Sull’11 settembre 2001 molti hanno suggerito
spiegazioni complottiste. Pochi invece hanno parlato del grande inganno
della Casa Bianca dietro l’attacco giapponese di Pearl Harbor, laddove i
documenti dimostrano ampiamente come davvero – in quel caso – la
presidenza americana volle, cercò ed ottenne un attacco proditorio da
parte dei giapponesi per avere un casus belli in grado di trascinare
l’intera nazione americana in un’avventura bellica.
di Stefano Schiavi
L’11 settembre 2001 è una
delle tante date storiche per gli Stati Uniti e per il mondo intero. Un
giorno che difficilmente potrà essere dimenticato e che verrà celebrato
nei libri di scuola come l’inizio del grande scontro tra l’Occidente e
l’integralismo islamico. Un giorno che grida vendetta e che ha
inorridito il mondo. Proprio come l’alba del 7 dicembre 1941. Un giorno
come tanti per le isole Hawaii dove il clamore della guerra non giunge
nemmeno attraverso la radio. Gli Stati Uniti del New Deal sono
tranquilli, il presidente Franklin Delano Roosevelt ha assicurato che
non entrerà in guerra al fianco dei cugini britannici che laggiù, in
Europa, rischiano seriamente di capitolare dinanzi la forza distruttrice
delle truppe di Adolf Hitler. Il non intervento era stato uno dei
cavalli di battaglia per la terza rielezione del presidente che era
riuscito a dare un nuovo corso a quell’America uscita con le ossa rotte
dalla catastrofe economico-finanziaria che era stata la grande
depressione del 1929.
Eppure quel giorno di routine
come tanti, sarebbe entrato nella storia degli Stati Uniti e del resto
del mondo. Un giorno che avrebbe cambiato le sorti della Seconda guerra
mondiale. Ma che cosa hanno in comune l’attacco a Pearl Harbor con
quello alle Torri Gemelle? Molto. Più di quanto si possa immaginare.
Soprattutto per quel che riguarda l’intelligence e la ragion di Stato.
Anche se per quanto concerne l’11 settembre 2001 la verità è ancora
lontana e difficilmente riusciremo a saperla in breve tempo. Resta il
fatto che tutti e due i tragici accadimenti sono stati la scintilla che
ha scatenato l’intervento militare statunitense. Insomma, almeno per
quanto riguarda Pearl Harbor, una “scusa” necessaria, voluta e cercata
nonostante l’alto tributo di sangue che ne sarebbe derivato. Un attacco
proditorio ed impensabile fino a quel giorno, tranne che per Franklin
Delano Roosevelt, il capitano di fregata Arthur McCollum ed i vertici
dell’intelligence statunitense.
Ma cosa c’entrano questi
uomini con l’attacco scatenato dalle Flotte Combinate dell’Imperatore
Hirohito? C’entrano per il semplice motivo che furono loro gli artefici
di quello che passò alla storia come “l’attacco di Pearl Harbor”. La
solita propaganda antiamericana propinata agli ignari lettori proprio
mentre nel mondo infuriano guerra e distruzione?
Nulla di tutto questo. La
storia, si sa, ha i suoi tempi di “decantazione” e dopo molti anni
rivela all’opinione pubblica quanto di più nascosto, ed indicibile, era
riposto nel fondo degli scrigni della memoria ma, soprattutto, nel fondo
degli archivi dei servizi segreti.
Ogni nazione che si rispetti
ha i suoi scheletri nell’armadio e Washington non fa eccezione. Il
“grande inganno di Pearl Harbor” è forse uno dei più importanti.
Inganno, che a ben guardare, sarebbe più esatto classificare come,
rimanendo in tema con l’attualità dei nostri giorni, “la madre di tutti
gli inganni”. Uno “splendido” lavoro dell’allora nascente intelligence
statunitense.
