Il 17 febbraio 2009 la VI Sezione Penale della Cassazione, presieduta dal dott. Giovanni de Roberto, respinge il ricorso presentato dalla Procura di Caltanissetta contro la decisione del giudice per le indagini preliminari (gup), il dott. Paolo Scotto di Luzio, che aveva stabilito il 'non luogo a procedere' nei confronti del colonnello dei CarabinieriGiovanni Arcangioli, accusato di aver sottratto, il 19 luglio 1992 in via D'Amelio a Palermo, l'agenda rossa del magistrato Paolo Borsellino dalla sua borsa di pelle marrone, con tutta una serie di aggravanti tra cui quella di aver favorito Cosa Nostra. Il 18 marzo 2009 venivano depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione, che accoglieva in toto le ragioni del giudice Scotto e poneva così un macigno inamovibile sulle speranze di fare luce su uno degli episodi più inquietanti della storia della repubblica.
La vicenda era iniziata quattro anni prima, il 27 gennaio 2005, quando una fonte riservata aveva segnalato presso lo studio di un fotografo di Palermo l'esistenza di una foto che ritraeva una persona in borghese aggirarsi in via D'Amelio, negli istanti successivi all'esplosione, con una borsa in mano. Una copia della foto viene consegnata agli inquirenti dal fotografo stesso, Paolo Francesco Lannino, il 17 febbraio 2005. La persona ritratta nella foto viene subito individuata nella persona di Giovanni Arcangioli, che viene ascoltato per la prima volta il 5 maggio 2005 dando il via a quattro anni di indagini ed interrogatori, conclusisi nel nulla con il verdetto della Cassazione del febbraio 2009.
E' utile notare come proprio ora, nel momento esatto in cui lo scontro sulla riforma della giustizia è incandescente e le indagini sulle stragi del '92 e sulla presunta trattativa tra stato e mafia stanno entrando nel vivo (portate avanti da ben quattro procure della Repubblica), siano apparse in rete alcune note APCOM che rilanciavano la notizia della decisione della Cassazione, balzata dunque agli onori della cronaca con ben nove mesi di ritardo.
La notizia è di quelle forti: nella borsa del magistrato ucciso, l'agenda rossa non c'era.
La vicenda era iniziata quattro anni prima, il 27 gennaio 2005, quando una fonte riservata aveva segnalato presso lo studio di un fotografo di Palermo l'esistenza di una foto che ritraeva una persona in borghese aggirarsi in via D'Amelio, negli istanti successivi all'esplosione, con una borsa in mano. Una copia della foto viene consegnata agli inquirenti dal fotografo stesso, Paolo Francesco Lannino, il 17 febbraio 2005. La persona ritratta nella foto viene subito individuata nella persona di Giovanni Arcangioli, che viene ascoltato per la prima volta il 5 maggio 2005 dando il via a quattro anni di indagini ed interrogatori, conclusisi nel nulla con il verdetto della Cassazione del febbraio 2009.
E' utile notare come proprio ora, nel momento esatto in cui lo scontro sulla riforma della giustizia è incandescente e le indagini sulle stragi del '92 e sulla presunta trattativa tra stato e mafia stanno entrando nel vivo (portate avanti da ben quattro procure della Repubblica), siano apparse in rete alcune note APCOM che rilanciavano la notizia della decisione della Cassazione, balzata dunque agli onori della cronaca con ben nove mesi di ritardo.
La notizia è di quelle forti: nella borsa del magistrato ucciso, l'agenda rossa non c'era.
Questo è quanto dice la Cassazione, ricalcando le motivazioni presentate dal giudice Scotto per stabilire il proscioglimento di Arcangioli. Motivazioni presentate addirittura il 29 aprile 2008, ovvero un anno e mezzo fa. Oggi, a sorpresa, questa notizia viene riproposta e spacciata come una primizia, come una verità processuale finalmente accertata, che spegnerebbe sul nascere ogni tipo di teoria complottista, tanto cara ai 'professionisti dell'antimafia'. E' forse un modo subdolo per tentare di delegittimare la procura di Caltanissetta, che voleva rinviare a giudizio Arcangioli e che è stata bastonata dalla Cassazione? La stessa procura di Caltanissetta che oggi ha in mano indagini delicatissime sui mandanti occulti? Il sospetto è forte.
E siccome le sentenze della Cassazione non si possono appellare, ma analizzare e criticare ovviamente sì, vogliamo qui mettere in evidenza tutte quelle incongruenze e quelle deduzioni, alcune volte palesemente superficiali, alcune volte (a nostro giudizio) addirittura surreali, che stanno alla base della decisione del giudice Paolo Scotto di Luzio e a cui la VI Sezione Penale della Cassazione, in un paio di paginette, ha dato ragione, senza sollevare alcuna ombra di dubbio.
Ai lettori il giudizio finale sulla ragionevolezza delle nostre osservazioni. In coda al tutto, si potranno trovare i link ai documenti ufficiali.
Cominciamo.
Innanzitutto è necessario sottolineare i casi in cui un gup ha la facoltà di decidere il 'non luogo a procedere'. L'art. 425 del Codice di Procedura Penale al comma 3 stabilisce che uno di questi casi è “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio”. Tradotto: se il pm non ha un briciolo di prova per far condannare l'imputato. La norma serve ovviamente ad evitare che si celebrino processi inutili, destinati a sicura assoluzione, con conseguente sperpero di tempo e denaro. Secondo il giudice Scotto, questo sarebbe stato proprio il caso di un eventuale processo a carico dell'allora capitano del Ros dei Carabinieri Giovanni Arcangioli. Tra le motivazioni di Scotto si legge infatti: “Sussistono nel caso una serie di elementi che si pongono tra loro in contraddizione insuperabile e tale da far ritenere che il vaglio dibattimentale delle medesime fonti di prova, ascoltate ripetutamente in fase di indagine, più di un decennio dopo lo svolgimento dei fatti e destinate ad ulteriore logorio per il tempo trascorso, non consenta di sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio”. Tradotto: le indagini preliminari hanno già detto tutto quello che c'era da dire e un eventuale processo non potrebbe in alcun modo far luce su una vicenda troppo oscura e contraddittoria. Meglio non provarci nemmeno, a far luce. Meglio chiudere tutto in partenza.
Dopo aver presentato tali motivazioni, Scotto passa alla dimostrazione delle stesse.
I FILMATI
Parte dall'analisi di due filmati, quelli che ritraggono per pochi secondi il capitano Arcangioli camminare in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma, un marsupio nero attorno alla vita. Sono due frammenti. Il primo inquadra Arcangioli con una borsa in mano, a circa 25 metri dall'esplosione, mentre cammina verso l'uscita di Via D'Amelio. Il secondo lo inquadra a circa 60-70 metri dall'esplosione, sempre con la borsa in mano, in prossimità di via Autonomia Siciliana. L'ipotesi accusatoria è quella che Arcangioli si sia allontanato con la borsa per qualche tempo, si sia appartato per estrarre l'agenda rossa e consegnarla a ignoti o trattenerla per sé, abbia poi riposto la borsa nella macchina del magistrato ucciso, dove sarebbe stata poi raccolta dall'ispettore di polizia Francesco Paolo Maggi.
