Come spesso è accaduto in questo Paese, dopo il verificarsi di fatti gravi si è giunti a stabilire una verità giudiziaria non sempre del tutto esauriente, che non chiarisce dunque la reale portata degli eventi e delle responsabilità.
La verità sul caso Cirillo è stata acclarata della Commissione parlamentare Violante del 1994, dalla Commissione stragi, dal Comitato parlamentare di controllo sui servizi di sicurezza; esistono le testimonianze rese dai camorristi e dei terroristi delle Brigate rosse pentiti; esistono i fatti faticosamente ricostruiti con meticolosità dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Napoli. Quali sono allora i tasselli mancanti? Sono le “verità” dei politici?
Il sequestro e la trattativa segreta per il rilascio dell’assessore regionale campano ai lavori pubblici, divenuto poi vicepresidente del comitato tecnico per la ricostruzione delle zone terremotate, è un’incredibile intreccio di interessi del quale quasi nessuno ha voglia di approfondire per davvero le dinamiche che ruotano attorno al sequestro dell’assessore.
Il successivo caso giudiziario di Enzo Tortora avrebbe contribuito a oscurare in parte questa torbida vicenda.
Il sequestro. Impiegato alla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura a Napoli, Ciro Cirillo, esponente della corrente gavianea della Democrazia cristiana, negli anni Sessanta ricoprì la carica di segretario provinciale del partito. Nel 1969 divenne presidente della Provincia di Napoli e nel 1979 fu eletto presidente della Regione Campania nel 1979. Nel 1981 ottiene la nomina ad assessore regionale ai lavori pubblici. A seguito del tremendo sisma che colpì l’Irpinia nel 1980 divenne vicepresidente del Comitato tecnico per la ricostruzione.
Si trattava di un ruolo chiave, poiché ricoprendo quella carica egli divenne l’anello fondamentale di un vasto sistema di potere, al centro di giganteschi interessi alimentati dagli stanziamenti erogati dallo Stato per la ricostruzione delle zone terremotate in Campania. Cirillo si trovò a gestire migliaia di miliardi di lire, un affare valutato in 64.000 miliardi di lire dell’epoca, con stanziamenti la cui erogazione venne prevista fino all’anno 2023.
La vicenda relativa al suo sequestro e alla trattativa segreta che ha portato al suo rilascio va dunque molto al di là di una «semplice» azione terroristica.
Alle ore 21:45 del giorno 27 aprile 1981, Ciro Cirillo fu sequestrato nell’autorimessa della sua abitazione in via Cimaglia a Torre del Greco da un commando di cinque terroristi delle Brigate rosse capeggiati da Giovanni Senzani.
Nel corso del conflitto a fuoco persero la vita l’agente di scorta che gli era stato assegnato (il maresciallo di Pubblica Sicurezza Luigi Carbone) e il suo l’autista, Mario Cancello, inoltre venne gambizzato il suo segretario, Ciro Fiorillo.
Cirillo venne poi rilasciato alcuni mesi dopo, il 24 luglio, all’interno di un palazzo abbandonato in via Stadera, a Poggioreale. Il giorno prima le Brigate Rosse avevano comunicato la sua liberazione dietro il pagamento di un riscatto di un miliardo e 450 milioni di lire, denaro che come sostenne in seguito lo stesso Cirillo «era stato raccolto da amici».
Il pagamento del riscatto era avvenuto tre giorni prima a bordo di un tram nel quartiere romano di Centocelle.
Tuttavia, il riscatto non consistette soltanto nel miliardo e 450 milioni di lire, ma anche armi e di un elenco di poliziotti e magistrati da eliminare. Oltre alla simbolica requisizione degli alloggi sfitti di Napoli richiesta e ottenuta da Senzani per sistemarvi i senzatetto, all’indennità per i terremotati e alla pubblicazione dei comunicati e dei verbali degli interrogatori ai quali Cirillo dovette sottostare.
La colonna napoletana delle Brigate rosse. La particolarità che contraddistinse la colonna napoletana delle Brigate rosse fu quella che essa era l’unica struttura terroristica attiva in Italia a operare con una certa stabilità a sud del Lazio, giungendo ad assassinare anche importanti esponenti della Democrazia cristiana in zone del Paese controllate dalla criminalità organizzata.
Essa era formata da vari personaggi, dai piccoli leader dell’autonomia operaia romana ai parenti di camorristi. Il capo dell’organizzazione, Giovanni Senzani, ideologo della nuova linea d’azione delle Brigate rosse tutta concentrata al meridione, dove esisteva un immenso bacino di potenziale consenso alla lotta armata formato da quello che i terroristi definivano come il «proletariato illegale», che spaziava dal contrabbandiere di sigarette sfruttato al rapporto con la camorra.
