Marcello De Cecco per "la Repubblica"
Da più di duemila anni, la moneta è uno degli strumenti principali della sovranità nazionale, emesso da principi e governi direttamente o tramite una banca centrale e da loro usato per finanziare le proprie spese, con una forma di "tassazione senza rappresentanza politica" come la chiamavano gli irritati protagonisti della rivoluzione americana del 1776. La moneta è stata quindi usata per una fiscalità surrettizia, poco soggetta a censura politica perché non colpisce singoli gruppi di cittadini, ma la popolazione in generale, dato che tutti usano la moneta per scambiare, pagare e risparmiare.
ANGELA MERKEL E GEORGE PAPANDREOU
L´euro è il primo esperimento nella storia di una moneta al cui emittente, la Banca centrale europea, per statuto è vietato l´acquisto diretto di titoli obbligazionari emessi dagli stessi stati. Questa regola è stata imposta alla Bce per evitare che gli stati virtuosi paghino, tramite la Bce, i conti pubblici in rosso di quelli che virtuosi non sono. Se essa è rispettata, il debito pubblico di ciascuno stato deve essere gestito unicamente con mezzi finanziari reperiti dal Tesoro dello stato in questione, e cioè con mezzi fiscali e non monetari.
È qui la innovazione più rivoluzionaria introdotta dalla Unione monetaria europea, capovolgendo una prassi pluricentenaria. Gli stati membri hanno volontariamente rinunciato alla sovranità monetaria. Non potrebbe esserne fornito nemmeno un ipotetico governo federale europeo, se non si cambiasse radicalmente la filosofia monetaria che ha ispirato il trattato di Maastricht.
IL PREMIER SILVIO BERLUSCONI E MINISTRO GIULIO TREMONTI
Quando, con quel trattato, si istituì l´Ume, un economista inglese, il professor Alan Walters, consulente di Margaret Thatcher, si mostrò scettico sulla durata nel tempo della futura unione, dicendo che non era possibile che persone di differenti taglie fossero vestite con abiti di una taglia sola: «one size cannot fit all». I primi dieci anni di esperienza della Ume sembrarono dargli torto, perché il paese tradizionalmente forte, la Germania, ebbe a lungo bisogno di una politica monetaria espansiva, per far fronte all´aumento di spesa pubblica causato dalla annessione delle regioni della Germania comunista.
La Bce di buon grado si prestò a fornirla. Le necessità tedesche, unite a quelle francesi, giunsero nel 2003, fino a richiedere un allentamento del rigore del patto di stabilità, l´impegno a tenere i deficit pubblici entro il 3% del Pil introdotto dagli stati membri della Ume in mancanza della integrazione fiscale che avrebbe dovuto far coppia con quella monetaria ottenuta con l´euro.
In queste condizioni di moneta a buon mercato il vestito risultò comodo anche per i paesi tradizionalmente più deboli, come l´Italia, il Portogallo, la Spagna, la Grecia, l´Irlanda, il Belgio. Malgrado le nuove regole relative alla gestione dei debiti pubblici nazionali, In effetti, la politica monetaria allora richiesta dalla Germania, molto esplicitamente, tramite il proprio ministro Lafontaine, contribuì a far gonfiare in alcuni paesi della Ume una bolla immobiliare simile a quella che aveva luogo, negli stessi anni, negli Stati Uniti e a fare indebitare a basso costo paesi in forte deficit pubblico come la Grecia, l´Italia, il Belgio.
MARGARET THATCHER
L´arrivo in Europa della tremenda crisi finanziaria americana, nel 2008-09, ha posto agli stati della Ume l´imperativo di salvare quelle banche europee, che avevano partecipato alla speculazione finanziaria americana o avevano indotto coi mutui facili bolle speculative immobiliari nei propri paesi. Il costo di questi salvataggi è ricaduto interamente sulle finanze pubbliche di ciascun paese. A questo punto, la credibilità creditizia dei governi dell´Ume ha dovuto risentire del peso dei nuovi impegni.
Poiché anche i paesi più potenti e relativamente più virtuosi come la Germania e la Francia hanno debiti pubblici grandi e molto diffusi sui mercati internazionali, è cominciata una gara a tenere alta la propria credibilità finanziaria, anche cercando di abbassare quella altrui. Si è così rotta la convergenza tra i rendimenti dei titoli di stato dei vari paesi dell´euro, che durava dalla inaugurazione della moneta unica, e la tendenza alla divaricazione è peggiorata quando si sono rivelate al mondo le condizioni semi fallimentari alle quali il governo del conservatore Karamanlis aveva ridotto le finanze greche.
DRAGHI TRICHET
Riuscirà la struttura della moneta unica a resistere alle tendenze centrifughe che si sono scatenate per i motivi che ho ricordato? Probabilmente le forti resistenze espresse dal governo tedesco, cui si associa anche quello francese, a prestare aiuto alla Grecia, saranno addolcite dalla consapevolezza, specialmente del ceto industriale tedesco, della possibilità che, a voler tirare troppo la corda contro il governo greco, si possano sfasciare prima l´euro e poi addirittura il mercato unico europeo delle merci , sul quale le imprese tedesche vendono ancora gran parte della propria produzione.
2002-L'EURO ENTRA IN VIGORE
Tale consapevolezza è forte anche nel partito socialdemocratico e in quello dei verdi. Resta tuttavia il problema originario della moneta unica, di essere una moneta senza uno stato, per volontà espressa dei suoi soci fondatori. Solo facendo avanzare la integrazione europea, cioè creando uno stato confederale o federale e collegandolo alla nostra moneta apolide, può risolversi positivamente l´impasse nella quale il monetarismo dottrinario che animava i più influenti tra i creatori dell´euro ha cacciato l´ intera Europa.
by dagospia
giovedì 13 ottobre 2011
L’EURO ALLA NEURO - PER SALVARE LE BANCHE, SCONQUASSATE DALLA CRISI FINANZIARIA, GLI STATI DEVONO SGANCIARE DENARI NONOSTANTE DEBITI PUBBLICI MOSTRUOSI - LE BIZZE DELLA MERKEL SULLA GRECIA FANNO TRABALLARE LA MONETA UNICA MA IL CETO INDUSTRIALE TEDESCO TEME CHE A TIRARE LA CORDA CONTRO ATENE, PRIMA SI SFASCI L´EURO E POI IL MERCATO UNICO, SU CUI LE IMPRESE CRUCCHE VENDONO GRAN PARTE DELLA PROPRIA PRODUZIONE…
TRAGEDIA GRECA - “LA GRECIA FALLIRÀ A MARZO 2012”, DICE LA BANCA SVIZZERA UBS, CIOÈ QUANDO DOVRÀ RIFINANZIARE MILIARDI DI DEBITO - IL CRAC AVRÀ UN CONTAGIO “CONTENUTO”, MA LA CRISI EUROPEA DURERÀ ANNI, PERCHÉ CHI POSSIEDE BOND GRECI PERDEREBBE IL 70%, E SI INNESCHERÀ UNA NUOVA CRISI DEL CREDITO CHE COLPIRÀ L’ECONOMIA REALE - ATENE PIÙ TAGLIA, PIÙ PERDE - SI RISCHIA L’ABBANDONO DELL’EURO NON DELL’ITALIA E PORTOGALLO, MA DI FRANCIA E GERMANIA - …
Francesco De Dominicis per "Libero"
ANGELA MERKEL E GEORGE PAPANDREOU
La Grecia avrebbe le ore contate e la macchina dei soccorsi potrebbe rivelarsi inutile. Gli aiuti internazionali e le manovre della troika (Unione europea, Fondo monetario e Bce) corrono il rischio, insomma, di risolversi con un buco nell'acqua. A tracciare un quadro pieno di ombre sono stati gli analisti di Ubs. In uno studio diffuso ieri, gli esperti della banca d'affari svizzera sostengono che la «bancarotta» del paese ellenico sia «inevitabile». Un evento drammatico per il quale indicano addirittura una data precisa: «nei prossimi mesi, quando la Grecia dovrà vedersela con pesanti esigenze di rifinanziamento» e cioè a «marzo 2012».
UBS LOGO
E gli effetti? Secondo Ubs il rischio «contagio è contenuto». In ogni caso, gli investitori vedrebbero tagliarsi i loro investimenti in bond greci del 70%. L'insolvenza della Grecia però, precisano, non farà precipitare nel baratro anche Portogallo, Italia e Spagna: per evitare questo scenario vi sono infatti sufficienti meccanismi e mezzi a disposizione. La bancarotta greca avrebbe comunque altri risvolti pesanti: provocherebbe una nuova crisi del credito nel settore finanziario e avrebbe effetti negativi sull'economia reale colpendo i già bassi tassi di crescita.
EVANGELOS-VENIZELOS
Per Ubs la crisi durerà diversi anni anche perché uno dei problemi di fondo, rilevano, è la costruzione dell'euro in sé. Restano due schieramenti contrapposti: chi propugna una unione fiscale e chi teme la fine dell'euro. Per gli economisti di Ubs sono improbabili entrambi gli scenari, sebbene non si possa escludere un'uscita dalla moneta unica da parte di paesi euroscettici come la Finlandia. Un gruppetto di cui fa parte anche Slovacchia che ieri, dopo il «no» arrivato martedì, ha trovato un accordo interno per sbloccare il pacchetto di aiuti ad Atene.
CHRISTINE LAGARDE AL G20
Di là da Ubs, la troika va avanti più o meno a testa bassa. Il controllo più difficile e più lungo della situazione dei conti greci è finito. Ora, secondo gli stessi rappresentanti dei creditori, tutto dipende dal governo greco e dalla sua capacità e dalla sua volontà politica di attuare le misure concordate. Queste dovranno accelerare le riforme strutturali e le privatizzazioni per aprire la strada non solo alla concessione della tanto attesa sesta tranche da otto miliardi di euro (che probabilmente avverrà ai primi di novembre, dopo che l'Eurogruppo e il Consiglio dell'Fmi avranno approvato il rapporto dei loro rappresentanti), ma anche ad un nuovo accordo con i creditori internazionali che renderebbe amministrabile il debito greco.
IVETA-RADICOVA PREMIER SLOVACCO
I rappresentanti della troika hanno espresso la loro soddisfazione per i «progressi continui» fatti dal governo di Atene. Tuttavia hanno notato ritardi «ingiustificabili» che, sommati con la recessione, rendono difficile il raggiungimento degli obiettivi per il 2011. E come se non bastasse i conti della Grecia continuano a soffrire. Il deficit, nonostante il piano di austerity varato dal governo per tentare di ridare ossigeno alle dissestate finanze elleniche, cresce. I dati pubblicati ieri dal ministero delle Finanze greco, rivelano che il disavanzo su base annua è salito al 15% nei primi nove mesi dell'anno, a 19,16 miliardi di euro, segno che gli aumenti fiscali approvati dal governo non hanno avuto i risultati sperati.
BARROSO
A settembre Atene ha approvato un aumento dell'imposta sul valore aggiunto sui ristoranti al 23%, accanto ad altri prelievi speciali sui redditi per un valore variabile dall'1 al 5%. A Bruxelles i timori crescono. «I dubbi e le incertezze sulla Grecia compromettono la stabilità dell'Europa» ha ammesso ieri il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso. Il quale ha indicato tre ricette. Atene deve mettere i conti in ordine e sfruttare a pieno i fondi strutturali e poi va sbloccata subito l'ultima fetta di aiuti.
by dagospia
ANGELA MERKEL E GEORGE PAPANDREOU
La Grecia avrebbe le ore contate e la macchina dei soccorsi potrebbe rivelarsi inutile. Gli aiuti internazionali e le manovre della troika (Unione europea, Fondo monetario e Bce) corrono il rischio, insomma, di risolversi con un buco nell'acqua. A tracciare un quadro pieno di ombre sono stati gli analisti di Ubs. In uno studio diffuso ieri, gli esperti della banca d'affari svizzera sostengono che la «bancarotta» del paese ellenico sia «inevitabile». Un evento drammatico per il quale indicano addirittura una data precisa: «nei prossimi mesi, quando la Grecia dovrà vedersela con pesanti esigenze di rifinanziamento» e cioè a «marzo 2012».
UBS LOGO
E gli effetti? Secondo Ubs il rischio «contagio è contenuto». In ogni caso, gli investitori vedrebbero tagliarsi i loro investimenti in bond greci del 70%. L'insolvenza della Grecia però, precisano, non farà precipitare nel baratro anche Portogallo, Italia e Spagna: per evitare questo scenario vi sono infatti sufficienti meccanismi e mezzi a disposizione. La bancarotta greca avrebbe comunque altri risvolti pesanti: provocherebbe una nuova crisi del credito nel settore finanziario e avrebbe effetti negativi sull'economia reale colpendo i già bassi tassi di crescita.
EVANGELOS-VENIZELOS
Per Ubs la crisi durerà diversi anni anche perché uno dei problemi di fondo, rilevano, è la costruzione dell'euro in sé. Restano due schieramenti contrapposti: chi propugna una unione fiscale e chi teme la fine dell'euro. Per gli economisti di Ubs sono improbabili entrambi gli scenari, sebbene non si possa escludere un'uscita dalla moneta unica da parte di paesi euroscettici come la Finlandia. Un gruppetto di cui fa parte anche Slovacchia che ieri, dopo il «no» arrivato martedì, ha trovato un accordo interno per sbloccare il pacchetto di aiuti ad Atene.
CHRISTINE LAGARDE AL G20
Di là da Ubs, la troika va avanti più o meno a testa bassa. Il controllo più difficile e più lungo della situazione dei conti greci è finito. Ora, secondo gli stessi rappresentanti dei creditori, tutto dipende dal governo greco e dalla sua capacità e dalla sua volontà politica di attuare le misure concordate. Queste dovranno accelerare le riforme strutturali e le privatizzazioni per aprire la strada non solo alla concessione della tanto attesa sesta tranche da otto miliardi di euro (che probabilmente avverrà ai primi di novembre, dopo che l'Eurogruppo e il Consiglio dell'Fmi avranno approvato il rapporto dei loro rappresentanti), ma anche ad un nuovo accordo con i creditori internazionali che renderebbe amministrabile il debito greco.
IVETA-RADICOVA PREMIER SLOVACCO
I rappresentanti della troika hanno espresso la loro soddisfazione per i «progressi continui» fatti dal governo di Atene. Tuttavia hanno notato ritardi «ingiustificabili» che, sommati con la recessione, rendono difficile il raggiungimento degli obiettivi per il 2011. E come se non bastasse i conti della Grecia continuano a soffrire. Il deficit, nonostante il piano di austerity varato dal governo per tentare di ridare ossigeno alle dissestate finanze elleniche, cresce. I dati pubblicati ieri dal ministero delle Finanze greco, rivelano che il disavanzo su base annua è salito al 15% nei primi nove mesi dell'anno, a 19,16 miliardi di euro, segno che gli aumenti fiscali approvati dal governo non hanno avuto i risultati sperati.