19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio: in primo piano
il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli
Scotto cita una nota della Dia del 7 settembre 2007 dove si dice che “non è neanche possibile stabilire il tempo reale trascorso tra le immagini che inquadrano il capitano Arcangioli con la borsa in mano e quelle che lo ritraggono senza”. Questa osservazione nulla toglie all'ipotesi accusatoria descritta sopra. E' chiaro che non sia facile stabilire esattamente il tempo trascorso tra generiche immagini in cui Arcangioli appare con la borsa in mano e altre immagini in cui Arcangioli ne appare privo. Al massimo è possibile stabilirne una successione cronologica in base ad elementi esterni oggettivi (inclinazione della luce del sole, quantità di fumo presente, ecc.). Ma non è questo il punto e niente ha a che fare con i due filmati in questione. Tanto che Scotto deve prendere atto invece che la nota informativa del 27 novembre 2007 sostiene che i due filmati in esame si possano mettere in successione cronologica. Cioè Arcangioli è partito con la borsa in mano dal luogo dell'esplosione ed è arrivato fino in fondo a via D'Amelio, all'incrocio con via Autonomia Siciliana, sempre tenendo la borsa in mano.
Per il giudice Scotto tutto questo non ha alcuna valenza: “Nulla consente autonomamente di inferire circa la condotta che gli viene ascritta e in particolare di stabilire che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta sparire. (…) Quelle immagini non danno contezza di quanto tempo l'imputato avrebbe trattenuto la borsa, né da sole consentono di sostenere che questi si sia allontanato, non visto, per manipolarne il contenuto. Va inoltre rilevato che nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione”. Certo, verrebbe da osservare ironicamente, se ci fosse un filmato in cui si vede Arcangioli che apre la borsa e occulta l'agenda rossa saremmo tutti più felici e non ci sarebbe bisogno nemmeno di discutere se fare un processo o meno. Addirittura, se le telecamere fossero state a raggi X, avremmo potuto vedere direttamente se davvero dentro quella borsa c'era l'agenda rossa o meno. Peccato che, di solito, la colpevolezza di un imputato non sia così facile da dimostrare, anche a fronte di prove schiaccianti. E' chiaro che un dibattimento serve proprio per ottenere informazioni che possano corroborare o smentire quello che appare come una forte prova indiziaria. E cosa c'è di più forte di un filmato che mostra Arcangioli allontanarsi a 70 metri dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano?
Scotto non fa un piega: “La direzione percorsa – verso Via Autonomia Siciliana – non è tale da far stabilire che l'imputato abbia sicuramente percorso tutta la Via D'Amelio, al fine precipuo di controllare il contenuto della borsa, non visto, e di celare l'agenda”. Certo, ma il sospetto è forte e oggettivamente fondato. Che senso aveva allontanarsi così tanto dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano? Per farle prendere aria? E' un comportamento assolutamente normale o suscita qualche sospetto? O bisogna credere che Arcangioli facesse così con tutti gli oggetti che si trovava sotto mano? Li prendeva e li accatastava in via Autonomia Siciliana? Un copertone fumante qua, un pezzo di carrozzeria accartocciata là, una borsa... Avanti e indietro da Via D'Amelio senza uno scopo preciso? Dove stava portando quella borsa? E a chi? Cose evidentemente non degne di essere approfondite.
MA QUANTE BORSE AVEVA IL GIUDICE?
Il giudice Scotto introduce poi quella che secondo lui sarebbe la testimonianza più attendibile per la ricostruzione dell'accaduto: un verbale dell'ispettore di Polizia Francesco Paolo Maggi risalente al 21 dicembre 1992. Dice Scotto: “Gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale in cui si dà conto che veniva repertata, come priva di ogni rilievo investigativo, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 5 novembre 1992”. La frase del giudice è a dir poco infelice. Che infatti questi siano “gli unici dati certi” sulla borsa del giudice fa quanto meno sorridere, se si pensa che Scotto sembra ignorare completamente che la borsa non fu in realtà “repertata” il 5 novembre 1992, cioè quattro mesi dopo, ma venne portata in Questura addirittura il giorno successivo, come dimostra la copia della ricevuta. Ma, a parte questo piccolo particolare, c'è un dettaglio da non trascurare nella frase del giudice: il fatto che parli di una borsa e non della borsa del giudice. Cioè, sta introducendo la tesi che poi riprenderà in seguito: la possibile esistenza di più borse tra loro identiche(almeno un paio). Sembra una idea surreale, visto che cozza contro ogni evidenza dei fatti e soprattutto contro le dichiarazioni degli stessi famigliari del giudice ucciso, ma Scotto vedremo che la insinuerà (senza mai sostenerla esplicitamente) con una certa frequenza e insistenza.
Scotto riporta un passo saliente del verbale di Maggi, secondo cui lui stesso “si avvicinava all'auto del magistrato dove un vigile del fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava un borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo avergli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del dirigente di qs. Squadra Mobile”. Scotto cita anche il fatto che, in un verbale successivo del 13 ottobre 2005, Maggi dichiara di essere intervenuto “quasi in contemporanea” ai primi mezzi dei vigili del fuoco (il primo intervento dei vigili del fuoco è delle 17:03). A corroborare la sua ipotesi, Maggi dichiara di aver visto il superstite Antonio Vullo non ancora soccorso, di essersi addentrato nella via D'Amelio, di aver notato la borsa nell'auto, di aver chiesto l'intervento di un vigile del fuoco e di aver prelevato la borsa, che ricorda essere stata “gonfia, quindi piena e pesante”.
Peccato che questa, che dovrebbe essere la prova regina secondo il giudice Scotto, cioè il fatto che Maggi fu il primo in assoluto ad entrare in possesso della borsa del giudice, è una ricostruzione palesemente falsa, che non ha alcun riscontro con tutte le altre dichiarazioni di tutti gli altri testi e soprattutto che stravolge (si spera in modo non voluto) le correzioni successive apportate dallo stesso Maggi. Maggi infatti ha poi precisato di essere sì arrivato in via D'Amelio “quasi in contemporanea con i vigili del fuoco”, ma non di non aver subito esaminato l'auto del giudice. La verità è che Maggi, per sua stessa ammissione, prima di arrivare sul luogo andò a prendere il dr. Fassari a casa sua, poi, una volta in Via D'Amelio, si attivò per soccorrere una bambina e infine fece più volte avanti e indietro in via D'Amelio aspettando che i vigili del fuoco spegnessero gli incendi. Solo allora si avvicinò alla vettura del giudice ed estrasse la borsa. E' chiaro dunque che non è possibile stabilire, come fa il giudice Scotto, che Maggi sia stato il primo a prendere nelle mani la borsa. C'era infatti tutto il tempo, per altri soggetti, di mettere mano alla stessa.
E che sia una tesi che fa a pugni con la realtà è subito dimostrato. Se veramente bisogna credere che Maggi fu il primo a prendere la borsa e ad affidarla a Fassari che la portava immediatamente in questura senza ulteriori passaggi di mano, significa che la borsa che ha in mano Arcangioli, ritratto in foto, è un'altra! Scotto sta dunque veramente asserendo che esisterebbero due distinte borse del giudice Borsellino: una prelevata da Maggi e portata immediatamente in questura, l'altra che, sbucata da non si sa bene dove, compare nelle mani di Arcangioli qualche minuto più tardi. Una tesi quanto mai bizzarra, che è subito demolita da una più realistica ricostruzione dei fatti. Si vedrà infatti che, anche tralasciando tutte le possibili incongruenze delle dichiarazioni dei vari testi, una delle poche cose incontrovertibili della vicenda è che fu Ayala il primo ad intervenire sul luogo dell'attentato e ad occuparsi immediatamente della borsa. Il quadro è confermato dalle dichiarazioni del suo agente di scorta, dal giornalista Felice Cavallaro e persino in qualche modo da Arcangioli stesso. Il giudice Scotto sottolinea il fatto che Maggi dichiarò che la borsa era “piena e pesante”, come a insinuare che dentro ci potesse ancora essere l'agenda rossa e che quindi, nel caso, sicuramente non fu Arcangioli a farla sparire. Peccato che la borsa era pesante, non certo per la presenza dell'agenda, ma perché era impregnata di acqua, gettata da un vigile del fuoco per spegnere un ritorno di fiamma.