Tuttavia, Senzani non era certamente un personaggio cristallino, poiché ritenuto in contatto con i servizi segreti. In quella particolare fase del terrorismo brigatista, le fratture interne all’organizzazione ne avevano portato una parte (quella guidata da Senzani, appunto) a perseguire una strategia finalizzata alla costruzione di un “fronte meridionale” in alleanza con la criminalità, sia quella marginale che quella organizzata.
La trattativa segreta. La liberazione di Cirillo fu ottenuta grazie a una serie di oscuri intrecci mai del tutto chiariti tra servizi segreti (allora ancora guidati da funzionari e ufficiali iscritti alla P2), camorristi di Cutolo e terroristi delle Brigate rosse.
Ma col passare dei giorni, inevitabilmente prese corpo il caso Cirillo, cioè un groviglio di uomini politici in processione da Raffaele Cutolo nella cella del carcere di massima sicurezza di Ascoli Piceno dove il boss della Nuova camorra organizzata era detenuto.
Ascoli, un carcere il cui livello di sicurezza avrebbe dovuto essere superiore a quello medio degli altri (a quel tempo non era stato ancora varato l’articolo 41bis) fu uno dei luoghi principe della trattativa segreta intavolata dai servizi segreti con i terroristi delle Brigate rosse al fine di ottenere la liberazione dell’assessore democristiano sequestrato.
Il giudice istruttore Alemi, titolare dell’inchiesta sul sequestro, accertò che vi avevano avuto accesso personaggi di ogni risma: funzionari dei servizi segreti, collaboratori esterni, persone del tutto estranee al mondo giudiziario come politici, faccendieri, camorristi (alcuni dei quali addirittura latitanti). Tutti incontrarono il capoclan.
In seguito, la Corte di Appello accertò in maniera indubitabile e definitiva che, verificatosi il sequestro di Ciro Cirillo, immediatamente intervennero i servizi di sicurezza e che questi ripetutamente contattarono Raffaele Cutolo al fine di sollecitarlo e quindi convincerlo, ad avvalersi dell’organizzazione di cui era capo indiscusso per ricercare una linea di trattativa con i brigatisti rossi.
1981, il contesto. Nei primissimi anni Ottanta a Napoli e nell’hinterland si combatté una sanguinosa guerra di camorra che fece migliaia di vittime, la Campania era divenuta una terra senza legge.
Si affrontarono due schieramenti criminali molto potenti, la Nuova camorra organizzata, facente capo al boss di Ottaviano Raffaele Cutolo, e la Nuova famiglia, aggregazione di vari gruppi e clan.
Il carcere di Poggioreale era diviso a metà, in una sua parte i detenuti di un’affiliazione, nell’altra i loro nemici. Addirittura, a volte all’interno dei padiglioni le due fazioni giunsero a spararsi colpi di pistola.
In parallelo, sul territorio, si andava consumando l’inizio della fine della Democrazia cristiana.
Dilanianti scontri correntizi interni acuirono una crisi morale segnata dalla distanza incolmabile tra l’ispirazione e la prassi di una politica divenuta incapace di essere alternativa a sé stessa.
La posta in gioco era molto alta, l’obiettivo delle correnti Dc era il controllo dell’enorme massa di finanziamenti alla ricostruzione, denaro col quale avrebbero potuto alimentare le proprie macchine politico-clientelari. Prevalere in quella guerra avrebbe significato controllare il partito e quindi anche lo Stato. Insomma, si trattava del potere.
Non è casuale che in quella fase della Prima Repubblica a Napoli e in Campania gravitarono numerosi personaggi di spicco scudocrociati: ministri, parlamentari e capicorrente.
Inoltre, va ricordato sia i vertici che molti quadri dello Stato italiano risultarono affiliati alla loggia massonica P2 del gran maestro Licio Gelli.
Da tre anni Aldo Moro è stato assassinato dalle Brigate rosse, il Paese aveva una politica instabile ed era alla ricerca di una via di uscita dalla crisi economica, mentre doveva fare contestualmente fronte alle mutevoli dinamiche internazionali che lo stavano coinvolgendo direttamente.
La loggia massonica P2. Lo scandalo esploso con la scoperta degli elenchi della loggia massonica P2 di Licio Gelli attraversò anche il caso Cirillo. Il sequestro dell’assessore democristiano viene compiuto nell’aprile 1981, la perquisizione a Villa Vanda era avvenuta pochi giorni prima, il 17 marzo.
Il ritrovamento di quegli elenchi ebbe almeno un paio di conseguenze che si incrociarono con il caso napoletano.
