CARLO E CESARE: I DUELLANTI DEL LINGOTTO Da: Storia segreta del capitalismo italiano (Longanesi) - di Paolo Madron Valeria Marini e Cesare Romiti ...In questo clima De Benedetti prese la palla al balzo per dare corpo alla sua idea di cambiare tutto in azienda. Secondo Carlo bisognava cacciare via quasi tutti i dirigenti, e cio` gli creo`, com'era ovvio che fosse, una infinita serie di contrasti. Poi, di punto in bianco, decise di andarsene. Avra` avuto le sue motivazioni. Un giorno, eravamo sul finire del luglio 1976, partecipammo a una riunione dell'Iveco in Lungo Stura e mentre andavamo la` in macchina lui mi disse: « Sai, Cesare, ho deciso di andarmene ». Gianni Agnelli durante un incontro a mosca nel 1984 con l'allora presidente dei ministri URSS Tichonov (lapresse) E lei che reazione ebbe? Gli dissi di riflesso: « Carlo, tu sei matto! Sei qui da meno di tre mesi ». E lui: « No, ho deciso cosı` perche´ qui non riesco a fare quello che ho in mente, quindi tanto vale che lasci ». Ora, come e` noto, De Benedetti era anche azionista perche´ aveva scambiato le azioni Gilardini con il 5% delle azioni della Fiat. La trattativa era stata condotta personalmente da Umberto e dall'Avvocato, ma siccome lui era molto abile negli affari, il valore attribuito alla Gilardini fu spropositato rispetto a quello attribuito alle azioni del Lingotto. Questo per dire che se fosse stato lei a fare la trattativa sarebbe andata diversamente? Certo, io a quei valori nettamente svantaggiosi per la Fiat non avrei mai concluso l'operazione. Che alla fine Carlo sfrutto` anche in chiave mediatica, perche´ gli consentiva di dire ai giornali che era diventato il piu` grande singolo azionista della Fiat, addirittura piu` dell'Avvocato, visto che le partecipazioni della famiglia Agnelli erano raggruppate in una societa`, l'Accomandita, divisa in tante quote possedute dai numerosi membri della famiglia. BERLUSCONI CARLO DE BENEDETTI I giovanissimi Andrea agnelli col padre Umberto e John Elkann col nonno Gianni E l'Avvocato non disse nulla? Apparentemente non batte´ ciglio, perche´ in questi casi Agnelli non aveva mai reazioni di tipo scomposto, e poi inizialmente era come ammaliato da Carlo. Era solo preoccupato, al di la` di quello che l'Ingegnere dichiarava ai giornali, dell'agitazione che aveva creato in azienda il fatto di sapere che De Benedetti voleva cambiare tutto e mandar via molta gente. Tanto che un giorno, e la cosa mi sorprese molto, mi chiamo` Umberto e mi disse: «Ma se per caso con De Benedetti le cose non dovessero andare, lei che fa, va via o rimane? » Gli risposi che sarei rimasto. Anche perche´ il modo in cui erano state suddivise le deleghe tra i tre amministratori delegati non creava interferenze: Umberto si occupava dell'auto e dei camion, De Benedetti degli altri settori non auto, io di finanza, amministrazione e personale. Quindi operavo in totale autonomia. John Elkann con Gianni Agnelli allo stadio Provi a descrivere l'attrazione che De Benedetti esercitava sull'Avvocato. Lo faccio raccontandole quel che mi diceva l'Avvocato di De Benedetti quando, appena arrivato in Fiat, era ancora poco conosciuto e lontano mille miglia dalla scena mediatica: « Caro Romiti, porto con me l'Ingegnere a Roma e a Milano, lo faccio partecipare a convegni e incontri, e ovunque riscuote un grande successo ». Insomma, credo che Agnelli provasse piacere nel vedere come le varie persone erano subito attratte dal carisma di quell'uomo. La stessa cosa che capitava a lui. Non le nascondo che un po' mi infastidiva. 