Alla luce di questi fatti, è veramente sconcertante leggere che “gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale” di Maggi. Anzi: probabilmente è vero. Il problema è la ricostruzione deformata che Scotto ne fa. Una ricostruzione che oggettivamente non sta insieme e che arriva a sfiorare il ridicolo quando ipotizza implicitamente l'esistenza di due borse identiche. Cosa che, tra l'altro, lungi dallo scagionare Arcangioli, lo metterebbe per assurdo in una posizione ancora più sospetta. Dove avrebbe preso Arcangioli la “seconda borsa” e dove la starebbe portando?
Un ulteriore aspetto che avrebbe dovuto far insospettire Scotto, è il fatto che questa relazione di servizio fu redatta solo sei mesi dopo la strage. Un tempo enorme. Ma Scotto non solo non si insospettisce: utilizza questo particolare come un punto a favore di Arcangioli. Perchè, argomenta Scotto, prendersela tanto con Arcangioli per non aver mai redatto una relazione di servizio, quando anche altri ci hanno messo sei mesi per farne una? Ma che modo di ragionare è? Da quando in qua due mancanze si annullano fra loro? E poi: Scotto è forse l'avvocato di parte di Arcangioli? Non spetta certo al gup stabilire l'innocenza dell'imputato, soprattutto quando questa è reclamata in modo così maldestro, cioè a fronte di possibili analoghi torti altrui.
I TESTIMONI
Il giudice Scotto passa a questo punto ad analizzare le varie testimonianze.
La prima versione di Ayala
L'8 aprile 1998, in tempi dunque non sospetti, cioè sette anni prima del coinvolgimento di Arcangioli, Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, in un diverso processo, aveva dichiarato: “Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.
In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.
La prima versione di Ayala, riveduta
Il 2 luglio 1998, sentito al Borsellino Ter, Ayala aveva dichiarato di essere residente all'hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d'aria da Via D'Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c'era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D'Amelio e vede “una scena da Beirut”. “Saranno passati dieci minuti, un quarto d'ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un'antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c'era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno... parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (...) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c'era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po' fumante anche... però si capiva sostanzialmente... lui la prese e me la consegnò. (…) Io dissi: - Guardi, non ho titolo per... La tenga lei. -”
In questa versione leggermente ritoccata, non c'è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di aver preso in mano e aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo. (…) Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era un cadavere... era senza braccia e senza gambe”.
Ayala afferma che in quel momento lo raggiunge Felice Cavallaro, che scoppia a piangere e lo abbraccia e gli dice che tutta Palermo lo crede morto: questo perché pochissimi sapevano che lì abitava la madre di Borsellino, mentre tanti sapevano che in quelle zone abitava lui. “Tutta Palermo è piena della voce che ti hanno ammazzato!”
La prima versione di Arcangioli
In un verbale di sommarie informazioni del 5 maggio 2005 Arcangioli dichiara: “Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due, (…) mi informarono del fatto che doveva esistere una agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all'interno della vettura vi fosse una tale agenda, eventualmente all'interno di una borsa. Se non ricordo male, aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale, dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottore Ayala e il dottore Teresi. Uno dei due predetti magistrati aprì la borsa e constatammo che non vi era all'interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificato ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare, incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina di servizio di uno dei magistrati”. Di quest'ultimo fatto non ha però un ricordo preciso. Ricorda invece che sul luogo della strage fosse presente anche un altro magistrato, Alberto Di Pisa.
19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio
(Fonte: il Corriere della Sera, 20 luglio 1992)
Quando ad Arcangioli viene riferito che Maggi aveva parlato di un vigile del fuoco che aveva estratto dalla macchina una borsa bruciacchiata, Arcangioli risponde: “Di tale borsa non so dire nulla, quella che io ho prelevato, ritengo dopo l'episodio citato, non aveva tracce di bruciatura”. Citando questa frase, Scotto sembra di nuovo dare credito all'ipotesi che la borsa prelevata da Maggi sia diversa da quella prelevata da Arcangioli. Peccato che Scotto dia tanta rilevanza a questa prima testimonianza di Arcangioli, visto che risulterà essere palesemente falsa. Si scoprirà infatti che Teresi giunse in via D'Amelio solo un'ora e mezza dopo l'esplosione e non incontrò mai Ayala e che Alberto Di Pisa quel giorno in via D'Amelio proprio non c'è mai stato. Sono dichiarazioni talmente false, che lo stesso Arcangioli sarà costretto a correggere il tiro nelle sue successive deposizioni. Tutto ciò non crea su Arcangioli una nube densa di sospetti? Perché avrebbe dovuto mentire così spudoratamente? Era una tentativo di depistaggio? O di occultamento delle responsabilità?
In merito, il giudice Scotto non sembra darsi molta pena e afferma che le “originarie dichiarazioni di Ayala, rese quando non vi era alcun sospetto su Arcangioli (…) non sembra si pongano in stridente contraddizione con quelle rese dall'ufficiale dei carabinieri il 5 maggio 2005”.
Ora, io invito il lettore a rileggersi la testimonianza di Ayala e a confrontarla con quella di Arcangioli. Dire che non esiste “uno stridente contrasto” è oggettivamente un capolavoro di “arrampicata sui vetri”. Ma forse ha ragione Scotto: non c'è uno stridente contrasto, c'è un contrasto assoluto e insuperabile. Non combacia niente di niente. Ayala parla di un ufficiale in divisa, mentre Arcangioli dice che e' in borghese. Ayala dice di aver esaminato la macchina con l'ufficiale, mentre Arcangioli dice che Ayala era rimasto in un posto diverso. Ayala dice che la borsa era bruciacchiata, mentre Arcangioli dice di no. Ayala dice di aver rifiutato la borsa e di non averla mai aperta ed esaminata, mentre Arcangioli dice che addirittura la aprirono e la esaminarono insieme. E' chiaro che almeno uno dei due mente, se non entrambi. Eppure per Scotto sembra esistere un punto di incontro. Ci spieghi per favore dove, perché noi non lo vediamo proprio.
La seconda versione di Ayala
Ayala il 12 settembre 2005 cambia completamente il tiro. Affermato di essere arrivato sul luogo subito dopo l'esplosione, di aver identificato il cadavere di Paolo Borsellino e di aver notato l'auto del magistrato con la portiera posteriore sinistra aperta: “Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò, per cui ricordo di averla affidata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi. Nell'affidargli la borsa gli spiegai che probabilmente era la borsa appartenente al dottore Borsellino”. Quando gli viene mostrata la foto di Arcangioli, Ayala dichiara: “Non ricordo di aver mai conosciuto, né all'epoca né successivamente il capitano Arcangioli. Non posso escludere ma neanche affermare con certezza che detto ufficiale sia la persona alla quale io affidai la borsa. Per quanto posso sforzarmi di ricordare mi sembra che la persona alla quale affidai la borsa fosse meno giovane, ma può darsi che il mio ricordo mi inganni. Insisto comunque nel dire che l'ufficiale ricevette la borsa e poi andai via. Escludo comunque in modo perentorio che all'inverso sia stato l'ufficiale di cui si parla a consegnare a me la borsa”.