Il Freedom Of Information Act
La verità di quel terribile 7
dicembre 1941, che tante similitudini sembra appunto avere con l’11
settembre 2001, era nascosta nelle pieghe delle migliaia di documenti
classificati “Top Secret” che affollano gli archivi della Cia, del Fbi,
del Pentagono, del Dipartimento di Stato, del servizio di intelligence
della Us Navy, del più recente Nsa e della miriade di servizi segreti
che costellano il panorama politico-militare statunitense.
Se la verità su
quell’improvviso (?) attacco giapponese alla flotta del Pacifico degli
Stati Uniti è venuta a galla, lo si deve alla tenacia e a ben 14 anni di
ricerche effettuate da Robert Stinnet, un giornalista americano, che ha
rivelato al mondo come, nonostante le apparenze, non fu poi tutta colpa
di Tokyo se Washington entrò in guerra. Nel libro “Day of deceit. The
truth about Fdr and Pearl Harbor”, Stinnet mette a nudo il cinismo di
quello che tutti gli americani, di ogni estrazione sociale, fede
politica, razza e religione, consideravano (dopo Washington, Franklin e
Lincoln) uno dei padri della patria. Fu infatti Roosevelt, senza ombra
di dubbio, a condurre una vera e propria politica della provocazione per
indurre l’Imperatore giapponese a firmare l’ordine d’attacco.
Il presidente statunitense era
costantemente al corrente di quanto stava accadendo e pur sapendo che
la guerra era ormai alle porte si guardò bene dall’informare i comandi
delle truppe di stanza alle isole Hawaii.
Follia, incredulità, calcoli
sbagliati? Nulla di tutto questo. Roosevelt voleva che tutto accadesse
senza curarsi di danni e vittime. Effetti collaterali, come li
chiameremmo oggi, necessari ad uno scopo irrinunciabile: l’entrata in
guerra al fianco della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica. Insomma,
la Casa Bianca lasciò deliberatamente che Tokyo attuasse indisturbata un
atto di guerra nei suoi confronti per consentire al democratico ed
anti-interventista (ma solo a fini elettorali) Roosevelt di entrare in
guerra.
Il memorandum che incrimina la Casa Bianca
Nel marasma dei documenti
analizzati ve ne è uno di particolare importanza: il Memorandum
McCollum. Arthur H. McCollum, nato e vissuto in Giappone, da genitori
americani, di cui conosceva usi costumi ma soprattutto la lingua e la
mentalità, era un capitano di fregata della Marina statunitense e come
tale aveva prestato servizio, seppur per un breve periodo, presso
l’ambasciata Usa di Tokyo. McCollum, però era soprattutto un agente del
Nio, il Naval Intelligence Office di Washington l’unico abilitato a
fornire informazioni di intelligence e documenti di analisi strategica
alla Casa Bianca. Fu proprio McCollum a fornire al presidente Roosevelt
il Memorandum che lo convinse sulla necessità di sacrificare tante vite
americane pur di avere l’opportunità di entrare in guerra contro la
Germania e l’Italia degli odiati dittatori Hitler e Mussolini. Il 7
ottobre 1941, due mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor,
l’agente del Nio entrò nella Sala Ovale della Casa Bianca consegnando al
presidente statunitense quel documento che cambierà la storia. Sui
pochi fogli redatti dall’ufficiale si ipotizzava uno scenario a dir poco
apocalittico: l’Europa occupata dalle truppe nazi-fasciste e, con la
sconfitta militare britannica, un quasi immediato “effetto domino” in
America dove i territori posti sotto il controllo di Londra in America
centrale, meridionale e nei Carabi ma anche il Canada sarebbero caduti
nelle mani di Berlino così come la flotta del Mediterraneo e
dell’Atlantico. Era ovvio che da un simile catastrofico scenario ad uno
che prevedesse l’attacco diretto agli Usa il passo era breve. Era dunque
evidente, e necessario, entrare in guerra al fianco di Londra se non
altro per tenere lontana la guerra dal proprio territorio. C’era però un
problema non da poco, per la Casa Bianca, da dover risolvere: come
avrebbero preso una tale scelta gli elettori americani? Non certo bene a
giudicare dai dati di un sondaggio effettuato nel settembre del 1940
(ad un anno dall’inizio della guerra in Europa) secondo il quale quasi
il 90% degli americani era ben deciso a rimanere fuori dal conflitto. In
più c’era una sorta di “patto” con la nazione da dover rispettare.
