mercoledì 18 luglio 2012

Draghi: i signori del rating giocano sporco

Il presidente Bce alla Procura di Trani: "Le agenzie Usa in conflitto d'interesse, giudicano i loro azionisti"

«Conosco il fenomeno, che esiste ed è documentato. Vi è un conflitto tra analisti e uffici che producono il rating. Va rammentato che le società che proponevano i prodotti strutturati soggetti a rating erano società da cui dipendevano quelle stesse agenzie». Parole testuali di Mario Draghi, numero uno della Bce, che, se non fossero sufficientemente chiare, tratteggiano un colossale conflitto d'interessi, dunque. E le parole escono dalle carte, quelle non da gioco, ma dei documenti e dei faldoni all'esame del pubblico ministero di Trani, Michele Ruggiero e della Procura di Bari nell'ambito dell'inchiesta sulle agenzie di rating e sul declassamento del nostro sistema bancario operato da Moody's il 6 maggio 2010.
Un'inchiesta che può contare appunto su una testimonianza ,che i magistrati ritengono di fondamentale importanza, come è emerso ieri, da un servizio in esclusiva proposto dal TG5 delle 20 e realizzato dal collega Andrea Pamparana.
Il 24 gennaio 2011 Draghi, quando era ancora governatore della Banca d'Italia venne sentito dal magistrato e dalla Guardia di finanza negli uffici di via Nazionale proprio in merito al declassamento di Moody's del 6 maggio 2010. Non solo Draghi tratteggiò già allora in modo chiaro ed esplicito il conflitto d'interessi caratterizzato dal curioso modus operandi delle agenzie ma si sentì in dovere di precisare : «Il sistema bancario italiano è robusto. Il deficit di parte corrente è basso, il risparmio è alto. Il debito complessivo di famiglie, imprese e Stato è basso rispetto ad altri Paesi. L'aumento di volatilità nel prezzo dei titoli è - questa è l'altra la pesante accusa di Draghi nella sua testimonianza - un sicuro danno derivante da queste valutazioni». Perché? Perché come spiega Draghi al magistrato «proprio a seguito di giudizi negativi gli investitori non trovano conveniente sottoscrivere titoli di banche e gli stessi titoli di Stato». Draghi nella sua testimonianza ricorda infine al pm di Trani come la credibilità delle tre agenzie di rating sia diminuita dopo le errate valutazioni negli Stati Uniti sui cosiddetti mutui subprime nell'agosto 2007.
E ora come la mettiamo? Forse sarebbe meglio esprimere sentenze di decapitazione finanziaria con molta ma molta più prudenza. Far quadrare i conti per quelli che sono realmente e smettere di cambiare le carte in tavola a seconda delle «strane» convenienze del momento. Già, perché se è vero che gli investigatori sono oramai giunti alla conclusione che gli analisti di Moody's Abercromby e Wassemberg «fornivano intenzionalmente ai mercati finanziari informazioni tendenziose, distorte (e, come tali, anche falsate) in merito all'affidabilità creditizia del sistema bancario italiano, idonee a disincentivare l'acquisto di titoli bancari italiani e deprezzarne, così, il valore è anche vero che l'Esma, l'Authority europea incaricata di vigilare sulla stabilità dei mercati finanziari, ha pure deciso di avviare un'istruttoria sulle tre grandi agenzie di rating in relazione alle modalità e le procedure di valutazione della solidità patrimoniale delle banche. Tornano alla mente le recentissime parole pronunciate anche dal presidente di Consob, Giuseppe Vegas dopo l'ennesimo declassamento targato Moody's: «Non mi farei prendere tutti i giorni dall'angoscia dello spread e dei rating . La situazione non è particolarmente brillante, abbiamo le nostre difficoltà, ma questa storia dei rating sta diventando imbarazzante. Dall'anno scorso, da quando è scoppiata l'ultima parte della crisi, abbiamo avuto 28 pronunce da parte di agenzie di rating sull'Italia, sul debito sovrano o su istituzioni italiane, il che significa null'altro che una doccia scozzese secondo me assolutamente ingiustificata, perché un conto è avere un rating periodico ogni 3-6 mesi, un conto è pronunciarsi a ogni pie' sospinto». «Soprattutto- aveva osservato Vegas- quando l'ennesimo giudizio di Moody's arriva proprio la notte prima di una importante emissione di titoli di Stato italiani. Allora uno si pone dei problemi. La domanda è: queste agenzie fanno correttamente il loro mestiere oppure no? Queste agenzie che sono in parte possedute anche da fondi esteri fanno l'interesse dell'opinione pubblica o di chi le possiede?». Domande lecite cui sono finalmente arrivate risposte inequivocabili.

http://www.ilgiornale.it/news/interni/draghi-i-signori-rating-giocano-sporco.html

martedì 17 luglio 2012

SVENDITALIA! - IL PIANO DI PRIVATIZZAZIONE DI GRILLI FARA’ CONTENTE (GUARDA CASO) LE BANCHE, AZIONISTE COL 30% DELLA CASSA DEPOSITI E PRESTITI ATTRAVERSO LE FONDAZIONI - IN OFFERTA SPECIALE SOLO LE AZIENDE CHE PRODUCONO UTILI (MA VA?): FINTECNA, SACE E SIMEST PASSERANNO ALLA CDP PER SEI MILIARDI - LA CORTE DEI CONTI AVVERTE: “RISCHIO SVENDITA PER IL PATRIMONIO IMMOBILIARE DELLO STATO” - GIAPPONESI, SCEICCHI, AMERICANI, AFFRETTATATEVI PER I SALDI!... -

Antonella Baccaro per il "Corriere della Sera"
VITTORIO GRILLI GIURA DA NAPOLITANOVITTORIO GRILLI GIURA DA NAPOLITANO
Vendere beni pubblici per 15-20 miliardi all'anno, pari all'1% del Pil (prodotto interno lordo) per dare «un colpo secco al debito pubblico» e portarlo sotto quota 100 del Pil. E' questo l'obiettivo indicato dal ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, nell'intervista di ieri al Corriere.
L'operazione è già in corso. Prima ancora che venga creata la Sgr (società gestione risparmio) che opererà come «fondo dei fondi» per la messa sul mercato dei migliori cespiti dello Stato e degli enti locali, immobili e società di servizi, il ministro si è già messo al lavoro per verificarne la concretezza.
VITTORIO GRILLIVITTORIO GRILLI
Per questo Grilli avrebbe già incontrato banche d'affari, come i giapponesi di Nomura, e fondi potenzialmente interessati, cogliendo in particolare l'attenzione di quelli statunitensi, ma anche arabi, a partire da quell'emiro del Qatar che ha appena acquistato in Italia la casa di moda Valentino.
L'intenzione del governo è di procedere con pacchetti da offrire sul mercato in rapida successione. Solo il patrimonio dello Stato, secondo l'indagine conoscitiva della commissione Finanze della Camera, conta 222 milioni di metri quadri e vale 300 miliardi di euro. Altri 350 miliardi vale il patrimonio dei Comuni, secondo uno studio del Cresme.
IL RUOLO DELLA CDP
Ma il primo risultato tangibile, del valore di circa mezzo punto di Pil, è quello che verrà colto con il passaggio immediato delle quote di Fintecna, Sace e Simest dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, operazione che dovrebbe fruttare circa 10 miliardi. Cifra cui bisogna sottrarre quella parte di risorse che il decreto sulle dismissioni ha destinato al pagamento dei crediti della pubblica amministrazione.
L'esborso della Cdp di una prima tranche sarà subitaneo: 6 miliardi già entro luglio. A giorni si conoscerà il nome dell'advisor (consulente) che realizzerà la due diligence (valutazione) delle tre società che porteranno alla Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro per il 70% e per il resto dalle fondazioni bancarie, una buona dote di liquidità e di utili: solo Sace ne ha fatti per 3,4 miliardi a partire dal 2004, quando è stata trasformata in società per azioni, e ha distribuito all'azionista 2,3 miliardi di dividendi.
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LE SINERGIE POSSIBILI
Oltre che a trovare risorse per abbattere il debito pubblico, l'operazione ha anche l'obiettivo di razionalizzare il portafoglio delle partecipazioni statali e valorizzare le collaborazioni possibili, e già esistenti, fra la Cassa depositi e prestiti e le tre società che adesso passeranno sotto il suo controllo. A partire da Fintecna, che probabilmente controllerà al 40%, insieme con l'Agenzia del Demanio, con il 60%, la Sgr che gestirà tutta l'operazione delle dismissioni. In realtà tale veicolo non sarà creato dal nulla: la ristrettezza dei tempi a disposizione renderà necessario l'utilizzo di una società già esistente.
Intanto entro la fine del mese l'Agenzia del Demanio, guidata da Stefano Scalera, avrà messo a punto la lista dei primi cento immobili dello Stato e degli enti locali da conferire alla Sgr sui potenziali 350 già individuati (valore complessivo di base 1,5 miliardi).
LA «WHITE LIST»
Di certo della lista faranno parte molte caserme, come la Sani, quella bolognese che si trova in pieno centro, o il vecchio carcere militare di Forte Boccea e l'ex caserma di via Guido Reni, entrambe a Roma. E poi due magazzini, quelli di via Papareschi e di via del Porto fluviale, sempre nella Capitale.

Nella maggior parte dei casi si pescherà dalla cosiddetta white list, l'elenco di 13 mila immobili che in base al decreto di due anni fa sul federalismo demaniale sarebbero dovuti passare dallo Stato agli enti locali. Per questi immobili il ricavato del conferimento al fondo che verrà istituito dalla Cassa depositi e prestiti sarà destinato per tre quarti all'abbattimento del debito del Comune e per un quarto alla riduzione del debito pubblico nazionale.
Ma nel piano potrebbero entrare anche altri immobili che non fanno parte di quella lista. Per quelli tuttora di proprietà dello Stato l'incasso servirà tutto a far scendere il debito nazionale, mentre per quelli interamente dei Comuni il valore dell'immobile assegnato sarà destinato tutto all'ente locale, ma diviso in due parti: un quarto come liquidità, tre quarti come partecipazione al fondo immobiliare che avrà il compito di valorizzare e mettere a reddito tutti i beni da dismettere.
FintecnaFintecna
La normativa esclude espressamente dalla procedura gli immobili utilizzati per finalità istituzionali. Questo perché la previsione di un eventuale trasferimento di detti beni ai fondi determinerebbe effetti pregiudizievoli in termini di finanza pubblica, generando costi ascrivibili a locazioni passive. Di conseguenza, dei 62 miliardi di beni statali collocabili subito sul mercato, ne potranno essere venduti per ora soltanto sette.