Cambia tutto, dunque. Non è più l'ufficiale in divisa ad estrarre la borsa dalla macchina, ma Ayala in persona, che aveva precedentemente escluso di aver mai preso in mano la borsa. E' lui a questo punto a consegnarla all'ufficiale e questa volta esclude “in modo perentorio” che sia avvenuto l'inverso.
La versione di Minicucci
Marco Minicucci il 19 luglio 1992 era il superiore gerarchico di Arcangioli. Il 14 dicembre 2005 aveva dichiarato che “il collega (Arcangioli, n.d.a.) fu incaricato da uno dei magistrati presenti sul posto, del quale non ricordo il nome, di prelevare dall'interno dell'auto del procuratore Borsellino la valigetta dello stesso, all'interno della quale mi ricordo era contenuto un crest araldico, se non erro dell'Arma”. Due anni più tardi, il 6 novembre 2007, aveva specificato un piccolo particolare: che questo era semplicemente quanto gli era stato riferito dallo stesso Arcangioli. Sono dunque dichiarazioni prive di qualunque tipo di credibilità (o almeno, una credibilità non maggiore delle parole stesse di Arcangioli), ma il giudice Scotto le cita proprio per sostenere l'attendibilità di Arcangioli. Cioè Scotto usa dichiarazioni di Arcangioli, riferite da altri, per tentare di dimostrare che Arcangioli è attendibile. Alquanto bizzarro.
La terza versione di Ayala
L'8 febbraio 2006 Ayala modifica di nuovo la propria versione dei fatti: “Ebbi modo di vedere una persona in abiti borghesi (…) è certo che non fosse in divisa, la quale prelevava dall'autovettura attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa. (…) Dato che accanto alla macchina vi era anche un ufficiale dei carabinieri in divisa quasi istintivamente la consegnai al predetto ufficiale”.
Cambia tutto, di nuovo. Questa volta Ayala si dice certo che chi ha prelevato la borsa non fosse in divisa, ma in borghese. Non fu lui quindi a estrarla, ma la prese in mano e la consegnò poi ad un altro ufficiale, in divisa. Quest'altra dichiarazione di Ayala è talmente confusa che lui stesso chiaramente sbaglia quando dice “la persona in divisa si volse verso di me”, visto che due secondi prima si era detto certo che non fosse in divisa. Scotto nemmeno nota questo particolare, che rende la ritrattazione di Ayala, se possibile, ancora più traballante.
La seconda versione di Arcangioli
Nello stesso giorno in cui viene sentito Ayala, l'8 febbraio 2006, Arcangioli dichiara: “Non ricordo con certezza se io o il dottor Ayala aprimmo la borsa per guardarvi all'interno, mentre ricordo che all'interno vi era un crest dell'Arma dei carabinieri (…) così come non posso confermare di aver io stesso o uno dei miei collaboratori deposto la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati, mentre ritengo di aver detto di rimetterla o di averla rimessa io stesso nell'auto di servizio del dottor Borsellino”.
Quindi, rispetto alla prima versione, scompare il giudice Teresi, nella borsa compare un crest dell'Arma (e non dei fogli bianchi) e soprattutto la borsa viene rimessa da Arcangioli al suo posto, nella macchina di Borsellino. Il giudice Scotto lascia passare questa nuova dichiarazione come se niente fosse, la quale invece appare francamente inverosimile. Noi semplicemente ci chiediamo: ma che senso aveva rimettere la borsa nella macchina del giudice, esattamente nello stesso posto in cui era stata rinvenuta (tra il sedile anteriore e quello posteriore), con il pericolo che prendesse nuovamente fuoco? E' forse un lapsus freudiano di Arcangioli?
Per non parlare del fatto, non riportato dal giudice Scotto, secondo cui Arcangioli, in questa stessa audizione, dichiara anche di essersi appostato dalla parte opposta della strada per aprire la borsa e non averci trovato dentro niente di interessante. Peccato che la ricostruzione è smentita dai filmati, che inquadrano Arcangioli camminare verso l'uscita di via D'Amelio e non verso il marciapiede opposto alla casa della madre del giudice.
19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio
La versione di Farinella
Il 2 marzo 2006 l'appuntato Rosario Farinella, in servizio di scorta al dottor Ayala il 19 luglio 1992, dichiara: “Premetto che siamo arrivati quasi in contemporanea con i vigili del fuoco, (…) ci siamo avvicinati all'auto del magistrato che aveva tutte le portiere chiuse, ma non a chiave, il Dr. Ayala ha notato che all'interno della stessa, appoggiata sul sedile posteriore, c'era la borsa di cuoio del dr. Borsellino per cui, con l'aiuto dello stesso vigile del fuoco (intento poco prima a domare l'incendio dell'auto) abbiamo aperto la portiera posteriore. (…) Io personalmente ho prelevato la borsa dall'auto e avevo voluto consegnarla al dr. Ayala. Questi però mi disse che non poteva prendere la borsa in quanto non più magistrato, per cui io gli chiesi che cosa dovevo farne. Lui mi rispose di tenerla qualche attimo in modo da individuare qualcuno delle Forze dell'Ordine a cui affidarla. Unitamente a lui ed al mio collega ci siamo allontanati dall'auto dirigendoci verso il cratere provocato dall'esplosione, mentre io reggevo sempre la borsa. Dopo pochissimi minuti, non più di 5-7, lo stesso Ayala chiamò un uomo in abiti civili che si trovava poco distante e che mi indicò come ufficiale o funzionario di polizia, dicendomi di consegnargli la borsa. Allo stesso, il dr. Ayala spiegava che si trattava della borsa del dr. Borsellino e che l'avevamo prelevata dalla sua macchina (…). L'uomo che ha preso la borsa non l'ha aperta, almeno in nostra presenza; ricordo che appena prese la borsa, lo stesso si è allontanato dirigendosi verso l'uscita di Via D'Amelio, ma non ho visto dove è andato a metterla”.
Le dichiarazioni di Farinella, molte lucide e anche in parte confermate dal pompiere Giovanni Farina che ricorda di avere aiutato un appartenente alle forze dell'ordine ad aprire la portiera incastrata, sembrano dunque mettere a posto tutti i pezzi del puzzle. Purtroppo, quando i magistrati gli mostrano la foto di Arcangioli, Farinella dichiara: “Non sono in grado di riconoscere la persona che mi mostrate; posso aggiungere però che non ricordo assolutamente che la persona alla quale ho consegnato la borsa avesse una placca metallica di riconoscimento; di questo particolare ritengo che mi ricorderei”. Il buio torna fitto.
La quarta versione di Ayala
Il 23 luglio 2009 Ayala ha rilasciato un'intervista ad Affaritaliani.it dichiarando: “La borsa nera di Borsellino l'ho trovata io, dopo l'esplosione, sulla macchina. Che ci fosse, nessuno lo può sapere meglio di me, perché l'ho presa io. Non l'ho aperta io perchè ero già deputato e non avevo nessun titolo per farlo. A differenza di quanto si ricordi, io sono andato in Parlamento prima della morte di Borsellino e quindi non avevo nessun titolo per aprirla. Ma io sono arrivato per primo sul posto perché abito a 150 metri. Anche prima dei pompieri. Quando l'ho trovata l'ho consegnata ad un ufficiale dei carabinieri. E' verosimile che l'agenda fosse dentro la borsa e che sia stata fatta sparire”.