BARROSO
A settembre Atene ha approvato un aumento dell'imposta sul valore aggiunto sui ristoranti al 23%, accanto ad altri prelievi speciali sui redditi per un valore variabile dall'1 al 5%. A Bruxelles i timori crescono. «I dubbi e le incertezze sulla Grecia compromettono la stabilità dell'Europa» ha ammesso ieri il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso. Il quale ha indicato tre ricette. Atene deve mettere i conti in ordine e sfruttare a pieno i fondi strutturali e poi va sbloccata subito l'ultima fetta di aiuti.
by dagospia
debito publico
ad oggi il debito publico di ogni cittadino è di € 32000,00 grazie politica di merda.
il mantecatore
il mantecatore
HA CARICATO A MEZZANOTTE E DIECI LA POLIZIA. LI HANNO PORTATI VIA UNO PER UNO A BRACCIA. ERANO RIMASTI UN CENTINAIO DI “INCAZZADOS” DE’ NOANTRI. E' FINITA COSÌ TRA TENSIONE E SPINTONI LA PROTESTA DI IERI, OTTO ORE DI ASSEDIO ALLA BANCA D'ITALIA - 2- MA STAVOLTA IL NEMICO NON SONO BERLUSCONI E LA POLITICA POLITICANTE MA L’ECONOMIA. NEL MIRINO, LA BANCA D’ITALIA. SI DANNO IL NOME DI “DRAGHI RIBELLI”, APRONO UN BLOG BATTEZZATO “OCCUPIAMO BANKITALIA” E PARTONO ALL’ASSALTO DI VIA NAZIONALE - 3- BIFO, L’EX LEADER DEL ’77: “ATTENTI, SABATO A ROMA RISCHIAMO UN’ALTRA GENOVA” - 4- PRIMO TIFOSO, MONTESCEMOLO CHE CORRE (IN FERRARI) AD APPOGGIARE LA PROTESTA
I "DRAGHI RIBELLI" OCCUPANO VIA NAZIONALE
Flavia Amabile per "la Stampa"
INDIGNADOS A ROMA
Ha caricato a mezzanotte e dieci la polizia. Li hanno portati via uno per uno a braccia. Erano rimasti un centinaio, è stata un'operazione di pochi minuti mentre loro gridavano «Roma libera» e, seduti, aspettavano di essere trascinati via di peso. E' finita così tra tensione e spintoni la protesta di ieri, otto ore di assedio alla Banca d'Italia.
INDIGNADOS A ROMA
A organizzarla un gruppo di studenti universitari, precari e attivisti sull'onda di quanto è accaduto a New York con il movimento «Occupy Wall Street». Il gruppo arriva in gran parte dalle aule dei collettivi della Sapienza, protagonisti in questi anni delle proteste studentesche contro le riforme gelminiane. Ma stavolta il nemico non sono Berlusconi e la politica ma l'economia. A essere presa di mira, la Banca d'Italia. Si danno il nome di «Draghi ribelli», aprono un blog battezzato «Occupiamo Bankitalia» e partono all'assalto di via Nazionale.
Ieri pomeriggio era il giorno ideale per scendere in piazza. In Banca d'Italia si tiene un convegno, sono presenti il governatore Mario Draghi, prossimo presidente della Banca Centrale Europea. E sono attesi anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i massimi vertici delle banche italiane. I «Draghi Ribelli» arrivano poco dopo le quattro del pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del convegno.
INDIGNADOS A ROMA
INDIGNADOS A ROMA
La Banca d'Italia è blindata, gli agenti sono schierati a decine in tenuta antisommossa. I furgoni della polizia chiudono ogni accesso a palazzo Koch lasciando libero al passaggio di banchieri e personalità un largo tratto di via Nazionale. Il resto della strada è vietata al traffico, studenti e precari la occupano al grido di: «Liberiamo via Nazionale» e «Non abbiamo fretta».
L'obiettivo infatti è prendere possesso della strada per tre giorni e trasformare la protesta in una prova generale di sabato quando è prevista una grande mobilitazione nelle principali città europee. «La nostra è una sfida», ammette Francesco Raparelli, ricercatore universitario, da anni in prima linea nelle proteste - «Rimaniamo qui, dovranno assumersi la responsabilità di cacciarci. Ci stenderemo a terra, ci prenderemo per mano, la nostra sarà una resistenza non violenta, così come è successo per gli indignados di Brooklyn. Vedremo che cosa faranno».
INDIGNADOS A ROMA
INDIGNADOS A ROMA
Non c'è autorizzazione, e nemmeno uno di quegli accordi verbali che in questi anni hanno garantito ai manifestanti a Roma percorsi e iniziative spesso improvvisate. Ma la parola d'ordine in Questura è «flessibilità» e evitare il più possibile violenze. Quello delle forze dell'ordine «sarà un atteggiamento estremamente flessibile ma molto attento», spiega il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Si crea una situazione surreale. Il centro di Roma è paralizzato dal traffico. Mentre via
LA POLIZIA CARICA GLI INDIGNADOS A ROMA
Nazionale si trasforma in un'isola serena dove si canta, si balla, si ascoltano interventi di esperti di economia e militanti dei centri sociali. Il messaggio è sempre lo stesso, un no netto «a chi vuole pagare i debiti con la nostra pelle e con il nostro futuro». Lo slogan è lo stesso degli ultimi due anni: «noi questa crisi non la paghiamo, non vogliamo pagare il debito delle banche».
In serata a via Nazionale si spostano artisti, annunciano la loro presenza personaggi come Sabina Guzzanti. Nel pomeriggio si vedono Giulietto Chiesa, Giovanni Russo Spena, Elio Lannutti, Giorgio Cremaschi. Nessuna bandiera di partito.
INDIGNADOS A ROMA
Una delegazione composta da tre studenti della Sapienza attraversa il blocco dei blindati per portare una lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al Quirinale. «Chiediamo al Presidente di prendere la parola contro i tagli e sulla reale condizione del Paese» spiega una di loro.
INDIGNADOS A ROMA
Alla fine sono circa due-trecento quelli che decidono di accamparsi. Alcuni si stendono sulle scale del Palazzo delle Esposizioni, altri sul selciato. Vengono montate una tenda e un gazebo, molti si sono portati un sacco a pelo. «Portate una tenda, portate un sacco a pelo, raggiungeteci!», urla al microfono Daniele De Meo. Nel frattempo i blindati della polizia hanno assunto un'aria meno minacciosa, tappezzati come sono di poster. Su uno c'è scritto: «Draghi, magari te... sbraghi».
2 - L'EX LEADER DEL '77: "ATTENTI, RISCHIAMO UN'ALTRA GENOVA"
Franco Giubilei per "la Stampa"
FRANCO BIFO BERARDI
INDIGNADOS A ROMA
Franco Berardi detto Bifo, agitatore e leader del movimento bolognese del Settantasette, commenta così le cariche di ieri e dipinge una situazione allarmante in vista della manifestazione di sabato a Roma: «Non vorrei che Roma fosse la ripetizione di Genova. Lì può capitare veramente di tutto».
Pessima prospettiva, e perché potrebbe degenerare così malamente?
«Nessuno sta dando organizzazione all'appuntamento di sabato è il contrario di quanto accadde a Genova col Social Forum, che invece aveva in mano la situazione. In più si prevede un grande afflusso di gente. La voce prevalente che si sente è di non accettare lo scontro, ma comunque di non tornarsene a casa».
I DRAGHI RIBELLI A VIA NAZIONALE
C'è un precedente preoccupante, i disordini di del 14 dicembre.
«Neanche in quel caso nessuno lo aveva deciso, i disobbedienti facevano i pompieri e gli antagonisti come quelli di Askatasuna a quanto so non avevano preparato niente. La realtà è che la polizia si è trovata di fronte dei ragazzini».
INDIGNADOS A ROMA
Ma che cosa rende pericolosa la nuova protesta?
«Ai tempi di Cossiga il sistema reprimeva ma rilanciava la crescita, il capitale aveva una strategia, oggi siamo all'agonia della capacità di governo del capitalismo, qui sta crollando tutto».
Vede delle analogie con quanto successe nel Settantasette, quando le manifestazioni si incendiarono in tutta Italia?
«Io scontri come quelli di Roma li ho visti solo nel '77, come allora c'è un'anti-istituzionalità radicale e come allora i soggetti della protesta erano gli studenti precari».
INDIGNADOS A ROMA
E le differenze? Sono passati trentaquattro anni...
«Negli anni Settanta c'era la percezione di un avversario consapevole, che doveva reprimere e poi ricominciare, c'era un antagonista, lo Stato, padrone di sé, che aveva in mente la riconversione e la ripresa del controllo delle fabbriche, sullo sfondo della rivoluzione tecnologica imminente. Oggi invece non c'è nessuna idea di come se ne esce. Essendo un cocciuto marxista, posso dire che non siamo mai stati così vicini al comunismo...».
INDIGNADOS A ROMA
E come promuovono la loro azione gli attuali protagonisti?
«Più che coi blog, ormai superati, comunicano attraverso i social network (il solito Facebook, Twitter etc, ndr), e grazie ad ambienti virtuali, siti come Edufactory, Scepsi, Kafca».
Cosa si augura per la manifestazione di sabato?
«Che non ci siano scontri, ma la campada, gli accampamenti che hanno occupato le piazze in Spagna».
INDIGNADOS A ROMA
3- INDIGNADO SI, MA IN FERRARI
Da "Libero" - Presidente Montezemolo, secondo lei è comprensibile la protesta degli Indignados? Risposta di Montezemolo: "Per molti aspetti sì. Il problema dei giovani oggi è il problema di questo paese". Ebbravi, gli scalmanati di Roma e Bologna si sono guadagnati il primo tifoso illustre. Il presidente della Ferrari comprende le ansie dei precari ridotti a sfamarsi alla Caritas. I loro problemi sono i problemi di questo paese. Non quelli di Montezemolo.
by dagospia
Flavia Amabile per "la Stampa"
INDIGNADOS A ROMA
Ha caricato a mezzanotte e dieci la polizia. Li hanno portati via uno per uno a braccia. Erano rimasti un centinaio, è stata un'operazione di pochi minuti mentre loro gridavano «Roma libera» e, seduti, aspettavano di essere trascinati via di peso. E' finita così tra tensione e spintoni la protesta di ieri, otto ore di assedio alla Banca d'Italia.
INDIGNADOS A ROMA
A organizzarla un gruppo di studenti universitari, precari e attivisti sull'onda di quanto è accaduto a New York con il movimento «Occupy Wall Street». Il gruppo arriva in gran parte dalle aule dei collettivi della Sapienza, protagonisti in questi anni delle proteste studentesche contro le riforme gelminiane. Ma stavolta il nemico non sono Berlusconi e la politica ma l'economia. A essere presa di mira, la Banca d'Italia. Si danno il nome di «Draghi ribelli», aprono un blog battezzato «Occupiamo Bankitalia» e partono all'assalto di via Nazionale.
Ieri pomeriggio era il giorno ideale per scendere in piazza. In Banca d'Italia si tiene un convegno, sono presenti il governatore Mario Draghi, prossimo presidente della Banca Centrale Europea. E sono attesi anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i massimi vertici delle banche italiane. I «Draghi Ribelli» arrivano poco dopo le quattro del pomeriggio, un'ora prima dell'inizio del convegno.
INDIGNADOS A ROMA
INDIGNADOS A ROMA
La Banca d'Italia è blindata, gli agenti sono schierati a decine in tenuta antisommossa. I furgoni della polizia chiudono ogni accesso a palazzo Koch lasciando libero al passaggio di banchieri e personalità un largo tratto di via Nazionale. Il resto della strada è vietata al traffico, studenti e precari la occupano al grido di: «Liberiamo via Nazionale» e «Non abbiamo fretta».
L'obiettivo infatti è prendere possesso della strada per tre giorni e trasformare la protesta in una prova generale di sabato quando è prevista una grande mobilitazione nelle principali città europee. «La nostra è una sfida», ammette Francesco Raparelli, ricercatore universitario, da anni in prima linea nelle proteste - «Rimaniamo qui, dovranno assumersi la responsabilità di cacciarci. Ci stenderemo a terra, ci prenderemo per mano, la nostra sarà una resistenza non violenta, così come è successo per gli indignados di Brooklyn. Vedremo che cosa faranno».
INDIGNADOS A ROMA
INDIGNADOS A ROMA
Non c'è autorizzazione, e nemmeno uno di quegli accordi verbali che in questi anni hanno garantito ai manifestanti a Roma percorsi e iniziative spesso improvvisate. Ma la parola d'ordine in Questura è «flessibilità» e evitare il più possibile violenze. Quello delle forze dell'ordine «sarà un atteggiamento estremamente flessibile ma molto attento», spiega il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Si crea una situazione surreale. Il centro di Roma è paralizzato dal traffico. Mentre via
LA POLIZIA CARICA GLI INDIGNADOS A ROMA
Nazionale si trasforma in un'isola serena dove si canta, si balla, si ascoltano interventi di esperti di economia e militanti dei centri sociali. Il messaggio è sempre lo stesso, un no netto «a chi vuole pagare i debiti con la nostra pelle e con il nostro futuro». Lo slogan è lo stesso degli ultimi due anni: «noi questa crisi non la paghiamo, non vogliamo pagare il debito delle banche».
In serata a via Nazionale si spostano artisti, annunciano la loro presenza personaggi come Sabina Guzzanti. Nel pomeriggio si vedono Giulietto Chiesa, Giovanni Russo Spena, Elio Lannutti, Giorgio Cremaschi. Nessuna bandiera di partito.
INDIGNADOS A ROMA
Una delegazione composta da tre studenti della Sapienza attraversa il blocco dei blindati per portare una lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al Quirinale. «Chiediamo al Presidente di prendere la parola contro i tagli e sulla reale condizione del Paese» spiega una di loro.
INDIGNADOS A ROMA
Alla fine sono circa due-trecento quelli che decidono di accamparsi. Alcuni si stendono sulle scale del Palazzo delle Esposizioni, altri sul selciato. Vengono montate una tenda e un gazebo, molti si sono portati un sacco a pelo. «Portate una tenda, portate un sacco a pelo, raggiungeteci!», urla al microfono Daniele De Meo. Nel frattempo i blindati della polizia hanno assunto un'aria meno minacciosa, tappezzati come sono di poster. Su uno c'è scritto: «Draghi, magari te... sbraghi».
2 - L'EX LEADER DEL '77: "ATTENTI, RISCHIAMO UN'ALTRA GENOVA"
Franco Giubilei per "la Stampa"
FRANCO BIFO BERARDI
INDIGNADOS A ROMA
Franco Berardi detto Bifo, agitatore e leader del movimento bolognese del Settantasette, commenta così le cariche di ieri e dipinge una situazione allarmante in vista della manifestazione di sabato a Roma: «Non vorrei che Roma fosse la ripetizione di Genova. Lì può capitare veramente di tutto».
Pessima prospettiva, e perché potrebbe degenerare così malamente?
«Nessuno sta dando organizzazione all'appuntamento di sabato è il contrario di quanto accadde a Genova col Social Forum, che invece aveva in mano la situazione. In più si prevede un grande afflusso di gente. La voce prevalente che si sente è di non accettare lo scontro, ma comunque di non tornarsene a casa».
I DRAGHI RIBELLI A VIA NAZIONALE
C'è un precedente preoccupante, i disordini di del 14 dicembre.
«Neanche in quel caso nessuno lo aveva deciso, i disobbedienti facevano i pompieri e gli antagonisti come quelli di Askatasuna a quanto so non avevano preparato niente. La realtà è che la polizia si è trovata di fronte dei ragazzini».
INDIGNADOS A ROMA
Ma che cosa rende pericolosa la nuova protesta?
«Ai tempi di Cossiga il sistema reprimeva ma rilanciava la crescita, il capitale aveva una strategia, oggi siamo all'agonia della capacità di governo del capitalismo, qui sta crollando tutto».
Vede delle analogie con quanto successe nel Settantasette, quando le manifestazioni si incendiarono in tutta Italia?
«Io scontri come quelli di Roma li ho visti solo nel '77, come allora c'è un'anti-istituzionalità radicale e come allora i soggetti della protesta erano gli studenti precari».
INDIGNADOS A ROMA
E le differenze? Sono passati trentaquattro anni...
«Negli anni Settanta c'era la percezione di un avversario consapevole, che doveva reprimere e poi ricominciare, c'era un antagonista, lo Stato, padrone di sé, che aveva in mente la riconversione e la ripresa del controllo delle fabbriche, sullo sfondo della rivoluzione tecnologica imminente. Oggi invece non c'è nessuna idea di come se ne esce. Essendo un cocciuto marxista, posso dire che non siamo mai stati così vicini al comunismo...».
INDIGNADOS A ROMA
E come promuovono la loro azione gli attuali protagonisti?
«Più che coi blog, ormai superati, comunicano attraverso i social network (il solito Facebook, Twitter etc, ndr), e grazie ad ambienti virtuali, siti come Edufactory, Scepsi, Kafca».
Cosa si augura per la manifestazione di sabato?
