venerdì 19 maggio 2017

Il crollo Il PSI nella crisi della prima Repubblica a cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta

LA FINANZA INTERNAZIONALE
E L’INCONSAPEVOLEZZA SOCIALISTA

1. nulla sanno
Leggendo le interviste raccolte nella prima parte del volume si ri- mane stupiti dall’assenza di qualsivoglia riferimento al quadro glo- bale dell’economia e al nesso tra nazione e internazionalizzazione su questo versante, su questo aspetto dell’anello del potere che, appunto l’economia e la politica, tiene uniti. Il compito che mi è stato affida- to da Gennaro Acquaviva di documentare quanto fosse presente nel gruppo dirigente socialista il peso della finanza internazionale all’epo- ca del crollo giustizialista e politico insieme del psi negli anni qui af- frontati, non può venire assolto se non per differenza. Ossia nessuno ne è consapevole: vi è qualche riferimento nell’intervista a La Ganga, il quale torna a ricordare i partecipanti al viaggio, mitologico e reali- stico insieme, del Britannia: «certo Draghi, ma forse anche Occhet- to» tra gli argonauti; ad esso si aggiunge qualche battuta di Tognoli. Stupefacente è il silenzio sul tema di Amato e De Michelis, i quali pure avevano importantissimi incarichi internazionali a quei tempi. Veramente siamo dinanzi a un problema storiografico...
Insomma, se si parla di economia e di gruppi del potere situazionale di fatto, in queste interviste se ne parla in relazione a Tangentopoli e solo a Tangentopoli. Chiuso. Tutto o tutti tacciono. Sanno o non san- no? Se non sanno siamo dinanzi a una straordinaria confessione di pro- vincialismo e di inconsapevolezza che stupisce che sia così disvelata.
Eppure, invece, anche in quegli anni, la situazione economica italiana, in questo complicato contesto, non cessava di sollevare di- scussione e confronto. Si vorrebbe che sia la prima, sia il secondo,
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fossero sostenuti da più provvide e approfondite analisi e che ci si concentrasse non soltanto sulle schermaglie comunicazionali. Si vor- rebbe che la questione fosse affrontata con la mentalità di una classe dirigente: che si indicassero definitivamente, insomma, le radici dei problemi e su questa base ci si sforzasse di indicare i rimedi possibili.
2. eppure eravamo...
L’Italia era, all’inizio del nuovo millennio, nel complesso di inter- dipendenze delle relazioni mondiali tra le nazioni, all’incirca dove si collocava nel periodo immediatamente precedente la prima guerra mondiale: al confine tanto del centro quanto della periferia dei mec- canismi dell’accumulazione allargata su scala mondiale. Lì è rimasta per circa un secolo. Ma con sforzi inauditi, che sono stati compiu- ti da quattro macroimpulsi, continuamente adeguati e rinnovati in un contesto, però, di scarsissima istituzionalizzazione dei mercati, di alta bancarizzazione della mobilitazione dei capitali e di bassa divisione funzionale tra famiglia e impresa, di scarsissima differen- ziazione sociale tra proprietà e controllo, come è tipico di nazioni a mercati fortemente imperfetti e con scarsissima presenza del merca- to dei diritti di proprietà. I cambiamenti, tuttavia, si sono realizzati, anche se a prezzo di sforzi inauditi, come dimostra la disgregazione di alcuni dei grandi complessi di forze che garantivano un tempo la crescita e come dimostra l’apparire di tensioni alle privatizzazioni con bassi gradi di liberalizzazione. Esse iniziano in tal modo, senza strategia alcuna, senza cultura della regolazione dei mercati e senza trasparenza e sempre sull’onda di un’emergenza drammatica, dap- prima alla metà degli anni Ottanta del Novecento per far fronte al disastro economico dell’iri e poi proseguono con impetuoso slancio a partire dal 1992 per evitare, si afferma, il default, ossia la catastrofe dell’Italia soffocata dal debito pubblico a dal discredito che ne con- segue presso i grandi istituti finanziari internazionali.
3. sempre le privatizzazioni
senza liberalizzazioni e il grande bottino

L’unica via di uscita per iniziare una strategia di ripianamento del debito pubblico è privatizzare, si dice per fare cassa, ossia aumentare
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le entrate dello Stato e diminuire in tal modo il debito paurosamen- te accumulato. La spinta alle privatizzazioni proviene dalle energie globalizzanti del capitalismo anglosassone, del Regno Unito in primo luogo, che per il brevissimo periodo iniziale del Trattato di Maa- stricht governa il Commissariato europeo con una politica compul- sivamente liberista con un grado tale di incisività e di serietà che non si ritroverà più in futuro. Se esaminiamo i dati statistici relativi alle privatizzazioni comprendiamo perché, nonostante l’emergenza, non siamo più come eravamo un tempo, ma non siamo neppure in sincronia con il cambiamento mondiale in corso. È questa la tesi che sostiene l’ipotesi da me abbracciata per la quale occorre accelera- re il cambiamento, puntando su precise linee di trasformazione per rimettere in moto la crescita, che non può più avvenire come nel passato.