Cambia tutto, di nuovo. Questa volta ha fatto tutto lui, l'ha presa, l'ha estratta e l'ha consegnata ad un ufficiale dei carabinieri. Conferma di esser stato il primo ad arrivare, addirittura prima dei vigili del fuoco.
La versione di Cavallaro
Il 22 luglio 2009, Cavallaro, in un'intervista, ha riassunto così i suoi ricordi: “Questa borsa di cuoio l'ho vista e l'ho anche avuta per le mani. A volte le Storia ci passa davanti agli occhi e non cogliamo il segmento al quale poi ripensiamo il resto dei nostri giorni. Quel giorno io sono arrivato immediatamente dopo l'esplosione perché stavo abbastanza vicino. Tra l'altro aspettavo il giudice Ayala nell'ufficio in cui stavo lavorando alla stesura di un libro (…) Lui era in ritardo e quando alle cinque meno qualcosa sento il botto... fumo dalle parti della Fiera del Mediterraneo... io ho un tremito perché penso proprio a Giuseppe Ayala. (…) Mi precipito al telefono proprio per chiamare l'utenza del residence. Per fortuna trovo la moglie che mi dice: - No. Abbiamo sentito anche noi il botto: è sceso con la scorta. - (…) Mi sono precipitato sul luogo dove ho trovato Ayala. (…) Dopo qualche minuto io e Ayala ci siamo ritrovati appunto protagonisti di un pezzo di Storia che ci è passato sotto gli occhi perché eravamo accanto all'auto del giudice Borsellino con la portiera posteriore spalancata e fra il sedile anteriore dell'autoguida e la poltrona posteriore, proprio poggiata a terra, c'era una borsa di cuoio che una persona, credo un agente in borghese, ha preso e quasi consegnato a me, forse scambiandomi per un assistente (…) Fatto sta che questa borsa, avendola avuta per un istante così... avendola tenuta dal manico per un istante, io la stavo quasi passando al giudice Ayala con il quale ci siamo scambiati... così... degli sguardi. (…) Giuseppe Ayala ha avuto la prontezza di spirito di... vedendo un colonnello dei carabinieri o comunque un alto ufficiale dei carabinieri, del quale non ricordiamo con esattezza né i gradi né purtroppo il volto, (…) Il giudice Ayala ha consegnato questa borsa a un colonnello dicendo: - La tenga lei - ”.
Poi di quella borsa non sanno più nulla. Afferma che nessuno di loro sospettava che dentro quella borsa ci fosse una cosa così importante come l'agenda rossa. E' evidente che le dichiarazioni di Cavallaro in parte confermano, in parte smentiscono quelle di Ayala.
Il giudice Scotto riassume tutte le varie versioni di Farinella, Ayala e Arcangioli dicendo che, pur essendo contrastanti (tutti e tre dicono di aver estratto la borsa dalla macchina), la rettifica di Ayala (quale delle quattro?) scagionerebbe Arcangioli perché, se l'uomo in borghese è da identificare con Arcangioli, non si capisce perché avrebbe dovuto consegnare la borsa ad Ayala se il suo intento era quello di rubare l'agenda rossa. Se invece si dà credito a Farinella, bisogna desumere che Arcangioli non sia stato il primo ad entrare in possesso della borsa.
A parte il fatto che mettere sullo stesso piano le dichiarazioni dell'imputato, su cui pendono delle gravi prove indizianti e che quindi ha tutto l'interesse a salvaguardare la propria posizione, con quelle di tutti gli altri testi è una mossa alquanto azzardata, perché vengono superficialmente vagliate solo un paio di versioni, una separata dall'altra? Di fronte a dichiarazioni tanto contrastanti, tra l'altro più volte rivedute e stravolte, come è possibile dare credito tout court ad una sola di esse e da questa trarre delle conclusioni, senza pensare che magari ci siano degli elementi di verità e falsità in ognuna di esse? Non andrebbe fatta chiarezza su tutto questo macello di testimonianze per capire chi dice il vero e chi mente, invece che buttarle al macero e dire che sono inutilizzabili? E poi, riguardo all'ultima argomentazione di Scotto, anche se fosse vero che Arcangioli non e' stato esattamente il primo ad entrare in possesso della borsa, in base a quale contorto ragionamento questo fatto potrebbe scagionarlo?
La versione di Garofalo
A gettare ulteriori ombre sulla vicenda (come se non bastessero), c'è la testimonianza di Giuseppe Garofalo, che era il capo di una delle pattuglie arrivate per prime sul luogo della strage. Il 15 novembre 2005 Garofalo aveva dichiarato di aver notato nei pressi della vettura del magistrato ucciso “una persona in abiti civili alla quale ho chiesto spiegazioni in merito alla sua presenza nei pressi dell'auto. A questo proposito non riesco a ricordare se la persona menzionata mi abbia chiesto qualcosa in merito alla borsa o se io l'ho vista con la borsa in mano o, comunque, nei pressi dell'auto del giudice. Di sicuro io ho chiesto a questa persona chi fosse per essere interessato alla borsa del giudice e lui mi ha risposto di appartenere ai Servizi”.
Ecco dunque emergere l'eterno sospetto della presenza in via D'Amelio di strani figuri, appartenenti ai Servizi Segreti deviati. Sospetto che torna ciclicamente ogni volta che si arriva a parlare di questa strage e supportato dalle dichiarazioni di alcuni pentiti che hanno riferito di aver riconosciuto dai filmati delle facce note, uomini dei Servizi vicini a Cosa Nostra. Questa ulteriore testimonianza di Garofalo non fa che alimentare il sospetto.
Ponendo che sia vero quanto afferma Garofalo, e' chiaro che, se il tizio in questione avesse avuto in mano la borsa, non avrebbe avuto bisogno di chiedere informazioni su di essa. La conclusione molto più verosimile è che quell'uomo avesse chiesto informazioni sulla borsa del giudice perché ad essa era, in qualche modo e per qualche motivo, interessato. Scotto liquida tutti questi sospetti e non ritiene evidentemente che debbano essere approfonditi oltre, senza dunque tener conto nemmeno del fatto che il 5 marzo 2008 gli stessi avvocati di Arcangioli, Diego Perugini e Sonia Battagliese, avevano presentato una memoria difensiva in cui chiedevano, tra l'altro, di interrogare un lungo elenco di personalità: dai principali pentiti di mafia ai vertici governativi, delle forze di polizia e dei servizi segreti. “Per fornire un contributo di chiarezza ad un procedimento che appare assolutamente carente”. Sui funzionari dei Servizi Segreti presenti o assenti in via D' Amelio, lamentano gli avvocati, non risulta siano state svolte indagini adeguate e chiedono dunque accertamenti presso l' ex Sisde, nonché di attribuire nomi e cognomi ad alcune persone inquadrate in altri fotogrammi tratti dai filmati girati sul luogo della strage, non ancora identificate o che sembrano muoversi con fare sospetto.
Scotto conclude così la sua analisi di tutte le testimonianze raccolte: “Non sembra, in ogni caso, che dichiarazioni comunque incerte, dubitative e più volte corrette anche da altre fonti, consentano in sé di attribuire ad Arcangioli la condotta di sottrazione che gli viene ascritta. Questi infatti per sua stessa ammissione dichiarava di aver avuto accesso al contenuto della borsa ricordando, a posteriori, la presenza di un crest dei carabinieri effettivamente rinvenuto dal sostituto procuratore di Caltanissetta, presenza che anche Minicucci ricordava, per averlo appreso nell'immediatezza dallo stesso Arcangioli”.