LE DIFFICOLTÀ
Fin qui tutto sembra filare liscio. Ma è stato lo stesso ministro Grilli a mettere in guardia circa l'esito del piano di dismissioni per l'abbattimento del debito pubblico. «Non ci sono più gli asset vendibili dello Stato e degli enti pubblici, come vent'anni fa» ha avvertito nell'intervista. C'è «un patrimonio immobiliare di difficile valorizzazione, come insegnano le esperienze non felici di Scip 1 e Scip 2 (società create per vendere o cartolarizzare le proprietà degli enti), molte attività sparse a livello locale». E a questo proposito, si avrebbe gioco facile a ricordare come, quando si mise mano alla privatizzazione dell'Ina, una delle difficoltà fu quella di ripercorrerne l'intero patrimonio immobiliare.
Quanto all'esito delle precedenti operazioni immobiliari, è stata la Corte dei Conti, di recente, in audizione, a avvertire che nelle attuali condizioni di mercato, che solo nel primo trimestre di quest'anno ha visto le quotazioni scendere del 20%, «c'è il rischio di una svendita». Come sta accadendo per gli immobili degli enti previdenziali: dopo il fallimento dell'operazione di cartolarizzazione Scip2, ad Inps, Inail ed Inpdap sono rimasti invenduti migliaia di appartamenti.
Per la precisione, all'Inps sono ritornati 542 immobili da Scip 1 e ben 10 mila dal pacchetto conferito a Scip2, mentre all'Inpdap, dalla seconda operazione di cartolarizzazione sono stati stornati 12 mila appartamenti. Ed in tre anni, dal 2009 al 2011, ne sono stati venduti solo 1.200, quindi appena il 10%, con un incasso di 93 milioni di euro (per una media di 77.500 euro ad immobile).
LE MUNICIPALIZZATE
L'altro punto difficile del piano riguarda il «capitalismo municipale»: le 6.800 società che fanno capo non solo ai Comuni ma anche alle Province e alle Regioni.
Il pacchetto più appetibile riguarda le 4.800 aziende comunali, con un fatturato complessivo di 43 miliardi di euro, e 16 mila manager tra presidenti, amministratori e componenti dei consigli d'amministrazione.
Di queste, circa 3 mila svolgono in realtà servizi un tempo interni alle amministrazioni e adesso esternalizzati, come la riscossione dei tributi. E quindi sono fuori dalle dismissioni. Ne restano però 1.800 che si occupano di sevizi pubblici locali: acqua, elettricità, gas, rifiuti e trasporti. Ed è proprio su queste che si concentra l'attenzione. Anche qui la Corte dei Conti avverte che oltre il 20% delle società risulta in perdita soprattutto nel Mezzogiorno.
Quanto alle società quotate, hanno perso in media il 30% del loro valore e quindi potrebbero essere non proprio un affare. L'operazione di dismissione lascia fuori alcuni cespiti importanti dello Stato: le partecipazioni nelle grandi aziende pubbliche, da Eni a Enel a Finmeccanica. Com'è noto, la Cassa depositi e prestiti ha appena acquisito una quota della Snam appena sotto il 30%. Grilli ha escluso per la Cdp un ruolo come quello giocato dall'Iri fino al 2002.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/svenditalia-il-piano-di-privatizzazione-di-grilli-fara-contente-guarda-caso-le-banche-azioniste-41544.htm

NON SIAMO STATO, NOI! - LA VERSIONE “SACRA” DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA RACCONTATA DA FABIO FABBRI, BRACCIO DESTRO DEL DEFUNTO DON CURIONI, IL PIU’ FAMOSO CAPPELLANO DELLE CARCERI D’ITALIA - A LUI E A CURIONI SI SAREBBE RIVOLTO SCALFARO PER CHIEDERE CHI SPEDIRE AL DAP AL POSTO DI NICCOLO’ AMATO - LA RICOSTRUZIONE DELLA NATURALE ZONA GRIGIA TRA STATO E CRIMINALITÀ: I DOLLARI PER MORO DI PAPA MONTINI….

Il prete che sussurrava ai boss
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Claudio Cerasa per Il Foglio

SCALFARI NAPOLITANOSCALFARI NAPOLITANONICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANONICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO

L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha settant'anni, gli occhi piccoli, i capelli brizzolati, la pelle liscia, la faccia rotonda, lo sguardo fisso, un sorriso inciso sul volto da due sottili rughe che gli incorniciano le labbra e un ricordo nitido di quello che successe la mattina del 30 maggio 1993 di fronte al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: "Pensi a un nome lei, caro monsignore".
L'uomo che sussurrava ai mafiosi ha un passato nelle parrocchie di Siena, una lunga esperienza nelle carceri toscane, un tosto addestramento alle scuole diplomatiche e una storia da raccontare su quello che Papa Montini gli mostrò a Castel Gandolfo tre giorni prima che Aldo Moro venisse ucciso dalle Brigate Rosse: "Guardi cosa c'è lì sul tavolo, caro monsignore".
L'uomo che sussurrava ai mafiosi, e che a volte sussurrava anche ai brigatisti, ai terroristi, ai camorristi, agli assassini e ai semplici criminali, ha una biografia che si intreccia con i fatti di alcuni fra i più indecifrabili misteri d'Italia e contiene diversi elementi che danno un senso a molte delle scene recitate nella famosa commedia intitolata "Le trattative stato-mafia".
L'uomo che sussurrava ai mafiosi si chiama Fabio Fabbri, è stato per vent'anni il braccio destro del più famoso cappellano d'Italia (don Curioni), ha lavorato a fianco di due Papi (Montini e Wojtyla), di tre presidenti della Repubblica (Leone, Pertini, Scalfaro), di due ministri della Giustizia (Martelli e Conso), di due ministri dell'Interno (Scotti e Mancino), e tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Novanta è diventato il simbolo di quella naturale zona grigia maturata nei secoli tra il mondo delle istituzioni e il mondo della criminalità organizzata.
Insomma, sì: parliamo dell'intrigante e oscuro universo dei cappellani delle carceri, e di tutti quei preti che nottegiorno vivono le prigioni provando a trattare, ad ascoltare, a mediare, a incoraggiare, a rincuorare, a stimolare, ad assistere, e magari anche a convertire, e non necessariamente dal punto di vista religioso, tutte quelle persone che da dentro gli istituti penitenziari cercano di rimettersi in sintonia con il mondo reale, e tentano di far arrivare, per quanto possibile, la propria voce anche al di là delle sbarre.
L'uomo che sussurrava ai mafiosi lo incontriamo a Roma, nelle stesse ore in cui magistrati, giornalisti, editorialisti, avvocati, direttori e fondatori di giornali si massacrano sui quotidiani attorno alle appendici varie di quel mostro giuridico chiamato "trattativa stato-mafia". Don Fabbri ha letto tutto quello che c'era da leggere sulle accuse a Nicola Mancino, sulle insinuazioni lanciate contro Giorgio Napolitano, sulle critiche a Oscar Luigi Scalfaro, sulle teorie di Antonino Ingroia;
ma, come gli capita ogni volta che i suoi occhi si ritrovano a contatto con tutte le storie legate alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e alla fine della stagione delle stragi, con il pensiero, don Fabbri, non riesce a non andare ancora a quella mattina del 1993: quando all'improvviso Oscar Luigi Scalfaro convocò al Colle la coppia dei cappellani più famosa d'Italia: don Fabbri e don Curioni.
I giorni erano piuttosto caldi, diciamo, e al centro delle attenzioni vi era il dossier relativo all'applicazione del carcere duro per i mafiosi (la famosa estensione del 41 bis, modificato e irrigidito dal governo l'8 giugno del 1992, sedici giorni dopo la strage di Capaci). Tre mesi prima della convocazione di Curioni e Fabbri, all'inizio di febbraio, in alcune carceri italiane si era infatti cominciato a diffondere un certo clima di rivolta contro il 41 bis: a Napoli, per esempio, al reparto Venezia, settore riservato ai detenuti più pericolosi del carcere di Poggioreale, alcuni camorristi, per protestare, avevano ucciso un sovrintendente della polizia penitenziara;
e in quelle stesse ore, mentre il governo come reazione all'omicidio decideva di estendere l'applicazione del 41 bis a tutto l'intero penitenziario, i familiari di alcuni boss mafiosi stavano preparando una lettera indirizzata al presidente della Repubblica (arrivò il 17 febbraio) in cui si chiedeva a Scalfaro, in quanto "rappresentante e garante delle più elementari forme di civiltà", di prendere posizione contro il 41 bis e di togliere di mezzo "gli squadristi al servizio del dittatore Nicolò Amato".
Nicolò Amato, ai tempi, era il numero uno del Dap (il dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, "organo di coordinamento dell'ordine e della sicurezza delle carceri", che all'epoca aveva persino la possibilità di firmare autonomamente i decreti delegati sul 41 bis), e la ragione per cui Scalfaro convocò Curioni e Fabbri era legata proprio al nome di questo apparentemente anonimo burocrate statale.
"Scalfaro - racconta oggi Fabbri, nipote dell'ex vescovo ausiliare di Firenze Giovanni Bianchi, ex viceparroco della chiesa Santo Spirito di Siena, ex cappellano del carcere della sua città, e con un passato nella scuola dei diplomatici della Santa Sede - ci chiamò, ci fece salire nella sua stanza privata, ci fece accomodare, ci guardò negli occhi, ci rivelò tutta la sua preoccupazione rispetto alla situazione delle carceri e poi, alla fine della nostra discussione, ci disse chiaramente che era arrivato il momento di sostituire il direttore generale del Dap, e di pensare noi stessi a un possibile sostituto per quel ruolo importante.
Scalfaro ci confidò che con Amato non aveva un buon rapporto, ci raccontò che il numero uno del Dap si comportava in modo altezzoso e ci fece capire che a suo avviso non poteva più essere egli la persona giusta a cui affidare in quel momento il coordinamento delle carceri italiane. Noi fummo presi alla sprovvista, e, mentre pensavamo a cosa rispondere, Scalfaro ci disse che non gli occorreva subito un nome, ma che una risposta sarebbe stata apprezzata il giorno dopo quando l'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, così ci disse Scalfaro, ci avrebbe ricevuto per parlare proprio della questione".
E così andò. "Il giorno dopo - continua don Fabbri - arrivammo al secondo piano di Via Arenula, entrammo nell'ufficio di Conso e mentre il ministro ci chiese se avevamo qualche nome da suggerire per rimpiazzare Amato a me venne un lampo: guardai Curioni e gli sussurrai a voce forse più alta del dovuto il nome di Adalberto Capriotti. Capriotti all'epoca era un magistrato di Trento, un buon cattolico, uno serio ma non rigido, e un personaggio attento e vicino al mondo dei cappellani. Curioni stava per rispondermi con un cenno di intesa; ma, poco prima che Curioni potesse dirmi qualcosa, Conso si alzò in piedi, si avvicinò a una vecchia cassettiera di legno, prese un librone molto grande, cominciò a sfogliarlo, e iniziò a leggere le caratteristiche di Capriotti, la sua età, la sua storia e la sua posizione, e dopo pochi minuti disse di sì:
‘D'accordo, per me può andare'. E in effetti così andò nuovamente: quattro giorni dopo, il 4 giugno, Amato fu cacciato dal Dap e Scalfaro e Conso nominarono come capo del dipartimento proprio lui: il nostro Capriotti".
La scelta improvvisa di Capriotti e la destituzione dal vertice del Dap di Nicolò Amato coincise con una svolta radicale nell'approccio scelto dallo stato e dalle istituzioni con il mondo delle carceri e indirettamente con il mondo della criminalità organizzata. Capriotti, che, come detto da Fabbri, era "uno assai attento e vicino al mondo dei cappellani", condivideva le preoccupazioni espresse nei mesi precedenti sulle condizioni delle carceri dai 235 cappellani rappresentati nel consiglio pastorale italiano proprio da don Fabbri e don Curioni.
E proprio come i due cappellani, Capriotti era "indignato" per l'applicazione così severa e inumana del 41 bis, e durante la sua esperienza alla guida del Dap non fece mai mistero delle sue opinioni sul tema del carcere duro: al punto che, senza nessun sotterfugio ma in modo trasparente, nei mesi successivi iniziò a coordinare una campagna martellante rivolta al governo per rivedere radicalmente le norme sul 41 bis.
Una campagna che ebbe il suo primo atto pubblico in una nota scritta - proprio dal Dap - il 26 giugno 1993, in cui Capriotti, invocando "un segnale di distensione" e richiedendo una "diminuzione del 10 per cento dei decreti 41 bis, una riconferma dei decreti per i boss prossimi alla scadenza annuale e un dimezzamento della durata del 41 bis da un anno a sei mesi", delineò, anche qui in modo trasparente, quella che era diventata una nuova e più complessa strategia giudiziaria. Una strategia che nei mesi si manifestò attraverso un'altra serie di episodi di cui Capriotti fu sempre protagonista.
E proprio su questa scia, il 29 luglio arriva una seconda nota del Dap, che sulla falsariga di quella precedente indica - questa volta in modo più esplicito - come "la delicata situazione generale imponga da una parte di soddisfare le esigenze di sicurezza e di contrasto alla criminalità organizzata e dall'altra di non inasprire inutilmente il clima all'interno degli istituti di pena". Il 7 agosto, poi, è il segretario del Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza, Giuseppe Tavormina, a inviare a Nicola Mancino (allora ministro dell'Interno) un documento in cui mette in chiaro come la strategia del carcere duro avrebbe contribuito ad aggravare la tensione nel paese, e non a stemperarla:
"Il nesso tra gli attentati mafiosi e il 41 bis - scrive nell'appunto Tavormina, riferendosi agli attentati del 27 e del 28 luglio alla chiesa di San Giorgio al Velabro, alla basilica di San Giovanni, a Roma, e al Padiglione di arte contemporanea di n via Palestro a Milano - è una possibile matrice dell'ondata stragista".
Passano i giorni, passano i mesi, ci si avvicina alla fine dell'anno, il Dap e i cappellani continuano, alla luce del sole, la loro battaglia per la revisione del carcere duro, e nel giro di tre giorni, a cavallo tra il 29 ottobre e il primo novembre, succede quello che fino a pochi mesi prima nessuno avrebbe mai immaginato potesse succedere: il Dap invia una richiesta scritta al ministro Giovanni Conso (e per conoscenza anche al procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, e al presidente dell'Antimafia, Luciano Violante) per chiedere "il rinnovo del regime speciale solo nei confronti di quei soggetti che nell'ambito della criminalità organizzata rivestono posizioni di particolare rilievo e lasciare decadere il provvedimento nei confronti di quei detenuti di minore spessore criminale".
Questa volta la richiesta va a buon fine, finalmente i cappellani possono esultare e tre giorni dopo quella richiesta succede che il ministro Conso (chissà se davvero in "perfetta solitudine" come ha raccontato qualche mese fa ai magistrati) lascia clamorosamente decadere i primi 140 decreti sul 41 bis (i successivi 567 decadranno più avanti, nel gennaio 1994).
Eccola qui, secondo il capo dei cappellani, la vera storia sul 41 bis. Altro che estorsione. Altro che ricatto. Altro che cedimento. Altro che inginocchiamento dello stato. "Vedete - continua Don Fabbri - io non credo che si possa parlare di chissà quale trattativa, e anzi credo che la storia sul 41 bis vada letta sotto una lente di ingrandimento diversa rispetto a quella che è stata impugnata da alcuni pubblici ministeri.
Le cose andarono in modo semplice: noi cappellani avevamo avvertito le istituzioni che un irrigidimento delle misure di sicurezza non avrebbe portato alcun tipo di beneficio, e che anzi avrebbe contribuito a peggiorare e a rendere ancora più disumano il già disumano regime carcerario. Scalfaro, evidentemente, si mostrò sensibile alle nostre osservazioni e sfruttò la nostra esperienza per portare avanti non un gesto distensivo nei confronti della mafia ma semplicemente un atto di buon senso".
Scalfaro, dunque. L'ex presidente della Repubblica - che conosceva Curioni dagli anni in cui il monsignore lavorava come cappellano al carcere di San Vittore e in cui Scalfaro lavorava come magistrato alla Corte d'Assise di Novara - dimostrò anche in altre occasioni di avere una certa predisposizione a prestare attenzione a quel canale naturale di mediazione con il mondo della criminalità che era l'universo dei cappellani.
E prima del rapporto con Fabbri e Curioni, Scalfaro innescò altre simil-trattative anche negli anni in cui prestò servizio come ministro dell'Interno (1983-1987): quando cioè, per esempio, non fece mistero di considerare "una sua persona di fiducia" un personaggio divenuto famoso negli anni del terrorismo rosso come suor Teresilla. Suor Teresilla, forse qualcuno lo ricorderà, negli anni Ottanta si affermò come uno dei canali di comunicazione, e di trattativa appunto, tra il mondo delle istituzioni e il mondo delle Brigate rosse.
Suor Teresilla, all'epoca, pur essendo criticata da alcuni magistrati che vedevano in lei il simbolo di una pericolosa contiguità tra lo stato e le Br, fu sempre molto rispettata, e anche quando negli anni Novanta divenne a tutti gli effetti "referente dei terroristi rossi" (fu a lei che il brigatista Valerio Morucci, protagonista del rapimento di Moro, consegnò il suo memoriale, nel 1990, affinché lo facesse avere al presidente della Repubblica Francesco Cossiga) a nessuno passò mai per la testa di attaccarla in quanto "simbolo di un cedimento dello stato" nei confronti del terrorismo rosso.
Anzi, quando anni dopo Teresilla venne travolta e uccisa da un pirata della strada (2005), anche giornali solitamente schierati contro ogni forma possibile ed esistente di trattativa decisero di descrivere Teresilla non come una spregiudicata mediatrice tra lo stato e le Br ma come (scrisse Repubblica) "una donna avventurosa che si è fatta strumento in carne e ossa di riscatto e riconciliazione maneggiando segreti di stato e domande di grazia".
"Francamente - dice don Fabbri, oggi relegato dalla chiesa nella sua piccola parrocchietta senese - io credo che l'accezione dolosa che i pm danno alla parola ‘trattativa' derivi dal fatto che alcune persone si sono messe in testa di riscrivere a loro piacimento la storia d'Italia non per trovare e scoprire la ‘verità' ma per dimostrare più che altro le proprie teorie o le proprie personali visioni del mondo".