Roosevelt aveva infatti assicurato gli elettori (“I assure you again,
and again, and again…”), e le famiglie americane, che mai nessun “nessun
ragazzo americano sarà sacrificato su campi di battaglia stranieri”.
Come era possibile ovviare a
questo problema di non poco conto? A fornire la risposta fu sempre il
“Memorandum McCollum” (un documento simile a quello nel quale la Cia, 60
anni dopo, assicurava che l’Iraq di Saddam Hussein fosse in possesso di
armi di distruzione di massa). Si doveva provocare il Giappone e
costringerlo ad attaccare gli Stati Uniti e, per effetto del “Patto
Tripartito” firmato tra Germania, Italia e Giappone il 27 settembre del
1940 a Berlino, Washington sarebbe automaticamente scesa in guerra al
fianco del cugino britannico contro il “RoBerTo” (una sorta di “stati
canaglia” dell’epoca). In fondo Londra era rimasta l’unico baluardo alla
straripante potenza delle forze dell’Asse che ora, con l’alleato
giapponese, potevano espandere le loro mire anche nel Pacifico.
Washington non poteva dunque rimanere a guardare.
McCollum, dimostratosi un
accorto stratega oltre ad un ottimo agente di intelligence propose al
Presidente otto linee di azione per provocare l’inevitabile risposta di
Tokyo:
1 ) accordarsi con Londra per l’utilizzo della base navale di Singapore.
2 ) Accordarsi con
l’Olanda, il cui governo era in esilio in Gran Bretagna, per l’utilizzo
delle basi nelle Indie olandesi (Sumatra, Borneo, Giava etc…).
3 ) Incrementare gli aiuti al governo nazionalista cinese in guerra con il Giappone.
4 ) Inviare incrociatori pesanti a ridosso delle acque territoriali giapponesi.
5 ) Inviare sommergibili sempre nelle stesse acque di cui sopra.
6 ) Mantenere la flotta americana, all’epoca nel Pacifico, a Pearl Harbor.
7 ) Fare pressioni
sull’Olanda affinché negasse le materie prime delle Indie Olandesi al
Giappone, compreso il petrolio necessario per la guerra in Cina.
8 ) Imporre un embargo totale al Giappone, d’intesa con Londra, per strangolare l’economia del Sol Levante.
Roosevelt decise di applicare
alla lettera l’elenco di “pressioni-provocazioni” intraprendendo una
serie di azioni che porteranno poi all’attacco di Pearl Harbor ed al
conseguente ingresso nel conflitto mondiale.
Nel settembre 1940 Roosevelt
fa approvare dal Congresso il “Draft Act” che gli conferisce la facoltà
di aiutare la Gran Bretagna e di convertire le industrie nazionali alla
produzione bellica.Nell’ottobre 1940 la Casa Bianca decide di trattenere
alla Hawaii le navi di stanza nel Pacifico per un’esercitazione
sguarnendo tutte le altre basi della costa continentale. Alla fine del
1940 scatta un embargo petrolifero congiunto al quale aderisce l’Olanda.
Vengono avviate trattative che risulteranno poi volutamente inutili.