«Che non ci siano scontri, ma la campada, gli accampamenti che hanno occupato le piazze in Spagna».
INDIGNADOS A ROMA
3- INDIGNADO SI, MA IN FERRARI
Da "Libero" - Presidente Montezemolo, secondo lei è comprensibile la protesta degli Indignados? Risposta di Montezemolo: "Per molti aspetti sì. Il problema dei giovani oggi è il problema di questo paese". Ebbravi, gli scalmanati di Roma e Bologna si sono guadagnati il primo tifoso illustre. Il presidente della Ferrari comprende le ansie dei precari ridotti a sfamarsi alla Caritas. I loro problemi sono i problemi di questo paese. Non quelli di Montezemolo.
by dagospia
mercoledì 12 ottobre 2011
OPUS MISTERY - I MISTERI DELLA MORTE DI GIANMARIO ROVERARO, L’ANTI-CUCCIA CATTOLICO, NELL’ESTATE 2006 - SI SA CHI È IL SUO ASSASSINO, MA RESTA MISTERIOSA L’OPERAZIONE FINANZIARIA INTERNAZIONALE NELLA QUALE ERA IMBARCATO - IL LIBRO DI MINCUZZI E ODDO INCRINA IL MURO CHE CELA I MECCANISMI DI RECLUTAMENTO E FINANZIAMENTO DELL'OPUS DEI E SVELA UNA GALASSIA OPACA DI SOCIETÀ CONTROLLATE E GESTITE DA UOMINI DELLA PRELATURA…
Tratto da "Opus Dei, il segreto dei soldi", di Angelo Mincuzzi e Giuseppe Oddo (Feltrinelli)
COVER ODDO-MINCUZZI
L'omicidio Roveraro colpisce uno degli uomini simbolo dell'Opus Dei e apre una breccia nel muro di segretezza che circonda i rapporti tra l'Opera e il mondo degli affari. Roveraro è l'unico esponente di punta del mondo finanziario italiano a poter dichiarare la propria appartenenza a un'organizzazione che non diffonde la lista dei propri aderenti ed è additata come un'associazione segreta che persegue fini di potere nella chiesa, nelle istituzioni e nell'economia. Forse nessuno indagherebbe su un personaggio uscito di scena da anni se non fosse morto nel modo barbaro che sappiamo.
GIANMARIO ROVERARO
Oggi abbiamo gli elementi per aiutare a comprendere i "perché" del suo assassinio. Tanto per cominciare, il rapimento. Botteri ritiene di avere armi di ricatto nei confronti di Roveraro. Ciò emerge chiaramente dagli atti giudiziari. Non si spiegherebbe diversamente la sua idea di sequestrare a viso scoperto una persona che conosce bene. Sono a viso scoperto anche i due complici, che non prendono precauzioni per non farsi riconoscere.
Non solo: durante il viaggio verso il "nascondiglio" di Albareto il quartetto fa una sosta in un autogrill con Roveraro seduto sul sedile posteriore che potrebbe tentare la fuga o cercare di richiamare l'attenzio ne. D'altro canto i rapitori non sembrano dei balordi. Hanno pianificato con cura il sequestro e hanno scelto come mezzo per comunicare un sistema a prova d'intercettazione, Skype.
SAN PIETRO E IL VATICANO
Un'idea del genere non esce dalla mente di tre sbandati. Semmai potrebbe essere la spia di una sofisticata regia criminale, di cui tuttavia non c'è prova. Sembra aleggiare sul sequestro come l'ombra di un segreto che obbligherebbe il finanziere a non denunciare i rapitori dopo il rapimento, anche se Roveraro dimostra di non avere nulla da temere. Sembra impossibile che un personaggio estremamente riservato e freddo come Roveraro sia stato in vena di confidenze professionali con Botteri. Sta di fatto che Todescato dichiara di aver saputo da Botteri di presunte attività illecite che sarebbero state svolte da Roveraro per conto della Parmalat.
CREDIT AGRICOLE E GENERALI LOGO
La notizia di reato non sfugge al giudice per le udienze preliminari Guido Salvini, che ha firmato sia l'ordinanza di arresto di Botteri sia l'ordine di carcerazione di Tanzi nel dicembre 2003. Nonostante abbiano indagato per tre anni sulla Parmalat e sia già in corso il processo di primo grado, i responsabili della procura la lasciano cadere nel vuoto. È come se la verità sull'affare Austria non sia ritenuta importante pur rappresentando il probabile movente dell'omicidio.
L'ammissione di colpevolezza di Botteri spinge i due sostituti procuratori, Nobili e Venditti, a scartare qualsiasi altra pista o notizia di reato. Da un interrogatorio emerge, per esempio, che Botteri acquista illegalmente alcuni tabulati telefonici dall'agenzia investigativa Tom Ponzi, che negli anni settanta è coinvolta nel primo scandalo sulle intercettazioni telefoniche. I tabulati contengono le chiamate partite dall'apparecchio di Brunelli, legale di un piccolo imprenditore che ha chiesto un finanziamento a Botteri e che questi sospetta sia in contatto con Roveraro. Tuttavia i pm non approfondiscono l'episodio e non perquisiscono gli uffici dell'agenzia.
La Direzione distrettuale antimafia potrebbe essere affiancata da un pubblico ministero del pool per i reati finanziari guidato dall'attuale procuratore aggiunto Francesco Greco. Un magistrato si rende disponibile a dare manforte ai colleghi dell'antimafia i quali hanno avuto assegnata l'inchiesta perché si pensa che Roveraro sia nelle mani di un'organizzazione criminale.
Ma il procuratore capo Manlio Minale decide che nessuno debba occuparsene all'infuori di Venditti e Nobili. Intanto un pubblico ministero della procura di Nuoro che apprende dai giornali la notizia della scomparsa di Roveraro scopre che due suoi indagati, intercettati dalla questura, parlano del finanziere rapito. Nel corso della telefonata i due fanno riferimento a un incontro con Roveraro che sarebbe avvenuto pochi giorni prima e a un'ingente somma di denaro che dovrebbero ricevere dal finanziere.
PARMALAT
O i due sanno di essere ascoltati dalla polizia e cercano di depistare le indagini oppure non lo sanno e parlano di fatti realmente accaduti. Da Nuoro arriva un'informativa alla procura di Milano, che non avrà alcun seguito. Non ci sono dubbi sulla colpevolezza di Botteri. L'assassino è reo confesso, anche se ritratta più volte le sue dichiarazioni. È però un fatto che nell'auto usata per trasportare i resti del corpo di Roveraro non vengano trovate né tracce di sangue né resti di materiale organico.
La circostanza lascia alquanto perplessi, perché sembra impossibile che un cadavere maciullato a mani nude con un machete, di notte e in aperta campagna, e conservato in sacchi di plastica, non lasci una piccola traccia di sé all'interno di un veicolo. È incredibile, ma nell'abitacolo non vengono ritrovati né un microscopico brandello di pelle, né l'impronta di uno schizzo di sangue, magari rimasto sugli abiti, sulle mani o sulle suole dell'assassino o del suo complice. Si può inoltre affermare con relativa certezza che Roveraro sia consapevole di intrattenere rapporti con persone impresentabili nella comunità degli affari.
Ammesso che abbia avuto qualche dubbio all'inizio, l'arresto di Gnudi e Todescato per la truffa dei falsi titoli del Crédit Agricole dovrebbe avergli aperto gli occhi. Invece succede il contrario, fino a quando non decide di sciogliere l'Eds nel 2005. Ai carabinieri che lo interrogano in seguito alla denuncia di Maffei dichiara di non avere rapporti con il faccendiere di Camisano Vicentino: il che è falso, perché Todescato ha firmato un contratto che lo impegna a trovare una linea di credito da 30 milioni di dollari a favore di Roveraro e Botteri.
FRANCO BASSANINI
L'imbarazzo del finanziere è provato anche dal giro di bonifici organizzato attraverso la moglie e la zia di Botteri per far arrivare in Svizzera il denaro destinato a Todescato. Persino Laetitia Botteri è sorpresa che Roveraro si circondi di personaggi di livello così basso, ma lui le ribatte che per fare l'alta finanza occorre la bassa manovalanza: frase assai ambigua e mai contestata in dibattimento, che si presta alle più varie interpretazioni.
Gualtieri, esperto di finanza, mette in guardia Roveraro dalle confuse e singolari proposte d'affari di Maffei, ma lui procede imperterrito per la sua strada. Né si fa scrupolo di scegliere come fiduciario un professionista svizzero come De Vittori, che tempesta di telefonate dalla prigione di Albareto per chiedergli prima 10 milioni e poi un milione. È incomprensibile una così perentoria e ingente richiesta di denaro a un esperto di scatole cinesi che, da quanto risulta, non ha in gestione beni di Roveraro, né procure per operare sui suoi conti bancari.
Uno con la reputazione di Roveraro dovrebbe diffidare di persone del genere, ma lui è deciso ad andare avanti perché conta sui futuri proventi dell'affare Austria per finanziare attività caritatevoli per l'Opus Dei. Non c'è da stupirsene. Roveraro è molto generoso con la Prelatura e con chiunque gli chieda aiuto. Mette il proprio lavoro a disposizione dell'Opera. E le opportunità che avrebbe per arricchire se stesso le utilizza per finanziare attività di apostolato: aprire scuole, residenze universitarie, centri per nume- rari. Fintantoché è al vertice della Sige e della Akros le occasioni per trovare fondi da distribuire in beneficenza non gli mancano.
La Sige è seduta su una montagna di denaro che cresce di giorno in giorno con la raccolta dei fondi comuni d'investimento e la Akros ha intorno a sé i più bei nomi del capitalismo italiano. Una volta estromesso, però, le opportunità cominciano a scarseggire. Allora non tralascia niente, nemmeno le operazioni di piccolo cabotaggio, soprattutto se a proporgliele è qualcuno che ha conosciuto nell'ambiente dell'Opus Dei. Roveraro tenta di rientrare nel grande gioco della finanza, cerca di dar vita a una nuova iniziativa professionale - ci sono varie testimonianze in tal senso - ma gli amici lo scoraggiano.
Riesce ad avviare soltanto una piccola società di consulenza immobiliare, settore peraltro da cui dovrebbe tenersi prudentemente a distanza perché all'origine del dissesto della Akros. Come finanziere è chiuso in un angolo, nessuno sa più niente di lui, gli amici di un tempo si sono defilati, la rottura con Gotti Tedeschi è definitiva (si rivedranno per caso a un ricevimento dopo più di dieci anni). Mantiene qualche contatto con gli ambienti che contano, ma di fatto si trova isolato. Pesa su di lui il fallimento della Akros.
STEFANO RODOTA
Lo sorreggono soprattutto una fede profonda e un forte senso di appartenenza alla Prelatura, a cui dà tutto se stesso. Quando il commercialista Rocca, numerario della sede di Palermo, si rivolge allo studio Cesarini-Gualtieri per un piano di salvataggio della famiglia Rappa, costruttori siciliani indagati per mafia, lui si mette a disposizione delle banche creditrici e assume l'incarico di liquidatore delle società del gruppo. È una nomina che accetta per spirito di obbedienza, perché a chiederglielo è un altro importante esponente della Prelatura. Forse è per questo stesso senso di obbedienza che finisce per cacciarsi nell'affare anglo-austriaco.
È infatti nel giro dell'Opus Dei che conosce Maffei ed è a sua volta Maffei a fargli conoscere Todescato. Lo stesso Botteri sostiene di aver saputo dal finanziere che dell'operazione Austria sarebbe stato al corrente un direttore dell'Opera. Circostanza, questa, mai provata. Vari altri episodi degli anni ottanta e novanta sono una dimostrazione ulteriore della tendenza di Roveraro a circondarsi, insieme a manager di riconosciuto spessore professionale, di figure meno valide.
Alcuni dei suoi ex collaboratori raccontano che il finanziere si lasciava condizionare da richieste provenienti dal suo ambiente religioso e che la commistione tra fede e affari lo abbia indotto a compiere scelte errate durante la permanenza in Sige e Akros, sia sulle persone che sulla gestione aziendale. Resta tuttora oscura la reale natura dell'operazione Austria.
Dalle dichiarazioni agli atti dell'inchiesta emerge un racconto parziale e impreciso come se nessuna delle persone interrogate abbia una conoscenza completa dell'affare. Ciò potrebbe avvalorare la tesi della truffa ipotizzata dalla procura di Milano, che aveva aperto un fascicolo in cui Roveraro e Botteri erano considerati parti lese, mentre Gnudi, Todescato, Maffei e De Vittori risultavano indagati. Purtroppo quel fascicolo è stato archiaviato. C'è poi il collegamento con la vicenda Parmalat. Roveraro, attraverso la Akros, ha un ruolo chiave nella quotazione indiretta della ex società della famiglia Tanzi.
Dopo l'ingresso in Borsa, nel consiglio d'amministrazione della Parmalat ritroviamo il finanziere di Albenga e il suo braccio destro di allora, Gotti Tedeschi, entrambi esponenti della finanza opusdeista. Dopo meno di dodici mesi Gotti Tedeschi si dimette, mentre Roveraro mantiene l'incarico di amministratore fino all'approvazione del bilancio consolidato al 31 dicembre 1997.
CLAUDIO PETRUCCIOLI
In questo periodo ruotano intorno alla Parmalat persone vicine agli ambienti svizzeri dell'Opus Dei: il direttore della banca dei Grigioni, Giuralarocca, l'avvocato Forni e il suo assistito De Grandi. Questo è un punto di assoluta novità. Sia Giuralarocca che De Grandi entrano in contatto con il manager di Bank of America Luca Sala, e tutti e tre finiscono nell'inchiesta per la bancarotta della Parmalat.
Sala e De Grandi sono attualmente indagati dal pubblico ministero della confederazione elvetica per il riciclaggio di ingenti somme di denaro distratte dal gruppo di Collecchio ed entro il 2011 saranno processati. Resta da capire se la presenza di persone vicine alla Prelatura rappresenti un fatto episodico. Roveraro, inoltre, da buon cattolico integralista, ha un'ossessione di cui non riesce a liberarsi: la massoneria. Considera la libera muratoria una iattura per la fede. Ne discute con gli amici. Forse teme che tra Opus Dei e Grande Oriente d'Italia possa esistere un canale sotterraneo di comunicazione.
Il primo a rompere il silenzio su questo argomento è lo storico della massoneria Aldo Mola in un'intervista al "Messaggero" del settembre 1995, in cui accenna a generici contatti tra massoni e Opus Dei. Le sue dichiarazioni sollevano un vespaio di reazioni. Solo oggi lo studioso piemontese autore di una ponderosa Storia della massoneria italiana ritorna sull'argomento, rivelando come le due "obbedienze" abbiano trovato forme strumentali e temporanee di convergenza e compresenza. Del resto l'Opus Dei condivide con la massoneria lo stesso carattere di riservatezza che sconfina nella segretezza.
Questo è anche il tema di due interpellanze parlamentari rivolte nel 1986 al governo Craxi, una di Franco Bassanini, Stefano Rodotà e Gustavo Minervini (Sinistra indipendente), l'altra di Claudio Petruccioli, Antonio Bellocchio e Luciano Violante (Pci). In esse l'Opera è considerata un'associazione segreta i cui iscritti rispondono alle sue gerarchie anche quando ricoprono cariche pubbliche.
È il ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, ad assumere alla Camera dei deputati le difese dell'Opus Dei, appellandosi agli articoli della Costituzione sulla libertà di professione della fede religiosa e rimarcando il "carattere istituzionale" della Prelatura personale quale "parte della struttura della chiesa" e del suo "potere di auto-organizzazione [...] espresso al più alto livello".
FFNI07 OSCAR LUIGI SCALFARO
La questione della segretezza, ufficialmente messa al bando dall'Opus Dei, non pone solo problemi di ordine costituzionale. L'organizzazione dell'Opus Dei - si legge in un documento sottoscritto da alcune centinaia di fuoriusciti, indirizzato al Vaticano - "è viziata alla radice da metodi illegali, immorali e non trasparenti per l'autorità della chiesa e nemmeno per la maggioranza dei propri sudditi.