Don Fabbri oggi è dunque prudente nel maneggiare la parola "trattativa" rispetto agli infuocati anni Novanta, e sul tema in questione segue la stessa linea adottata dal generale Mario Mori: non ci fu alcuna trattativa segreta tra la stato e la mafia ma vi furono semplicemente dei contatti trasparenti e alla luce del sole di alcuni rappresentanti delle istituzioni con alcuni "rappresentanti della criminalità" (per esempio Mori con Vito Ciancimino nel 1992, quando il generale cercò di portare l'ex sindaco mafioso di Palermo sulla strada del pentimento) e di alcuni "rappresentanti della criminalità" con alcuni esponenti delle istituzioni (per esempio i carcerati mafiosi con il mondo dei cappellani, del Dap e indirettamente dunque con le stesse istituzioni).
Riavvolgendo però il nastro e tornando agli anni in cui per la prima volta venne testata la solidità della rete diplomatica costruita dai cappellani, Fabbri ammette che effettivamente in un'occasione del tutto particolare lo stato e la chiesa fecero insieme affidamento proprio su di loro (alla coppia Fabbri-Curioni) per provare a impostare quella che oggi lo stesso cappellano senese non ha difficoltà a definire la "grande trattativa".
Il nastro va dunque riavvolto al 1978 e ai giorni immediatamente successivi al rapimento di Aldo Moro. Ai tempi, Curioni e Fabbri si erano da poco insediati al coordinamento dei cappellani delle carceri e appena due anni dopo l'ingresso formale al terzo piano di Via Giulia (doveva aveva sede l'ufficio dei due cappellani) a un certo punto squillò il telefono e dall'altra parte della cornetta Curioni si ritrovò lo storico braccio destro di Paolo VI: don Pasquale Macchi, segretario di stato.
Siamo a fine marzo: Aldo Moro è stato rapito da pochi giorni dalle Br e la Chiesa decise di organizzarsi per dare il suo contributo a una possibile trattativa. Lo fece su due fronti: da un lato con l'attività singola del famoso don Antonello Mennini (il prete che si dice avrebbe persino ricevuto dai brigatisti il via libera a confessare Moro prima di essere ucciso) e dall'altro con la coppia Fabbri-Curioni.
"Accadde tutto all'improvviso - ricorda Fabbri - Don Macchi telefonò a Curioni, gli disse che il Santo Padre voleva intervenire, gli spiegò che Montini era convinto che la malavita con cui noi cappellani eravamo venuti a contatto potesse sapere qualcosa di importante e ci chiese così, direttamente, di cercare un canale per arrivare a Moro. In un primo momento, ci limitammo ad attivare i nostri contatti, e ci spostammo a lungo nel carcere di San Vittore, dove Curioni aveva delle ottime fonti; e proprio le fonti di Curioni ci diedero la possibilità di mettere per primi le mani sulle famose foto di Moro, quella con il lenzuolo rosso con la stella a cinque punte dietro la schiena di Moro e quella con una copia della Repubblica in mano datata 19 marzo 1978.
Dopo di che, pochi giorni prima che l'ex presidente del Consiglio venisse ucciso, ci fu una piccola svolta: ci rendemmo conto che forse una soluzione era possibile, e che era possibile liberare Moro: fu in quel momento che don Macchi parlò con Curioni e ci convocò direttamente a Castel Gandolfo, a casa del Santo Padre".
E lì Fabbri vide qualcosa di clamoroso che non aveva mai raccontato prima d'ora. "Era il pomeriggio del 6 maggio 1978 e a un certo punto, quando arrivammo da Montini, il Papa ci accompagnò nel suo studio privato, ci fece avvicinare a una gigantesca consolle coperta da un lenzuolo azzurro, e poi, lo ricordo perfettamente, con un rapido gesto della mano sollevò il lenzuolo e ci mostrò, ben disposte sulla consolle, una serie infinita di mazzette di dollari messe una accanto all'altra.
‘Sono dieci milioni di dollari', ci disse Montini, e ci spiegò che quelli erano soldi che la chiesa aveva messo a disposizione per pagare il riscatto di Moro. Non fu sufficiente, però: qualcosa che non abbiamo mai capito successe nei giorni successivi e quei soldi purtroppo non arrivarono mai a chi dovevano arrivare". Trattative, trattative, trattative.
Ché in fondo il senso della storia di don Fabbri (e di riflesso di don Curioni, morto nel 1996) questo è: un modo diverso di leggere gli "anni delle trattative", un modo diverso di raccontare quello che alcuni magistrati definiscono "il patto delle istituzioni con le cosche" e un modo diverso di esplicitare un piccolo dubbio che alcuni giorni fa è saltato persino all'occhio del solitamente rigidissimo procuratore capo della procura di Palermo: quel Francesco Messineo che lo scorso 14 giugno non ha messo la propria firma in calce all'atto di notifica della conclusione delle indagini "sulla trattativa stato-mafia" (atto firmato da Nino Di Matteo e Antonio Ingroia) motivando indirettamente la sua scelta qualche giorno prima durante un'audizione di fronte all'Antimafia, quando Messineo, ignorato da quasi tutti i giornali, a proposito delle "volontà trattativiste delle istituzioni" scelse più o meno le stesse parole utilizzate da don Fabbri in questa chiacchierata.
"Se per trattativa si vuole intendere una formale trattativa con plenipotenziari seduti ai lati del tavolo, questo non vi fu certamente", disse Messineo, ammettendo poi, sempre a proposito di trattativa, che qui "si potrebbe parlare di una ragion di stato interpretata da pochi soggetti, secondo loro particolari orientamenti e secondo una loro particolare visione, nell'intento - in sé astrattamente lodevole - di prevenire le stragi".
Lodevole, già. E chissà che allora anche le parole di Messineo messe a fianco a quelle di don Fabbri non siano lì a testimoniarci che, a voler guardar bene, la storia sulla temibilissima "trattativa stato-mafia" in fondo è un caso già chiuso da tempo.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/non-siamo-stato-noi-la-versione-sacra-della-trattativa-stato-mafia-raccontata-da-fabio-41573.htm#Scene_1