Il percorso storico seguito dalle privatizzazioni conferma queste tesi: il loro primo periodo è compreso negli anni 1985-1992. Non è l’Italia a rischiare il default, ma l’iri, che è in una drammatica si- tuazione di insolvenza e di disastro manageriale e di prospettive. Si inizia allora a vendere sul mercato quote di alcuni istituti finanziari strategici e gloriosi: la comit (il 16%) e Mediobanca (13,3%), così come si fa con Alitalia (il 22%). I sottoscrittori rispondono con en- tusiasmo e alla fine del periodo si procede con altre privatizzazioni, non sul mercato ma a investitori istituzionalizzati arbitrariamente scelti dal potere politico: spicca tra tutte la vendita all’AT&T del 20% dell’Italiana Telecomunicazioni Spa (italtel), che lascia assai perplessi i mercati internazionali. Inizia il secondo ciclo delle pri- vatizzazioni: quelle imposte dal sistema finanziario internazionale per impedire l’insolvenza strategica dell’intera nazione sui mercati mondiali. Colpisce l’erraticità del metodo: in alcuni casi si ricorre al mercato borsistico con offerte al pubblico, in altre si negozia diretta- mente con gli investitori, cedendo anche il 100% degli assets, come è il caso Bertolli (alla unilever) oppure delle Acciaierie di Terni (alla tedesca Kai). È tutto il complesso reticolo dell’iri a essere smantella- to, con ricavi per il bilancio dello Stato non secondari. Spicca la ven- dita della Nuova Pignone del gruppo eni a investitori stranieri che è il segno manifesto della volontà italiana di vendere anche i gioielli della corona e le imprese di eccellenza pur di raggiungere l’obiettivo del risanamento del bilancio. Si tratta di un complesso imponente di ricavi, che contrassegneranno in modo profondo il futuro economi- co dell’Italia. Il cuore del processo si affermò, appunto, negli anni
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1996-2000, per poi via via stemperarsi nelle successive ondate priva- tizzatrici del 2000-2003 e di quella ancora in corso, eccezionalmente timida e incerta, tanto da non poter essere ancora significativamente documentata. Il ruolo strategico di Prodi e dei suoi fedeli seguaci spicca in forma storiografica plasticamente evidente. Privatizzare senza liberalizzare nel disprezzo di ogni regola è la cifra di questa coorte.
4. macroimpulsi...
Il primo dei macroimpulsi della crescita era costituito dal capita- lismo monopolistico di Stato, alle origini del medesimo capitalismo italiano, e che ha avuto il suo lungo ciclo performativo dalla grande depressione ai primi anni del decennio 1990. Esso è stato quello più colpito al cuore dall’ondata di privatizzazioni, che in Italia è stata im- petuosa e che, salvo che nei settori logistico, energetico e militare, ha fatto sì che, con la scomparsa della presenza statale, esso non eserciti più il ruolo che gli era stato un tempo affidato dalla divisione sociale del lavoro. Ma questo senza che, con la sua disgregazione, si sia vi- sto sorgere un nuovo fascio di forze che ne ereditassero la potenza economica, confermando le tesi sulle tare di gracilità del capitalismo privato italiano.
Il secondo macroimpulso veniva dal cuore oligopolistico delle grandi imprese familiari a cui si aggiunse dopo il 1929 il complesso pubblicistico (iri ed eni) e che è andato perduto dopo le privatizza- zioni a basso gradiente di liberalizzazione che sono iniziate dopo il Trattato di Maastricht del 1992. Il complesso privatistico familiare altoborghese non si è rivelato in grado – nel quindicennio che va da- gli anni Novanta del Novecento sino a oggi – di ereditare, lo ripeto, il complesso imprenditoriale che era proprio e tipico del capitalismo monopolistico di Stato nazionale. La presenza di quello straniero, oppure di quello oligopolistico privato straniero, è, invece, aumenta- ta in modo significativo ed è destinata ad aumentare in futuro. Non vi è nulla di male in tutto ciò. Purché questo non significhi distru- zione di capacità e di competenze che non possono più riprodursi nelle nostre comunità, nelle nostre società intermedie, nelle nostre autonomie funzionali, che formano la nazione. Se ciò continuasse ad accadere, come successe e oggi nuovamente succede, assisteremmo alla disgregazione del tessuto sociale e relazionale-culturale che è sta-
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ta la forza della nostra crescita nell’interdipendenza internazionale a partire dal XVIII secolo, ben prima dell’unificazione nazionale.
Il terzo macroimpulso per la crescita era ed è quello costituito dal complesso del capitalismo manchesteriano export-lead delle piccolis- sime, piccole e medie imprese che ha avuto un balzo in avanti a par- tire dagli anni Settanta del Novecento per via della mobilitazione so- ciale che ne è alla base e dell’apertura crescente dei mercati mondiali che ne costituisce la condizione necessaria. Questo macro impulso è stato quello investito nel ventennio recente da un’ondata di metafisi- ca glorificazione inversamente proporzionale al suo peso produttivo e sociale, ma direttamente proporzionale, invece, alla sua capacità di esprimere un potenziale di trasformazione e di risposta alla crisi che veniva potenzialmente dall’inserzione nella globalizzazione con una performance di lunga durata. I distretti industriali, dopo meno di vent’anni, sono sì in crisi, ma è una crisi che promana non tanto dalla loro capacità di produrre aggregazione e acquisizione di spil- lover tecnologici, quanto, invece, per via delle strategie sociali che sono alla base della loro nascita. Sono in crisi non avendo prodotto, salvo che in rari casi, imprese leader e fenomeni di consolidamento; si badi, non consolidamento dimensionale, perché non esiste una di- mensione ottima, ma consolidamento rivolto all’aumento della pro- duttività del lavoro e quindi alla creazione del valore.
Questo macroimpulso, quindi, finita la sua dimensione eminente- mente manchesteriano-imprenditoriale delle origini, è stato, in tem- pi più recenti, come mi sono sforzato di dimostrare in taluni lavori, più la creazione di una mobilitazione sociale verso l’alto di classi basse e medie che di iniziative imprenditoriali rivolte alla crescita continua dell’impresa. E con bassi gradi di innovazione che non sia perfezionamento tecnico e incapacità di scalare i sentieri della tecno- logia competitiva come dei mercati finanziari imperfetti, nonostante gli impulsi formidabili che a ciò è venuto dalla globalizzazione vir- tuosa delle economie e delle società in cui siamo immersi. Confer- ma di ciò viene dagli indicatori dei rapporti tra banca e impresa, e che non sono quindi riferiti solo a questo macroimpulso, ma che ne sono tuttavia larghissimamente influenzati: eccesso di indebita- mento a breve con spiccata prevalenza bancaria se si confrontano i valori con quelli internazionali, elevatissima presenza di garanzie personali, patrimoniali che entrano nel circuito della relazionalità fiduciaria banca-imprese, denotando scarsa differenziazione sociale tra patrimonio di imprese e patrimonio familiare, con connotati di
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riattualizzazione di pratiche precapitalistiche che sono tipiche degli agglomerati economico-sociali di consanguinei piuttosto che transa- zionali e fondati sull’efficienza allocativa dei mercati, di tutti i mer- cati, compreso quello della proprietà, che si rivela il più virtuoso e forse il più importante.