Nel 1941, la Us Navy invia più volte incrociatori nelle acque
territoriali giapponesi. Vibranti proteste di Tokyo. Nel febbraio 1941,
viene ristrutturata la flotta americana. Fino ad allora unica, viene
divisa in Flotta Atlantica e Flotta del Pacifico, questa agli ordini
dell’ammiraglio Husband Kimmel. L’11 marzo 1941, il Congresso approva il
Lend-Lease Act che attribuisce al presidente Usa la facoltà di aiutare
tutti i paesi in guerra contro Italia, Germania e Giappone, con prestiti
volti all’acquisto del materiale bellico che le industrie americane
stavano producendo.
Verso la guerra
L’embargo
petrolifero messo in atto dagli olandesi e dagli statunitensi cominciava
a mettere alle corde il Giappone che cadde nel piano organizzato da
Roosevelt. Le riserve scarseggiavano, e i negoziati stagnavano, a tal
punto che il neo governo giapponese decise l’invasione delle Indie
olandesi fonte di approvvigionamento. Prima dell’occupazione, però,
bisognava “immobilizzare” la flotta statunitense. Era il settembre 1941
quando l’alto Ammiragliato giapponese, nella persona dell’ammiraglio
Isoroku Yamamoto, cominciò a pianificare l’attacco che prevedeva due
direttrici principali: la prima avrebbe colpito Pearl Harbor con una
serie di bombardamenti aerei (come poi avvenne). La seconda, poche ore
dopo le Hawaii, prevedeva lo sbarco anfibio di un’armata d’occupazione
nelle Filippine (all’epoca colonia statunitense). Il 2 novembre dello
stesso anno l’Imperatore Hirohito dà il proprio assenso. Tutto andava
secondo i piani della Casa Bianca. Mancava solo un particolare: il
fattore sorpresa. Nessuna forza statunitense avrebbe dovuto interferire
con l’azione giapponese. Già il 3 novembre il piano nipponico divenne
operativo. Cominciò un incessante scambio di messaggi cifrati tra
ambasciate, consolati, comandi navali e di truppe. Venne anche
individuata la baia di Hitokappu (nell’arcipelago delle Curili) come
località di concentramento per la flotta che avrebbe attaccato Pearl
Harbor.
Le intercettazioni
Tutti i messaggi vennero
intercettati dallo “Splendid arrangement”, decriptati e consegnati a
Roosevelt e a “pochissimi intimi”. Durante le intercettazioni si venne a
scoprire anche il punto geografico di raduno della flotta giapponese.
L’unico a non sapere dei
movimenti e delle intenzioni nipponiche era proprio l’ammiraglio Kimmel
che da poco aveva assunto il comando della flotta americana del Pacifico
trattenuta a Pearl Harbor come esca. Anche se era cosciente che la
concentrazione rappresentava un pericolo. Ne era talmente convinto che
decise di organizzare un’esercitazione navale di 4 giorni, dal 21 al 24
novembre, “Exercise 191” dove si prevedeva un attacco nipponico alla
flotta di stanza alle Hawaii. Ma quindici ore prima dell’inizio
Washington ordinò a Kimmel di fare dietrofront e rientrare in porto con
la flotta proprio per non “provocare i giapponesi”! L’esercitazione,
insomma, non si doveva fare.
Il 26 novembre la flotta
imperiale giapponese, al comando del vice ammiraglio Chuichi Nagumo,
salpa le ancore verso il suo obiettivo.
Trentuno navi, tra cui 6
portaerei con 423 aerei, solcavano il mare verso la guerra. L’arrivo
sull’obiettivo doveva avvenire poco dopo l’orario d’inizio ufficiale
delle ostilità, non ancora fissata. L’obiettivo dell’attacco venne
“intercettato” da Washington il giorno prima della partenza della flotta
giapponese, cioè il 24 novembre (il 23 data delle Hawaii): mancava solo
la data finale dell’attacco che Tokyo non aveva comunicato nemmeno ai
vertici militari. A Kimmel venne comunicato soltanto una vaga notizia
riguardante una flotta giapponese salpata da Hitokappu con probabile
destinazione le Filippine o la Malacca.