giovedì 12 luglio 2012

RIVELAZIONI NON AUTORIZZATE – IL CASO PEARL HARBOUR

Vi presentiamo un primo estratto del libro di Marco Pizzuti “Rivelazioni non Autorizzate” (Edizioni Il Punto d'Incontro, vedi box a sinistra) gentilmente concessoci dall'autore. Il brano è preceduto da una breve descrizione-motivazione dell'opera. N.d.r.

La storia delle società segrete ed in particolare quella della Massoneria resta misconosciuta alle masse in quanto non viene divulgata attraverso i grandi canali ufficiali dell’informazione come scuola o televisione. Tuttavia è solo conoscendo i retroscena e gli obiettivi delle società occulte a cui sono appartenuti e appartengono tuttora i protagonisti della storia che possiamo provare a comprendere realmente il passato, il presente e forse anche il nostro prossimo futuro.

Per fare qualche esempio basti sapere che le grandi ideologie come illuminismo, liberismo, comunismo o nazional-socialismo sono state concepite tutte dallo stesso oscuro laboratorio di idee e che esistono ormai le prove per dimostrarlo.

Tutta la società che conta infatti è affiliata a vario titolo ad associazioni massoniche o paramassoniche (CFR, Bilderberg, RIIA, Bohemien Club etc.) di cui spesso le nazioni ignorano persino l’esistenza. Si tratta di club esclusivi a cui bisogna necessariamente appartenere se si vuole accedere alle “stanze dei bottoni”. Solo fantapolitica come amano farci credere le versioni ufficiali? Certamente si per tutti coloro che hanno ancora fiducia nella trasparenza del mondo dell’informazione, ma di sicuro molti legittimi interrogativi riguardo ai grandi capovolgimenti della storia come rivoluzioni, guerre d’indipendenza, conflitti mondiali e il recente terrorismo internazionale, trovano le loro inquietanti risposte nel materiale inedito di questo libro esplosivo.

Nelle immagini: i simboli massonici di squadra e compasso con l'occhio onniveggente che per volere di F. D. Roosvelt compare anche sulle banconote USA da un dollaro.

Le prove raccolte sono infatti in grado di dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che un super-governo ombra diretto dall’alta finanza internazionale coordina da tempo le azioni e i programmi dei nostri rappresentanti di ogni colore politico per realizzare le proprie ambizioni di dominio sul globo, la c.d. globalizzazione. Un progetto che la massoneria ama definire “Nuovo Ordine Mondiale” e che contempla la concentrazione di tutte le risorse del pianeta nelle mani di una spregiudicata elite di banchieri in corsa verso il potere assoluto. Trattandosi quindi di informazioni completamente escluse dall’accesso dei mass-media di larga diffusione possiamo legittimamente considerarle rivelazioni non autorizzate.

Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fanno produrre gli avvenimenti; un gruppo un po' più importante che veglia alla loro esecuzione e assiste al loro compimento, e infine una vasta maggioranza che giammai saprà ciò che in realtà è accaduto”.

Nicholas Murray Butler - presidente dell’Università di Columbia, presidente della Carnegie Endwment for International Peace, membro fondatore, presidente della Pilgrims Society e membro del Council on Foreign Relations (CFR) e capo del British Israel.

IL CASO PEARL HARBOR

DI MARCO PIZZUTI

Riguardo allo storico attacco di Pearl Harbor, i libri di scuola, i film, i documentari e tutti i reportage storici allineati alle versioni ufficiali ci hanno raccontato solo una verità di comodo. Attraverso i canali d’informazione istituzionali è stato ripetuto fino alla nausea che nel 1941 un brutale attacco aereo giapponese a sorpresa annientò la flotta americana del pacifico, lasciando sul campo migliaia di vittime innocenti. Tale versione dei fatti venne diramata dalla Casa Bianca allo scopo di scatenare l’indignazione del popolo americano. Da qui, a legittimare la sua chiamata al fronte come un dovere morale, il passo è stato molto breve.

Sono passati molti anni da quel drammatico 7 dicembre 1941, ma la storia continua a riemergere inquietante, come il cadavere di un omicidio che non vuole affondare. Le numerose inchieste pubbliche e private condotte su Pearl Harbor sembrano infatti avere raccolto ormai sufficiente materiale probatorio per ricostruire una volta per tutte, il vero corso degli eventi in questione.
La censura della storia

Il Giappone, contrariamente a quanto viene convenzionalmente accettato nella letteratura istituzionale didattica mondiale, venne deliberatamente provocato a reagire militarmente da F. D. Roosevelt in tutti i modi possibili. Tale strategia d’azione fu definita nero su bianco nel riservatissimo piano McCollum [34], uno scottante documento che alcuni ricercatori storici sono riusciti a rendere di pubblico dominio.

Nel corso del tempo, sono infatti emerse numerose prove che dimostrano come i servizi dell’intelligence americana riuscirono a decriptare tempestivamente tutti i piani dell’imminente attacco giapponese. La strage di Pearl Harbor quindi, poteva essere evitata e con essa naturalmente, anche la partecipazione dell’America alla guerra. A confermarlo, ci sono persino le testimonianze rese da alti ufficiali della marina americana (come ad es. quella dell’ammiraglio Husband Kimmel o del tenente generale Richardson).

Ed è proprio da questi ultimi infatti che è partita la “prima pietra dello scandalo”. Le loro versioni sulla vicenda, sono oggi disponibili in molte dettagliatissime pubblicazioni, a cominciare, da “Il giorno dell'inganno” di Robert B. Stinnet (pluridecorato USA per il valore militare 42'- 46').

Pertanto, le fonti delle informazioni che sono alla base delle accuse contro Roosevelt, non sono costituite (come qualcuno potrebbe pensare) dalle malsane elucubrazioni di estremisti anti-americani, ma come anzidetto, provengono direttamente dagli archivi militari USA e/o dagli stessi ufficiali della marina che prestarono servizio durante la guerra del Pacifico.

Le ragione di questa situazione per così dire “anomala” è in realtà molto semplice da spiegare. Il piano McCollum caldeggiato da Roosevelt, ha rappresentato un crimine commesso contro tutte le nazioni che poi sono state chiamate alle armi. Quindi la prima vittima di questa tipologia di complotti è sempre stata il popolo, non da ultimo, proprio quello americano, ammiragli compresi.

Ecco perché tra i cosiddetti “anti-americani” che si oppongono alla versione ufficiale su Pearl Harbor compaiono anche i nomi “ingombranti” di autorevoli studiosi e testimoni a stelle e strisce. Molti di loro infatti, compresero perfettamente che il vero nemico della pace non veniva dal lontano Pacifico ma si annidava invece nella stessa America, tra i membre della Casa Bianca e quelli dei lussuosi uffici di Wall street. Di conseguenza, le generiche accuse di anti-americanismo rivolte contro chiunque cerchi di portare a galla la verità su Pearl Harbor risultano essere veramente fuori luogo.

Viceversa, le prove contro il governo Roosevelt, pesano come un macigno che nessun perito della commissione ufficiale d’inchiesta è riuscito a smuovere di un millimetro.

La flotta USA, avrebbe potuto tranquillamente essere messa in salvo, ma si fece l’esatto opposto, affinché migliaia di soldati americani trovassero la morte sotto le bombe giapponesi. Perché? La risposta è tanto chiara quanto scandalosa. Il vero obiettivo di Roosevelt era quello di creare il roboante casus belli di cui avevano bisogno i poteri forti per coinvolgere la nazione americana nel conflitto.

E dallo stesso momento in cui venne deciso che le navi da guerra USA, con tutto il loro carico umano sarebbero serviti da esca, la base di Pearl Harbor venne deputata a questa funzione sacrificale. Quello che accadde dopo fu solo la cronaca di una strage annunciata.....

Il Giappone quindi non solo si trovò a dover sopportare le gravi azioni di provocazione messe in atto con il piano McCollum, ma venne anche “indotto in tentazione” dallo stesso Roosevelt che “suggeriva” ai generali nipponici la soluzione della crisi con un colpo di mano. Come? Semplicemente “porgendo il fianco” della sua flotta al nemico. Le navi da guerra americane infatti vennero costantemente mantenute in zona di pericolo per ordine diretto del Presidente. Il comando giapponese fu così spinto a credere di dover approfittare di un occasione irripetibile per cercare di vincere una guerra ormai inevitabile contro il gigante americano. Ma cadde solo nella trappola…

Una regia occulta

Come verrà illustrato nel prosieguo, dietro le dinamiche degli eventi bellici è sempre possibile intravedere l'ombra cupa dei poteri forti, una realtà che emerge sconcertante tutte le volte che si effettuano dei reali approfondimenti. In pochi ne parlano apertamente, ma sono solo questi a manipolare tanto il corso della storia quanto il mondo dell’informazione. Sono talmente potenti che possono permettersi il lusso di insabbiare tutti i loro crimini senza mai apparire come primi attori. E le grandi inchieste ufficiali troppo spesso servono solo a manipolare l’opinione pubblica, mentre al contempo, le fonti d’informazione non controllate (come le piccole case editrici o i siti internet) vengono demonizzate e messe alla berlina nel circolo mediatico di più larga diffusione.
Come è cambiata l’America dopo Pearl Harbor

Prima del fatidico 7 dicembre 1941, l’88% della popolazione americana (sondaggio realizzato in America nel settembre 1940) era contraria a mandare i propri figli a morire per una guerra lontana [31] e il signor F. D. Roosevelt, proprio come il signor W. Wilson, venne eletto Presidente grazie alla promessa che non avrebbe mai trascinato la nazione in un conflitto.