Il quarto macroimpulso è giusto che lo si identifichi a questo pun- to del ragionamento, è stato costituito dal complesso bancario assai variegato di cui abbiamo potuto disporre nella crescita più che se- colare e che ora va anch’esso profondamente ridefinendosi. Si parte dalle grandi banche miste che sono i carburanti della crescita sino al fatidico tempo della grande depressione, che indusse alla divisione tra credito ordinario e credito straordinario e distrusse il modello virtuoso della banca universale (imi docet prima della guerra mondia- le, Mediobanca docet dopo di essa). Ciò portò all’affermazione del credito a lungo termine erogato dagli istituti specializzati nel finan- ziamento alle imprese, dopo la seconda guerra mondiale. Qui si pro- dusse, grazie all’intuito di banchieri di eccezione che erano altresì, e contestualmente al loro essere banchieri, grandi intellettuali, un fe- nomeno eccezionale e tipicamente italiano. Si tratta di Mediobanca, si tratta dell’architrave del compromesso economico e politico tra i primi due grandi macroimpulsi or ora ricordati, compromesso che funzionò sino ai tempi recenti. Quelli dell’avvento dei gruppi poli- funzionali e dell’apertura del credito al mercato e alla competizione ancora, tuttavia, altamente amministrata, piuttosto che regolata. Ma quel compromesso funzionò, ricordiamolo, soffocando oligopolisti- camente la crescita che avrebbe potuto essere assai più impetuosa senza l’incesto tra grandi famiglie e capitalismo monopolistico di Stato. Ricordiamolo, oggi che riappaiono nostalgie di riportare sotto l’usbergo pubblico il credito alle imprese con proposte che non si sa se siano improvvide o rinunciatarie a ricercare una nuova via per la crescita secondo i parametri della creazione di mercati sempre meno imperfetti della globalizzazione virtuosa, anziché, come si vorrebbe da più parti, della rendita oligopolistica e politica. E infine ricordo il ruolo, mai dismesso, ancor oggi per fortuna, delle banche di credito ordinario e della seconda linea di liquidità, vera connessione virtuosa del capitalismo manchesteriano con i mercati locali e internaziona- li. Connessione fondata, tuttavia, lo ripeto, non sulla relazionalità transazionale tesa all’efficienza allocativa del credito e dei fattori dell’impresa che lo riceve, quanto, invece, sul multi-affidamento alle imprese con cui le banche detenevano e detengono un rapporto fidu-
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ciario relazionale. Qui si è stati dinanzi, ecco il prezzo del rapporto di affidamento fiduciario e non transazional-razionale che Basilea 2 dovrebbe indurre giocoforza e beneficamente, a inauditi sforzi e ten- tativi in parte riusciti di scalare le gerarchie dei mercati e delle sfere di potenza internazionale. Certo che questo processo di consolida- mento e di parziale internazionalizzazione del nostro sistema banca- rio è avvenuto al prezzo di una distorsione della concorrenza assai grave, soprattutto a causa dell’ assenza della cultura della governance nella maggior parte degli istituti e nel reticolo di intrecci siamesi e, in definitiva, nel grumo di conflitti di interessi che ne derivano.
5. si chiude una fase del sistema bancario italico
Oggi possiamo affermare che con le grandi fusioni bancarie del 2007 si chiude una lunga fase nel nostro sistema finanziario. Una fase storica lunghissima, che inizia con lo scandalo della Banca Romana al finire dell’Ottocento e con l’arrivo delle grandi banche miste te- desche nel nostro paese, che fornirono i capitali essenziali per il suo primo decollo industriale all’inizio del Novecento, su su sino alla grande crisi del 1929, quando quelle grandi banche furono sostituite dalle banche pubbliche possedute dall’iri. Era una fase dialettica, che, nonostante oligopoli e fratellanze siamesi, consentiva una dia- lettica vivace tra gruppi di potere, realtà politiche, classi dominanti nell’Italia di allora. Oggi si giunge, invece, a una situazione sempre sognata dai cultori del primato della politica intesa non come ser- vizio per il bene pubblico, ma, invece, come potere oligarchico e spartitorio con forti barriere all’entrata: barriere di fedeltà, di omo- filia, spesso di cleptocrazia invisibile ma persistente, riconosciuta ma mai disvelata da chi potrebbe disvelarla: una società chiusa. È una situazione sempre temuta da chi preferirebbe, invece, una società civile aperta, rispettosa e rispettata, fondata sul merito, sulla diversi- tà, sull’integrità, sulla competizione. Nella società chiusa c’è un solo comando gerarchico, universale e non contestabile perché non con- tendibile, un comando, un potere di comando che ha il monopolio di ciò che conta: la selezione delle classi dirigenti per cooptazione. In tale situazione si lascia benevolmente alla periferia – ma tutto è periferia – quel grado di dialettica e di conflitto ritenuto accettabile e fisiologico, che non altera l’oligopolio dominante, non contendibile. È la pax romana.
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Una condizione, questa, inedita nell’Italia post bellica. Ma anche nell’Italia post unitaria, come ricordavo, se è vero che fra finanza e regime fascista non mancò una dialettica forte, vera, frutto di due diverse visioni del mondo e del paese. Le biblioteche sono zeppe di buoni libri a riguardo. Varrebbe la pena di rileggerli: rimpiangerem- mo addirittura la dialettica tra Beneduce e Mussolini.