I tre elementi di vertice dei servizi segreti italiani da poco riformati, erano tutti e tre piduisti, di risulta le strutture di informazione e sicurezza divennero apparentemente acefale, con l’effetto che a occuparsi dell’importante trattativa furono ufficiali e funzionari di grado inferiore. In realtà, però, quei generali piduisti fino a pochi giorni prima ai vertici del Sismi, cioè Giuseppe Santovito e Pietro Musumeci, vennero richiamati in servizio allo scopo di gestire la trattativa segreta.
Si ricorse a una procedura del tutto anomala, che vide per altro il Musumeci provenire da un ufficio del servizio segreto militare che non aveva competenza per materia in ordine a quello specifico tipo di attività.
Tutto (o quasi) il sequestro venne affrontato da un governo dimissionario (l’esecutivo a guida Forlani), che rimase in carica esclusivamente per il disbrigo dell’ordinaria amministrazione in attesa di nuove elezioni.
Una lunga crisi di governo che, a sua volta, partorì un altro fatto di rilevanza storica per il Paese, infatti, per la prima volta nella storia della Repubblica un non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini, divenne Presidente del Consiglio dei ministri.
I servizi segreti. Sentenza della Corte di Appello stabilì «un’inosservanza da parte dei servizi di sicurezza dei loro compiti istituzionali, che gli imponevano, con operazioni di polizia, la ricerca e l’acquisizione di ogni utile informazione per individuare i sequestratori e liberare l’ostaggio».
Perché i servizi segreti si rivolsero proprio a Cutolo? Perché non ad altri referenti di calibro allora attivi nella città e nel suo hinterland, come ad esempio Zaza, Bardellino o Alfieri?
Perché in quel momento la Nuova camorra organizzata comandava nelle carceri italiane e, quindi, i suoi affiliati poterono stabilire utili contatti ai fini della trattativa con i terroristi.
Perché il vicedirettore del Sisde (Antonio Parisi) investì dell’incarico il dottor Giorgio Criscuolo, inviandolo ad Ascoli Piceno a chiedere aiuto a Cutolo?
Probabilmente perché quel funzionario del Sisde era originario di Castellamare di Stabia, i politici democristiani Gava e Patriarca.
Quello della trattativa segreta per il rilascio di un ostaggio non andrebbe considerata del tutto riprovevole, poiché i servizi segreti, beneficiando delle loro garanzie funzionali, sono sciolti dagli obblighi procedurali che gravano sulla polizia giudiziaria.
Se il contatto con il boss camorrista fosse stato esclusivamente finalizzato all’acquisizione di informazioni utili alla scoperta del covo-prigione brigatista dove era tenuto prigioniero Cirillo non ci sarebbe stato nulla da eccepire, invece gli uomini dei servizi si accordarono con Cutolo per risolvere la situazione, ma anche a beneficio di tutti, inclusi camorristi e terroristi.
La magistratura napoletana, l’inchiesta e il processo. Quindici giorni dopo il sequestro di Ciro Cirillo il dottor Antonio Ammaturo, dirigente della Squadra Mobile della Questura di Napoli, grazie alle sue fonti nella malavita camorristica era già al corrente del fatto che Antonio Gava e Francesco Patriarca (senatore Dc suo braccio destro) si stavano muovendo per liberare l’assessore democristiano sequestrato dai terroristi.
Ammaturo redasse un dossier che inviò al Viminale, ma dopo la sua morte – il poliziotto venne assassinato – le carte scomparvero misteriosamente. I cassetti della sua scrivania furono completamente svuotati, mentre suo fratello Evasio, al quale il vicequestore assassinato aveva consegnato copia di quello scottante dossier, perì poco tempo dopo in Tunisia a causa di un incidente stradale. Si fece dunque il vuoto.
Il sequestro di Ciro Cirillo si lasciò dietro una scia di morti tanto anomale quanto inquietanti, tutti potenziali o effettivi testimoni.
Al dottor Carlo Alemi, giudice istruttore a Napoli, venne affidata l’inchiesta sul sequestro e il successivo rilascio dell’assessore democristiano. Egli chiuse l’istruttoria nel 1984 emettendo una sentenza ordinanza di oltre 1.100 pagine. Il suo impianto accusatorio venne confermato nei successivi gradi di giudizio del processo, e a carico degli imputati verranno irrogati trenta ergastoli e complessivi seicento anni di reclusione.
Il clima a Palazzo di Giustizia era oltremodo teso. Era da poco esploso lo scandalo dei quaranta magistrati collaudatori delle opere della ricostruzione post-sisma, lautamente pagati da coloro che, invece, avrebbero dovuto controllare, cioè chi quelle opere aveva realizzato. Era una magistratura pesantemente condizionata dal potere politico.