7cap30 carlo debenedetti Tra lei e De Benedetti furono molte le occasioni di scontro? No, eravamo entrambi abbastanza navigati per saper evitare i conflitti diretti. Ricordo per esempio, una volta che non gli piacque per niente quando, in occasione dell'uscita di un bilancio Fiat, rilasciai un'intervista al Sole 24 Ore in cui raccontavo com'era andato l'anno di esercizio, niente di particolarmente clamoroso. Ma lui voleva essere il primo, soprattutto da quando aveva capito che Umberto avrebbe lasciato l'azienda per la politica. La sua ambizione fu alla base dei nostri contrasti, che non sfociarono mai in litigi veri e propri, quanto piuttosto in una conflittualita` strisciante e sotterranea. Nel caso di quell'intervista, l'Avvocato mi disse che De Benedetti era andato da lui a lamentarsi del fatto che prendevo iniziative senza avvertirlo. De Benedetti lascio` la Fiat nell'agosto del 1976, dopo appena tre mesi dal suo arrivo. Secondo lei aveva gia` in mente altro? Sostanzialmente se ne ando` perche´ aveva chiesto carta bianca senza pero` ottenerla. Poi, all'epoca, la Fiat risentiva ancora dei postumi della crisi petrolifera, i suoi bilanci erano veramente brutti. Non escludo che Carlo fosse convinto dell'impossibilita` di rimetterli in sesto, e che l'azienda fosse entrata in una fase di declino irreversibile. Sta di fatto che verso il 20 agosto, con gli stabilimenti ancora chiusi per ferie, Agnelli mi chiamo` pregandomi di tornare subito a Torino perche´ era stato trovato l'accordo per congedare De Benedetti. Gianni Agnelli lingotto Si disse che lei non fu spettatore neutrale della vicenda, ma che ebbe un ruolo attivo mettendo nell'orecchio dell'Avvocato la pulce che De Benedetti stava rastrellando azioni Fiat perche´ voleva scalarla. Una circostanza che l'interessato ha per altro sempre smentito. Non fui ne´ neutrale ne´ parte attiva. Mi limitai a far notare alla proprieta` che non si poteva andare avanti in quel clima di incertezza, che la notizia dell'uscita di De Benedetti o diventava ufficiale o era un continuo disturbo per l'immagine di una societa` quotata. Tanto piu` che all'esterno il peso dell'Ingegnere aumentava proprio per il fatto che non era un semplice manager, ma un azionista che deteneva una importante partecipazione nel capitale. Nella storia della finanza De Benedetti passa per un raider svelto, audace, un mago che sa leggere al volo i bilanci quant'altri mai. Invece lui ha sempre puntigliosamente difeso la sua vocazione di industriale puro. Ricordo una volta che eravamo insieme, e io ricostruendo i suoi inizi raccontai che le prime esperienze le aveva fatte in borsa, lavorando fianco a fianco con un agente di cambio. De Benedetti se la prese a male, e sbotto`: « Non e` vero, io non ho fatto esperienza in borsa, l'ho fatta in officina, nelle fabbriche ». Gianni Agnelli e Jacqueline Kennedy Umberto e Gianni Agnelli Come fu la vostra separazione? Alla fine di agosto Umberto Agnelli mi disse che avevano ricomprato da De Benedetti le azioni Fiat, mentre il gruppo rimaneva azionista della Gilardini. In questo modo le strade si separarono definitivamente. La sera di quello stesso giorno incontrai Carlo che mi disse: « Cesare, io me ne vado ma ho messo una condizione: che tu prenda il mio posto alla presidenza della Gilardini ». by dagospia

mercoledì 11 aprile 2012

Le responsabilità dell'euro se l'Europa va male