Le strane manovre di Washington
Nel Pacifico c’erano tre
grandi portaerei americane, due a Pearl Harbor, la Lexington e la
Enterprise e una a San Diego, la Saratoga. Il 28 novembre Washington dà
l’ordine di partenza alla Enterprise, e ad 11 navi da scorta tra
incrociatori e cacciatorpediniere. Il loro compito era quello di portare
12 aerei ai marine di stanza nell’isola di Wake (molto distante dalle
Hawaii). Il 5 dicembre riceve un altro ordine da Washington la
Lexington. Anche per lei aerei da consegnare ai marine. Stavolta sono 18
con destinazione le Midway. Con lei partono alte 8 navi di scorta. Con
queste apparentemente inutili missioni Washington aveva messo in salvo
tutte le portaerei e altre 21 modernissime navi da guerra. A Pearl
Harbor rimangono 90 unità, tutte relativamente vecchie comprese 8
corazzate con oltre trent’anni di “carriera”.
Facciamo un passo indietro e
torniamo alla fine di novembre. Il 27 il capo di Stato Maggiore
dell’esercito, generale Marshall, invia un messaggio al tenente generale
Short nel quale si annuncia un non meglio precisato attacco giapponese,
ma che il governo “desiderava” che fosse Tokyo a fare il “primo passo”.
Dunque, mettere in stato d’allerta le truppe ma non la popolazione. Il
giorno seguente lo stesso identico messaggio giunge all’ammiraglio
Kimmel.
Allarmare le truppe senza dare
nell’occhio a presunte spie giapponesi ma, soprattutto, alla
popolazione era veramente arduo. Così i due comandi militari decisero
per un basso profilo.
Gli ultimi atti
Intanto la flotta giapponese
era incappata in una tempesta che aveva letteralmente disperso la
formazione tanto da rendere impossibile lo scambio di messaggi luminosi
tra nave e nave. Il 30 novembre il vice ammiraglio Nagumo si vede
costretto a interrompere il silenzio radio per ricompattare la flotta
d’attacco. I messaggi radio vennero puntualmente intercettati,
decriptati e inviati a Roosevelt. Tutto questo, però, venne tenuto
segreto a Kimmel e a Short. Il 2 dicembre l’ammiraglio Yamamoto
trasmette via radio una frase: “Niitaka-yama nobore 12 08” (scalare il
monte Niitaka l’8 dicembre). Era l’ordine d’attacco fissato per l’8
dicembre (il 7, data di Tokyo). Nemmeno questo messaggio venne
consegnato a Kimmel e Short. E non furono informati nemmeno dei 4
cablogrammi trasmessi in codice “purple” tra Tokyo e l’ambasciatore a
Washington, intercettati dall’intelligence Usa. I primi due contenevano
una comunicazione a Washington suddivisa in 13 parti nella quale si
poneva fine ad ogni tipo di negoziato. Il terzo ed il quarto, trasmessi
la mattina del 7 dicembre, contenevano la quattordicesima parte nella
quale si comunicava la rottura delle relazioni diplomatiche e l’ordine
di consegnare la dichiarazione i guerra un ora prima dell’attacco, cioè
alle 13,00 ora di Washington. Queste ultime due parti furono poste in
visione a Roosevelt alle ore 10,00, 4 ore prima l’attacco. Sulla base di
tali informazioni il comando generale statunitense compilò un messaggio
d’allerta per le Hawaii. Messaggi che “inspiegabilmente” giunsero a
destinazione ad attacco avvenuto. Il 16 dicembre l’ammiraglio Kimmel ed
il tenente generale Short, inconsapevoli vittime delle manovre di
Roosevelt, vengono rimossi dall’incarico e degradati per negligenza nel
comando. In fondo la ragion di Stato conta più della buonafede delle
persone.
Stefano Schiavi
http://www.storiainrete.com/25/storia-militare/pearl-harbor-il-grande-inganno-di-franklin-delano-roosevelt/
le solite patetiche idiozie
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