Beh, è ovvio che la contraddittorietà delle dichiarazioni di Arcangioli non implicano necessariamente che sia stato lui a rubare l'agenda, ma quanto meno un grosso sospetto lo lasciano. E poi, ancora, il giudice Scotto, per prosciogliere Arcangioli, sembra basarsi sulle affermazioni di Arcangioli stesso: siccome lui dice di aver aperto la borsa e di non averci trovato dentro ninete, se ne deduce che non sia stato lui a rubare l'agenda. Una logica leggermente claudicante. Non solo. Scotto porta di nuovo, come ulteriore conferma della sua tesi, le parole di Minicucci che abbiamo visto essere semplicemente un “relata refero” dello stesso Arcangioli e quindi dalla validità pressoché nulla. E se davvero il fatto che Arcangioli abbia ricordo del crest dell'Arma fosse un punto a suo favore, a Scotto non risulta alquanto sospetto il fatto che Arcangioli se ne sia ricordato solo in un secondo tempo, guarda caso dopo che Minicucci ne aveva fatto menzione?
L'AGENDA ROSSA ERA O NON ERA NELLA BORSA?
A questo punto il giudice Scotto si avventura nell'ultima “mission impossible”, ovvero dimostrare come l'agenda rossa non sia mai stata nella borsa del giudice. Verrebbe subito da chiedergli a quale delle due borse si riferisce. Ma sorvoliamo. Dice Scotto: “Gli unici atti compiuti in epoca prossima ai fatti consentono di stabilire che nella borsa l'agenda non c'era, come sostenuto dall'imputato”. Punto. Non c'è nemmeno da discutere. “Consentono di stabilire che”. Matematico. Peccato che di matematico e rigoroso in questa storia non ci sia assolutamente nulla. Ma si rende conto il giudice Scotto che sta arrivando ad affermare con certezza quella che è solo una sua pura congettura, tra l'altro in contrasto con la logica più elementare dei fatti e sostenuta per di più solamente dalle dichiarazioni dell'imputato stesso? Cioè, abbiamo di fronte un giudice che scagiona un imputato semplicemente perché l'imputato ha dichiarato di essere innocente. Prendiamo atto.
Ci piacerebbe sapere però quali siano questi “atti” che dimostrano inequivocabilmente che l'agenda, nella borsa del giudice, non c'era. Perché noi, proprio non riusciamo a scovarne nemmeno uno, nemmeno a sforzarci. A noi sembrava che l'unica verità praticamente intoccabile in questa storia fosse appunto la presenza dell'agenda in quella borsa prima dell'esplosione. Per esempio, esiste la testimonianza preziosa dei figli del giudice e in particolare di Lucia che dice chiaramente di aver visto il padre lavorare la mattina del 19 luglio sull'agenda rossa, posata su una scrivania di casa a Palermo; la borsa era invece appoggiata per terra, accanto alla scrivania. Quando il padre è andato a Villagrazia, l'agenda sulla scrivania e la borsa per terra non c'erano più. Questo significa che la borsa con l'agenda sono state portate a Villagrazia. A questo punto interviene la testimonianza della moglie del giudice che ricorda che il marito estrasse l'agenda, proprio durante il pranzo, per scriverci qualcosa. Prima che il giudice tornasse a Palermo per accompagnare la madre dal cardiologo, la moglie Agnese ha quest'ultima immagine del marito che si avvia verso l'uscita di spalle: un uomo con una borsa in mano. Tanto che le ultime parole di Agnese furono: “Paolo, con quella borsa in mano mi sembri proprio uguale al tuo amico Giovanni”. Paolo non si voltò e salì in macchina. Sapeva che andava a morire. L'agenda non fu mai ritrovata nel villino di Villagrazia, indi per cui doveva essere contenuta in quella borsa. Anche l'unico sopravvissuto alla strage, l'agente Antonio Vullo ha dichiarato di aver visto l'agenda rosso proprio poco prima di salire in macchina.
La borsa viene appoggiata per terra, tra il sedile posteriore e quello anteriore. Il giudice è solo in macchina e guida per tutto il tragitto, quindi non ha alcun senso immaginare che dalla sua posizione di guida potesse raggiungere con una mano la borsa, aprirla ed estrarne l'agenda rossa. Anche considerando la velocità elevata che dovevano, per questioni di sicurezza, mantenere e che richiedeva attenzione estrema alla guida. Appena giunti in via D'Amelio - il ricordo di Vullo è molto chiaro – il giudice Borsellino parcheggia la macchina al centro della carreggiata, esce insieme agli altri uomini della scorta e si dirige verso il cancelletto al civico 19. Vullo osserva tutta la scena da pochi metri di distanza, all'interno della sua autovettura. L'unica cosa strana che ricorda, dice, è il fatto che Borsellino si accese una sigaretta, prima di suonare il citofono. E' chiaro che, se Borsellino fosse prima andato ad aprire la portiera posteriore della sua auto, avesse aperto la borsa e ne avesse estratto per qualche motivo incomprensibile l'agenda, Vullo l'avrebbe perlomeno notato ed annoverato tra “le uniche cose strane” che notò. Inoltre, Vullo dichiara che tra l'arrivo in via D'Amelio e l'esplosione sarà passato “un minuto, un minuto e mezzo”. Non esisteva dunque materialmente il tempo per prendere la borsa, aprirla, estrarre l'agenda, richiudere la borsa e riporla al suo posto. Evidentemente niente di tutto ciò è avvenuto, anche perché non avrebbe avuto alcuno logica (dovevano solo aspettare un paio di minuti che la madre scendesse) ed è dunque pacifico che l'agenda fosse ancora in quella borsa nel momento dell'esplosione. Questo sì, a noi pare una ricostruzione rigorosa, al limite del matematico. Anzi diremmo che raramente è dato riuscire a dimostrare in modo tanto preciso e senza ombra di dubbio una verità processuale. Questo, secondo noi, è una di quelle rare eccezioni. Praticamente inattaccabile.
Purtroppo il giudice Scotto non è di questo avviso, tralascia tutto ciò e preferisce appigliarsi ad una dichiarazione dello stesso Vullo che, a domanda, diceva di avere forse un ricordo confuso di qualcosa che il giudice “teneva sotto il braccio”. Ecco. Basta questo ricordo che lo stesso Vullo definisce assolutamente vago e possibilmente errato (poteva essere un ricordo identico di una situazione analoga), perché Scotto si lanci nell'ipotesi che quella cosa che teneva sotto il braccio fosse proprio l'agenda rossa, che si sarebbe quindi disintegrata nell'esplosione. Ora, noi capiamo bene che tutto, in generale, è possibile, ma invitiamo anche il lettore a considerare quale delle due ipotesi (quella da noi esposta sopra, sostenuta tra l'altro dalla procura di Caltanissetta, e quella del giudice Scotto) sia più verosimile.