Ecco infatti, cosa dichiarò pubblicamente ai suoi elettori F.D. Roosevelt: “… e mentre sto parlando a voi, madri e padri, vi do un’altra assicurazione. L’ho già detto altre volte, ma lo ripeterò all’infinito. I vostri ragazzi non verranno mandati a combattere nessuna guerra straniera...[1]

Ma nonostante queste buone dichiarazioni d’intenti volte solo ad accattivarsi il consenso di un America pacifista, il procurato attacco giapponese e il conseguente bagno di sangue di Pearl Harbor, provocarono una ondata emotiva tale che l’opinione pubblica americana mutò repentinamente atteggiamento, optando, come cinicamente previsto, a favore dell’intervento militare. In sostanza, senza un episodio come quello di Pearl Harbor, l’amministrazione americana non avrebbe mai potuto trascinare il paese in guerra e il Presidente Roosevelt avrebbe dovuto, “suo malgrado”, mantenere le promesse fatte alla nazione.
Il piano McCollum

Grazie al Freedom of Information Act promosso dal parlamentare USA John Moss, molti ricercatori indipendenti hanno potuto trovare accesso ad uno straordinario numero di documenti sulla guerra del Pacifico. Dallo studio accurato di questi è poi emersa tutta la verità sconcertante;

Si viene così a sapere che già il 7 ottobre del 1940, nel quartier generale della Marina di Washington, circolò un bollettino destinato a compromettere per sempre l’amministrazione Roosevelt nella premeditazione della guerra. Il dispaccio proveniva dall’ufficio dei servizi informativi ed era indirizzato a due dei più fidati consiglieri del Presidente, i capitani della Marina Walter S. Anderson e Dudley W. Knox. Al suo interno recava la sottoscrizione in calce del capitano di corvetta Arthur H. McCollum, un militare esperto dei costumi del “sol levante”. Quest’ultimo infatti, aveva trascorso diversi anni della sua vita in Giappone e ne conosceva perfettamente la cultura. Si poneva quindi come l’uomo adatto per studiare una strategia di provocazione.

McCollum elaborò così un piano che prevedeva otto diverse modalità d’azione per ingaggiare una guerra con il Giappone. Il documento si componeva di cinque pagine e in esso si faceva esplicito riferimento alla creazione di quelle condizioni che avrebbero costretto i giapponesi ad una reazione armata contro gli USA.

Una volta che questa si fosse verificata, la nazione americana si sarebbe ritrovata automaticamente impelagata nell’intero conflitto mondiale. Proprio ciò che volevano gli oscuri signori della guerra in doppiopetto e bombetta. La stipula del famoso patto tripartito (siglato a Berlino il 27 Settembre 1940), garantiva infatti alle forze dell’asse (Germania, Italia, Giappone) mutuo soccorso reciproco durante tutto il conflitto.

Le operazioni da seguire per raggiungere questo obiettivo sono qui di seguito sinteticamente elencate:
1. Accordarsi con la Gran Bretagna per l’utilizzo delle basi inglesi nel Pacifico, soprattutto Singapore.

2. Accordarsi con l’Olanda per utilizzare le attrezzature della base e poter ottenere provviste nelle Indie orientali olandesi (l’attuale Indonesia).

3. Fornire tutto l’aiuto possibile al governo cinese di Chiang Kai-Shek.

4. Inviare in Oriente, nelle Filippine o Singapore, una divisione di incrociatori pesanti a lungo raggio.

5. Spostare le due divisioni di sottomarini in Oriente.

6. Tenere la flotta principale degli Stati Uniti, attualmente nel Pacifico, nei pressi delle isole Hawaii.

7. Insistere con gli olandesi affinché rifiutino di garantire al Giappone le richieste per concessioni economiche non dovute, soprattutto riguardo al petrolio.

8. Dichiarare l’embargo per tutti i commerci con il Giappone, parallelamente all’embargo dell’impero Britannico.
 
- Il bollettino McCollum delle otto azioni è stato scoperto da Robert B. Stinnet t il 24 gennaio 1995 nella scatola n.6 di una speciale raccolta della Marina degli Stati Uniti, RG 38, Modern Military Record Branch degli Archives II. - [34]
 
Le altre prove del complotto

Ciò premesso, la versione ufficiale ha escluso comunque qualsiasi tipo di coinvolgimento del Presidente Roosevelt in un complotto contro le nazioni. Una conclusione “politica” che però non trova alcun fondamento nella storia. Roosevelt venne infatti complessivamente informato del “pericolo” di un imminente attacco giapponese da almeno ben otto fonti diverse [2]. Inoltre, il 27 e il 28 novembre 1941, gli alti ufficiali americani ricevettero un ordine che la dice lunga sulle vere intenzioni del governo Roosevelt : “Gli Stati Uniti desiderano che il Giappone compia il primo atto diretto” [3]. Un comunicato questo che, stando alla testimonianza del ministro della guerra Henry L. Stimson venne emanato direttamente da Roosevelt (anche se in realtà, come verrà chiarito in seguito, Stimson cercò solo di scaricare tutti i dubbi e le ombre di cospirazione sul Presidente).

Eclatante a tal proposito anche il messaggio scritto al Segretario di Stato Cordell Hull dall'ambasciatore americano a Tokyo, Joseph Grew il 27 gennaio 1941. Nella riservatissima missiva che C. Hull si affrettò a distribuire ai servizi informativi (e quindi anche direttamente al Presidente) si leggeva infatti a chiare lettere che in caso di guerra, Pearl Harbor sarebbe stato il primo bersaglio [4].

Ma ecco cosa affermava esattamente il testo del cablogramma in questione [5]: “Un collega peruviano ha rivelato a un membro del mio staff di aver sentito diverse fonti, compresa una fonte giapponese, che le forze militari giapponesi hanno progettato, in caso di problemi con gli Stati Uniti, di tentare un attacco a sorpresa su Pearl Harbor impiegando tutte le strutture militari a loro disposizione. Ha aggiunto inoltre che, sebbene il piano possa sembrare una fantasia, il fatto che lo abbia sentito da più parti lo ha indotto a passare l’informazione. - Grew”

E se come anticipato, l’intelligence USA era in grado di decriptare i messaggi in codice giapponesi già molto tempo prima di Pearl Harbor, il Presidente deve necessariamente avere conosciuto con largo anticipo, le modalità con cui sarebbe avvenuto l’attacco a “sorpresa” giapponese.

Al contrario, i comandanti del contingente americano direttamente interessato, e cioè l’ammiraglio Husband Kimmel e il tenente generale Walter Short, vennero tenuti completamente all’oscuro di quanto stava realmente accadendo, onde evitare che potessero adottare le opportune contromisure (come ad es. reclamare uno spostamento della flotta in una zona più sicura). Il giorno dell’attacco infatti, nella base di Pearl Harbor non era stato neppure proclamato lo stato d’allerta e le perdite umane furono spaventose. Si verificò così, proprio quella strage degli innocenti che serviva all’amministrazione americana per mobilitare l’indignazione del popolo americano. Il bollettino di guerra fu straziante, sette navi da guerra affondate all’ancora, 2273 morti (tra civili e militari) e 1119 feriti.

Quando vennero aperte le prime indagini nella commissione d’inchiesta del 1946, fu esclusa ufficialmente qualsiasi responsabilità diretta di D. F. Rosevelt sulla base dell’assunto che il Presidente non sarebbe mai venuto a conoscenza del piano McCollum. Tuttavia, esiste ormai un castello di prove che dimostra l’esatto opposto. E per fare maggiore chiarezza, basti dire che le perizie scientifiche svolte sul famoso protocollo hanno accertato la presenza delle sue impronte digitali su ognuna delle cinque pagine del piano [3]. In un processo “normale”, tale materiale probatorio, sarebbe stato sufficiente a far condannare chiunque oltre ogni ragionevole dubbio.

Roosevelt peraltro, ordinò di spostare buona parte della flotta USA alle Hawaii proprio il giorno successivo alla divulgazione del suddetto bollettino e quindi in completa ottemperanza al piano McCollum. Tale disposizione della casa bianca infatti, non poteva essere connessa ad alcun altra strategia militare razionale se non quella della provocazione.

Le proteste degli alti ufficiali

Il trasferimento di preziose unità navali americane nelle acque del Pacifico risultò quindi talmente incomprensibile agli alti ufficiali di marina che prima di essere accettato dovette scontrarsi con le animose proteste dell’ammiraglio Richardson qui di seguito riportate testualmente: “Signor Presidente, gli ufficiali più anziani della Marina non hanno la fiducia nella guida civile di questo paese…” [6].

Richardson dimostrò risolutamente tutto il proprio disappunto, in quanto da buon ufficiale di marina, sapeva bene che stanziare la flotta nelle acque delle Hawaii sarebbe stato interpretato dal comando giapponese come un chiaro atto di ostilità, o meglio come i preparativi per un’aggressione. Proprio ciò che Richardson, per lealtà al suo paese avrebbe voluto evitare.

Il documento programmatico di McCollum del resto, non lasciava dubbi di sorta circa le sue reali finalità provocatorie. E in particolar modo alla lettera D, dove contemplava addirittura l’invio di navi da guerra americane nelle acque territoriali giapponesi o appena fuori di esse.

Durante i riservatissimi briefing militari che si tennero alla Casa Bianca, Roosevelt infatti, si dimostrò irremovibile sulla necessità di porre in atto simili azioni. Non accettò mai alcuna obiezione o variazione del piano. E dopo avere programmato gli sconfinamenti della flotta americana sotto l’appellativo di “missioni a sorpresa” dichiarò espressamente: “Voglio semplicemente che sbuchino qua e là e che i giapponesi continuino a chiedersene la ragione… [7].

Affermazioni queste che incontrarono anche le obiezioni degli altri alti ufficiali. L’ammiraglio Husband Kimmel ad esempio, quando venne posto di fronte all’ordine di condurre “missioni a sorpresa” per provocare i giapponesi si lasciò scappare la seguente affermazione: “E’ una mossa sconsiderata e compierla porterà alla guerra” [8].

Ma quando l’ammiraglio Kimmel si rese conto che Roosevelt non aveva alcuna intenzione di tornare sui propri passi, preferì scendere a compromessi e offrì la sua collaborazione all’unica condizione che fosse stato tempestivamente informato delle contromosse giapponesi.

Il “dietro-front” di Kimmel venne quindi premiato con una promozione al grado di ammiraglio e con la nomina di comandante in capo della flotta del Pacifico. Chi invece, come l’ammiraglio Richardson, mantenne coraggiosamente la sua posizione, venne rimosso il 1 febbraio 1941 durante una importante riorganizzazione della Marina.

Roosevelt ordinò infatti la suddivisione delle forze navali in due contingenti distinti, una flotta per l’Atlantico e l’altra per il Pacifico. Un’escamotage che gli consentì di liberarsi agevolmente degli ufficiali non allineati ai suoi programmi, e di prepararsi nello stesso tempo, ad affrontare un conflitto allargato alla Germania.

La registrazione degli ordini emanati direttamente da Roosevelt nel periodo a cavallo tra marzo e luglio 1941 dimostra ancora più dettagliatamente quanto egli fosse realmente immischiato nel piano McCollum. Il Presidente diede disposizioni di sua iniziativa e persino contro il parere dei suoi più alti ufficiali per violare reiteratamente il diritto internazionale. Vennero quindi dispiegati gruppi navali militari operativi (in pieno assetto di guerra) al confine delle acque territoriali giapponesi allo scopo di compiere tre “missioni a sorpresa” [9].