ra poche settimane la crisi dei debiti sovrani europei, che descrivemmo subito come crisi strutturale dell’euro, compirà un anno. Un anno perso. I 1.000 miliardi della Bce hanno avuto un effetto sintomatico, passato il quale si torna dove eravamo. Chi, oggi, dicesse che il risalire degli spread è colpa del governo Monti sarebbe un volgare imbroglione. Lo era anche chi lo sosteneva l’estate scorsa, addossando al governo italiano responsabilità che erano europee. Allora si gridò alla necessità di fare in fretta, dopo un anno si mormora senza avere il coraggio di riconoscere che noi azzeccammo la diagnosi, sostenendo che solo quella europea era la sede per risolvere il problema, mentre chi ci diede lezioni prese fischi per fiaschi, o, peggio, fece finta di non capire. L’asse Merkel-Sarkozy si mosse per tutelare le banche francesi e tedesche, impoverendo gli europei e trasformando l’Ue in un vincolo capace di bruciare ricchezza. Andava fermato, invece si scelse di assecondarlo e asservirglisi. Il risultato è deprimente: pressione fiscale intollerabile, sistema produttivo allo stremo, debito pubblico sempre più pesante rispetto al Pil (dato che il secondo scema). Un esempio da manuale di quanti errori si possano commettere agendo in base ad un pregiudizio, senza essere dotati di sufficiente cultura e prestigio politico. Sostenendo che la crisi dell’eurozona era riassorbita s’è commesso un terribile errore di valutazione. Affermando che quel successo è dovuto alle riforme italiane ci s’è addossati colpe che non erano nostre. Solo l’insipienza di partiti politici in stato confusionale consente al governo di non fare i conti con tali responsabilità. La sconfitta europea si misura nell’attesa del risultato delle presidenziali francesi, nella speranza che sia un elettorato nazionale, sfiduciato e incattivito (il fatto che la maggioranza relativa dei giovani manifesti consensi per Le Pen la dice lunga), a far saltare il banco. L’Europa che sognammo non è questa, e neanche le somiglia. La crisi poteva essere l’occasione per una maggiore integrazione e consolidamento istituzionale, invece ha fatto annegare ciascuno nei propri egoismi e miopie nazionali. Noi compresi, che ci tirammo gli spread nella schiena, come coltellate, felici di vendette miserabili. I greci sono tenuti in bancarotta, ma senza volerla chiamare con il suo nome. Gli spagnoli dismettono il welfare sanitario, ma non in una logica di riforma europea, come si dovrebbe, bensì in un inutile sforzo contabile. Gli italiani si stanno dissanguando pagando tasse che assecondano l’inutilissimo tentativo di mostrarsi diligenti nei confronti di una dottrina anti europea. Mentre i tedeschi finanziano i loro debiti senza pagare e alimentano la loro bilancia commerciale senza curarsi delle conseguenze. Aggiungete gli inglesi che si sono sganciati dal nuovo trattato, metteteci gli irlandesi che lo bocceranno e avrete chiaro il quadro di un’Unione che s’avvia a scomparire per insufficienza mentale e storica della classe dirigente europea. Noi italiani abbiamo, in più, un debito pubblico esagerato, che dovremmo cercare di abbattere e che, invece, c’incaponiamo a mantenere ciucciando via soldi a chi potrebbe produrre e consumare, per destinarli al rogo. La logica dell’allineamento ai dettami tedeschi non era sana, ma almeno avrebbe avuto un senso se avesse prodotto riforme a lunga gittata. Invece abbiamo fatto quella delle pensioni e lì ci siamo fermati, lasciando il resto in balia della logorrea impotente e supponente. Il dolore senza risultati alimenterà la rabbia, che metteremo sul conto di chi credette che quello italiano fosse un problema di stile, anziché di sostanza. C’era anche un problema estetico, certamente, ma occorre essere ottusi assai per considerarlo prevalente. La ricetta diversa c’è, l’abbiamo ripetuta e ci torneremo (tagliare sia il debito che le tasse, riformando il welfare e privatizzando). Un