La cosa che lascia basiti è il fatto che Scotto, poco più avanti nella sentenza, dica: “Elementi ulteriori di dubbio riguardano la stessa presenza dell'agenda all'interno della borsa che Arcangioli ha avuto a disposizione per qualche momento”. Ma come? Pochi paragrafi prima si sosteneva che era possibile dimostrare che l'agenda non fosse nella borsa e ora ci sono solo degli elementi di dubbio? E' un certezza o un dubbio? La cosa, a nostro avviso, non è di poco conto. Tra questi “elementi di ulteriore dubbio” Scotto annovera delle relazioni fatte dalla Scientifica su alcune foto che ritraggono dei detriti depositati per terra in via D'Amelio accanto ad un vigile del fuoco intento a domare gli incendi. La perizia era stata disposta per accertare che tra di essi non vi fosse per caso l'agenda rossa. La perizia aveva dato esito negativo, sulla base dell'ipotesi che l'agenda fosse integra e chiusa, sottolineando ovviamente che non sarebbe stato possibile stabilirne la presenza se invece fosse stata carbonizzata o aperta, visto che il bianco dei fogli si sarebbe potuto confondere con il bianco di altri oggetti. Una precisazione doverosa, ma ovvia. Scotto prende la palla al balzo e ribalta completamente le conclusioni della relazione, arrivando a dire che quindi c'è una possibilità che l'agenda si trovasse effettivamente tra quei detriti. E insieme ad essa addirittura una “medesima borsa o altra, fotografata nei frangenti immediatamente successivi alla strage”. Eccoci di nuovo con la tesi della doppia borsa. Anzi tripla! Una prelevata da Maggi, una in mano ad Arcangioli e un'altra ancora depositata in mezzo ai detriti. Roba da fantascienza giuridica.
Noi ci chiediamo come possa un giudice trarre certe conclusioni. Come si fa a insinuare che l'agenda potesse trovarsi accatastata in mezzo alla strada sotto un gruppo di oggetti mentre i pompieri intorno spegnevano le fiamme? E chi sarebbe il genio che, dopo averla estratta dalla borsa, l'avrebbe buttata li', in balia di tutti? E perché il medesimo genio non ha fatto la stessa cosa con gli altri oggetti contenuti nella borsa (tra cui un'altra agenda marrone con dei numeri di telefono, un pacchetto di Dunhill e un costume da bagno)? E perché allora poi non se ne è più avuto traccia? Questo modo di ragionare è, a nostro avviso, inaccettabile. Se passasse questa logica, allora saremmo di fronte alla più sfrenata libertà interpretativa delle prove in oggetto, che sono invece qualcosa di delicato, su cui ragionare con la massima serietà e rigore. Perché allora non ipotizzare che l'agenda sia caduta per qualche motivo in un tombino? Perché non ipotizzare che sia stata rapita da una gazza ladra? E' chiaro che si scade nel ridicolo. E in questo storia, non c'è proprio niente di cui si possa ridere.
L'AGGRAVANTE DI FAVOREGGIAMENTO A COSA NOSTRA
Per quanto riguarda l'aggravante nei confronti di Arcangioli di aver agevolato Cosa Nostra, Scotto chiude la questione in modo molto sbrigativo affermando che non sono mai emerse prove di contatti tra Arcangioli e ambienti mafiosi e poi, soprattutto, che “nemmeno risulta un interesse proprio di membri di Cosa Nostra alla stessa agenda”. Tutto ciò può essere assolutamente vero, ma non esaurisce affatto lo spettro di modalità grazie a cui Cosa Nostra potrebbe essere stata agevolata dalla sparizione dell'agenda rossa. Liquidare in quel modo una questione tanto delicata ci appare del tutto superficiale. Innanzitutto, infatti, chiunque capisce che non c'è bisogno di essere affiliati a Cosa Nostra per poterla favorire. Allo stesso modo, il fatto che nessun pentito abbia mai parlato di agenda rossa e che quindi Cosa Nostra non sembra sia mai stata interessata ad essa, nulla toglie all'ipotesi che la sparizione di tale agenda possa aver agevolato l'organizzazione criminale (per esempio, grazie all'occultamento di informazioni riservate di cui il magistrato era entrato in possesso), pur essendone essa all'oscuro.
Se così fosse, lo scenario sarebbe addirittura ancora più inquietante, perché vorrebbe dire che esistevano effettivamente interessi esterni a Cosa Nostra nella strage di Via D'Amelio. Il giudice Scotto ne è conscio, ma si dice assolutamente sicuro che Arcangioli non abbia operato per agevolare “mai precisati apparati istituzionali infedeli e deviati, al cui servizio avrebbe agito”. Ritiene infatti Scotto che “un tale assunto è tuttavia meramente postulato, il suo fondamento assai fragile”. Ci scusiamo per la pedanteria ma, nella lingua italiana, la parola 'postulato' significa “un principio la cui validità si ammette a priori, al quale è necessario credere senza alcun tipo di dimostrazione”. Una sorta di atto di fede, evidente ma indimostrabile. Purtroppo qui di prove ne se non state raccolte, eccome. A partire dalla testimonianza di Garofalo citata sopra, che viene liquidata frettolosamente. Per continuare con le testimonianze dei pentiti citati sopra e la richiesta stessa degli avvocati della difesa che chiedevano di vederci chiaro su soggetti che si aggiravano in via D'Amelio con fare sospetto. Per finire con la sentenza passata in giudicato del Borsellino Bis, in cui di 'mandanti esterni' si parla eccome: non sono fantomatiche invenzioni di visionari, ma ipotesi investigative gravi e supportate da tutta una serie di testimonianze e osservazioni. Tanto è vero che sono stati celebrati dei processi in passato sui 'mandanti a volto coperto' delle stragi del '92 e del '93 e anche ora, in questi mesi, sono state riaperte le medesime indagini adlle procure di Firenze e Caltanissetta. Sono tutti in preda ad un'allucinazione collettiva o effettivamente sarebbe stato utile procedere ad ulteriori accertamenti in fase dibattimentale?
LE CONCLUSIONI DI SCOTTO
Scotto conclude riassumendo le motivazioni per cui il ricorso della procura di Caltanissetta contro il proscioglimento di Arcangioli non è, a suo avviso, ammissibile.
Il primo punto riguarda le contraddizioni delle dichiarazioni dei testi, che sono spiegabili semplicemente con la lontananza nel tempo dei fatti avvenuti, e che comunque sono gravi almeno tanto quanto quelle di Arcangioli. A fronte di tutto ciò che è stato evidenziato, a nostro parere, invece le contraddizioni non sono assolutamente spiegabili solo con la lontananza nel tempo. E' anzi chiaro ed evidente che qualcuno mente. E poi ancora: che senso ha dire che le dichiarazioni di Arcangioli hanno gravi lacune, ma comunque non meno di altri?Che modo di ragionare è? Questo non scagiona certo Arcangioli: aggrava semmai la posizione degli altri testi, che potrebbero essere sospettati di falsa testimonianza.
Il secondo punto riguarda il fatto che non ci sarebbero indicazioni certe sugli spostamenti dell'imputato, tranne quelle dei filmati. Noi facciamo semplicemente notare che, però, quelle poche che esistono stanano Arcangioli molto lontano dall'auto, con la borsa in mano. Saremo anche duri di comprendonio, ma ancora non ci è chiaro che cosa ci facesse lì Arcangioli con la borsa del giudice. Anche perché Arcangioli non ha mai saputo spiegarlo e si è chiuso dietro il paravento del “non ricordo”.
Il terzo e ultimo punto riguarda il fatto che ci sarebbero dubbi “non meramente congetturali” sulla stessa presenza dell'agenda all'interno della borsa. Notiamo con piacere che i dubbi allora esistono, contrariamente a quanto detto all'inizio, ma non sono meramente congetturali. E quali sarebbero, di grazia, questi dubbi non meramente congetturali? Il mezzo ricordo, sfuocato e probabilmente falsato, di Vullo? Ne prendiamo atto.