Fu il Commissario straordinario per il terremoto in Irpinia, il democristiano friulano Pio Fantin, ad assegnare ai magistrati il compito di sovraintendere alla legalità dei collaudi; il Consiglio Superiore della Magistratura si disse contrario e allora i magistrati napoletani fecero ricorso al Tribunale amministrativo regionale della Campania. Un ricorso che vinsero, anche perché a presiedere i Tar c’era uno di loro, un “giudice collaudatore”.
Nel 1981 sedici avvocati penalisti figli di magistrati esercitavano nello stesso distretto nel quale erano stati assegnati i loro padri.
Ma non bastava. I livelli apicali della Questura erano in stretti rapporti con i ras politici locali. Il questore di Napoli, Pasquale Colombo, era il fratello di Emilio Colombo, a quel tempo uno degli esponenti più potenti della Democrazia cristiana. Alcuni poliziotti facevano il doppio gioco, mentre qualche direttore di carceri si era posto al servizio della criminalità organizzata.
Questi erano gli organismi istituzionali che avrebbero dovuto controllare la regolarità delle assegnazioni degli appalti e delle realizzazioni delle opere della ricostruzione.
Quattro giudici dell’Ufficio istruzione rifiutano il fascicolo del caso Cirillo e il Capo dell’Ufficio fu costretto quasi ad obbligare Alemi a occuparsene.
Ma i magistrati investiti della conduzione dell’inchiesta vennero subito spiati dai servizi segreti. Essi ebbero consapevolezza di essere stati “attenzionati” anche dai terroristi delle Brigate rosse.
Una fonte di Alemi gli rivelò che i servizi segreti erano alla spasmodica ricerca di un elemento che potesse far esplodere uno scandalo che lo coinvolgesse, meglio se di natura sessuale. Volevano demolire la sua reputazione, la sua figura. Era evidente che apparati «deviati» dello Stato agirono per ostacolare il regolare corso della Giustizia.
Il giudice istruttore ricevette attacchi dalla politica, da Vincenzo Scotti, Ciriaco De Mita, Flaminio Piccoli e Antonio Gava. Quest’ultimo, un giorno, dopo un colloquio con lui sul caso Cirillo, si sfogò ad alta voce esclamando: «Ma ‘sto figlio di puttana come fa a sapere tutte queste cose…»
Il quotidiano napoletano “Il Mattino”, giornale del sistema di potere locale, allora diretto da Pasquale Nonno, pubblicò una lunga serie di editoriali contro Alemi. “Il Mattino” all’epoca era ancora di proprietà della Dc, sarebbe poi stato ceduto al Banco di Napoli.
Alemi venne messo sotto accusa anche dal ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Giuliano Vassalli, e suo carico fu avviata una procedura presso il Consiglio superiore della magistratura, che però alla fine avrebbe rilevato il suo operato corretto, assolvendo il giudice istruttore all’unanimità.
A Napoli nel 1985 si sarebbe celebrato il maxiprocesso alla camorra, che avrebbe visto tra gli imputati anche Enzo Tortora. Il calvario giudiziario del giornalista e uomo di spettacolo genovese era iniziato due anni prima con il suo arresto. La sua drammatica vicenda avrebbe contribuito a oscurare quella del caso Cirillo
Del caso relativo al sequestro, alla trattativa e al rilascio dell’assessore democristiano campano Ciro Cirillo, insidetrend.it ne ha trattato con il giornalista Valter Vecellio, della Rai e di Radio Radicale. È possibile ascoltare l’audio dell’intervista di seguito.
A169 – CASO CIRILLO, LA TRATTATIVA STATO-BRIGATE ROSSE PER IL TRAMITE DELLA CAMORRA: un’incredibile intreccio di interessi che nessuno ha voglia di approfondire per davvero. Intervista con VALTER VECELLIO, giornalista della Rai e di Radio Radicale che si è occupato del caso.
L’opacità dei comportamenti di uno Stato che assunse il volto inquietante di chi trattava con i terroristi per il tramite della camorra, questo nel momento in cui in Campania piovevano le migliaia di miliardi di lire della ricostruzione post-sisma. Per la Dc di allora l’assessore campano fu più importante di Aldo Moro? Il successivo caso giudiziario di Enzo Tortora contribuì a “oscurare” la torbida vicenda precedente? insidertrend.it ha ripercorso la vicenda con Valter Vecellio, giornalista ed esponente del Partito Radicale
https://www.insidertrend.it/2019/07/24/sicurezza/terrorismo-misteri-italiani-38-anni-fa-il-rilascio-dellassessore-dc-ciro-cirillo-sequestrato-dalle-brigate-rosse/
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