anno dopo, però, è urgente che s’esca dall’ipocrisia che da un anno ci ammorba: il problema non sono i conti italiani, o i trucchi greci, ma l’euro, e la soluzione consiste nel portare sovranità politica nella sua gestione, non nel cedere sovranità nazionale alla Bundesbank. Da un anno si va nella direzione sbagliata. Il tempo perso è costato a noi e all’Unione. Che altri ci abbiano guadagnato è un motivo in più per cambiare terapia. di Davide Giacalone www.davidegiacalone.it http://www.liberoquotidiano.it/news/977591/Le-responsabilità-dell-euro-se-l-Europa-va-male.html

LE LOGGE MASSONICHE ANGLO-AMERICANE NON VOGLIONO PIÙ BENE AL TEDESCO MONTI? - 2- DOPO “FINANCIAL TIMES”, ‘’WALL STREET JOURNAL” LO BASTONA PER DUE GIORNI DI SEGUITO CON LO STESSO EDITORIALE SULL'ART 18, E OPLA’ LA RASSEGNA STAMPA ONLINE SPARISCE DAL SITO DEL GOVERNO: “RICHIESTA DEGLI EDITORI PER IL RISPETTO DEL DIRITTO D’AUTORE”. MA I MINISTERI CONTINUANO A PUBBLICARLA TRANQUILLAMENTE - 3- IL TAGLIO ARRIVA A POCHI GIORNI DAL GIALLO DELLE LODI FANTASMA DI OBAMA A MONTI E L’ARTICOLO DEL “FATTO” NON SEGNALATO SULLA RASSEGNA STAMPA DI GOVERNO.IT - 4- SUL CORRIERE IL DUO ALESINA-GIAVAZZI TORNA A SBRANARE MONTI: IL GOVERNO SI È ARENATO, L’ECONOMIA CONTINUA A RALLENTARE, LO SPREAD RISALE, MA MISURE PER LA CRESCITA NON CI SONO: L’UNICA CERTEZZA È L’AUMENTO DELLE TASSE (IVA DAL 21 AL 23%) -

MONTI INCROCIA LE PENNE CON IL WALL STREET JOURNAL. E LA RASSEGNA STAMPA SPARISCE DAL SITO DEL GOVERNO (SU RICHIESTA DEGLI EDITORI) Filippo Sensi per "Europa Quotidiano" Va bene che repetita iuvant, ma il copione stavolta è talmente lo stesso che pare quel film sul giorno della marmotta, dove il tempo scorreva in loop nella amena cittadina americana di Punxsutawney.
Con Mario Monti, però, nella parte di Bill Murray a rivivere quotidianamente l'editoriale del Wall Street Journal sull'articolo 18, come fosse quella I got You, Babe di Sonny & Cher che lo svegliava inesorabile sempre alle 6 in punto. Così, quando ieri il quotidiano finanziario è tornato a bacchettare il premier per essersi «arreso» sulla riforma del lavoro «davanti a coloro che stanno conducendo il paese» verso un «abisso stile Grecia», la sensazione, fortissima, del déjà vu deve avere afferrato Palazzo Chigi. Che già sabato scorso aveva mandato una cortese letterina di precisazione di Monti, tanto sulla iniziale apertura di credito del giornale che lo aveva paragonato alla Thatcher, quanto sulla successiva bocciatura per le aperture sull'articolo 18 che al Wall Street Journal proprio non vanno giù. Il fatto è che sempre dello stesso editoriale si tratta, pubblicato venerdì scorso e ripubblicato ieri, nella edizione europea del quotidiano. Un bis in idem che, vista la giornata disastrosa dello spread e delle borse, all'inizio sembrava metterci il carico da dieci, per poi srotolarsi in un evanescente circolo vizioso. Per il quale lo staff del premier ha pensato bene di rinviare nuovamente alla precisazione di cui sopra, tanto per restare nel loop, appunto. BARACK OBAMA Margaret Thatcher È vero che il vincolo esterno è tornato a farsi sentire, eccome; vuoi come pressione di mercati e poteri forti che condizionano le chances della nostra ripresa, vuoi come sponda per consentire al governo tecnico di ricordare agli stakeholder politici che la tempesta non si è affatto placata ragion per cui chi pensasse di staccare adesso la spina sarebbe un pazzo suicida. Risiamo punto e daccapo, insomma. Nella ruota della marmotta. Con un aiutino, però, chissà quanto intenzionale. Da ieri, infatti, la rassegna stampa di Palazzo Chigi è sparita dal sito del governo.