Nell’Italia post bellica, ricordiamolo bene, i tre poli, della finanza laica, della finanza cattolica, della finanza locale, hanno convissuto con una divisione dei ruoli che alimentava conflitti, consentiva con- trolli reciproci, soluzioni di volta in volta diverse ai problemi della società economica in evoluzione. Poi, dopo le privatizzazioni, ecco la dialettica fra la finanza del valore per l’azionista, piuttosto milanese, e quella, piuttosto romana, legata ai valori della stabilità degli assetti e alla difesa degli interessi. Tutto questo avveniva mentre la banca locale affermava la superiorità del proprio modello di crescita, sot- traendo spazi di mercato all’una e all’altra.
Oggi finanza romana e milanese celebrano le nozze, mentre le banche locali cercano soluzioni di sapore via via più difensivo e sono sottoposte a un pericoloso attacco anche istituzionale. Le soluzioni, per esempio, che si prospettano sul fronte parlamentare in merito alle banche popolari sembrano volerle fortemente penalizzare e con- fermano questa visione. La dialettica, in definitiva e per esempio, fra le grandi banche nate tra il 2006 e il 2007 non è dialettica di funzio- ni, di modelli, ma tra referenti più politici che economici, referenti peraltro non così distanti gli uni dagli altri. È la vittoria della politica come spesso l’abbiamo descritta, della politica come neopatrimonia- lismo. E ciò accade negli stessi giorni in cui gli esponenti più note- voli di tale forma della politica denunciano il pericolo di un nuovo 1992, ossia di una nuova rivolta contro la politica simile a quella che diede vita a Tangentopoli. Giochi di specchi. Ma una persona colta deve porsi la domanda: perché tutto questo accade ora e non in un altro momento storico? Non possiamo credere alle caricature perso- nalistiche e demiurgiche, anche se il ruolo della personalità conta, e moltissimo, nell’economia, come nella politica. Accade tutto questo proprio ora, in Italia, ora che il mondo si globalizza, ossia le società si mondializzano. È qualcosa di ben più epocale della svolta liberista dell’interdipendenza economica che ho richiamato all’inizio e che durò tra gli ultimi anni dell’Ottocento e la prima guerra mondiale e che fu seguita poi dalla lunga era dei protezionismi e dell’economie chiuse. Un’era che si sta sgretolando dal 1989 su scala mondiale,
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quando inizia l’apertura dei mercati, sale la produttività del lavoro per l’avvento della new economy, scoppia l’esuberanza borsisitica e inizia la grande liquidità monetaria che gonfia i mercati finanziari sino alle stelle. Ma tutto questo suscita, in Italia soprattutto, devastanti re- azioni neoprotezionistiche e il sorgere di un’arte del nascondimento tutta nostrana: una retorica del mercato, figlia del tempo della new economy, a cui non corrisponde più nessun rapporto tra proposi- zioni, enunciazioni e comportamenti reali, fattuali. Inizia, appunto, un gigantesco gioco degli specchi che copre ciò che a poco a poco, tuttavia, la storia, inesorabile, disvela: accordi oligopolistici, mecca- nismi unici tra economia e politica che l’uno con l’altra si sostengono per affermare una nuova realtà: quella del ritorno al passato, prima delle inferme, sì, ma tuttavia tentate, privatizzazioni e liberalizzazio- ni. Riusciranno i nostri eroi a far girare indietro la ruota della storia? Ma esiste una ruota della storia? Questa è la vera domanda.
6. siamo dove eravamo
I risultati raggiunti nella riclassificazione e rigerarchizzazione dei quattro macroimpulsi sono stati, insomma, assai scarsi. L’Italia, po- tenza regionale a medio raggio, tale era e tale è rimasta. È rimasta nazione con un mix debole, ma sino a oggi efficace, tra mercato in- terno in espansione dopo gli anni Cinquanta del Novecento e una buona serie di rotte dell’esportazione che hanno espresso il meglio dell’industria italiana dopo la congiuntura coreana, sempre negli anni Cinquanta e Sessanta, appunto. Il cuore pulsante del modello era un nucleo privato e pubblico di imprese oligopolistiche campio- ni nazionali, che si interconnettevano con un complesso di imprese manchesteriane, oppure fornitrici, al cuore oligopolistico. Un intrec- cio di dimensioni, di segmenti merceologici e di sentieri tecnologici che si è mostrato efficace sino all’apertura dei mercati dispiegati. La scommessa era di aprirsi al mercato globale: finanziario, dei beni e dei servizi, «spacchettando» il cuore oligopolistico nella sua struttu- ra pubblicistica per aprirlo alla privatizzazione. La liberalizzazione avrebbe dovuto garantire afflussi di capitali tali da non disperdere il potenziale aggregativo, mentre la crescita delle imprese piccole e piccolissime e di quelle medie doveva trovare sia un’espansione nelle esistenti dimensioni di scala, sia una sorta di consolidamento che non perseguisse ottimalità inesistenti, ma che aumentasse la produt-
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tività del lavoro e allocasse efficientemente fuori dalla rendita fattori che per lungo tempo da questa erano stati soffocati.
Il complesso regolatorio messo in atto negli anni del decennio Novanta del Novecento proprio a questo doveva servire, unitamente alle trasformazioni intercorse nel sistema bancario.
Il problema attuale è che questa strategia non ha avuto il succes- so sperato per le ragioni ricordate prima. Siamo, quindi, dinanzi alla pressione che viene dai mercati globalizzati che intercetta non virtuo- samente le nostre ondate esportative rigettandole all’indietro, compli- ce anche il rafforzamento dell’euro. Ma la radice di ciò è l’emergere di nuove potenze globali a fianco di quelle storiche con cui ci siamo se- colarmente confrontati e che ci impone di rimeditare fortemente sui nuovi ostacoli alla crescita. A tutto ciò si aggiunge un pericolo gravis- simo, di tipo sociale prima che economico e che va analizzato meglio di quanto sino a ora non si sia fatto. Mi riferisco al restringimento del mercato interno per l’enorme trasferimento di reddito e di valore che si è realizzato dal lavoro al capitale in questi ultimi vent’anni. Si sono create nuove classi agiate prima inesistenti e si è aumentata la ricchez- za dei già ricchi. E se la povertà assoluta è naturalmente diminuita, è aumentata, lo ripeto, quella relativa, dinanzi a un’inflazione che inizia nuovamente ad affacciarsi sul fronte dei prezzi internazionali. Appare il volto di un sottoconsumo che può divenire altamente gravido di conseguenze nefaste per il perseguimento della crescita.