Questi metodi non provengono da comprensibili errori personali, bensì si tratta di prassi istituzionali, identificate con il cosiddetto ‘spirito fondazionale' e che - sorprendentemente - non vengono raccolte negli Statuti consegnati alla Santa Sede. Metodi che sono trasmessi in un nutrito numero di regolamenti interni sconosciuti all'autorità della chiesa, e che contengono enormi abusi contrari ai diritti umani più elementari, ai modi pastorali della chiesa e alle norme generali del diritto canonico.
Il contenuto di questi regolamenti proviene dal fondatore e viene trasmesso dai suoi immediati successori e collaboratori. Ci troviamo, quindi, di fronte a una realtà ingannevole e affatto trasparente, molto difficile da comprendere anche per coloro che appartengono all'istituzione ai livelli più esterni".
Questa mancanza di trasparenza, che poi è indice di segretezza, si riflette anche nella rete di società, associazioni, fondazioni, centri culturali e iniziative promosse dai fedeli dell'Opera. Il sistema delle scatole cinesi imperniato su holding domiciliate nei paradisi fiscali, tipico di molti gruppi, in questo caso prende forma attraverso società e organizzazioni non profit domiciliate in Italia, ma che presentano lo stesso grado di opacità di una finanziaria austriaca, maltese o lussemburghese.
Lo scopo è analogo: tenere nascosti i proprietari del network, la loro identità, le loro finalità. L'Opera dichiara di non possedere altre proprietà all'infuori della sede prelatizia di Villa Tevere ai Parioli e di non disporre di altri mezzi se non degli stipendi dei numerari e delle donazioni di soprannumerari e simpatizzanti; le attività dei propri iscritti sono frutto di libere iniziative individuali. Nella forma è così. Nella sostanza tutto porta a credere che l'Opus Dei, attraverso i propri aderenti, eserciti un controllo di fatto su queste strutture, anche se ciò non è giuridicamente dimostrato proprio per quel carattere di segretezza di cui parlavamo.
Nessuno può provare con documenti alla mano che la Prelatura da un lato e l'Adigi, l'Apser, l'Iser, l'Ilse, il Cense e la Rupe dall'altro funzionino come vasi comunicanti e riportino a uno stesso soggetto. Tuttavia, l'assenza di trasparenza legittima il dubbio che tra le diverse strutture dell'Opus Dei sparse per il mondo e il vertice di Villa Tevere corrano sotto traccia consistenti flussi finanziari. È certo che Roveraro abbia dedicato all'Opera tutta la sua vita, e possiamo affermare, anche alla luce delle dichiarazioni di Silvana Canepa, che i guadagni dell'affare anglo-austriaco fossero destinati in beneficenza.
Nessuno però ha voluto cercare, nel mondo dei media e della finanza, una verità che andasse oltre quella giudiziaria, anche se l'inchiesta è disseminata di indizi che portano in varie direzioni. Ci si è accontentati di aver trovato l'assassino e i suoi complici. Forse perché, con la sua pervasività e la presenza nei gangli del potere, l'Opus Dei incute timori reverenziali. O forse per non alzare il velo su vicende del passato di cui Roveraro era stato testimone, dalla Federconsorzi alla Parmalat. Vicende che potrebbero chiamare in causa ancora oggi, a distanza di decenni, esponenti della classe politica, di quella economica e della chiesa cattolica.
by dagospia
COVER ODDO-MINCUZZI
L'omicidio Roveraro colpisce uno degli uomini simbolo dell'Opus Dei e apre una breccia nel muro di segretezza che circonda i rapporti tra l'Opera e il mondo degli affari. Roveraro è l'unico esponente di punta del mondo finanziario italiano a poter dichiarare la propria appartenenza a un'organizzazione che non diffonde la lista dei propri aderenti ed è additata come un'associazione segreta che persegue fini di potere nella chiesa, nelle istituzioni e nell'economia. Forse nessuno indagherebbe su un personaggio uscito di scena da anni se non fosse morto nel modo barbaro che sappiamo.
GIANMARIO ROVERARO
Oggi abbiamo gli elementi per aiutare a comprendere i "perché" del suo assassinio. Tanto per cominciare, il rapimento. Botteri ritiene di avere armi di ricatto nei confronti di Roveraro. Ciò emerge chiaramente dagli atti giudiziari. Non si spiegherebbe diversamente la sua idea di sequestrare a viso scoperto una persona che conosce bene. Sono a viso scoperto anche i due complici, che non prendono precauzioni per non farsi riconoscere.
Non solo: durante il viaggio verso il "nascondiglio" di Albareto il quartetto fa una sosta in un autogrill con Roveraro seduto sul sedile posteriore che potrebbe tentare la fuga o cercare di richiamare l'attenzio ne. D'altro canto i rapitori non sembrano dei balordi. Hanno pianificato con cura il sequestro e hanno scelto come mezzo per comunicare un sistema a prova d'intercettazione, Skype.
SAN PIETRO E IL VATICANO
Un'idea del genere non esce dalla mente di tre sbandati. Semmai potrebbe essere la spia di una sofisticata regia criminale, di cui tuttavia non c'è prova. Sembra aleggiare sul sequestro come l'ombra di un segreto che obbligherebbe il finanziere a non denunciare i rapitori dopo il rapimento, anche se Roveraro dimostra di non avere nulla da temere. Sembra impossibile che un personaggio estremamente riservato e freddo come Roveraro sia stato in vena di confidenze professionali con Botteri. Sta di fatto che Todescato dichiara di aver saputo da Botteri di presunte attività illecite che sarebbero state svolte da Roveraro per conto della Parmalat.
CREDIT AGRICOLE E GENERALI LOGO
La notizia di reato non sfugge al giudice per le udienze preliminari Guido Salvini, che ha firmato sia l'ordinanza di arresto di Botteri sia l'ordine di carcerazione di Tanzi nel dicembre 2003. Nonostante abbiano indagato per tre anni sulla Parmalat e sia già in corso il processo di primo grado, i responsabili della procura la lasciano cadere nel vuoto. È come se la verità sull'affare Austria non sia ritenuta importante pur rappresentando il probabile movente dell'omicidio.
L'ammissione di colpevolezza di Botteri spinge i due sostituti procuratori, Nobili e Venditti, a scartare qualsiasi altra pista o notizia di reato. Da un interrogatorio emerge, per esempio, che Botteri acquista illegalmente alcuni tabulati telefonici dall'agenzia investigativa Tom Ponzi, che negli anni settanta è coinvolta nel primo scandalo sulle intercettazioni telefoniche. I tabulati contengono le chiamate partite dall'apparecchio di Brunelli, legale di un piccolo imprenditore che ha chiesto un finanziamento a Botteri e che questi sospetta sia in contatto con Roveraro. Tuttavia i pm non approfondiscono l'episodio e non perquisiscono gli uffici dell'agenzia.
La Direzione distrettuale antimafia potrebbe essere affiancata da un pubblico ministero del pool per i reati finanziari guidato dall'attuale procuratore aggiunto Francesco Greco. Un magistrato si rende disponibile a dare manforte ai colleghi dell'antimafia i quali hanno avuto assegnata l'inchiesta perché si pensa che Roveraro sia nelle mani di un'organizzazione criminale.
Ma il procuratore capo Manlio Minale decide che nessuno debba occuparsene all'infuori di Venditti e Nobili. Intanto un pubblico ministero della procura di Nuoro che apprende dai giornali la notizia della scomparsa di Roveraro scopre che due suoi indagati, intercettati dalla questura, parlano del finanziere rapito. Nel corso della telefonata i due fanno riferimento a un incontro con Roveraro che sarebbe avvenuto pochi giorni prima e a un'ingente somma di denaro che dovrebbero ricevere dal finanziere.
PARMALAT
O i due sanno di essere ascoltati dalla polizia e cercano di depistare le indagini oppure non lo sanno e parlano di fatti realmente accaduti. Da Nuoro arriva un'informativa alla procura di Milano, che non avrà alcun seguito. Non ci sono dubbi sulla colpevolezza di Botteri. L'assassino è reo confesso, anche se ritratta più volte le sue dichiarazioni. È però un fatto che nell'auto usata per trasportare i resti del corpo di Roveraro non vengano trovate né tracce di sangue né resti di materiale organico.
La circostanza lascia alquanto perplessi, perché sembra impossibile che un cadavere maciullato a mani nude con un machete, di notte e in aperta campagna, e conservato in sacchi di plastica, non lasci una piccola traccia di sé all'interno di un veicolo. È incredibile, ma nell'abitacolo non vengono ritrovati né un microscopico brandello di pelle, né l'impronta di uno schizzo di sangue, magari rimasto sugli abiti, sulle mani o sulle suole dell'assassino o del suo complice. Si può inoltre affermare con relativa certezza che Roveraro sia consapevole di intrattenere rapporti con persone impresentabili nella comunità degli affari.
Ammesso che abbia avuto qualche dubbio all'inizio, l'arresto di Gnudi e Todescato per la truffa dei falsi titoli del Crédit Agricole dovrebbe avergli aperto gli occhi. Invece succede il contrario, fino a quando non decide di sciogliere l'Eds nel 2005. Ai carabinieri che lo interrogano in seguito alla denuncia di Maffei dichiara di non avere rapporti con il faccendiere di Camisano Vicentino: il che è falso, perché Todescato ha firmato un contratto che lo impegna a trovare una linea di credito da 30 milioni di dollari a favore di Roveraro e Botteri.
FRANCO BASSANINI
L'imbarazzo del finanziere è provato anche dal giro di bonifici organizzato attraverso la moglie e la zia di Botteri per far arrivare in Svizzera il denaro destinato a Todescato. Persino Laetitia Botteri è sorpresa che Roveraro si circondi di personaggi di livello così basso, ma lui le ribatte che per fare l'alta finanza occorre la bassa manovalanza: frase assai ambigua e mai contestata in dibattimento, che si presta alle più varie interpretazioni.
Gualtieri, esperto di finanza, mette in guardia Roveraro dalle confuse e singolari proposte d'affari di Maffei, ma lui procede imperterrito per la sua strada. Né si fa scrupolo di scegliere come fiduciario un professionista svizzero come De Vittori, che tempesta di telefonate dalla prigione di Albareto per chiedergli prima 10 milioni e poi un milione. È incomprensibile una così perentoria e ingente richiesta di denaro a un esperto di scatole cinesi che, da quanto risulta, non ha in gestione beni di Roveraro, né procure per operare sui suoi conti bancari.
Uno con la reputazione di Roveraro dovrebbe diffidare di persone del genere, ma lui è deciso ad andare avanti perché conta sui futuri proventi dell'affare Austria per finanziare attività caritatevoli per l'Opus Dei. Non c'è da stupirsene. Roveraro è molto generoso con la Prelatura e con chiunque gli chieda aiuto. Mette il proprio lavoro a disposizione dell'Opera. E le opportunità che avrebbe per arricchire se stesso le utilizza per finanziare attività di apostolato: aprire scuole, residenze universitarie, centri per nume- rari. Fintantoché è al vertice della Sige e della Akros le occasioni per trovare fondi da distribuire in beneficenza non gli mancano.
La Sige è seduta su una montagna di denaro che cresce di giorno in giorno con la raccolta dei fondi comuni d'investimento e la Akros ha intorno a sé i più bei nomi del capitalismo italiano. Una volta estromesso, però, le opportunità cominciano a scarseggire. Allora non tralascia niente, nemmeno le operazioni di piccolo cabotaggio, soprattutto se a proporgliele è qualcuno che ha conosciuto nell'ambiente dell'Opus Dei. Roveraro tenta di rientrare nel grande gioco della finanza, cerca di dar vita a una nuova iniziativa professionale - ci sono varie testimonianze in tal senso - ma gli amici lo scoraggiano.
Riesce ad avviare soltanto una piccola società di consulenza immobiliare, settore peraltro da cui dovrebbe tenersi prudentemente a distanza perché all'origine del dissesto della Akros. Come finanziere è chiuso in un angolo, nessuno sa più niente di lui, gli amici di un tempo si sono defilati, la rottura con Gotti Tedeschi è definitiva (si rivedranno per caso a un ricevimento dopo più di dieci anni). Mantiene qualche contatto con gli ambienti che contano, ma di fatto si trova isolato. Pesa su di lui il fallimento della Akros.
STEFANO RODOTA
Lo sorreggono soprattutto una fede profonda e un forte senso di appartenenza alla Prelatura, a cui dà tutto se stesso. Quando il commercialista Rocca, numerario della sede di Palermo, si rivolge allo studio Cesarini-Gualtieri per un piano di salvataggio della famiglia Rappa, costruttori siciliani indagati per mafia, lui si mette a disposizione delle banche creditrici e assume l'incarico di liquidatore delle società del gruppo. È una nomina che accetta per spirito di obbedienza, perché a chiederglielo è un altro importante esponente della Prelatura. Forse è per questo stesso senso di obbedienza che finisce per cacciarsi nell'affare anglo-austriaco.
È infatti nel giro dell'Opus Dei che conosce Maffei ed è a sua volta Maffei a fargli conoscere Todescato. Lo stesso Botteri sostiene di aver saputo dal finanziere che dell'operazione Austria sarebbe stato al corrente un direttore dell'Opera. Circostanza, questa, mai provata. Vari altri episodi degli anni ottanta e novanta sono una dimostrazione ulteriore della tendenza di Roveraro a circondarsi, insieme a manager di riconosciuto spessore professionale, di figure meno valide.
Alcuni dei suoi ex collaboratori raccontano che il finanziere si lasciava condizionare da richieste provenienti dal suo ambiente religioso e che la commistione tra fede e affari lo abbia indotto a compiere scelte errate durante la permanenza in Sige e Akros, sia sulle persone che sulla gestione aziendale. Resta tuttora oscura la reale natura dell'operazione Austria.
Dalle dichiarazioni agli atti dell'inchiesta emerge un racconto parziale e impreciso come se nessuna delle persone interrogate abbia una conoscenza completa dell'affare. Ciò potrebbe avvalorare la tesi della truffa ipotizzata dalla procura di Milano, che aveva aperto un fascicolo in cui Roveraro e Botteri erano considerati parti lese, mentre Gnudi, Todescato, Maffei e De Vittori risultavano indagati. Purtroppo quel fascicolo è stato archiaviato. C'è poi il collegamento con la vicenda Parmalat. Roveraro, attraverso la Akros, ha un ruolo chiave nella quotazione indiretta della ex società della famiglia Tanzi.
Dopo l'ingresso in Borsa, nel consiglio d'amministrazione della Parmalat ritroviamo il finanziere di Albenga e il suo braccio destro di allora, Gotti Tedeschi, entrambi esponenti della finanza opusdeista. Dopo meno di dodici mesi Gotti Tedeschi si dimette, mentre Roveraro mantiene l'incarico di amministratore fino all'approvazione del bilancio consolidato al 31 dicembre 1997.
CLAUDIO PETRUCCIOLI
In questo periodo ruotano intorno alla Parmalat persone vicine agli ambienti svizzeri dell'Opus Dei: il direttore della banca dei Grigioni, Giuralarocca, l'avvocato Forni e il suo assistito De Grandi. Questo è un punto di assoluta novità. Sia Giuralarocca che De Grandi entrano in contatto con il manager di Bank of America Luca Sala, e tutti e tre finiscono nell'inchiesta per la bancarotta della Parmalat.
Sala e De Grandi sono attualmente indagati dal pubblico ministero della confederazione elvetica per il riciclaggio di ingenti somme di denaro distratte dal gruppo di Collecchio ed entro il 2011 saranno processati. Resta da capire se la presenza di persone vicine alla Prelatura rappresenti un fatto episodico. Roveraro, inoltre, da buon cattolico integralista, ha un'ossessione di cui non riesce a liberarsi: la massoneria. Considera la libera muratoria una iattura per la fede. Ne discute con gli amici. Forse teme che tra Opus Dei e Grande Oriente d'Italia possa esistere un canale sotterraneo di comunicazione.