Ufficialmente su «specifica richiesta avanzata dalle associazioni degli editori nel rispetto del diritto d'autore» (d'ora in poi sarà disponibile solo sulla rete Intranet ai dipendenti della presidenza del consiglio). Magari, però, come qualche maligno potrebbe pensare, dopo il pasticcio sugli elogi attribuiti a Barack Obama a proposito del premier italiano e un articolo misteriosamente saltato dalla rassegna stampa dell'esecutivo, per darci un taglio con queste critiche, chissà quanto interessate, che sono tornate a piovere da fuori. Illazioni senza fondamento, figurarsi. Tanto domani, rassegnati o meno, la sveglia a Palazzo Chigi sarà puntata comunque alle sei, sul fuso di Punxsutawney. 2- RASSEGNE ONLINE: NEI SITI DEI MINISTERI RIMANGONO VISIBILI, SOLO GOVERNO.IT L'HA CASSATA L'avranno anche chiesto gli editori, ma al momento l'unico che si è adeguato al divieto di accesso pubblico per le rassegne stampa online sembra essere il sito di Palazzo Chigi. A differenza di "governo.it", nei siti di gran parte dei ministeri le rassegne stampa rimangono visibili a tutti gli utenti. Basta navigare sui portali dell'Interno (http://www.interno.it/mininterno/site/it/sezioni/sala_stampa/rassegna_stampa/), Difesa (http://www.difesa.it/Sala_Stampa/rassegna_stampa_online/Pagine/giorno.aspx?d=11/04/2012), Esteri (http://stampanazionale.esteri.it/), Infrastrutture (http://195.45.104.212/datastampa/List.aspx?Date=Today)... Il ministero dell'Economia aveva provveduto da alcuni mesi a rendere visibile la rassegna solo alla intranet interna, mentre i siti di Camera e Senato continuano a pubblicarla regolarmente. 3- SUL CORRIERE IL DUO ALESINA-GIAVAZZI TORNA A SBRANARE MONTI Alberto Alesina e Francesco Giavazzi per il "Corriere della Sera" FINANCIAL TIMES MARIO MONTI ED ELISABETTA BETTY OLIVI Il quarto trimestre del 2011 è stato molto negativo per l'economia italiana: il reddito si è contratto dello 0,7% rispetto al trimestre precedente. In un anno la spesa delle famiglie è scesa di oltre un punto, gli investimenti delle aziende di oltre 3. È assai probabile che il primo trimestre del 2012 sia andato ancor peggio. Lo sapremo fra circa un mese, ma non è il caso di farsi illusioni. E bisogna agire d'anticipo anche perché, dopo qualche mese di calma, il costo del debito ha ricominciato a salire: dal 4,8 di un mese fa al 5,6 di ieri per i Btp decennali. Se la crescita continuasse a essere in rosso è quasi certo che mancheremo l'obiettivo di ridurre il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo (Pil), dato che il denominatore, il Pil appunto, scenderà. Come è successo con la Spagna, l'Unione Europea ci chiederà di fare qualcosa per riavvicinarci agli obiettivi di bilancio per il 2012 e 2013. A quel punto, come reagirà il governo Monti? La risposta più semplice è anche quella sbagliata: non far nulla. Dal primo ottobre aumenteranno le due aliquote principali dell'Iva, rispettivamente dal 10 al 12 per cento e dal 21 al 23. Gli aumenti avverranno in modo automatico, per effetto di un provvedimento varato a suo tempo dal ministro Tremonti, che questo governo non ha cancellato. Questa soluzione colpirebbe ulteriormente famiglie e imprese che già soffrono, non solo per il peso fiscale, ma anche per l'incertezza sul