7. il silenzio dei socialisti disgregantisi
Perché di tutte queste vicende i nostri infaticabili affabulatori non fanno cenno? La domanda rimanda a una stagione di confronti che iniziano allorché il psi assunse precocemente quelle responsabilità di governo che contribuirono a configurare, visti i rapporti di forza esistenti in Italia tra socialismo e comunismo, quella che si definì l’«anomalia italiana». La discussione sull’anomalia italiana è stata uno dei leitmotiv di tutta una stagione della riflessione intellettuale (e della bagarre giornalistica) degli anni Settanta e Ottanta.
Il discrimine su tale problema tra «revisionisti» comunisti e socia- listi e neomarxisti in teoria e in pratica, si intersecava anche e soprat- tutto con quello esistente tra coloro che ritenevano che le sorti di una politica di rinnovamento e di lotta per il socialismo in Italia potesse- ro essere decise esaltando l’anomalia italiana, in primis rispetto alla
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politica e al sistema dei partiti – e non solo alle forme, europee e non, di capitalismo – e coloro che ritenevano, invece, che qualsivoglia po- litica di «progresso» non potesse inverarsi senza prima ridurre e in definitiva abolire tale anomalia, riducendo drasticamente l’influenza del pci a vantaggio del psi.
Quale che sia la posizione che si vuole assumere rispetto a questo problema non di poco conto, uno degli aspetti cruciali di quella di- scussione era il riscontrare e il giustificare, oppure il deprecare, con più o meno intelligenza e buon gusto, i rapporti di forza, elettorali e politico-culturali in senso ampio, all’interno della sinistra partitica italiana.
L’Italia, da questo punto di vista, costituiva un’evidente discra- sia rispetto alla situazione prevalente non soltanto in Europa, ma nel mondo intero (escluse alcune situazioni asiatiche), dove i partiti socialisti e/o socialdemocratici, indubbiamente avevano e hanno la supremazia, fossero o no governativi, rispetto a quelli comunisti.
Gli anni Novanta segnano la fine dell’era del comunismo stali- niano, e questo ha inevitabili implicazioni rispetto a ciò che rimane del movimento operaio internazionale e dell’era della guerra fredda, con tutte le conseguenze del caso in riferimento al confronto tra le nazioni a livello planetario. Rispetto a questi eventi storici l’eredità del comunismo partitico italiano, divisa e trasformata che sia, non soltanto continua a esistere, pur nella sua profondissima mutazione ideologica e politica, ma ha addirittura ancor più rafforzato la sua supremazia rispetto all’eredità storica del socialismo organizzata par- titicamente.
Inoltre il comunismo italiano ha mutato la sua pelle in forma anomala rispetto alla teoria celebre di Kirchheimer1, divenendo, infatti, un partito «pigliatutto» (almeno nell’ispirazione e nell’im- maginario collettivo), ben prima di essersi tramutato in partito a larga influenza elettorale e di essersi profondamente rinnovato ide- ologicamente.
1 O. Kirchheimer, La trasformazione dei sistemi partitici dell’Europa occidentale, in aa.vv., Sociologia dei partiti politici, a cura di G. Sivini, Bologna 1971, pp. 177-202 (originariamente apparso con il titolo, The Transformation of the Western European Party Systems, in aa.vv., Political Parties and Political Development, a cura di J. La Palombara e M. Weiner, Princeton 1966, pp. 177-200). Ma su questo problema mi tocca ricordare l’antiveggente (e ultimo...) contributo di P. Farneti, Stato e mercato nella sinistra italiana: 1946-1976, Torino 1980.
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I partiti a integrazione di massa storicamente giungono alla soglia del potere governativo quando ormai hanno perso le radici dell’ap- partenenza subculturale e della militanza, così da divenire più rapi- damente che mai partiti di opinione in grado di soddisfare diverse e articolate domande politiche. Questo non è stato il caso del pci, che si è trasformato in un partito a larga base sociale e, in determi- nate aree territoriali (l’Italia centrale) con forte influenza sulle classi medie agrarie e urbane, ben prima di essere giunto alla soglia del governo (pur conservando notevoli strutture organizzative fondate sulla cosiddetta «militanza»).
È pur vero che il pci e lo stesso pds e non parliamo del pd, non hanno mai formalmente e dignitosamente compiuto una resa dei conti teorica con lo stalinismo e il breznevismo.
Da un certo qual punto di vista, dunque, la teoria di Kirchheimer andrebbe, nel caso del pci e poi del pds, rovesciata. Infatti esso di- venne, nella seconda metà degli anni Settanta, un grande partito a larga influenza elettorale e di grande prestigio nazionale, non classi- sta, senza perdere le sue radici subculturali e il potenziale di mobili- tazione collettiva che lo caratterizzava.
Diverso il problema del psi. Anch’esso, tuttavia (nonostante tutte le trattazioni oleografiche della sua storia più recente, anche a ope- ra di studiosi di prim’ordine nel campo delle discipline storiografi- che contemporaneistiche2), conferma solo in parte la teoria di Kir- chheimer. E questo nel senso che sviluppa un’intensa propensione e un’impressionante pratica di trasformazione ideologica allorché di- viene partito di governo, proteso all’ampliamento della sua influenza elettorale. Questa, però, avviene tardivamente, non negli anni in cui compie le sue prime esperienze governative, quanto, invece, in quelli della segreteria di Bettino Craxi, a cavallo dei decenni Settanta e Ot- tanta e sino ai primi anni Novanta.