Altri indizi inquietanti riguardo un diretto coinvolgimento del Presidente in una cospirazione provengono dallo stesso modo in cui vennero organizzati i servizi informativi. Le traduzioni dei messaggi in codice giapponesi ad esempio, dovevano pervenire direttamente nelle sue mani o in quelle di soggetti da lui autorizzati. Tutte le intercettazioni militari e diplomatiche giapponesi gia decodificate arrivarono quindi alla casa bianca baipassando l’ammiraglio Kimmel, il comandante in capo della flotta nel Pacifico. In questo modo venne garantita la massima segretezza possibile sulle reazioni di Yamamoto alle provocazioni americane. Persino nei confronti dello stesso stato maggiore USA.

E appena le “missioni a sorpresa” ebbero inizio, le navi guerra americane cominciarono a scorazzare intorno alle acque territoriali giapponesi arrivando ad insidiare perfino lo stretto di Bungo, ovvero l’accesso principale al Mar del Giappone. Ne scaturì una crisi diplomatica che culminò con le proteste ufficiali del ministero della Marina giapponese. La lettera venne consegnata all’ambasciatore Grew di Tokyo, per denunciare quanto segue:
“Nella notte del 31 luglio 1941, le unità della flotta giapponese ancorate nella Baia di Sukumo (stretto di Bungo) hanno captato il suono di eliche che si avvicinavano da est. I cacciatorpediniere della Marina giapponese hanno avvistato due incrociatori che sono scomparsi in direzione sud dietro la cortina di fumo accesa dopo che gli era stato intimato il chi va là…..Gli ufficiali della Marina ritengono che le imbarcazioni fossero incrociatori degli Stati Uniti”.
L’ombra dell’alta finanza dietro la programmazione della guerra

L’amministrazione americana non è mai stato il vero attore delle guerre più recenti, ma solo una pallida comparsa. Il soggetto pubblico su cui riversare tutte le colpe.

Le reali motivazioni che spinsero il Presidente Roosevelt a catapultare il popolo americano in guerra, conducono inequivocabilmente ad alcuni dei retroscena meno divulgati del secondo conflitto mondiale.

Ecco ad esempio cosa è clamorosamente “sfuggito” agli storici della versione ufficiale:

Nell’estate del 1940 (prima dell’emanazione del protocollo McCollum), Roosevelt elaborò un piano di politica estera volto ad isolare economicamente il Giappone e le forze dell’asse con una serie di embarghi. Ma la circostanza quantomeno “anomala”, è che la Casa Bianca stava riservatamente operando al contempo per garantire a questi stessi paesi nemici la scorta di risorse energetiche a loro necessarie per intraprendere una lunga guerra proprio contro gli Stati Uniti e i suoi alleati. Roosevelt scelse infatti di dare corso alle vere provocazioni (del protocollo McCollum) solo quando il Giappone venne ritenuto in grado di sostenere il conflitto. Pertanto, i giapponesi ricevettero tutto l’approvvigionamento di materie prime (in particolare il petrolio) di cui avevano bisogno persino durante il proclamato embargo.

Nei mesi di luglio e ottobre del 1940, in pieno regime di apparente isolamento economico del Giappone, il Call Bullettin di San Francisco fotografò degli operai sul molo del porto cittadino mentre stavano tranquillamente provvedendo allo stoccaggio di numerosi container nelle stive di due navi da trasporto nipponiche. Si trattava della “Tasukawa Maru” e della “Bordeau Maru”, entrambe, vennero caricate con ingenti quantità di quel materiale ferroso di cui aveva fortemente bisogno l’industria pesante Giapponese, un paese ritenuto ufficialmente ostile. Una volta terminate le operazioni di carico, il naviglio prese il largo e fece rotta verso la madrepatria. Ma non si trattò solo di un caso isolato perché la scena era destinata a ripetersi in modo quasi surreale per tutto il 1940 e il 1941 persino dopo lo scoppio del conflitto [10].

La vicenda in questione non era certo sfuggita ai servizi segreti americani che annotarono tutti gli spostamenti delle navi da trasporto giapponesi (ibid). E anche per quanto concerneva i rifornimenti di petrolio, la violazione delle restrizioni avvenne in modo sistematico e del tutto evidente. L’embargo infatti non fu mai applicato alle raffinerie ubicate sulla costa occidentale degli Stati Uniti (ibid p.36), pertanto è lecito concludere che l’osannato isolamento del Giappone fosse solo una manovra politica di facciata.

A dispetto dei proclami formali, la Casa Bianca si adoperò dietro le luci dei cronisti per sostenere le capacità belliche Giapponesi. Lo scopo era quello di prepararlo all’imminente conflitto già in agenda dei poteri forti. Un assunto questo che, per quanto possa apparire assurdo a chi ha sempre creduto alla favola dell’imperialismo americano (o viceversa, ha riposto la massima fiducia nei metodi democratici dell’amministrazione USA), non solo risponde al vero, ma dimostra come l’opinione pubblica sia stata sempre spudoratamente manipolata.

Il console generale giapponese rassicurò infatti il suo governo che al di là dei proclami formali, Roosevelt e il suo esecutivo, stavano chiudendo un occhio sui rifornimenti “americani” affermando letteralmente: “Tutti i nostri permessi di esportazione sono stati garantiti. Le agenzie americane da cui acquistiamo il petrolio procedono e stabiliscono accordi soddisfacenti con le autorità governative di Washington” [11]

L’alto funzionario diplomatico giapponese specificò inoltre che era riuscito ad acquistare una miscela speciale di petrolio greggio eludendo facilmente i divieti imposti con l'embargo. Nel messaggio segreto poi cifrato, compare dettagliatamente la portata dell’acquisto; 44.000 tonnellate (ben 321.000 barili) dall’Associated Oil Company. Peraltro il dispaccio diplomatico terminava concludendo: “I rivenditori di petrolio americano della zona di San Francisco che vendono alla Mitsui e alla Mitsubishi, dei quali il principale è l’Associated Oil Company, credono che non ci sarà alcuna difficoltà nel continuare la spedizione di comune carburante al Giappone” (ibidem).

Allo storico cablogramma diplomatico, fanno poi da inquietante contorno le registrazioni militari USA a proposito delle rotte di carico e scarico regolarmente effettuate dalle petroliere dirette in Giappone. E poiché, i servizi informativi americani monitorarono costantemente i movimenti delle navi da trasporto nipponiche su esplicito ordine della Casa Bianca, è legittimo supporre che Roosevelt, non poteva non sapere cosa stava realmente accadendo.

Le navi con il prezioso carico di oro nero americano erano dirette verso il deposito petrolifero di Tokuyama. E solo nel periodo compreso tra il luglio 1940 e l’aprile 1941 risulta accertato che i rifornimenti petroliferi “americani” ammontarono a quasi 9.200.000 barili.

Tutte le rotte degli approvvigionamenti giapponesi vennero intercettati e schedati dai radiogoniometri militari americani dalla Stazione SAIL, il centro di controllo del Navy’s West Communication Intelligence Network (sistema dei servizi informativi di comunicazione della costa occidentale della Marina USA, WCCI) ubicata vicino Seattle. Gli impianti radio della Mackay Radio & Telegraph, Pan American Airways, RCA Communications e Globe Wireless fornirono ulteriori preziose informazioni.

L’ampio ed efficientissimo sistema di monitoraggio USA si estendeva lungo tutta la costa occidentale, da Imperial Beach in California sino a Dutch Harbor in Alaska [32].

In conclusione quindi, i servizi informativi e il Presidente dovevano sapere perfettamente che la maggior parte del petrolio giapponese proveniva dall’impianto di raffinazione californiano della Associated Oil Company di Port Company. Un continuo andirivieni di navi da trasporto portò infatti il prezioso carburante direttamente a Tokuyama, la principale base di rifornimento della flotta militare giapponese.

Qualcuno però si accorse per tempo di quanto stava effetivamente avvenendo dietro le verità ufficiali e denunciò il fatto pubblicamente. Così, accadde che proprio mentre Roosevelt si dava affanno nell’apparire un Presidente pacifista dinanzi alla Nazione, il deputato del Missouri Philip Bennet rilasciò la seguente eloquente dichiarazione: “…..Ma i nostri ragazzi non verranno mandati all’estero, dice il Presidente. Sciocchezze, signor Presidente; Già ora si sta provvedendo a preparargli le cuccette sulle nostre navi da trasporto. Gia ora i cartellini per l’identificazione di morti e feriti vengono stampati dalla ditta di William C. Ballatyne & Co. di Washington” [12].

E anche se all’epoca dei fatti tale affermazione “fuori dal coro” di P. Bennet passò quasi completamente inosservata, le indagini storiche del dopoguerra gli hanno conferito pienamente ragione. Roosevelt, come tutti i politici a cui è stato consentito l'accesso alle “stanze dei bottoni”, non fece altro che obbedire alle direttive dell’alta finanza, ovvero, ottemperò scrupolosamente agli ordini degli “invisibili” magnati a cui i popoli pagano il debito pubblico attraverso le tasse. Illuminante in tal senso, l’amara considerazione personale di Curtis Dall, il genero di F.D. Roosevelt,: “Per molto tempo pensai che (Roosevelt)...avesse nutrito molti pensieri e progetti a beneficio del suo paese, gli USA. Ma non era così. La maggior parte dei suoi pensieri, le sue “cartucce” politiche, per così dire, erano state attentamente fabbricate per lui dal Consiglio sulle relazioni estere/Gruppo finanziario per un mondo unito (CFR= Rockfeller, Rothschild & co – specificaz. Dell'autore.). Brillantemente e con grande slancio, come fossero un bel pezzo d'artiglieria, egli sparò quelle “cartucce” prefabbricate in mezzo a un bersaglio inaspettato, il popolo americano, e così comprò e confermò il suo rapporto politico internazionalista” [13].

E a dispetto di ciò che continua ad affermare la storia patinata della versione ufficiale, non rimane quindi che svelare chi erano e che intenzioni avevano i potenti “consiglieri” di F.D.R. che tanto ascendente avevano su di lui….
Un accenno alla regia occulta

Dietro i protagonisti ufficiali della storia che abbiamo studiato nelle c.d. “scuole” dell’obbligo, operano senza mai apparire, i membri e i programmi della vera casta di comando, i c.d. “poteri forti”. Una elite di persone che gestisce il potere da padre in figlio e che da secoli tiene letteralmente sotto controllo l’economia (e quindi anche la politica) delle nazioni. Sono i proprietari esclusivi delle banche centrali, delle assicurazioni, dei monopoli energetici, dell’industria e dei grandi canali d’informazione. I suoi rappresentanti non si riconoscono realmente in alcuna specifica nazionalità poiché si ritengono al di sopra di qualunque di essa, considerandosi a tutti gli effetti i veri signori del mondo. Ed ecco a tal proposito cosa ebbe a dichiarare già nel lontano 1733, un illustre esponente dei grandi casati finanziari che oggi possiedono letteralmente le banche centrali, il finanziere Amschel Mayer Bauer Rothschild (capostipite dell’impero Rothschild): “La nostra politica è quella di fomentare le guerre, ma dirigendo conferenze di pace, in modo che nessuna delle parti in conflitto possa ottenere guadagni territoriali. Le guerre devono essere dirette in modo tale che le Nazioni, coinvolte in entrambi gli schieramenti, sprofondino sempre più nel loro debito e, quindi, sempre più sotto il nostro potere” [14].