Il primo a rompere il silenzio su questo argomento è lo storico della massoneria Aldo Mola in un'intervista al "Messaggero" del settembre 1995, in cui accenna a generici contatti tra massoni e Opus Dei. Le sue dichiarazioni sollevano un vespaio di reazioni. Solo oggi lo studioso piemontese autore di una ponderosa Storia della massoneria italiana ritorna sull'argomento, rivelando come le due "obbedienze" abbiano trovato forme strumentali e temporanee di convergenza e compresenza. Del resto l'Opus Dei condivide con la massoneria lo stesso carattere di riservatezza che sconfina nella segretezza.
Questo è anche il tema di due interpellanze parlamentari rivolte nel 1986 al governo Craxi, una di Franco Bassanini, Stefano Rodotà e Gustavo Minervini (Sinistra indipendente), l'altra di Claudio Petruccioli, Antonio Bellocchio e Luciano Violante (Pci). In esse l'Opera è considerata un'associazione segreta i cui iscritti rispondono alle sue gerarchie anche quando ricoprono cariche pubbliche.
È il ministro dell'Interno Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica, ad assumere alla Camera dei deputati le difese dell'Opus Dei, appellandosi agli articoli della Costituzione sulla libertà di professione della fede religiosa e rimarcando il "carattere istituzionale" della Prelatura personale quale "parte della struttura della chiesa" e del suo "potere di auto-organizzazione [...] espresso al più alto livello".
FFNI07 OSCAR LUIGI SCALFARO
La questione della segretezza, ufficialmente messa al bando dall'Opus Dei, non pone solo problemi di ordine costituzionale. L'organizzazione dell'Opus Dei - si legge in un documento sottoscritto da alcune centinaia di fuoriusciti, indirizzato al Vaticano - "è viziata alla radice da metodi illegali, immorali e non trasparenti per l'autorità della chiesa e nemmeno per la maggioranza dei propri sudditi.
Questi metodi non provengono da comprensibili errori personali, bensì si tratta di prassi istituzionali, identificate con il cosiddetto ‘spirito fondazionale' e che - sorprendentemente - non vengono raccolte negli Statuti consegnati alla Santa Sede. Metodi che sono trasmessi in un nutrito numero di regolamenti interni sconosciuti all'autorità della chiesa, e che contengono enormi abusi contrari ai diritti umani più elementari, ai modi pastorali della chiesa e alle norme generali del diritto canonico.
Il contenuto di questi regolamenti proviene dal fondatore e viene trasmesso dai suoi immediati successori e collaboratori. Ci troviamo, quindi, di fronte a una realtà ingannevole e affatto trasparente, molto difficile da comprendere anche per coloro che appartengono all'istituzione ai livelli più esterni".
Questa mancanza di trasparenza, che poi è indice di segretezza, si riflette anche nella rete di società, associazioni, fondazioni, centri culturali e iniziative promosse dai fedeli dell'Opera. Il sistema delle scatole cinesi imperniato su holding domiciliate nei paradisi fiscali, tipico di molti gruppi, in questo caso prende forma attraverso società e organizzazioni non profit domiciliate in Italia, ma che presentano lo stesso grado di opacità di una finanziaria austriaca, maltese o lussemburghese.
Lo scopo è analogo: tenere nascosti i proprietari del network, la loro identità, le loro finalità. L'Opera dichiara di non possedere altre proprietà all'infuori della sede prelatizia di Villa Tevere ai Parioli e di non disporre di altri mezzi se non degli stipendi dei numerari e delle donazioni di soprannumerari e simpatizzanti; le attività dei propri iscritti sono frutto di libere iniziative individuali. Nella forma è così. Nella sostanza tutto porta a credere che l'Opus Dei, attraverso i propri aderenti, eserciti un controllo di fatto su queste strutture, anche se ciò non è giuridicamente dimostrato proprio per quel carattere di segretezza di cui parlavamo.
Nessuno può provare con documenti alla mano che la Prelatura da un lato e l'Adigi, l'Apser, l'Iser, l'Ilse, il Cense e la Rupe dall'altro funzionino come vasi comunicanti e riportino a uno stesso soggetto. Tuttavia, l'assenza di trasparenza legittima il dubbio che tra le diverse strutture dell'Opus Dei sparse per il mondo e il vertice di Villa Tevere corrano sotto traccia consistenti flussi finanziari. È certo che Roveraro abbia dedicato all'Opera tutta la sua vita, e possiamo affermare, anche alla luce delle dichiarazioni di Silvana Canepa, che i guadagni dell'affare anglo-austriaco fossero destinati in beneficenza.
Nessuno però ha voluto cercare, nel mondo dei media e della finanza, una verità che andasse oltre quella giudiziaria, anche se l'inchiesta è disseminata di indizi che portano in varie direzioni. Ci si è accontentati di aver trovato l'assassino e i suoi complici. Forse perché, con la sua pervasività e la presenza nei gangli del potere, l'Opus Dei incute timori reverenziali. O forse per non alzare il velo su vicende del passato di cui Roveraro era stato testimone, dalla Federconsorzi alla Parmalat. Vicende che potrebbero chiamare in causa ancora oggi, a distanza di decenni, esponenti della classe politica, di quella economica e della chiesa cattolica.
by dagospia
LE DOVIZIOSE CASE DEI PAPERONI DI NEW YORK ASSEDIATE DAGLI INDIGNADOS DI WALL STREET - 2- DA MURDOCH AL CAPO DI JPMORGAN, I SI SONO TROVATI CENTINAIA DI PERSONE AL PORTONE CHE GRIDAVANO “SIAMO QUA, ABBIAMO FAME, TI STIAMO VENENDO A TROVARE” - 3- GUERRA SOCIALE TRA IL 99% DELLA POPOLAZIONE ALL’1% SEMPRE PIÙ RICCO E BLING-BLING - 4- GLENN BECK, LA STELLA DELLA DESTRA AMERICANA, AVVISA: ''CARI CAPITALISTI, SE PENSATE DI POTER ANDARE A BRACCETTO CON QUESTA GENTE VI SBAGLIATE DI GROSSO... VERRANNO A CASA VOSTRA A PRENDERVI PER AMMAZZARVI. SONO MARXISTI RADICALI, COME ROBESPIERRE DURANTE LA RIVOLUZIONE FRANCESE...VI UCCIDERANNO TUTTI''
Foto di Andrea Salvadore per il suo blog, AmericanaTVblog.com
http://www.americanatvblog.com/?p=5947
I MILIARDARI LE CUI CASE SONO NEL MIRINO DEGLI INDIGNADOS
1 - L'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI
Andrea Salvadore per AmericanaTBblog.com
La manifestazione appoggiata (non promossa, solo endorsed ) da Occupy Wall Street "sotto le case dei ricchi" nella Upper East Side di Manhattan si puo' raccontarla in vari modi. L'ho seguita dall'inizio, all'ingresso di Central Park davanti all'Apple store.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI DI NEW YORK
Lo slogan piu' gridato e' stato "We are here We are hungry We're coming to you" ( siamo qua, abbiamo fame, ti stiamo venendo a trovare ). Piu' che invidia sociale ( quella a cui ha fatto riferimento il candidato repubblicano alla Casa Bianca Herman Cain ) ho visto sberleffi, prese in giro, felicita' per avere varcato dei confini immateriali piu' alti e robusti di quelli reali. Le inavvicinabili residenze dei ricchi di Manhattan, presidiate da eserciti di doormen, guardiani ai portoni, ai cancelli. A cominciare da quella di Rupert Murdoch, sulla Fifth Avenue, vista su Central Park.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Questa giornata altri la racconteranno in modi diversi. Dipende dall'alfabeto che conoscono e dalle parole che decidono di usare per ricamare il pezzo. Io ve la racconto per immagini, non prima di dirvi che il numero spropositato di macchine fotografiche e video superava , all'inizio, quello dei manifestanti. Che il corteo ( con tanta musica ) si e' snodato come sempre sui marciapiedi non intralciando il traffico. Che e' stato visibilmente rinforzato da aderenti ad organizzazioni sindacali.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Detto tutto cio' e' stata una giornata importante, cosi' per finirla sinteticamente e passare alle immagini che vi srotolo ( grazie iPhone ) come un racconto narrato da tre punti di vista. Quello dei manifestanti ovviamente, quello di chi li fotograva e quello dei doormen, i custodi dei castelli che , in molti casi, non credevano ai loro occhi.
2 - INDIGNADOS USA: PROTESTA SOTTO CASA PAPERONI WALL STREET CORTEO LUNGO FIFTH AVENUE, CALCA DAVANTI RESIDENZA MURDOCH...
(ANSA) - Il magnate televisivo Rupert Murdoch, il miliardario David Koch, il numero uno di JP Morgan Jamie Dimon. La protesta degli indignados arriva sotto le abitazioni dei Paperoni di Wall Street. La parola d'ordine e' partita dal solito sito, quello di 'Occupy Wall Street'. Ma l'appuntamento per la 'Marcia dei Miliardari' stavolta non e' nel cuore del Financial District. Gli indignati della finanza si sono radunati a due passi dall'ingresso sud del Central Park e hanno puntato dritto verso la parte alta della citta'. Nel mirino ci sono le case dei big della finanza, tra la Quinta Strada e Park Avenue.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Sulla loro strada la prima e' proprio quella del proprietario di News Corp Murdoch. Davanti al numero 834 della Fifth Avenue, una elegante palazzo che affaccia sul polmone verde di Manhattan, si sono accalcate oltre 500 persone, con gli agenti di polizia che hanno faticato non poco per tenere a bada la folla che urlava: ''Noi siamo il 99%'', ''Murdoch, dacci un lavoro''. Alcuni manifestanti ironicamente hanno chiesto: ''Rupert, possiamo usare il tuo bagno?''. Il serpentone si snoda lungo il marciapiede della Quinta Strada, di fronte al parco, e complessivamente conta almeno mille persone.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Obiettivo della marcia: chiedere l'estensione della tassa sui super-ricchi in vigore nello Stato di New york, che dovrebbe decadere il 31 dicembre 2011. In testa al corteo i manifestanti esibiscono cinque assegni-giganti: sono intestati a ''The top one per cent'', i ricconi di Wall Street, e l'ammontare e' di 5 miliardi di dollari, la cifra corrispondente alla percentuale del loro patrimonio che ora devono versare allo stato di New York e che rischia di essergli abbonata.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
''Loro avranno sempre di piu', e il resto dei cittadini sempre meno'', denuncia Michael Kink, direttore esecutivo di 'Strong economy for all coalition', una delle associazioni organizzatrici della manifestazione. Passata la residenza di Murdoch il corteo oramai conta molto piu' di mille persone. L'autorizzazione per sfilare in strada non c'e', e i manifestanti proseguono pacificamente lungo i marciapiedi della Quinta Strada - sotto l'occhio vigile degli agenti - per poi girare verso Park Avenue, dove abitano il plurimilionario David Koch, il magnate del mercato immobiliare americano Howard Milstein, e l'amministratore delegato di JP Morgan Chase, Jamie Dimon.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Ultima tappa del corteo Madison Avenue, dove risiede il re degli hedge fund John Paulson. ''Stanno vendendo il nostro Paese'', dice Jane, una signora che spiega di appartenere alla quarta generazione di studenti di Harvard. ''Abbiamo perso le nostre priorita' - dice - qualcosa deve cambiare e oggi siamo qui per questo''. La folla e' eterogenea, e ci sono anche molti lavoratori che sono venuti a sostenere i membri di 'Occupy Wall Street' durante la pausa pranzo.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
''Perche' andiamo a manifestare sotto le loro case?'', afferma Elizabeth, una signora sui 50anni che lavora in un grande albergo sulla Quinta: ''Sono cinque degli uomini piu' ricchi di New York, non hanno bisogno di altri soldi. Questi 5 miliardi potrebbero servire per dare un rifugio ai senzatetto, migliorare l'istruzione o il sistema sanitario''. Lungo il tragitto qualche abitante degli eleganti palazzi dell'Upper East di Manhattan si affaccia alla finestra. A un 'doorman' scappa anche un applauso, quando la folla urla: ''Dovete pagare le vostre tasse'', "''Salviamo il sogno americano''.
3 - INDIGNADOS USA: BECK, COME ROBESPIERRE..UCCIDERANNO RICCHI
(ANSA) - ''Cari capitalisti, se pensate di poter andare a braccetto con questa gente vi sbagliate di grosso...verranno a casa vostra a prendervi per ammazzarvi. Sono marxisti radicali, come Robespierre durante la rivoluzione francese...vi uccideranno tutti''. Cosi' Glenn Beck, la stella un po' appannata della destra americana, un tempo icona del Tea Party, ha lanciato il suo anatema contro il movimento degli 'indignados' di 'Occupy Wall Street'.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Parlando alla radio, Beck ha voluto mettere in guardia personalita' come Nancy Pelosi o alcuni miliardari democratici come George Soros che nei giorni scorsi hanno espresso il loro appoggio a questo movimento che ormai si sta spargendo a macchia d'olio in tutti gli States. ''Nancy Pelosi - s'e' chiesto retoricamente Beck - credi davvero che questi siano tuoi amici? Sei stupida? Pensi davvero che sarai capace di poterli controllare in qualche modo?''.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Poi, in modo sempre piu' strampalato, ha aggiunto che ''solo un intervento dall'alto'' potra' riprendere il controllo della situazione. Infine, ha proposto un paragone improbabile tra chi sta protestando contro lo strapotere della finanzia e i nazisti tedeschi: ''Ci sara' una notte dei lunghi coltelli e ci sara' chi purifichera' il nostro Paese''.
RAGAZZI DEL MOVIMENTO _OCCUPY WALL STREET_
4 - A WALL STREET SARANNO TAGLIATI ALTRI 10.000 POSTI DI LAVORO MENTRE I TOP MANAGER CONTINUERANNO A INTASCARE BONUS
Dagoreport da Associated Press e New York Times
http://nyti.ms/nDIhBn
Il comptroller dello stato di New York (una specie di Segretario Generale che si occupa di conti e auditing) ha presentato uno studio secondo cui entro la fine dell'anno, altri 10.000 lavoratori di Wall st. perderanno il lavoro. Non si tratta dei banchieri contestati ieri, ma di posizioni di medio livello, lavoratori con ottimi salari ma che neanche si avvicinano agli stipendi dei manager di hedge fund e dei dirigenti delle grandi banche d'affari.
INDIGNADOS NEW YORK GLI USCIERI SBIGOTTITI FOTO ANDREA SALVADORE
Sommati ai 4.000 già licenziati tra aprile e agosto, 32.000 lavoratori del settore finanziario avranno perso il lavoro dal 2008, anno del crac di Lehman Brothers. Eppure i bonus dei top manager per il 2011, sebbene in calo, saranno comunque nell'ordine dei miliardi di dollari.
INDIGNADOS NEW YORK GLI USCIERI SBIGOTTITI FOTO ANDREA SALVADORE
Il sindaco di New York Michael Bloomberg ora si trova in una posizione assai scomoda: è amato dai cittadini, anche per il suo stile "low key", di primo cittadino che va al lavoro in metropolitana. Ma allo stesso tempo è un miliardario, fondatore di Bloomberg, una delle aziende cardine di Wall Street.
Per questo, dopo la protesta di ieri gli è toccato difendere Jamie Dimon, CEO di JP Morgan: "Dimon ha portato a New York un giro di affari che non ha eguali nella storia recente della città. Fare i sit-in sotto casa sua, non riesco a capire che risultato possa ottenere. E' una persona stimata che lavora duro e paga le sue tasse".
Il sindaco si è schierato apertamente in difesa di un settore al quale è collegato 1 posto di lavoro su 8 a New York. E al quale è collegato il suo impero economico. Ciò non toglie che Goldman Sachs, Bank of America, HSBC e Barclays hanno annunciato negli scorsi mesi seri tagli ai dipendenti. Questi lavoratori "middle-class" si uniranno alla protesta degli indignati di "Occupy Wall Street"?