Il «neorevisionismo socialista», per usare la brillante definizione di Donald Sassoon3, ha nel psi degli anni Sessanta e Settanta un espo- nente tra i più interessanti sotto il profilo ideale e programmatico. Senonché, negli anni Ottanta e Novanta, tale revisionismo si sovrap- pone e si compone, sino a esserne via via soffocato, con il «neo-ca-
2 M. Degl’Innocenti, Storia del PSI. Volume III. Dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari 1993.
3 D. Sassoon, One Hundred Years of Socialism. The Western European Left in the Twentieth Century, New York 1996, pp. 730 ss.
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ciquismo» tipico dei partiti socialisti dell’Europa del Sud4, protesi a una pratica di cesarismo familistico profondamente intrecciata con il neopatrimonialismo e la corruzione economica e politica: il capo del partito politico è il capo dell’«economia politica» del partito e, come in un grottesco riproporsi della metafora michelsiana, esercita il suo potere in forma autocratica e – secondo una distinzione antropologi- ca mediterranea – familistica.
Il clientelismo socialista del Sud Europa è caratterizzato dal pas- saggio rapido dal clientelismo della «macchina di partito» a quello dei sistemi di patronage autocratici e monoteistici5, che distruggono via via lo stesso partito in quanto macchina organizzativa più o meno centralizzata e pongono al suo centro, invece, le cliques dei capi loca- li dominati, a loro volta, dal leader maximo del centro della macchina politico-economica.
Di qui l’altro paradosso dell’anomalia italiana. Esplode la crisi ir- reversibile, sotto le spinte rivoluzionarie dal basso in Polonia, nella Repubblica Democratica Tedesca e disgregatrici dall’alto – al suo stesso interno –, della burocrazia di origine staliniana dei regimi dit- tatoriali in Cecoslovacchia, nei paesi balcanici del comecon e, na- turalmente, in urss. Ebbene: la corrente partitica «autonomistica»6 (sempre la più «lontana» dal pci in tutta la storia del psi e la più attiva nella difesa del «dissenso» che si sviluppò nei paesi staliniani7) è, ne- gli anni, sì divenuta egemone nel socialismo italiano, grazie a Bettino Craxi, ma non trae, da questa sorta di «vittoria ideologica» indiscu- tibile, una «vittoria politica». Anzi, entra in una così grave crisi che lo stesso centenario di nascita del psi non viene celebrato e il partito italiano più vecchio e insieme più innovativo sin dal suo sorgere8 e il più ideologicamente importante, storicamente, per il rinnovamento della sinistra9, si inabissa nella frantumazione e nelle scissioni.
4 G. Sapelli, Southern Europe since 1945. Portugal, Spain, Italy, Greece and Turkey. Tradi- tion and Modernization, London 1994 (poi London 2011).
5 Ibidem, pp. 11 ss.
6 Su ciò vedi L. Cafagna, Una strana disfatta. La parabola dell’autonomismo socialista, Ve- nezia 1996.
7 Era questo un tema molto caro al vecchio amico «autonomista» Guelfo Zaccaria, tragica- mente scomparso nella bufera della dilagante trasformazione «neo-caciquistica» del psi: voglio qui ricordarlo con rimpianto e affetto.
8 M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Napoli 1983, rimane il testo fondamentale e «classico» su questi temi.
9 G. Giugni, Socialismo: l’eredità difficile, Bologna 1995. 779
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giulio sapelli
Questo per il fatto che, nella nuova situazione internazionale dopo il 1989, il neo-caciquismo socialista rivela appieno la sua patologia e può essere attaccato sia dai poteri economici sia dalle forze politiche che si formano, in Italia, sull’onda di tale attacco.
La vicenda del psi è la manifestazione più rilevante di quel fe- nomeno tipico dell’Europa mediterranea che Legg10 ha approfon- ditamente studiato in Grecia (dove già Meynaud11, tuttavia, l’aveva riscontrato): ossia la diretta proporzionalità tra la «debolezza» dei partiti («deboli» perché personalistici e incapaci di selezionare élite non orientate soltanto al patronage) e la loro pervasività clientelare. Di qui un fenomeno che mi sono sforzato di far «vedere» ai formalisti della politologia accademica italiana autoreferenziale (e quindi «in- ferma» come la retorica neoclassica in economia): la debolezza dei partiti italiani e sud-europei in quanto sistemi di solidarietà e di ap- partenenza, è la concausa della forza, e soprattutto della pervasività, della loro rete clientelare neopatrimonialistica, e viceversa12. Partiti non «forti», dunque, ma «deboli»: tutto il contrario, per morfologia, di quanto va cantando – stonando – la vulgata della «partitocrazia»13.
La disgregazione che ha investito il psi – e per altri versi la dc – si spiega, appunto, pensando alla sua intrinseca debolezza. La di- sgregazione, così rapida, improvvisa e irreversibile sotto i colpi del- la magistratura, sotto la sferza della vicenda di Mani pulite e/o di Tangentopoli, bene si spiega, allora, e non si presenta solo come un fenomeno arcano e ascoso.
Porre l’accento su questo tema è decisivo. Con la fase che va dal 1989 alla prima metà degli anni Novanta si conclude, dunque, un lungo percorso della sinistra italiana e si risolve, insieme, l’interroga- tivo relativo all’«anomalia» politica che essa rendeva manifesta.
10 K.R. Legg, Politics in Modern Greece, Stanford 1969.
11 J. Meynaud, Les forces politiques en Grèce, Gèneve 1965.
12 Sapelli, Southern Europe since 1945, cit. Un cospicuo materiale a conforto della mia
tesi si può ora rintracciare in aa.vv., How Parties Organize. Change and Adaptation in Party Organizations in Western Democracies, a cura di R.S. Katz e P. Mair, London-New Delhi 1994. E, sempre a cura degli stessi, vedi anche, Party Organizations: A Data Handbook on Party Or- ganizations in Western Democracies, 1960-1990, London-New Delhi 1992.
