sabato 7 novembre 2009

provenzano sbirro o mafioso

Attilio Bolzoni per "la Repubblica"

Fu Bernardo Provenzano, con tanto di mappe alla mano, a indicare ai carabinieri il nascondiglio di Totò Riina, arrestato nel gennaio del 1993 dopo 23 anni di latitanza. Lo ha rivelato ai pm Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco di Palermo Vito. Si tratterebbe di un tradimento in piena regola di un vecchio alleato diventato scomodo che incrina le verità ufficiali. Ciancimino ha anche consegnato una serie di nuovi documenti.

Qualcuno aveva già parlato di una possibile "soffiata" dietro l´arresto del Capo dei capi il boss che conosceva fin da bambino e che aveva voluto la morte di Falcone. Così "si è fatto sbirro" il mafioso che per 43 anni era stato un fantasma. Sbirro. E come altrimenti avrebbe potuto fare il latitante per più di quattro decenni fra Corleone e Bagheria, Casteldaccia e Mezzojuso, i paesini della campagna siciliana che erano diventati il regno suo, del vecchio e misteriosissimo Bernardo Provenzano.

BERNARDO PROVENZANO

Sbirro. Con documenti falsi andava in Francia per farsi operare alla prostata, con la tranquillità di un pensionato in gita andava a Roma per incontrare Vito Ciancimino agli arresti domiciliari dietro piazza di Spagna. Sbirro. Come tutti i grandi Padrini nella storia della Cosa Nostra, alla faccia dell´omertà e delle leggende che circondano gli uomini d´onore, anche lui si è rivelato come il più sbirro di tutti, il più "cantante", il più svelto a parlare e a tradire. Provenzano non è sfuggito alla "tradizione".

E aveva le sue ragioni. Totò Riina in quindici anni di strategia stragista aveva attaccato lo Stato come nessun altro mafioso aveva osato prima, dall´Unità d´Italia. Aveva ucciso magistrati, politici, giornalisti, poliziotti. Aveva trasformato la Cosa Nostra nella Cosa Sua, aveva modificato il Dna dell´organizzazione, aveva fatto finire - massacro dopo massacro - la mafia siciliana in un vicolo cieco. Con la strage di Capaci e poi con l´uccisione di Borsellino, Totò Riina era riuscito in quello dove avevano fallito tutti e per primo lo Stato: portare alla rovina Cosa Nostra.

CIAMCIMINO PADRE E FIGLIO

Ecco perché Provenzano ha tradito Riina. Per ricondurre Cosa Nostra a quello che era sempre stata, una società segreta che si mischiava con gli altri e con le istituzioni, una setta invisibile che si adattava di volta in volta alle situazioni, che si infiltrava nella politica e nell´amministrazione, silenziosa, dormiente, qualcosa che c´era e non c´era. Totò Riina era l´uomo "impresentabile" di quella Cosa Nostra, era il capo di un potere che non era nelle condizioni di avere più amici da nessuna parte.

Ecco perché il 15 gennaio del 1993 i carabinieri dei reparti speciali arrestarono Salvatore Riina da Corleone. Di quella cattura oscura si è detto tanto ma non si è ancora detto tutto. Nascondono qualcosa gli ufficiali dei Ros che la spacciarono come «la più clamorosa operazione antimafia del secolo». Nascondono qualcosa i capi della procura di Palermo che, nei primi mesi di quel 1993, avallarono in silenzio quella spudorata indagine. Nascondono qualcosa i mafiosi che sanno e ancora non parlano per paura. Ma non di altri mafiosi hanno paura, hanno paura del resto.

STRAGE DI CAPACI

La cattura di Totò Riina è stata come un´ipoteca iscritta sulla lotta giudiziaria a Cosa Nostra negli anni successivi, un grande bluff. E adesso, dopo 16 anni, quando cominciano ad affiorare tutti i patti e i ricatti fra apparati dello Stato e fazioni di mafia corleonese, è più chiaro il perché di quel covo di Riina mai visitato dai carabinieri dei Ros.

C´è un detto che ripetono i vecchi delle province interne della Sicilia per raccontare l´impasto: «Il mafioso nasce mafioso e muore sbirro, lo sbirro nasce sbirro e muore mafioso». Sono gli estremi che prima o poi si toccano, è la storia della mafia segnata a ogni stagione da trattative, avvicinamenti, negoziati, arresti comprati e venduti, inganni, tutto in nome di un "ordine sociale" da garantire. Ecco, un´altra volta, perché nel suo delirio di onnipotenza Totò Riina - quello delle stragi - è finito nella trappola dei suoi stessi Corleonesi.

Oggi ne parla Massimo Ciancimino e ricorda vicende sentite da suo padre Vito, uno che con Bernardo Provenzano andava "a braccetto". Vedremo cosa riferirà, quali dettagli e quali elementi concreti fornirà ai magistrati che investigano sulle trattative fra le due stragi siciliane del 1992. Ma prima di lui, inascoltati - e trattati con un certo fastidio sulla materia - di questo tradimento di Bernardo Provenzano ne avevano parlato altri. Quasi con timore, con tormento.

BORSELLINO STRAGE

Più di dieci anni fa, nel 1997. Verbale del 23 luglio, ore 10 del mattino, interrogatorio di Tullio Cannella - il braccio destro di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina - con Pietro Grasso della procura nazionale antimafia: «Luchino Bagarella mi diceva che lui non era uno sbirro. Uno sbirro come Bernardo Provenzano». E diceva Cannella: «Secondo Bagarella, il vecchio Provenzano aveva rapporti con esponenti delle istituzioni e in particolare con rappresentanti dei carabinieri».

E diceva ancora: «Mi raccontò che due o tre giorni prima dell´arresto del cognato, proprio lui, Bagarella, era stato a casa di Riina. Era inquieto. Era stato a casa di Totò Riina ma non era stato arrestato... non riusciva a capire perché, quel giorno mi manifestò anche la perplessità che il solo Balduccio Di Maggio avesse consentito la cattura di Totò Riina, era davvero molto preoccupato e disse alla fine: "Di questa faccenda l´amico mio sa qualcosa". "L´amico suo" era Bernardo Provenzano.

Dopo Tullio Cannella venne Giovanni Brusca a scoprire altri particolari sulla "loquacità" di Provenzano. E poi anche Antonino Giuffrè. Dentro Cosa Nostra cominciò a diffondersi la voce che il Padrino di Corleone era «un po´ ammalato di sbirritudine».

[06-11-2009]

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