PROTESTA SULLA QUINTA STRADA
by dagospia
http://www.americanatvblog.com/?p=5947
I MILIARDARI LE CUI CASE SONO NEL MIRINO DEGLI INDIGNADOS
1 - L'INVASIONE DEGLI ULTRACORPI
Andrea Salvadore per AmericanaTBblog.com
La manifestazione appoggiata (non promossa, solo endorsed ) da Occupy Wall Street "sotto le case dei ricchi" nella Upper East Side di Manhattan si puo' raccontarla in vari modi. L'ho seguita dall'inizio, all'ingresso di Central Park davanti all'Apple store.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI DI NEW YORK
Lo slogan piu' gridato e' stato "We are here We are hungry We're coming to you" ( siamo qua, abbiamo fame, ti stiamo venendo a trovare ). Piu' che invidia sociale ( quella a cui ha fatto riferimento il candidato repubblicano alla Casa Bianca Herman Cain ) ho visto sberleffi, prese in giro, felicita' per avere varcato dei confini immateriali piu' alti e robusti di quelli reali. Le inavvicinabili residenze dei ricchi di Manhattan, presidiate da eserciti di doormen, guardiani ai portoni, ai cancelli. A cominciare da quella di Rupert Murdoch, sulla Fifth Avenue, vista su Central Park.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Questa giornata altri la racconteranno in modi diversi. Dipende dall'alfabeto che conoscono e dalle parole che decidono di usare per ricamare il pezzo. Io ve la racconto per immagini, non prima di dirvi che il numero spropositato di macchine fotografiche e video superava , all'inizio, quello dei manifestanti. Che il corteo ( con tanta musica ) si e' snodato come sempre sui marciapiedi non intralciando il traffico. Che e' stato visibilmente rinforzato da aderenti ad organizzazioni sindacali.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Detto tutto cio' e' stata una giornata importante, cosi' per finirla sinteticamente e passare alle immagini che vi srotolo ( grazie iPhone ) come un racconto narrato da tre punti di vista. Quello dei manifestanti ovviamente, quello di chi li fotograva e quello dei doormen, i custodi dei castelli che , in molti casi, non credevano ai loro occhi.
2 - INDIGNADOS USA: PROTESTA SOTTO CASA PAPERONI WALL STREET CORTEO LUNGO FIFTH AVENUE, CALCA DAVANTI RESIDENZA MURDOCH...
(ANSA) - Il magnate televisivo Rupert Murdoch, il miliardario David Koch, il numero uno di JP Morgan Jamie Dimon. La protesta degli indignados arriva sotto le abitazioni dei Paperoni di Wall Street. La parola d'ordine e' partita dal solito sito, quello di 'Occupy Wall Street'. Ma l'appuntamento per la 'Marcia dei Miliardari' stavolta non e' nel cuore del Financial District. Gli indignati della finanza si sono radunati a due passi dall'ingresso sud del Central Park e hanno puntato dritto verso la parte alta della citta'. Nel mirino ci sono le case dei big della finanza, tra la Quinta Strada e Park Avenue.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Sulla loro strada la prima e' proprio quella del proprietario di News Corp Murdoch. Davanti al numero 834 della Fifth Avenue, una elegante palazzo che affaccia sul polmone verde di Manhattan, si sono accalcate oltre 500 persone, con gli agenti di polizia che hanno faticato non poco per tenere a bada la folla che urlava: ''Noi siamo il 99%'', ''Murdoch, dacci un lavoro''. Alcuni manifestanti ironicamente hanno chiesto: ''Rupert, possiamo usare il tuo bagno?''. Il serpentone si snoda lungo il marciapiede della Quinta Strada, di fronte al parco, e complessivamente conta almeno mille persone.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Obiettivo della marcia: chiedere l'estensione della tassa sui super-ricchi in vigore nello Stato di New york, che dovrebbe decadere il 31 dicembre 2011. In testa al corteo i manifestanti esibiscono cinque assegni-giganti: sono intestati a ''The top one per cent'', i ricconi di Wall Street, e l'ammontare e' di 5 miliardi di dollari, la cifra corrispondente alla percentuale del loro patrimonio che ora devono versare allo stato di New York e che rischia di essergli abbonata.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
''Loro avranno sempre di piu', e il resto dei cittadini sempre meno'', denuncia Michael Kink, direttore esecutivo di 'Strong economy for all coalition', una delle associazioni organizzatrici della manifestazione. Passata la residenza di Murdoch il corteo oramai conta molto piu' di mille persone. L'autorizzazione per sfilare in strada non c'e', e i manifestanti proseguono pacificamente lungo i marciapiedi della Quinta Strada - sotto l'occhio vigile degli agenti - per poi girare verso Park Avenue, dove abitano il plurimilionario David Koch, il magnate del mercato immobiliare americano Howard Milstein, e l'amministratore delegato di JP Morgan Chase, Jamie Dimon.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Ultima tappa del corteo Madison Avenue, dove risiede il re degli hedge fund John Paulson. ''Stanno vendendo il nostro Paese'', dice Jane, una signora che spiega di appartenere alla quarta generazione di studenti di Harvard. ''Abbiamo perso le nostre priorita' - dice - qualcosa deve cambiare e oggi siamo qui per questo''. La folla e' eterogenea, e ci sono anche molti lavoratori che sono venuti a sostenere i membri di 'Occupy Wall Street' durante la pausa pranzo.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
''Perche' andiamo a manifestare sotto le loro case?'', afferma Elizabeth, una signora sui 50anni che lavora in un grande albergo sulla Quinta: ''Sono cinque degli uomini piu' ricchi di New York, non hanno bisogno di altri soldi. Questi 5 miliardi potrebbero servire per dare un rifugio ai senzatetto, migliorare l'istruzione o il sistema sanitario''. Lungo il tragitto qualche abitante degli eleganti palazzi dell'Upper East di Manhattan si affaccia alla finestra. A un 'doorman' scappa anche un applauso, quando la folla urla: ''Dovete pagare le vostre tasse'', "''Salviamo il sogno americano''.
3 - INDIGNADOS USA: BECK, COME ROBESPIERRE..UCCIDERANNO RICCHI
(ANSA) - ''Cari capitalisti, se pensate di poter andare a braccetto con questa gente vi sbagliate di grosso...verranno a casa vostra a prendervi per ammazzarvi. Sono marxisti radicali, come Robespierre durante la rivoluzione francese...vi uccideranno tutti''. Cosi' Glenn Beck, la stella un po' appannata della destra americana, un tempo icona del Tea Party, ha lanciato il suo anatema contro il movimento degli 'indignados' di 'Occupy Wall Street'.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Parlando alla radio, Beck ha voluto mettere in guardia personalita' come Nancy Pelosi o alcuni miliardari democratici come George Soros che nei giorni scorsi hanno espresso il loro appoggio a questo movimento che ormai si sta spargendo a macchia d'olio in tutti gli States. ''Nancy Pelosi - s'e' chiesto retoricamente Beck - credi davvero che questi siano tuoi amici? Sei stupida? Pensi davvero che sarai capace di poterli controllare in qualche modo?''.
INDIGNADOS SOTTO CASA DEI RICCHI A NEW YORK FOTO ANDREA SALVADORE
Poi, in modo sempre piu' strampalato, ha aggiunto che ''solo un intervento dall'alto'' potra' riprendere il controllo della situazione. Infine, ha proposto un paragone improbabile tra chi sta protestando contro lo strapotere della finanzia e i nazisti tedeschi: ''Ci sara' una notte dei lunghi coltelli e ci sara' chi purifichera' il nostro Paese''.
RAGAZZI DEL MOVIMENTO _OCCUPY WALL STREET_
4 - A WALL STREET SARANNO TAGLIATI ALTRI 10.000 POSTI DI LAVORO MENTRE I TOP MANAGER CONTINUERANNO A INTASCARE BONUS
Dagoreport da Associated Press e New York Times
http://nyti.ms/nDIhBn
Il comptroller dello stato di New York (una specie di Segretario Generale che si occupa di conti e auditing) ha presentato uno studio secondo cui entro la fine dell'anno, altri 10.000 lavoratori di Wall st. perderanno il lavoro. Non si tratta dei banchieri contestati ieri, ma di posizioni di medio livello, lavoratori con ottimi salari ma che neanche si avvicinano agli stipendi dei manager di hedge fund e dei dirigenti delle grandi banche d'affari.
INDIGNADOS NEW YORK GLI USCIERI SBIGOTTITI FOTO ANDREA SALVADORE
Sommati ai 4.000 già licenziati tra aprile e agosto, 32.000 lavoratori del settore finanziario avranno perso il lavoro dal 2008, anno del crac di Lehman Brothers. Eppure i bonus dei top manager per il 2011, sebbene in calo, saranno comunque nell'ordine dei miliardi di dollari.
INDIGNADOS NEW YORK GLI USCIERI SBIGOTTITI FOTO ANDREA SALVADORE
Il sindaco di New York Michael Bloomberg ora si trova in una posizione assai scomoda: è amato dai cittadini, anche per il suo stile "low key", di primo cittadino che va al lavoro in metropolitana. Ma allo stesso tempo è un miliardario, fondatore di Bloomberg, una delle aziende cardine di Wall Street.
Per questo, dopo la protesta di ieri gli è toccato difendere Jamie Dimon, CEO di JP Morgan: "Dimon ha portato a New York un giro di affari che non ha eguali nella storia recente della città. Fare i sit-in sotto casa sua, non riesco a capire che risultato possa ottenere. E' una persona stimata che lavora duro e paga le sue tasse".
Il sindaco si è schierato apertamente in difesa di un settore al quale è collegato 1 posto di lavoro su 8 a New York. E al quale è collegato il suo impero economico. Ciò non toglie che Goldman Sachs, Bank of America, HSBC e Barclays hanno annunciato negli scorsi mesi seri tagli ai dipendenti. Questi lavoratori "middle-class" si uniranno alla protesta degli indignati di "Occupy Wall Street"?
PROTESTA SULLA QUINTA STRADA
by dagospia
SOLDI DEI CONTRIBUENTI
Siamo in default, ma allo stesso tempo siamo il Paese più ricco del mondo. Potenzialmente. Se venissero recuperati i soldi di sprechi, evasioni, corruzioni, attività criminali il bilancio dello Stato disporrebbe approssimativamente di 500 miliardi di euro in più all'anno. Significa che, senza chiedere alcun sacrificio ai cittadini, il debito pubblico sarebbe azzerato in 4 anni. Nessuno ha i nostri numeri. Il problema è quindi prima politico che economico. Marco Cobianchi è un giornalista economico. Ha fatto un viaggio nell'Italia dei soldi di Stato regalati come caramelle a aziende inesistenti o in procinto di fallire. Una voragine su cui non esistono controlli.
Intervista a Marco Cobianchi, giornalista e autore del libro "Mani Bucate":
Sussidi pubblici inneficaci (espandi | comprimi)
Saluto gli amici del blog di Beppe Grillo, mi presento, sono Marco Cobianchi e sono un giornalista, lavoro a Panorama e mi occupo di economia ho appena pubblicato un libro che si intitola “Mani bucate” è la prima inchiesta che è stata realizzata in Italia sull'incredibile mondo degli aiuti di Stato alle imprese private, soldi che, dalle casse dello Stato, finiscono alle casse delle imprese.
Non ci sarebbe nulla di male teoricamente, perché tutti i paesi del mondo aiutano con soldi pubblici le proprie imprese, però noi lo facciamo nel modo peggiore, perché finanziamo tutto, tutti ovunque per qualsiasi motivo, non c'è nessuna strategia, non investiamo assolutamente in innovazione, diamo soldi a fondo perduto, sgravi fiscali, incentivi di qualsiasi tipo a un'azienda che va bene, ma anche a un'azienda che va male, a un'altra che si deve strutturare, a due aziende che si devono fondere, oppure a un'altra che deve esportare di più. Non c'è nessuna strategia nell'uso dei soldi pubblici in Italia, né nell'uso dei fondi europei, né nell'uso dei fondi italiani e questo ha diverse conseguenze. La più importante è che i nostri aiuti pubblici alle imprese private, sono perfettamente inutili. Io per fare questo libro ho impiegato circa due anni e ho letto decine di migliaia di pagine di rapporti, di centri studi, studi della Banca d'Italia, di economisti della Corte dei Conti, magistrati e alla fine ho trovato forse la frase tra le centinaia che ho letto, la frase che meglio spiega il in motivo per il quale i soldi pubblici dati alle imprese private in Italia non servono a niente, è di Mario Draghi. Il Governatore della Banca d'Italia che dal primo novembre sarà governatore della Banca centrale europea, in un convegno tenuto a Via Nazionale nel 2009, di cui praticamente nessun giornale ha parlato, ha detto: “I sussidi alle imprese sono generalmente inefficaci, si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura, penalizzando frequentemente imprenditori più capaci, non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. Un mese dopo aver pronunciato questa frase ha aggiunto: “Un'indicazione statistica fondamentale è che è più proficuo investire le risorse pubbliche nell'effettiva applicazione delle leggi, piuttosto che nell'erogazione di sussidi”. Credo che questa frase sia la pietra tombale sulla politica dei sussidi alle imprese private, Mario Draghi dice che non servono assolutamente a nulla. Ho cercato di raccontare il maggior numero possibile di casi esemplificativi, i casi più eclatanti, più incredibili, in cui i soldi pubblici sono andati alla criminalità, a imprenditori che dopo tre anni averli ricevuti hanno chiuso l'impresa e i soldi sono spariti, sono andati addirittura a delle famiglie ricchissime che abitano e vivono in altre parti del pianeta, a imprenditori che non avevano nessuna speranza di sopravvivere, a imprenditori che dicevano che avrebbero investito un certo numero di dipendenti, ne hanno assunti la metà, ma i soldi li hanno presi lo stesso ed è questo il motivo per cui Draghi dice che questi soldi non sono serviti a niente.
FIAT, 121 milioni di sussidi pubblici (espandi | comprimi)
Tra le centinaia di casi che racconto in “Mani bucate”, uno mi ha fatto sobbalzare sulla sedia, si tratta della Stm un'azienda italo-francese che ha ricevuto in un solo anno circa 1 miliardo e 124 milioni di Euro di sussidi pubblici, metà dei quali circa dall'Italia, e metà circa dalla Francia. Questi soldi sono serviti per cambiare il business della Stm,
prima produceva memorie flash e questi soldi sono serviti per costruire insieme a altre due multinazionali dei pannelli fotovoltaici. Altri casi che mi hanno fatto sobbalzare sono i soldi alla FIAT, pensate che tra il 1999 e il 2000 la FIAT ha presentato all'Unione Europea ben otto richieste di aiuti pubblici, ognuno dei quali per decine di milioni di Euro. Alla fine la partita con l'Unione Europea è finita 5 a 3. 5 volte la FIAT ha vinto la partita con l'Unione Europea e 3 volte no. Uno di questi 5 casi in cui la FIAT ha vinto la sua partita con l'Unione Europea, si tratta della richiesta di aiuto per lo stabilimento FIAT di Foggia. L'Unione Europea ha cercato di capire meglio, di sapere perché la FIAT aveva bisogno di 121 milioni di Euro, la FIAT ha un certo punto rispose che aveva bisogno a Foggia fa più caldo che in Polonia dove voleva trasferire la produzione, inoltre a Foggia c'è più assenteismo e quindi il caldo e l'assenteismo hanno permesso alla FIAT nel 2000 di ottenere 121 milioni di Euro per lo stabilimento di Foggia, ma questo è soltanto uno delle centinaia di casi di aiuti pubblici che il Lingotto di Torino ha ottenuto nel corso del tempo e, soprattutto, racconto i finanziamenti alla ricerca e sviluppo che ha ottenuto la FIAT, di cui non si è mai parlato, solo l'ultima annotazione sulla FIAT, la stagione di Marchionne, amministratore delegato dal punto di vista dei sussidi pubblici, non è poi così diversa dalla stagione di Romiti.