13 Su ciò aa.vv., Come cambiano i partiti, a cura di M. Calise, Bologna 1992, che rimane il lavoro più importante per comprendere la situazione partitica di questi anni.
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la finanza internazionale e linconsapevolezza socialista 8. la fine di bettino craxi: la fine di tutto
Una delle caratteristiche essenziali della trasformazione della si- nistra italiana dopo il 1989 è la sostanziale scomparsa, come inter- locutore politico, del psi di Bettino Craxi. Esso aveva definito la sua fisionomia per tutti gli anni Ottanta come il partito che aveva scon- fitto il tentativo di Enrico Berlinguer e di Aldo Moro di costituire le condizioni dell’alternanza politica all’interno dei rapporti interna- zionali della guerra fredda. Secondo i due importanti leader politici, il passaggio dal sartoriano pluralismo polarizzato al farnetiano plu- ralismo centripeto, si sarebbe realizzato scongiurando, da un lato, (per Berlinguer ) la deriva reazionaria di cui si intravedevano a livello internazionale i prodromi, e, dall’altro (secondo Moro), la definitiva trasformazione della dc in una macchina di conservazione degli in- teressi conservatori ed etero-diretti dall’arena internazionale. Contro questo disegno si mossero potenti interessi che risultarono vincitori.
L’assassinio di Aldo Moro per mano delle «oscure potenze» che quegli interessi salvaguardavano diede al progetto di «compromes- so storico» una versione difensiva e lo privò di gran parte delle sue potenzialità trasformatrici. Dinanzi alla deriva che il progetto ebbe perché colpito da questa sanguinosa offensiva, emersero tutte le con- traddizioni in cui si dibatteva il pci, allorché si trattò di far fronte alla crisi nei suoi rapporti con le masse che l’appoggio esterno al governo Andreotti provocava. La trasformazione del pci in Partito socialde- mocratico, libero da vincoli ideologici con il suo passato staliniano, poteva avvenire solo approfondendo la sua revisione ideologica – con la rottura con l’urss – e la sua attiva partecipazione al governo, sulla base di un preciso programma politico riformatore. Questo non avvenne e il partito tornò all’opposizione, senza comprendere le pro- fonde trasformazioni sociali e culturali che investivano l’Italia e il capitalismo mondiale.
Tali trasformazioni costituiranno, invece, il punto di forza del programma di «modernizzazione» del craxismo. Questo era così de- stinato a colmare il vuoto lasciato scoperto dal pci (che si avviava a un declino spiccato della sua capacità di elaborazione politica), e a insidiarne per più di un decennio ogni tentativo di ampliare verso il centro la sua influenza. Ma fu proprio quando questo disegno pareva raggiungere l’acme del successo che iniziò, invece, a disgregarsi.
Nel 1989 viene meno, a livello internazionale, il lungo ciclo della vita politica italiana che si apre nel 1943, con la caduta del fascismo,
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la Resistenza, la costituzione della Repubblica. La realizzazione in forma non effimera, per la prima volta nella storia d’Italia, di un si- stema politico fondato sull’organizzazione della democrazia tramite i partiti14 viene messa in discussione da un variegato complesso di forze che trovano nell’alta borghesia industriale e finanziaria il loro coagulo organizzativo. Si tratta di un’offensiva che ha una larga base di appoggio, per le contraddizioni e le ingiustizie dello «stato dei partiti»: con esso, tuttavia, è anche la democrazia parlamentare go- vernata dai partiti15 che si vuole indebolire, sino a distruggerla.
La disgregazione dell’urss rimette in moto la dialettica degli in- teressi economici e politici, che prima erano ingessati dal confron- to tra grandi potenze. Esplode la contraddizione apertasi in forma irresolubile negli anni Ottanta tra il sistema politico dello stato as- sistenziale dei partiti e le esigenze di un sistema economico che si va con grande velocità inserendo nella globalizzazione finanziaria liberistica dell’economia. L’abnorme dilatarsi della spesa pubbli- ca, con la sua acme negli anni Ottanta e la corruzione dilagante e diffusa del meccanismo unico diretto alla collusione anti-mercato e alla proliferazione delle oligarchie e delle clientele, tanto degli industriali quanto dei partiti, sono gli aspetti salienti del periodo. Il gruppo di comando dell’economia italiana, internazionalizzato e deciso a costruire un ruolo dell’Italia ben diverso da quello del passato nella divisione internazionale del lavoro, muove allora, tra mille contraddizioni e tentennamenti, come si è già ricordato, alla distruzione del sistema costruito in un quarantennio di vita repub- blicana, avendo di mira, in primis, la democrazia organizzata dai partiti.
9. eppure tacciono o non dicono o non ricordano
Le trasformazioni straordinarie che si affacciano su scala mon- diale sul fronte del rapporto tra politica ed economia non vengono colte dai nostri intervistati. È stupefacente! La centralità del capitale
14 G. Vacca, Per una nuova costituente, Milano 1996. Si tratta di un saggio fondamentale per comprendere il significato storico generale della «transizione» degli anni Novanta.
15 S. Warner, D. Gambetta, La retorica della riforma. Fine del sistema proporzionale in Italia, Torino 1994.
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finanziario su scala internazionale non solo enfatizza il ruolo delle istituzioni sovranazionali di governo dei flussi monetari, ma impedi- sce di fatto ogni politica economica keynesiana a livello locale, ossia nazionale.
I partiti sono ora costretti al policy making dell’abbattimento del debito pubblico. E questo perché il rientro dal debito pubblico e il recupero della credibilità finanziaria divengono condizioni priorita- rie per rimanere nel circuito finanziario internazionale, europeo e mondiale, dove prevalgono gli interessi delle grandi potenze regio- nali (Germania in Europa e Giappone in Asia) e, su scala mondiale, degli usa.