Dal quel remoto 1733 però, il tempo non sembra essere passato invano e gli strumenti dei manipolatori sono stati affinati. Nella storia contemporanea sono sorte infatti vere e proprie istituzioni paragovernative che lavorano a porte chiuse per realizzare i programmi di dominio dell’alta finanza. E come intuito da Curtis Dall, una di queste moderne organizzazioni che maggiormente diresse l’operato di Roosevelt è il CFR (Council on Foreign Relations). Una sedicente organizzazione “filantropica” fondata nel 1921, con il finanziamento della famiglia Rockefeller. Alla costituzione del CFR parteciparono 650 “eletti”, “il Gotha del mondo degli affari" [15] e suoi membri di spicco furono sempre all’ombra del Presidente americano di turno. Ed è quindi proprio a costoro che si deve attribuire la vera paternità del protocollo McCollum. In qualità di ministro della guerra di Roosevelt ad esempio, agiva in “prima linea” Henry Stymson, un personaggio che “guarda caso” era anche uno dei membri fondatori del CFR. Il suo coinvolgimento nel piano di provocazione, emerge chiaramente dalle righe del suo stesso diario: “Affrontiamo la delicata questione di come realizzare una schermaglia diplomatica che faccia apparire il Giappone dalla parte del torto e gli faccia compiere, scopertamente, il primo passo falso” [16]. E sempre a tal proposito, lo scrittore George Morgenstern, ha pubblicato il libro “Pearl Harbor, The Story Of The Secret War” in cui è stato esaustivamente documentato come il Giappone venne trascinato in guerra dalla strategia d'azione dei membri del CFR.

Poiché come noto, a molte guerre corrispondono molti soldi e infinito potere per gli oscuri signori dell'alta finanza. Una volta conclusi i conflitti, saranno infatti sempre loro a decidere le condizioni di riparazione della nazione di turno che è stata messa in ginocchio. Ai popoli di entrambe le parti belligeranti invece, non resterà che l’amaro compito di leccarsi le ferite tra un camposanto e l'altro, aspettando di sapere quanto dovranno pagare per le spese di guerra (“vinta” o persa che sia). Con l’ingresso dell’America nel secondo conflitto mondiale avvenne infatti un colossale trasferimento di ricchezza dalla casse pubbliche a quelle private; Il bilancio federale USA a cavallo del decennio 1930-1939 era di “appena” 8 miliardi di dollari l’anno, nel 1945 invece, il debito per sostenere la guerra fece impennare i grafici contabili fino 303 miliardi di quota. Il costo globale del conflitto (nei soli termini economici) sostenuto dagli americani, fu ufficialmente di 321 miliardi di dollari, più del doppio di quanto il governo federale aveva “scucito” ai contribuenti nei 152 anni di storia che vanno dal 1789 al 1941 [17]. Gli eventi bellici peraltro, non rappresentano solo il grande business dei banchieri, ma sono anche un subdolo ed efficacissimo strumento di azione politica. Vengono infatti concepiti a tavolino come formidabile pretesto per instaurare a guerra finita, gli assetti politici e sociali a loro più congeniali. Si muovono a piccoli passi per realizzare il progetto secolare del “nuovo ordine mondiale”. Uno scopo che del resto trapela esaustivamente dalle stesse parole pronunciate da James Warburg (insigne esponente dei poteri forti) solo pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale:

"Che vi piaccia o no, avremo un governo mondiale, o col consenso o con la forza".[18]

Tra gli altri invisibili personaggi della storia che “suggerirono” a Roosevelt gli obiettivi da raggiungere durante la sua presidenza, compare il nome eccellente di Bernard M. Baruch. Un illustre membro dell’alta finanza e del CFR che presiedette al Comitato delle industrie belliche durante la Prima guerra mondiale e che poi negoziò anche le condizioni delle riparazioni tedesche nel trattato di Versailles [19]. La sua autorevolissima voce venne sempre e perentoriamente ascoltata dai presidenti americani.



Nato in Texas nel 1870 da un agiatissimo esponente del Ku Klux Klan, l'ultra miliardario Bernard Mannes Baruch divenne il “consigliere” di ben sei presidenti USA. Dal massone [20] Woodrow Wilson (1912) al massone Eisenhower (1950), fu sempre lui ad esempio a “persuadere” il Presidente Wilson circa la necessità di coinvolgere l’America nella prima guerra mondiale. E persino la creazione di un organo governativo volto esclusivamente a sostenere lo sforzo bellico americano fu una sua idea. Nulla di strano quindi se al nuovo ente vennero conferiti ampi poteri speciali nella pianificazione della produzione industriale. Come del resto è naturale, che a capo di esso finì per essere nominato proprio lui, Bernard Baruch, il mentore del Presidente.

Una volta al comando del “War Industry Board”, tutte le commesse relative al materiale bellico e logistico passarono nelle sue mani, dagli stivali ai mezzi corazzati. Affari d’oro che non si limitarono agli approvvigionamenti americani ma che si estesero in buona misura anche agli ordinativi degli altri eserciti alleati. E come denunciò nel 1919 dalla Commissione Investigativa del Congresso (guidata dal senatore W. J. Graham) che indagò sui profitti che quell’organo rese possibili, si trattò di: “un governo segreto…sette uomini scelti dal Presidente hanno concepito l’intero sistema di acquisti militari, programmato la censura sulla stampa, creato un sistema di controllo alimentare…dietro porte chiuse, mesi prima che la guerra fosse dichiarata” [21].

In seguito, fu possibile ripetere tale collaudato “modus operandi” grazie ai “consigli” che Baruch diede al presidente F. D. Roosevelt, nella guerra contro Hitler: questa volta però l’organo pianificatore si chiamò War Production Board. A dirigerlo venne nominato Harry Hopkins, un uomo di fiducia del signor Baruch, (ibidem).
La decriptazione dei codici giapponesi

Tornando alle circostanze militari che condussero all’attacco di Pearl Harbor, già a partire dall’ultima settimana del settembre 1940, un esperto team di crittografi americani riuscì a decodificare entrambi i principali codici segreti utilizzati dai Giapponesi. Tutte le comunicazioni diplomatiche riservate vennero quindi tradotte con il “codice Purple” mentre i dispacci militari nipponici segreti poterono essere interpretati con il codice “Kaigun Ango” in tempi sufficientemente brevi. La riuscita decodificazione dei codici però, venne mantenuta nel massimo riserbo anche tra le stesse autorità militari USA, in quanto, come anzidetto, si fece in modo che i dispacci dei servizi informativi giungessero direttamente al Presidente [22].

Le reali potenzialità dell’intelligence USA vennero “a galla” solo più tardi, grazie alle rivelazioni del contrammiraglio Royal Ingersoll, assistente capo delle operazioni navali. Egli spiegò infatti che già prima di Pearl Harbor i servizi informativi americani erano in grado di scoprire in anticipo la strategia navale di guerra e le operazioni tattiche del Giappone [33]. Una verità esplosiva documentata da una lettera scritta il 4 ottobre 1940 e indirizzata da Ingersoll ai due ammiragli James Richardson e Thomas Hart. La missiva, estremamente chiara e dettagliata, precisava che la marina americana iniziò il rilevamento dei movimenti e delle posizioni delle navi da guerra giapponesi nell’ottobre 1940: “Ogni spostamento rilevante della flotta dell’Orange (che nel codice USA significava Giappone) è stato previsto ed è disponibile un flusso continuo di informazioni riguardanti le attività diplomatiche dell’Orange” [23].

Peraltro come vedremo, i giapponesi, furono protagonisti di talmente tanti errori madornali nell’effettuare le loro comunicazioni riservate, che diventa davvero difficile poi riuscire a credere nella versione ufficiale dell'attacco a “sorpresa”.

L'ammiraglio giapponese Yamamoto infatti, ruppe imprudentemente il silenzio radio il 25 novembre 1941. I messaggi in questione ordinavano alla 1° flotta aerea di prendere il volo il 26 novembre dalla base di Hitokappu per dirigersi in acque Hawaiiane e attaccare così la flotta americana all'ancora di Pearl Harbor. Precisò addirittura latitudine e longitudine della rotta da percorrere [24].

Come noto, l’attacco venne poi rimandato al 7 dicembre, ma ciò non toglie che i servizi informativi americani sapessero ormai quali fossero le reali intenzioni giapponesi. E come minimo, la base di Pearl Harbor avrebbe dovuta essere stata posta in stato di allerta. Ma ecco qui di seguito riprodotto il testo letterale dei due messaggi intercettati dai sevizi informativi americani:

1) “Il 26 novembre l'unità operativa, mantenendo strettamente riservati i suoi movimenti, deve lasciare di Hitokappu e giungere al 42° di latitudine nord per 170° di longitudine est nel pomeriggio del 3 dicembre e completare velocemente il rifornimento” [25].

2) “L'unità operativa, mantenendo strettamente riservati i suoi movimenti e ponendo estrema attenzione a sottomarini e velivoli, deve avanzare in acque Hawaiiane e alla vera apertura delle ostilità attaccare la forza principale degli Stati Uniti alle Hawaii infiggendole un colpo mortale (neretto dell’autore). Il primo attacco aereo è previsto per l'alba del giorno X. La data esatta sarà fornita in un ordine successivo. Una volta completato l'attacco aereo, la forza operativa, mantenendo una stretta collaborazione e prestando attenzione al contrattacco nemico, dovrà abbandonare velocemente le acque nemiche e fare rotta verso il Giappone. Se i negoziati con gli Stati Uniti avranno esito positivo, l'unità operativa dovrà essere pronta a tornare immediatamente a radunarsi”.

Paradossalmente però, solo gli uomini di fiducia del Presidente erano stati autorizzati a seguire l’ evoluzione della crisi con il Giappone. Ed è probabilmente proprio per tale motivo che quel fatidico 7 dicembre 1941, il “miracolato” ammiraglio Anderson (ex direttore dei servizi informativi e stretto collaboratore di Roosevelt) sopravvisse indenne all’attacco. Egli infatti, al momento dell’incursione aerea non si trovava a bordo di nessuna delle sue navi da guerra, ma al sicuro nella sua tranquilla residenza di Diamod Head.

Per un’altra “strana” ironia della sorte, la stazione di monitoraggio americano delle Hawaii (la c.d. stazione cinque) era proprio uno dei principali centri d’intercettazione dei messaggi in codice Purple giapponesi. E ciononostante, la strage non poté essere evitata, poiché, come già ampiamente chiarito, i messaggi giapponesi, una volta decriptati venivano inviati direttamente al Presidente, senza passare quindi per l’alto comando locale. Una circostanza per così dire “anomala” che fece da preludio al sacrificio umano di migliaia di americani.