Quante sono le imprese sussidiate? Nessuno lo sa, così come nessuno sa quanti soldi vanno alle imprese, perché lo Stato non è in grado di controllare, di verificare i soldi che concede alle aziende private, sotto le forme più diverse. La stima che faccio dei soldi pubblici dati alle imprese è di circa 30 miliardi l’anno, questa cifra riguarda sia i fondi europei che i fondi italiani che i 6 miliardi per le aziende che producono energia elettrica e che riceveranno 6 miliardi nel 2011, in totale una stima, secondo me addirittura conservativa, mi porta a ritenere che i soldi dati alle imprese siano all'incirca i 30 miliardi l’anno e quante sono queste imprese? Nessuno lo sa, c'è solo un numero ufficiale di 840 mila, sono le aziende che hanno ricevuto solo i fondi europei che sono però, attenzione, una parte addirittura trascurabile dell'intero ammontare di aiuti pubblici alle aziende private. 840 mila sono le aziende sussidiate tra il 2003 e il 2008, vuole dire che ogni anno con fondi europei 140 mila aziende italiane ricevono soldi. Una massa così incredibile di aziende che ricevono soldi dallo Stato, ovviamente pone un problema dei controlli. Qui regna il caos totale, perfino la Corte dei Conti che ha cercato di capirne di più su quest’argomento, ha dovuto arrendersi e ha parlato di una congerie di dati, provenienti dai vari Ministeri che suggeriscono questi fondi, che rendono impossibile sapere a chi vanno i soldi, quanti soldi di fondi pubblici italiani o europei e soprattutto come vengono usati e quali sono i risultati.
Lo Stato finanzia la mafia (espandi | comprimi)
I controlli non esistono, l'Olaf che è un organismo europeo che dovrebbe controllare le irregolarità, dice che nel solo 2009 sono state le irregolarità italiane 1491 e hanno coinvolto capitali per 422,9 milioni di Euro, la possibilità di recuperare questi soldi è praticamente inesistente perché secondo l'Olaf gli stati membri, cioè gli stati europei perseguono solo il 7% dei casi sospetti.
Significa che questi 1491 casi, sono in realtà il 7% di tutte le irregolarità che sono state compiute in Italia. Significa che il l7% di 422 milioni fa 29,7; questo 7% si riferisce solo a un anno, solo al 2009, ma se noi moltiplichiamo questa cifra per il periodo di programmazione dei fondi europei che è 7 anni, significa che in 7 anni 2,75 miliardi di Euro sono stati dati alle imprese private in modo irregolare .
Non avrei neanche io immaginato che perfino il settore finanziario ha ottenuto soldi pubblici, ci sono tre interventi serviti per sussidiare le banche e la borsa, soltanto uno di questi interventi è costato alle casse dello Stato 2 miliardi e 700 milioni di €. Si trattava di sgravi fiscali a favore delle banche che si fondevano tra di loro, quei 2,7 miliardi sono stati poi dopo diversi anni restituiti su ordine dell'Europa, mentre non sono ancora stati restituiti per intero i soldi che in una decina di aziende hanno risparmiato per quotarsi in borsa nel 2004, perché in quell'anno lo Stato ha deciso di dare sgravi fiscali alle aziende che andavano in borsa, la UE ha condannato l'Italia ma quelle aziende che si sono quotate, io faccio i nomi, hanno restituito appena il 25% dei soldi che dovevano ridare allo Stato.
Leggendo i rapporti dell'antimafia ma anche quelli della Corte dei Conti, si scopre che i sussidi pubblici alle imprese private, finiscono alla mafia, significa che lo Stato usando i soldi pubblici, le tasse dei cittadini, finanzia la mafia, finanzia la criminalità organizzata. Inizio il capitolo sulla mafia che è stato uno dei più dolorosi che ho scritto, raccontando di una strage che è accaduta nel 2006 in un paesino vicino a Brescia, vennero sgozzati un uomo, la sua compagna e il figlio di 17 anni. Vennero sgozzati perché lui aveva fatto uno sgarro a una famiglia mafiosa, la quale voleva i soldi pubblici. In Calabria la criminalità organizzata si è inserita, lo dice l'antimafia, nel business dell'eolico e del fotovoltaico. C’era un progetto a Pompei, si chiamava Pompei TecWorld era un progetto per un enorme parco divertimenti che poi non venne mai costruito, ottenne soldi ovviamente, e secondo la Commissione parlamentare antimafia era un'enorme lavanderia di soldi sporchi della criminalità .
Si può uscire da questo inferno degli aiuti pubblici alle imprese? Secondo me sì! Primo: seguire il Consiglio di Mario Draghi, usare i soldi per applicare le leggi e non per pagare le aziende; secondo: far gestire almeno una parte dei soldi pubblici a esponenti o a associazioni della società civile, non vedrei nulla di male, d'altra parte alcune esperienze ci sono già, di imprenditori che possano gestire almeno una parte di quei soldi, in modo anche da rompere il legame tremendo tra politica e affari, tra politici che danno soldi alle imprese e imprese che fanno campagne elettorali per i politici. Un'ultima ricetta potrebbe essere quella di ribaltare il paradigma dell'economia in base al quale è l'offerta che crea la domanda, proviamo a immaginare che sia invece la domanda che crea l'offerta e in altre parole, proviamo a lasciare un po' più di soldi nelle tasche dei cittadini che comprano quello che vogliono, non sussidiato!
Mani bucate - di Marco Cobianchi
I soldi perduti dei contribuenti italiani.
Acquista oggi la tua copia.
Intervista a Marco Cobianchi, giornalista e autore del libro "Mani Bucate":
Sussidi pubblici inneficaci (espandi | comprimi)
Saluto gli amici del blog di Beppe Grillo, mi presento, sono Marco Cobianchi e sono un giornalista, lavoro a Panorama e mi occupo di economia ho appena pubblicato un libro che si intitola “Mani bucate” è la prima inchiesta che è stata realizzata in Italia sull'incredibile mondo degli aiuti di Stato alle imprese private, soldi che, dalle casse dello Stato, finiscono alle casse delle imprese.
Non ci sarebbe nulla di male teoricamente, perché tutti i paesi del mondo aiutano con soldi pubblici le proprie imprese, però noi lo facciamo nel modo peggiore, perché finanziamo tutto, tutti ovunque per qualsiasi motivo, non c'è nessuna strategia, non investiamo assolutamente in innovazione, diamo soldi a fondo perduto, sgravi fiscali, incentivi di qualsiasi tipo a un'azienda che va bene, ma anche a un'azienda che va male, a un'altra che si deve strutturare, a due aziende che si devono fondere, oppure a un'altra che deve esportare di più. Non c'è nessuna strategia nell'uso dei soldi pubblici in Italia, né nell'uso dei fondi europei, né nell'uso dei fondi italiani e questo ha diverse conseguenze. La più importante è che i nostri aiuti pubblici alle imprese private, sono perfettamente inutili. Io per fare questo libro ho impiegato circa due anni e ho letto decine di migliaia di pagine di rapporti, di centri studi, studi della Banca d'Italia, di economisti della Corte dei Conti, magistrati e alla fine ho trovato forse la frase tra le centinaia che ho letto, la frase che meglio spiega il in motivo per il quale i soldi pubblici dati alle imprese private in Italia non servono a niente, è di Mario Draghi. Il Governatore della Banca d'Italia che dal primo novembre sarà governatore della Banca centrale europea, in un convegno tenuto a Via Nazionale nel 2009, di cui praticamente nessun giornale ha parlato, ha detto: “I sussidi alle imprese sono generalmente inefficaci, si incentivano spesso investimenti che sarebbero stati effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia natura, penalizzando frequentemente imprenditori più capaci, non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo durevole delle attività produttive”. Un mese dopo aver pronunciato questa frase ha aggiunto: “Un'indicazione statistica fondamentale è che è più proficuo investire le risorse pubbliche nell'effettiva applicazione delle leggi, piuttosto che nell'erogazione di sussidi”. Credo che questa frase sia la pietra tombale sulla politica dei sussidi alle imprese private, Mario Draghi dice che non servono assolutamente a nulla. Ho cercato di raccontare il maggior numero possibile di casi esemplificativi, i casi più eclatanti, più incredibili, in cui i soldi pubblici sono andati alla criminalità, a imprenditori che dopo tre anni averli ricevuti hanno chiuso l'impresa e i soldi sono spariti, sono andati addirittura a delle famiglie ricchissime che abitano e vivono in altre parti del pianeta, a imprenditori che non avevano nessuna speranza di sopravvivere, a imprenditori che dicevano che avrebbero investito un certo numero di dipendenti, ne hanno assunti la metà, ma i soldi li hanno presi lo stesso ed è questo il motivo per cui Draghi dice che questi soldi non sono serviti a niente.
FIAT, 121 milioni di sussidi pubblici (espandi | comprimi)
Tra le centinaia di casi che racconto in “Mani bucate”, uno mi ha fatto sobbalzare sulla sedia, si tratta della Stm un'azienda italo-francese che ha ricevuto in un solo anno circa 1 miliardo e 124 milioni di Euro di sussidi pubblici, metà dei quali circa dall'Italia, e metà circa dalla Francia. Questi soldi sono serviti per cambiare il business della Stm,
prima produceva memorie flash e questi soldi sono serviti per costruire insieme a altre due multinazionali dei pannelli fotovoltaici. Altri casi che mi hanno fatto sobbalzare sono i soldi alla FIAT, pensate che tra il 1999 e il 2000 la FIAT ha presentato all'Unione Europea ben otto richieste di aiuti pubblici, ognuno dei quali per decine di milioni di Euro. Alla fine la partita con l'Unione Europea è finita 5 a 3. 5 volte la FIAT ha vinto la partita con l'Unione Europea e 3 volte no. Uno di questi 5 casi in cui la FIAT ha vinto la sua partita con l'Unione Europea, si tratta della richiesta di aiuto per lo stabilimento FIAT di Foggia. L'Unione Europea ha cercato di capire meglio, di sapere perché la FIAT aveva bisogno di 121 milioni di Euro, la FIAT ha un certo punto rispose che aveva bisogno a Foggia fa più caldo che in Polonia dove voleva trasferire la produzione, inoltre a Foggia c'è più assenteismo e quindi il caldo e l'assenteismo hanno permesso alla FIAT nel 2000 di ottenere 121 milioni di Euro per lo stabilimento di Foggia, ma questo è soltanto uno delle centinaia di casi di aiuti pubblici che il Lingotto di Torino ha ottenuto nel corso del tempo e, soprattutto, racconto i finanziamenti alla ricerca e sviluppo che ha ottenuto la FIAT, di cui non si è mai parlato, solo l'ultima annotazione sulla FIAT, la stagione di Marchionne, amministratore delegato dal punto di vista dei sussidi pubblici, non è poi così diversa dalla stagione di Romiti.
Quante sono le imprese sussidiate? Nessuno lo sa, così come nessuno sa quanti soldi vanno alle imprese, perché lo Stato non è in grado di controllare, di verificare i soldi che concede alle aziende private, sotto le forme più diverse. La stima che faccio dei soldi pubblici dati alle imprese è di circa 30 miliardi l’anno, questa cifra riguarda sia i fondi europei che i fondi italiani che i 6 miliardi per le aziende che producono energia elettrica e che riceveranno 6 miliardi nel 2011, in totale una stima, secondo me addirittura conservativa, mi porta a ritenere che i soldi dati alle imprese siano all'incirca i 30 miliardi l’anno e quante sono queste imprese? Nessuno lo sa, c'è solo un numero ufficiale di 840 mila, sono le aziende che hanno ricevuto solo i fondi europei che sono però, attenzione, una parte addirittura trascurabile dell'intero ammontare di aiuti pubblici alle aziende private. 840 mila sono le aziende sussidiate tra il 2003 e il 2008, vuole dire che ogni anno con fondi europei 140 mila aziende italiane ricevono soldi. Una massa così incredibile di aziende che ricevono soldi dallo Stato, ovviamente pone un problema dei controlli. Qui regna il caos totale, perfino la Corte dei Conti che ha cercato di capirne di più su quest’argomento, ha dovuto arrendersi e ha parlato di una congerie di dati, provenienti dai vari Ministeri che suggeriscono questi fondi, che rendono impossibile sapere a chi vanno i soldi, quanti soldi di fondi pubblici italiani o europei e soprattutto come vengono usati e quali sono i risultati.
Lo Stato finanzia la mafia (espandi | comprimi)
I controlli non esistono, l'Olaf che è un organismo europeo che dovrebbe controllare le irregolarità, dice che nel solo 2009 sono state le irregolarità italiane 1491 e hanno coinvolto capitali per 422,9 milioni di Euro, la possibilità di recuperare questi soldi è praticamente inesistente perché secondo l'Olaf gli stati membri, cioè gli stati europei perseguono solo il 7% dei casi sospetti.
Significa che questi 1491 casi, sono in realtà il 7% di tutte le irregolarità che sono state compiute in Italia. Significa che il l7% di 422 milioni fa 29,7; questo 7% si riferisce solo a un anno, solo al 2009, ma se noi moltiplichiamo questa cifra per il periodo di programmazione dei fondi europei che è 7 anni, significa che in 7 anni 2,75 miliardi di Euro sono stati dati alle imprese private in modo irregolare .
Non avrei neanche io immaginato che perfino il settore finanziario ha ottenuto soldi pubblici, ci sono tre interventi serviti per sussidiare le banche e la borsa, soltanto uno di questi interventi è costato alle casse dello Stato 2 miliardi e 700 milioni di €. Si trattava di sgravi fiscali a favore delle banche che si fondevano tra di loro, quei 2,7 miliardi sono stati poi dopo diversi anni restituiti su ordine dell'Europa, mentre non sono ancora stati restituiti per intero i soldi che in una decina di aziende hanno risparmiato per quotarsi in borsa nel 2004, perché in quell'anno lo Stato ha deciso di dare sgravi fiscali alle aziende che andavano in borsa, la UE ha condannato l'Italia ma quelle aziende che si sono quotate, io faccio i nomi, hanno restituito appena il 25% dei soldi che dovevano ridare allo Stato.
Leggendo i rapporti dell'antimafia ma anche quelli della Corte dei Conti, si scopre che i sussidi pubblici alle imprese private, finiscono alla mafia, significa che lo Stato usando i soldi pubblici, le tasse dei cittadini, finanzia la mafia, finanzia la criminalità organizzata. Inizio il capitolo sulla mafia che è stato uno dei più dolorosi che ho scritto, raccontando di una strage che è accaduta nel 2006 in un paesino vicino a Brescia, vennero sgozzati un uomo, la sua compagna e il figlio di 17 anni. Vennero sgozzati perché lui aveva fatto uno sgarro a una famiglia mafiosa, la quale voleva i soldi pubblici. In Calabria la criminalità organizzata si è inserita, lo dice l'antimafia, nel business dell'eolico e del fotovoltaico. C’era un progetto a Pompei, si chiamava Pompei TecWorld era un progetto per un enorme parco divertimenti che poi non venne mai costruito, ottenne soldi ovviamente, e secondo la Commissione parlamentare antimafia era un'enorme lavanderia di soldi sporchi della criminalità .
Si può uscire da questo inferno degli aiuti pubblici alle imprese? Secondo me sì! Primo: seguire il Consiglio di Mario Draghi, usare i soldi per applicare le leggi e non per pagare le aziende; secondo: far gestire almeno una parte dei soldi pubblici a esponenti o a associazioni della società civile, non vedrei nulla di male, d'altra parte alcune esperienze ci sono già, di imprenditori che possano gestire almeno una parte di quei soldi, in modo anche da rompere il legame tremendo tra politica e affari, tra politici che danno soldi alle imprese e imprese che fanno campagne elettorali per i politici. Un'ultima ricetta potrebbe essere quella di ribaltare il paradigma dell'economia in base al quale è l'offerta che crea la domanda, proviamo a immaginare che sia invece la domanda che crea l'offerta e in altre parole, proviamo a lasciare un po' più di soldi nelle tasche dei cittadini che comprano quello che vogliono, non sussidiato!