Sulla base di questi tre elementi, scrive Scotto, non sembra possibile “autonomamente fondare una seria prospettiva dibattimentale”. Ci permettiamo di dissentire decisamente da questa affermazione, che riteniamo superficiale e infondata. Forse che Scotto è un preveggente e sa già che durante il dibattimento non emergeranno nuovi spunti? Come fa ad esserne così sicuro? E' davvero certo che non ci sia spazio nemmeno per provarci, a dissipare i dubbi. Anche solo provarci, non chiediamo tanto. Qui ci sono dei filmati che parlano chiaro. Non è vero che non esistono prove. Certo, sono solo prove indiziarie, ma gravi e precise.
Conclude Scotto: “Non sembra che si possa presupporre dal mancato rinvenimento dell'agenda che essa sia stata rubata e in via di ulteriore deduzione che essa sia stata rubata dall'imputato”. Vorremmo far notare al giudice Scotto che non spetta al gup dare una sentenza di colpevolezza o di assoluzione per l'imputato. Dobbiamo veramente rassegnarci a vedere archiviata la vicenda più oscura della storia della repubblica sulla base di un “non sembra che”? Cioè sulla base di una sensazione? Il giudice Scotto forse dimentica che il 'non luogo a procedere' è una sentenza processuale e non di merito, finalizzata semplicemente ad evitare i dibattiti inutili.
Ne deduciamo che Scotto ritiene un dibattito processuale sulla scomparsa dell'agenda rossa qualcosa di assolutamente inutile. Anche di questo prendiamo atto.
D'altra parte Scotto, in un punto della sentenza lo dice esplicitamente: la tesi del furto dell'agenda rossa è solamente “una tesi suggestiva”.
Noi ci limitiamo a domandare, senza peraltro alcuna speranza di avere una risposta: e invece, quella di un'agenda portata sotto il braccio dal giudice nel tragitto dalla macchina al citofono o di un'agenda accatastata per terra insieme ad altri detriti o dell'esistenza di svariate borse gemelle cos'è? Una tesi sensata?
LA PERLA DELLA CASSAZIONE
Sulla base di tutti questi elementi e considerazioni, abbiamo sempre ritenuto e riteniamo tuttora che la sentenza del gup Scotto di Luzio sia stata scritta male, anzi malissimo. Un concentrato di teorie fantasiose che entrano nel merito della questione (cosa non richiesta ad un gup), stravolgono completamente i più elementari principi della logica e in alcuni casi fanno addirittura a pugni con l'evidenza dei fatti. Una sentenza scritta, a nostro avviso, in modo superficiale, che non tiene in alcun conto tutte le prove gravemente indiziarie messe a disposizione, ma che anzi le stravolge per avanzare insinuazioni e ipotesi surreali. Ma evidentemente non siamo i soli a pensarla così, visto che, come detto, il 13 maggio 2008 la Procura di Caltanissetta si era appellata alla Corte di Cassazione contro la sentenza di non luogo a procedere emessa nei confronti del col. Arcangioli. Il ricorso dei pm nisseni metteva appunto in evidenza la contraddittorietà e la manifesta illogicità delle motivazioni della sentenza emessa dal gup, nonché il travisamento della prove fornite dall’ufficio dei pm.
Questo nostro convincimento (che è fatto proprio anche dalla procura di Caltanissetta) è ancora oggi radicato e saldo, anche dopo la decisione finale della VI Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha deciso di mettere una pietra tombale sulla vicenda, rigettando il ricorso della procura di Caltanisetta (che definisce “manifestamente infondato”) e avallando in tutto e per tutto la decisione del gup Scotto (che definisce “analitica e esauriente”). Due paginette, firmate del Presidente Giovanni De Roberto e i giudici estensori, che spiegano come il gup Scotto “prende nel debito esame tutti gli elementi di prova e fornisce giustificazione adeguata della loro valutazione”. La motivazione di Scotto, scrive la Cassazione, “appare del tutto esauriente e senz'altro non suscettibile di censura sotto il profilo logico”.
Di nuovo prendiamo atto, ma dissentiamo nella maniera più assoluta.
IL VIDEO
Proponiamo qui di seguito un filmato, estratto dal documentario “In un altro paese” a cura del giornalista americano Alexander Stille.
Questo spezzone di pochi secondi inizia con un'inquadratura del luogo della strage. Sullo sfondo si riconoscono le macchie rosa degli alberi e dei cespugli situati nel giardinetto verso il fondo di Via D'Amelio. Per intenderci, Via Autonomia Siciliana si trova alle spalle della telecamera, la casa della madre del giudice sulla sinistra delle immagini. Si notano evidenti nuvole di fumo nerastro che si sollevano e oscurano la visuale, segno inequivocabile che gli incendi non sono ancora stati domati completamente. Tanto è vero che si scorge nitido, al centro dell'inquadratura, un rogo ancora vivo e un vigile del fuoco di spalle intento a spegnerlo. Poi due carcasse di auto carbonizzate.
In primo piano, sulla destra, entra nella scena un uomo, di spalle, capelli neri e camicia bianca. Tiene in mano qualcosa, che poi porta verso il volto. E' indubbiamente una macchina fotografica. Si ferma per scattare una foto.
Nello stesso istante, quasi contemporaneamente, entrano in scena, da parti opposte, un vigile del fuoco a destra e un uomo con una pettorina azzurra a sinistra.
Il vigile del fuoco corre verso il luogo dell'esplosione passando davanti al fotografo, l'uomo con la pettorina azzurra cammina a passi sicuri in senso contrario, verso l'uscita di Via D'Amelio in direzione via Autonomia Siciliana. Tiene qualcosa nella mano sinistra: è una borsa. L'uomo è chiaramente il capitano Giovanni Arcangioli.
Si incrocia con il vigile del fuoco, che continua nella sua corsa. Arcangioli continua spedito fino ad entrare esattamente nell'obiettivo del fotografo.
Questo è l'istante esatto in cui il fotografo Paolo Francesco Lannino scatta la famigerata foto.
Basta confrontare il fotogramma del filmato con la foto vera e propria. Stessa posizione del braccio destro, buttato all'indietro per controbilanciare il peso della borsa. Stessa posizione del vigile del fuoco, ritratto di spalle con le braccia piegate ad angolo retto per effetto della corsa. Stessi cespugli rosa coperti dal fumo sullo sfondo. Non c'è dubbio. Questo è l'istante fatidico in cui Arcangioli viene immortalato.
Il filmato si interrompe proprio in questo momento. Cala il buio. Per riaccendersi solo 60 metri più avanti, in fondo a Via D'Amelio. Ancora Arcangioli con la borsa in mano, in una zona appartata, lontano da ogni tipo di interesse investigativo, dove sostano solamente i camion dei vigili del fuoco.
La domanda torna continuamente, martellante, sempre la stessa. Così ci faceva lì Arcangioli con la borsa del giudice Paolo Borsellino, i cui resti ancora fumanti giacevano a un centinaio di metri di distanza? Una domanda che non ha ancora ricevuto una risposta plausibile. Una domanda nata morta. Destinata a precipitare nel vuoto, con buona pace di chi cerca con tenacia Verità e Giustiza per il giudice e i suoi angeli custodi. Una domanda che non ha alcun senso porre, secondo il gup Scotto di Luzio. Una domanda che non si potrà mai più fare, per decisione della VI Sezione Penale della Cassazione.
Federico Elmetti
Documenti utili:
La sentenza della Cassazione
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