A denunciare le “stranezze” della catena informativa ci sono le proteste documentate e archiviate dell’ammiraglio Kimmel. Il quale, al sopraggiungere della primavera del 1940, si rese conto di essere stato tagliato fuori dal servizio informativo. A provarlo c’è la sua richiesta del 18 febbraio 1940 rivolta all’ammiraglio Stark per ottenere che venisse nominato un responsabile dei servizi a cui fare capo per risolvere la “confusione”. Lo scopo di Kimmel naturalmente, era quello di ottenere che qualche ufficiale qualificato gli facesse pervenire i rapporti di natura segreta [26] senza “malintesi”.

La risposta di Stark però, arrivò solo dopo un mese circa, esattamente il 22 marzo. In essa veniva perentoriamente affermato quanto segue: “I servizi segreti della Marina sono pienamente consapevoli della loro responsabilità di tenervi adeguatamente informato” [27]. Ma siccome Kimmel fino a quel momento non aveva mai ricevuto alcuna informazione “sensibile”, dovette prendere atto che si trattava solo di rassicurazioni del tutto formali. In sostanza era stato totalmente escluso dal circuito informativo per ordini che potevano provenire solo dalla Casa Bianca. Tuttavia, cosciente della gravità del pericolo che correva la sua flotta, decise comunque di esercitare nuove pressioni ufficiali. E dopo aver atteso invano un cambiamento della situazione fino al 26 maggio 1940, inviò una ulteriore richiesta direttamente ai servizi informativi. Il messaggio recitava quanto segue: “Informare immediatamente il comandante in capo della flotta del Pacifico di tutti gli sviluppi importanti attraverso i mezzi più rapidi a disposizione (ibidem).

Nel cablogramma, l’ammiraglio sottolineò persino che la sua esigenza di essere tempestivamente informato, era da ritenersi un “principio militare cardine” (ibid p.58). Ma anche quest’ultimo tentativo si rivelò vano, e al termine del luglio 1941 Kimmel poté constatare amaramente, di essere stato ormai definitivamente escluso dall’intelligence.

Alla fine della guerra Kimmel dichiarerà infatti: “Non comprendo e non comprenderò mai perché io sia stato privato delle informazioni disponibili a Washington” (ibid p.57).

Dalla testimonianza dell’ammiraglio che fu il comandante in capo della flotta nel Pacifico, si può quindi ragionevolmente concludere che il popolo americano e la maggior parte dei suoi alti ufficiali venne tenuta completamente all'oscuro dei reali retroscena che determinarono la guerra. Le registrazioni, le testimonianze e i documenti che lo rivelano vennero tutte “incredibilmente” ignorate dalle varie indagini che si svolsero tra il 1941 e il 1946 fino agli accertamenti congressuali del 1995. Ma le prove di una cospirazione a danno delle nazioni ci sono e aspettano solo di trovare udienza nei circoli mediatici di massa. Ambedue i messaggi di Yamamoto che ordinarono l’attacco su Pearl Harbor ad esempio, sono riportati testualmente nei libri scritti da alcuni ufficiali della Marina americana come: “Pearl Harbor” del vice-ammiraglio Homer N. Wallin e in “The Campaigns of The Pacific War” redatto dalla Divisione analisi navali del rilevamento bombardamenti strategici degli Stati Uniti.

Peraltro la stazione "H" dei servizi americani, intercettò e decriptò almeno altri 13 messaggi "sensibili" di Yamamoto, il cui testo è curiosamente risultato mancante dagli archivi della Marina. Sappiamo comunque per certo che furono trasmessi con il segnale di radio-chiamata RO SE 22 tra le 13.00 del 24 novembre e le 15.54 del 26 novembre, appena una decina di giorni prima dell’attacco giapponese (ibid p.66). Tutti i documenti originali in questione erano stati ceduti nel 1979 agli archivi nazionali del Presidente Jimmy Carter [28].

L'indagine ufficiale del Congresso, concluse invece che i servizi di spionaggio americano, “persero contatto” con le navi giapponesi nei giorni precedenti all’attacco (ibid p.67), in quanto queste, avevano scrupolosamente mantenuto il silenzio radio…

Ma a smentire la versione ufficiale esistono anche altre prove schiaccianti come le registrazioni dei servizi informativi olandesi. Dalla disamina di queste infatti, è stato appurato che gli ammiragli al comando delle navi da guerra giapponesi, violarono il silenzio radio rimanendo costantemente in contatto con Tokyo (ibid p.67). E quindi, tanto la loro posizione quanto le loro intenzioni furono necessariamente captate durante tutti i 25 giorni che vanno dal 12 novembre al 7 dicembre 1941, cioè sino alla data del fantomatico attacco a “sorpresa”. Peraltro uno dei messaggi intercettati il 18 novembre venne addirittura inviato “in chiaro” e in caratteri latini, quindi interpretabile anche senza codici.

Pertanto, la testimonianza del generale olandese Hein ter Poorten, smentì palesemente la versione ufficiale della commissione d’inchiesta. Egli, infatti non esitò a confermare che anche i suoi crittografi della “Kamer 14” (ibidem) possedevano prove che dimostravano una minacciosa concentrazione di navi giapponesi nei pressi delle isole Curili già alcuni giorni prima dell'attacco di Pearl Harbor.

Il resoconto rilasciato dall’ammiraglio Harold Stark davanti alla Commissione congressuale del 1945-6 attesta poi inequivocabilmente che quest’utlimo, al contrario dell’ammiraglio Kimmel, era stato informato del massiccio raduno giapponese nella baia di Hottokappu prima del 7 dicembre 1941 [29]. E come accertò ancora una indagine congressuale del 1945, il 3 dicembre 1941 (quindi 4 giorni prima dell'attacco giapponese), furono intercettati e decifrati altri messaggi che svelavano ( a chi ancora non lo avesse capito) la decisione giapponese di dichiarare la guerra agli Stati Uniti con un colpo di mano [30].

Anche le registrazioni originali di questi messaggi però, “sparirono misteriosamente” dagli archivi della Marina (ibidem): in ultima analisi, la commissione unica congressuale d'indagine sull'attacco a Pearl Harbor cercò solo di insabbiare le prove del complotto contro le nazioni.



"Ieri, 7 Dicembre, data che resterà simbolo di infamia, gli Stati Uniti d'America sono stati improvvisamente e deliberatamente attaccati da forze aeree e navali dell'impero giapponese...".
F.D.Roosevelt nel discorso alla Nazione dell'8 dicembre 1941

martedì 10 luglio 2012

NON SOLO BILDERBERG E TRILATERAL, GOLDMAN SACHS E BOCCONI. IN PIENA CRISI DELLO SPREAD, CON LA MAGGIORANZA CHE TRABALLA A OGNI VOTO, MARIO MONTIMER VOLA BEN TRE GIORNI NEGLI USA PER PARTECIPARE ALLA RISERVATISSIMA “SUN VALLEY CONFERENCE” - 2- UN SUMMIT ORGANIZZATO IN IDAHO DALLA BANCA D’AFFARI ALLEN & CO CON TUTTI I CAPOCCIONI DEL MONDO DEI DIGITAL MEDIA. DAL SECCHIONE BILL GATES A ZUCCONE ZUCKERBERG, DALLO SQUALO MURDOCH AD AMAZON BEZOS A SCHMIDT, TUTTI I GURU DEL DIGITAL SHOCK ACCETTERANNO LA CONSEGNA DEL SILENZIO PER ASCOLTARE IL PREMIER ITALIANO PARLARE MALE DELLA MERKEL. BASTERÀ L’AIUTINO AMERICANO A MONTI PER RIMANERE IN SELLA ANCHE DOPO IL 2013? SE OBAMA VINCE LE ELEZIONI, FORSE… -

Filippo Sensi per "Europa Quotidiano"

Sul sito di palazzo Chigi, l'appuntamento c'è: «Giovedì 12-15 luglio, Sun Valley, Idaho Usa. Partecipazione alla Allen & Company Sun Valley Conference». Ma se chiedi, visti i chiari di luna dell'eurogruppo a Bruxelles, nessuno conferma ufficialmente la partecipazione di Mario Monti. Tanto più che non è proprio usuale che un premier partecipi a un simile appuntamento, un summit annuale che riunisce i colossi del mondo dei media e della Silicon Valley.
MARIO MONTI E BARACK OBAMAMARIO MONTI E BARACK OBAMA MARK ZUCKERBERGMARK ZUCKERBERG
Gente come Mark Zuckerberg e Bill Gates, Eric Schmidt di Google e Jeff Bezos di Amazon, Dick Costolo di Twitter e Rupert Murdoch. Invitati dal 1983 da una banca d'affari specializzata nel settore con tutte le garanzie del caso: massima segretezza sulla lista degli invitati (tanto che loro, ovviamente, non confermano a Europa la presenza del premier), consegna del silenzio sui panel e i temi trattati, niente giornalisti tra i piedi.
Che ci fa, allora, Monti a Sun Valley, stazione sciistica con retrogusto di Ernest Hemingway, come ricorda sul suo blog Mario Platero, nume tutelare del Sole 24 Ore in America, primo ad accorgersi dell'appuntamento americano del premier?
ERIC SCHMIDTERIC SCHMIDT BILL GATESBILL GATES
Facile immaginare la curiosità che questo mondo di tycoon possa avere nei confronti della delicatissima situazione europea. Con corpose quote di mercato e investimenti sulla piazza del vecchio continente, legittimo immaginarsi cosa chiederanno i media mogul al primo ministro italiano, fresco di decisioni prese a Bruxelles, se decidesse davvero di andare. Tanto da ipotizzare addirittura un ruolo semiufficiale di Monti in Idaho, a rappresentare nella sua interezza una Unione europea mai così divisa.
rupert murdoch 50rupert murdoch 50 Jeff Bezos di AmazonJeff Bezos di Amazon
Ogni anno alla Sun Valley Conference è previsto un ospite «politico», ammesso alla ospitalità casual di Allen & Co: una volta il re giordano, un'altra il presidente colombiano, c'è sempre un leader internazionale da servire a una selezionatissima platea che muove quantità inimmaginabili di denaro.
E Monti, in effetti, per la sua storia personale e per l'uso di mondo maturato in questi anni, ha le caratteristiche perfette.

Non fosse altro perché in club esclusivi, amanti della Chatham rule (la clausola di riservatezza rivolta ai partecipanti), il premier pare muoversi a suo agio. Gli appassionati di complotti, Trilaterali e Bilderberg avranno di che speculare (e, d'altra parte, in una delle sue scappate transoceaniche Monti fece un figurone al Peterson Institute, un altro cenacolo dei cosiddetti poteri forti).
sun valley allen and cosun valley allen and co ANGELA MERKELANGELA MERKEL
Ma il presidente del consiglio, in un contesto in cui si fanno affari a molti zeri, potrebbe invece contribuire a mandare un segnale di fiducia per l'Europa e l'Italia a una business community un po' in ansia. Consolidando quell'immagine di «amico americano» che la Casa Bianca vede di buon occhio, come broker del delicato negoziato con gli altri partner Ue, Merkel in testa. A novembre negli States si vota, e non solo in Idaho.

http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-non-solo-bilderberg-e-trilateral-goldman-sachs-e-bocconi-in-piena-crisi-dello-41285.htm