futuro delle aliquote. Quanto dovremo pagare per l'Imu? Ancora non si sa, e anche questo non aiuta a pianificare consumi e investimenti, sia italiani sia esteri. alberto alesina Un'alternativa sarebbe stata dare un impulso alla crescita, cosa non facile, ce ne rendiamo conto, ma che purtroppo non è accaduta. La riforma del mercato del lavoro, così come concepita originariamente, andava nella direzione giusta. Ma ha perso efficacia prima ancora di approdare in Parlamento (ad esempio, non si applica ai lavoratori pubblici) e probabilmente ne uscirà (se uscirà) ulteriormente annacquata, come è accaduto ai provvedimenti sulle liberalizzazioni. Immaginatevi cosa sceglierà di fare un imprenditore estero che stesse valutando l'apertura di un'azienda in Italia sapendo che potrebbe essere non lui, ma un giudice a decidere in che modo gestire i suoi dipendenti. Francesco Giavazzi L'unica carta che rimane da giocare è quella della «spending review», l'analisi, una per una, delle spese delle amministrazioni pubbliche per decidere dove si può tagliare. È un lavoro che il governo Monti ha giustamente iniziato dal primo giorno, ma del quale non si vede ancora il risultato. Non c'è dubbio che la spending review sia un'idea migliore dei tagli lineari tentati dall'ex ministro Tremonti. Tagli uguali per tutti evitano di dover concertare con questo o quel ministro, con questa o quella categoria, con questa o quella lobby. Ma è un modo inefficiente e ottuso di ridurre la spesa, perché non distingue fra uscite inutili e spese necessarie. Il rischio, però, è che la spending review, addentrandosi nei meandri del bilancio, finisca per concludere che ogni spesa è necessaria perché c'è una lobby che la difende, come ad esempio i circa 30 miliardi di euro che ogni anno lo Stato paga a imprese pubbliche e private per i motivi più svariati. Se l'alternativa è non far nulla, meglio allora tagli lineari. Il tempo stringe. L'essenziale è che nelle prossime (poche) settimane il governo spieghi che cosa e come intende ridurre il peso dello Stato sull'economia. Tremonti Non ci sono scappatoie. Pensare che sia con la spesa pubblica (come suggeriva ieri il Financial Times) che si riprende a crescere è un errore grave. Il governo deve fare l'esatto contrario. Dare a consumatori e imprenditori un messaggio chiaro: le tasse non aumenteranno perché le spese scendono. Senza queste certezze, consumi e investimenti continueranno a rallentare. E il mondo a guardarci con rinnovata preoccupazione. by dagospia

IKEA “RIMONTA” L’ITALIA - GLI SVEDESI PREFERISCONO RIFORNIRSI IN ITALIA E SNOBBANO LA CINA: IL VENETO CONTA PER IL 38%, SEGUONO IL FRIULI CON IL 30% E LA LOMBARDIA CON IL 26% DELLE FORNITURE “MADE IN ITALY” (IL SUD NISBA?) - QUALITÀ MIGLIORE E PREZZI PIÙ BASSI PORTERANNO IL COLOSSO SVEDESE DELL’ARREDO A INVESTIRE OLTRE 1 MLD € - L’AD PETERSSON METTE IL DITO NELLA PIAGA: “L’ART.18 NON È UN PROBLEMA, MA I TEMPI INCERTI DELLA BUROCRAZIA E DELLA POLITICA”…