Non a caso l’Italia esprime dal 1993 al 1996, sino alla recente coalizione dell’Ulivo (con l’intermezzo del breve governo Berlusco- ni travolto dalle divisioni in seno alla sua maggioranza e che con- durranno, dopo l’intermezzo del governo di Lamberto Dini, a nuo- ve elezioni), governi al cui capo stanno alti funzionari della Banca d’Italia ed esponenti dei grandi interessi affaristici e degli apparati dello Stato.
È un sommovimento profondo, quello che investe l’Italia. Per la prima volta nella sua storia repubblicana, in questo riarticolarsi e ampliarsi del capitalismo finanziario mondiale che così fortemente pesa sull’Italia, degli ex comunisti accedono in forma organizzata al governo: Giorgio Napolitano, leader storico, dopo Giorgio Amen- dola, del «revisionismo comunista» occupa la delicatissima carica di ministro degli Interni, in un momento cruciale per l’Italia, investita dalla polemica «secessionista» della Lega Nord e dalla ripresa delle indagini sulla corruzione in economia e in politica. Per la prima volta ministeri strategici come le Finanze, l’Istruzione e la Ricerca scien- tifica sono affidate a personalità di alto profilo intellettuale del pds, che esprime anche, a fianco del premier Romano Prodi, il vicepresi- dente del Consiglio, Walter Veltroni.
La composizione del governo riflette i vincoli in cui deve rifor- mularsi la nuova strategia internazionale che trova nel pds il suo in- terlocutore privilegiato: i posti chiave dei ministeri economici (salvo le Finanze) sono affidati a uomini di fiducia dei grandi gruppi di interesse del nuovo capitalismo finanziario globalizzato; il controllo di un settore consistente delle classi medie è affidato alla componen- te ex democristiana confluita nell’Ulivo sotto le bandiere del ppi. Ed esso è ricercato riattualizzando clientele e patronage in una misura davvero impressionante, ben più consistente di quanto prima non
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avvenisse nel contesto della «Repubblica del partiti»16. Sino alla fine degli anni Ottanta, i partiti, infatti, con le loro oligarchie, monocrati- che o plurime che fossero, inducevano all’aggregazione dei gruppi di interesse e delle rappresentanze, occulte o visibili, degli stessi. Ora i partiti non riescono più a svolgere come un tempo questa funzione, provocando in questo modo una proliferazione dei centri del potere occulto oppure non definiti sulla base di stabili progetti di medio- lungo periodo, una proliferazione ben più rapida e vasta di quanto già non fosse in passato. Un problema che, naturalmente, non coin- volge soltanto le classi medie, ma in primo luogo quelle capitalistiche e «agiate».
Si tratta, tuttavia, di una situazione fluida, incerta, dove nessun «blocco sociale» ancora si consolida e dove è impossibile che ciò av- venga nel breve periodo, per la situazione che caratterizza il capita- lismo italiano e internazionale. L’egemonia su scala mondiale del ca- pitalismo della finanza e della circolazione del capitale si è affermata, sia sul capitalismo industriale, sia sullo stesso capitalismo finanziario, ossia quello che unifica banca e finanza con l’industria. La circo- lazione del capitale, con i mercati finanziari pienamente dispiegati, tende sempre più ad autonomizzarsi dalla produzione industriale, provocandone la continua ristrutturazione e, di fatto, l’incessante in- debolimento. Di qui un’instabilità sociale e politica di cui avvertiamo i sommovimenti in ogni parte del pianeta, dalla Francia al Giappone.
Questa instabilità strutturale, paradossalmente, rafforza e non indebolisce, nel lungo periodo, il governo dell’Ulivo. Esso diviene, dopo il fallimento della destra sul piano della capacità di coalizione, un punto di riferimento obbligato per tutte le forze in diversi modi interessate al risanamento finanziario di un paese dalle implicazioni strategiche importanti nella nuova situazione internazionale.
Occorre, tuttavia, ricordare che il compito che il governo dell’Uli- vo aveva dinanzi a sé era molto grave e difficile, allorché lo si esamina nel contesto or ora evocato. Il dominio internazionale del capitali- smo della circolazione del capitale e della finanza separata dalla cre- scita industriale esercitava un peso fortissimo, tanto più in un paese come l’Italia, dove forte è il debito pubblico. Vincoli internazionali e
16 P. Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945- 1996), Bologna 1991.
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la finanza internazionale e linconsapevolezza socialista
vincoli interni si sommano e l’uno con l’altro si rafforzano, limitando le possibilità di perseguire una politica economica non monetarista. Ciò è comprovata dalla sostanziale continuità che su questo terreno si riscontra a partire dal governo Amato sino ai giorni nostri: i go- verni Ciampi, Berlusconi (quest’ultimo posto tuttavia rapidamente nell’impossibilità di operare per la non affidabilità che provocò nelle stesse «alte sfere» del capitalismo della finanza internazionale), Dini e Prodi, Berlusconi e Monti, pur con il suo stravolgimento costitu- zionale17, non si differenziano in modo significativo, sino a ora, sul fronte della politica economica; essa viene esercitata secondo gli ob- blighi e i vincoli che provengono dalle oligarchie finanziarie interna- zionali. Essa, per non colpire i settori e le classi della popolazione a più alto reddito, penalizza, di fatto, le classi medie meno abbienti e i poveri, con notevoli ripercussioni politiche che non mancheranno di farsi sentire anche sul fronte elettorale. Incerta e inefficacie è, però, l’azione sul fronte della politica diretta a impedire la crescente dein- dustrializzazione, che prosegue assai rapidamente, in primo luogo per quel che concerne le grandi imprese, più direttamente investite sia dalla competizione globale, sia dal peso crescente della finanzia- rizzazione dell’economia mondiale.
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17 G. Sapelli, L’inverno di Monti. Il bisogno della politica, Milano 2012. 785

http://www.fondazionesocialismo.it/IL%20CROLLO/Craxi.Crollo.parte2.stampa.pdf

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