Filippo Santelli per "la Repubblica" ikea Non sarà la prima azienda, né l´ultima, a spostare la produzione dove più conviene. Ma è una delle poche a preferire l´Italia alla Cina, e non viceversa. Per questo le parole di Lars Petersson, amministratore delegato di Ikea nel nostro Paese, suonano inedite: «Di recente abbiamo individuato nuovi fornitori italiani che hanno preso il posto di partner asiatici», ha spiegato ieri. «Sanno produrre articoli di qualità migliore e a prezzi più bassi». Per poi ribadire in serata, ai microfoni di Radio24, che nel Paese il gruppo vuole investire ancora, nonostante alcuni ostacoli: «Non l´articolo 18, ma i tempi incerti della burocrazia e della politica». In Italia il colosso svedese già conclude l´8% dei suoi acquisti globali. Terzo fornitore mondiale, dietro a Cina e Polonia, e primo nel settore delle cucine. Una percentuale destinata a crescere dopo gli ultimi accordi, che coinvolgono produttori piemontesi. Manuex, azienda di Biella, è nata lo scorso anno e lavora solo per Ikea: «Facciamo cassetti», racconta l´amministratore delegato Giancarlo Formenti. «Al momento impieghiamo 100 persone, ma saranno 200 a fine anno, quando avremo avviato tutte le linee. A regime ci aspettiamo un fatturato di 40-50 milioni di euro». E in Piemonte sono altre due le intese annunciate dal colosso svedese: con un´azienda di Verbania per l´acquisto di rubinetti, e una di Novara per la fornitura di giocattoli. «Il mondo cambia», commenta Giancarlo Corò, professore di Economia all´Università Ca´ Foscari di Venezia, esperto di mercati globali. «La manodopera in Asia è diventata più costosa e il caro petrolio incide sui costi di trasporto: produrre in Cina non è più così conveniente». IKEA Lars Petersson Ma invita alla prudenza: «Non si può parlare di una tendenza generale. Per Ikea l´Europa è il primo mercato, questo pesa nella scelta». E la sua domanda di mobili si è incontrata con le difficoltà del settore in Italia: «L´alto di gamma ha subito molto la crisi», continua Corò, «così per molti subfornitori convertirsi alla grande distribuzione è stata l´unica strada per sopravvivere». Al momento sono 24 le aziende italiane che vendono a Ikea, per un indotto di circa 1 miliardo di euro e 2.500 posti di lavoro. «Questo da tempo fa del gruppo svedese il primo cliente della filiera italiana dell´arredo», si legge in una nota della società. Le prime tre regioni italiane in cui Ikea compra corrispondono ai maggiori distretti del settore: il Veneto conta per il 38%, seguono il Friuli con il 30% e la Lombardia con il 26%, nel complesso numeri più grandi che in Svezia o Germania. «Noi abbiamo iniziato nel 1997», racconta Luca Corazza, direttore commerciale della pordenonese Friulintagli. «Fatturiamo con Ikea 300 milioni di euro, tre quarti delle nostre entrate annuali. Realizziamo per loro camere, cucine e soggiorni». Il boom delle richieste dal 2004 in avanti: «Da allora cresciamo in media del 16% all´anno. Oggi lavorano per noi 1.100 persone». ikea La presenza crescente di Ikea in Italia si misura nel numero dei punti vendita. Saliti a 19 quest´anno e destinati a diventare 20 nel 2012, con l´apertura di un nuovo megastore vicino a Pescara. Per riempire quegli scaffali la società chiederà ancora di più ai suoi partner italiani, articolo 18 o no: «I contratti attuali non sono flessibili, ma noi cresciamo insieme alle persone con cui lavoriamo», ha concluso Lars Petersson. «Le aziende italiane hanno dimostrato di essere molto flessibili rispetto alle nostre richieste». by dagospia