Mani bucate - di Marco Cobianchi
I soldi perduti dei contribuenti italiani.
Acquista oggi la tua copia.
martedì 11 ottobre 2011
EURO-TRUFFA - ANCHE IL “WALL STREET JOURNAL” SI SVEGLIA E DOPO ANNI E UN GRAN ARTICOLO DEL ‘NEW YORK TIMES’ SCOPRE CHE ROMA, COME ATENE (CHE L’HA AMMESSO), HA TRUCCATO I CONTI PER ENTRARE NELL'EURO - L’AFFONDO: SE I CONTI ITALIANI SONO TAROCCATI, GLI ACQUISTI DI BOND DA PARTE DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA NON RISOLVERANNO CERTO IL PROBLEMA - CIAMPI E PRODI NON HANNO DA DIRE?...
Rosaria Amato per "la Repubblica"
EURO
L'Italia come la Grecia. Ma non solo perché potrebbe essere il prossimo Paese sull'orlo del naufragio. L'Italia - accusa apertamente un editoriale del Wall Street Journal - potrebbe aver truccato i conti per entrare nell'euro. «Ci sono tutte le ragioni per ritenere - scrive Alen Mattich - che il governo italiano sia stato aggressivo almeno quanto gli altri Paesi europei nel mascherare lo stato delle proprie finanze in modo da ottenere l'ingresso nell'area della moneta unica».
ROMANO PRODI
E quindi, prosegue inesorabile, «se il debito pubblico di fondo dell'Italia fosse più alto e/o se lo stato del suo deficit fosse peggiore rispetto alle cifre ufficiali, allora la questione diventerebbe di solvibilità piuttosto che di liquidità. Si ricordi lo shock avvertito dagli investitori quando la Grecia ammise di aver falsato i propri numeri».
Il Wsj riconosce i punti di forza dell'Italia, a cominciare dal deficit di bilancio strutturale e dall'avanzo primario atteso (4 punti in termini di Pil, al netto delle spese per interessi), oltre al consistente risparmio privato, che in larga parte finanzia il debito pubblico.
CARLO AZEGLIO CIAMPI - COPYRIGHT PIZZI
Inoltre, il sistema finanziario italiano «sembra più sicuro rispetto a quello di altri Paesi». A minacciare il Paese sono però intanto la bassa crescita: «E' probabile che l'Italia continuerà a flirtare con la recessione, rendendo più difficile per il governo il raggiungimento dei target strutturali».
SILVIO BERLUSCONI
Ma la difficoltà maggiore è costituita dalla mancanza di credibilità, che non dipende solo dalle pessime battute di Berlusconi («dell'infamous burlesque humor» del premier si parla in apertura dell'articolo), ma è giustificata dallo stato delle finanze italiane: «Il mercato sta probabilmente sottostimando il livello di difficoltà con il quale l'economia italiana dovrà confrontarsi e il fatto che l'attuale stato delle sue finanze sia peggiore di quanto riferito». E se i conti italiani sono truccati, osserva il Wsj, gli acquisti di bond da parte della Banca Centrale Europea non risolveranno certo il problema.
EURO
L'Italia come la Grecia. Ma non solo perché potrebbe essere il prossimo Paese sull'orlo del naufragio. L'Italia - accusa apertamente un editoriale del Wall Street Journal - potrebbe aver truccato i conti per entrare nell'euro. «Ci sono tutte le ragioni per ritenere - scrive Alen Mattich - che il governo italiano sia stato aggressivo almeno quanto gli altri Paesi europei nel mascherare lo stato delle proprie finanze in modo da ottenere l'ingresso nell'area della moneta unica».
ROMANO PRODI
E quindi, prosegue inesorabile, «se il debito pubblico di fondo dell'Italia fosse più alto e/o se lo stato del suo deficit fosse peggiore rispetto alle cifre ufficiali, allora la questione diventerebbe di solvibilità piuttosto che di liquidità. Si ricordi lo shock avvertito dagli investitori quando la Grecia ammise di aver falsato i propri numeri».
Il Wsj riconosce i punti di forza dell'Italia, a cominciare dal deficit di bilancio strutturale e dall'avanzo primario atteso (4 punti in termini di Pil, al netto delle spese per interessi), oltre al consistente risparmio privato, che in larga parte finanzia il debito pubblico.
CARLO AZEGLIO CIAMPI - COPYRIGHT PIZZI
Inoltre, il sistema finanziario italiano «sembra più sicuro rispetto a quello di altri Paesi». A minacciare il Paese sono però intanto la bassa crescita: «E' probabile che l'Italia continuerà a flirtare con la recessione, rendendo più difficile per il governo il raggiungimento dei target strutturali».
SILVIO BERLUSCONI
Ma la difficoltà maggiore è costituita dalla mancanza di credibilità, che non dipende solo dalle pessime battute di Berlusconi («dell'infamous burlesque humor» del premier si parla in apertura dell'articolo), ma è giustificata dallo stato delle finanze italiane: «Il mercato sta probabilmente sottostimando il livello di difficoltà con il quale l'economia italiana dovrà confrontarsi e il fatto che l'attuale stato delle sue finanze sia peggiore di quanto riferito». E se i conti italiani sono truccati, osserva il Wsj, gli acquisti di bond da parte della Banca Centrale Europea non risolveranno certo il problema.
WATERBOARDING ALL’ITALIANA - IN UN LIBRO-INCHIESTA LE BOMBASTICHE RIVELAZIONI DI UN EX POLIZIOTTO SULLA GUERRA SEGRETA ALLE BR - A DAR LORO IL COLPO DI GRAZIA FU UNA SQUADRA SPECIALE DI PROFESSIONISTI SPECIALIZZATI NELL’ESTORCERE INDICAZIONI E CONFESSIONI CON LA TORTURA. LI CHIAMAVANO I “4 DELL'AVE MARIA” - FURONO LORO A CATTURARE ANTONIO SAVASTA, A TROVARE IL NASCONDIGLIO DI DOZIER E A SMANTELLARE LA COLONNA NAPOLETANA...
Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera"
ANTONIO SAVASTA
Nell'Italia di trent'anni fa, al culmine del terrorismo e nello stesso tempo all'inizio della sua fine, una squadra di torturatori si muoveva tra le carceri. Non gli agenti del Nocs finiti sotto processo per il caso Di Lenardo; una squadra di professionisti specializzati nell'estorcere indicazioni e confessioni. Furono loro a catturare Antonio Savasta. A trovare il nascondiglio di Dozier. A smantellare la colonna napoletana. E ad assestare alle Br quel "colpo al cuore" che nel giro di pochi mesi ne decretò la fine.
Si intitola appunto «Colpo al cuore: dai pentiti ai "metodi speciali", come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata» il saggio-inchiesta di Nicola Rao, che domani Sperling&Kupfer manda in libreria. Un focus sugli ultimi 500 giorni delle Brigate Rosse: dal maggio 1981 all'ottobre 1982.
WATERBOARDING
Per la prima volta parla Savasta. Parla il commissario Genova, che lo catturò. E parla il misterioso funzionario dell'Ucigos (l'Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali della polizia di Stato operativo durante gli anni di piombo, ndr) - indicato dai colleghi con il significativo eteronimo di «professor De Tormentis» - che contribuì in maniera determinante a distruggere le Br, praticando una sorta di waterboarding, la tortura del soffocamento con l'acqua.
Una storia che il gergo dell'epoca ha battezzato con nomi da B-movie - la squadra veniva indicata come «i quattro dell'Ave Maria» -, ma che ci riporta in un'epoca drammatica del nostro recente passato, che l'autore indaga con il metodo del suo long-seller dedicato invece all'estrema destra, «La fiamma e la celtica».
ALDO MORO
Costituita all'indomani della morte di Moro, la squadra in seno all'Ucigos era composta da ex sottufficiali della Mobile di Napoli, che avevano conosciuto il «professor De Tormentis» quando era alla testa di quell'ufficio tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta. Il gruppo d'azione, messo per qualche anno in sonno, viene richiamato in attività quando si fa più violento l'attacco delle Br, con il rapimento del generale Dozier e le pressioni di Washington sull'Italia.
Grazie ai «metodi speciali» di quella squadra, nel giro di poche settimane vengono smantellate le due anime delle Br: arrestato Senzani, capo del «Partito guerriglia»; individuato e liberato Dozier, prigioniero del «Partito comunista combattente». Savasta decide di parlare e di distruggere, con le sue rivelazioni, il Pcc, facendo arrestare decine di «rivali».
I «metodi speciali» del professore vengono poi introdotti anche a Napoli, nella primavera-estate dell'82, per catturare i superstiti dell'ultima colonna Br ancora in attività. Sempre con questi «trattamenti» la polizia arriva al covo romano dove si trova il terrorista dei Nar Giorgio Vale, che muore nella sparatoria con gli agenti.
GIOVANNI SENZANI
Il commissario Genova (insieme con altri funzionari) spiega di aver assistito di persona, durante le indagini sul sequestro Dozier, a due «trattamenti» a Verona - il secondo consente di strappare l'indicazione del covo dov'è rinchiuso il generale americano - e a un altro «trattamento» a Napoli. Il «professor De Tormentis» conferma. E racconta di essersi occupato anche di Enrico Triaca, il tipografo delle Br arrestato subito dopo la morte di Moro, e di due brigatisti che gli indicarono dove era nascosto Senzani.
Poi c'è la testimonianza di Savasta. Pagine a volte terribili. Il pentito racconta come uccise il colonnello Varisco. E come partecipò ad altre azioni: il rapimento e l'assassinio dell'ingegner Taliercio; le trasferte sarde per liberare il nucleo storico delle Br detenuto all'Asinara e a Bad'e Carros, con la complicità di banditi-pastori, le traversate notturne nella Barbagia, le sparatorie con i carabinieri e con la polizia.
MORUCCI VALERIO
Con rivelazioni inedite sul rapimento Dozier, a cominciare dalla reazione del generale al momento della cattura, quando a pugni e testate stava mettendo fuori combattimento entrambi i brigatisti entrati in casa, e si fermò solo quanto vide Savasta puntare la pistola alla testa della moglie.
Neppure il blitz dei Nocs andò nella realtà come fu raccontato: i brigatisti si accorgono dell'arrivo degli agenti; uno di loro, come prevede il protocollo Br, punta la pistola alla tempia dell'ostaggio; poi ha un attimo di esitazione, non ha il coraggio di andare sino in fondo, e gli uomini dei reparti speciali riescono a liberare il generale; ma l'operazione passata alla storia come un esempio di azione fulminea stava per trasformarsi in disfatta.
Savasta racconta anche delle origini del terrorismo. E indica in un gruppo «proto brigatista» di ex di Potere Operaio i responsabili dell'uccisione del giovanissimo missino Mario Zicchieri al Prenestino. In precedenza Savasta aveva già accusato Morucci, Maccari e Seghetti, che erano stati prosciolti. Ma ora fornisce nuovi particolari.
Ad esempio racconta che, la sera dell'omicidio Zicchieri, Seghetti ordinò a lui e a un altro compagno di stare a casa e sintonizzarsi sulle frequenze radio della polizia, per verificare gli spostamenti e le comunicazioni delle forze dell'ordine. E aggiunge, senza farne il nome, che uno dei componenti del gruppo di fuoco era un compagno poi morto in un incidente stradale. Dalla discussione interna alla colonna romana sul pericolo rappresentato dai fascisti della sezione Acca Larenzia, del Tuscolano e di Cinecittà nasce l'assalto alla sezione missina finito in tragedia.
Savasta racconta delle armi distribuite dalle Br agli Autonomi durante i cortei del ‘77 romano. E dell'inchiesta che condusse su Aldo Moro, che inizialmente doveva essere ucciso all'interno dell'università, come poi sarebbe accaduto a Bachelet. Ed ancora: la vita quotidiana all'interno dell'organizzazione, le paure dei brigatisti, il terrore delle donne di essere torturate e violentate, le liti, i tradimenti, gli amori, le antipatie. E il suo rapporto conflittuale con il padre: un agente di polizia.
by dagospia
ANTONIO SAVASTA
Nell'Italia di trent'anni fa, al culmine del terrorismo e nello stesso tempo all'inizio della sua fine, una squadra di torturatori si muoveva tra le carceri. Non gli agenti del Nocs finiti sotto processo per il caso Di Lenardo; una squadra di professionisti specializzati nell'estorcere indicazioni e confessioni. Furono loro a catturare Antonio Savasta. A trovare il nascondiglio di Dozier. A smantellare la colonna napoletana. E ad assestare alle Br quel "colpo al cuore" che nel giro di pochi mesi ne decretò la fine.
Si intitola appunto «Colpo al cuore: dai pentiti ai "metodi speciali", come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata» il saggio-inchiesta di Nicola Rao, che domani Sperling&Kupfer manda in libreria. Un focus sugli ultimi 500 giorni delle Brigate Rosse: dal maggio 1981 all'ottobre 1982.
WATERBOARDING
Per la prima volta parla Savasta. Parla il commissario Genova, che lo catturò. E parla il misterioso funzionario dell'Ucigos (l'Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali della polizia di Stato operativo durante gli anni di piombo, ndr) - indicato dai colleghi con il significativo eteronimo di «professor De Tormentis» - che contribuì in maniera determinante a distruggere le Br, praticando una sorta di waterboarding, la tortura del soffocamento con l'acqua.
Una storia che il gergo dell'epoca ha battezzato con nomi da B-movie - la squadra veniva indicata come «i quattro dell'Ave Maria» -, ma che ci riporta in un'epoca drammatica del nostro recente passato, che l'autore indaga con il metodo del suo long-seller dedicato invece all'estrema destra, «La fiamma e la celtica».
ALDO MORO
Costituita all'indomani della morte di Moro, la squadra in seno all'Ucigos era composta da ex sottufficiali della Mobile di Napoli, che avevano conosciuto il «professor De Tormentis» quando era alla testa di quell'ufficio tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio dei Settanta. Il gruppo d'azione, messo per qualche anno in sonno, viene richiamato in attività quando si fa più violento l'attacco delle Br, con il rapimento del generale Dozier e le pressioni di Washington sull'Italia.
Grazie ai «metodi speciali» di quella squadra, nel giro di poche settimane vengono smantellate le due anime delle Br: arrestato Senzani, capo del «Partito guerriglia»; individuato e liberato Dozier, prigioniero del «Partito comunista combattente». Savasta decide di parlare e di distruggere, con le sue rivelazioni, il Pcc, facendo arrestare decine di «rivali».
I «metodi speciali» del professore vengono poi introdotti anche a Napoli, nella primavera-estate dell'82, per catturare i superstiti dell'ultima colonna Br ancora in attività. Sempre con questi «trattamenti» la polizia arriva al covo romano dove si trova il terrorista dei Nar Giorgio Vale, che muore nella sparatoria con gli agenti.
GIOVANNI SENZANI
Il commissario Genova (insieme con altri funzionari) spiega di aver assistito di persona, durante le indagini sul sequestro Dozier, a due «trattamenti» a Verona - il secondo consente di strappare l'indicazione del covo dov'è rinchiuso il generale americano - e a un altro «trattamento» a Napoli. Il «professor De Tormentis» conferma. E racconta di essersi occupato anche di Enrico Triaca, il tipografo delle Br arrestato subito dopo la morte di Moro, e di due brigatisti che gli indicarono dove era nascosto Senzani.
Poi c'è la testimonianza di Savasta. Pagine a volte terribili. Il pentito racconta come uccise il colonnello Varisco. E come partecipò ad altre azioni: il rapimento e l'assassinio dell'ingegner Taliercio; le trasferte sarde per liberare il nucleo storico delle Br detenuto all'Asinara e a Bad'e Carros, con la complicità di banditi-pastori, le traversate notturne nella Barbagia, le sparatorie con i carabinieri e con la polizia.
MORUCCI VALERIO
Con rivelazioni inedite sul rapimento Dozier, a cominciare dalla reazione del generale al momento della cattura, quando a pugni e testate stava mettendo fuori combattimento entrambi i brigatisti entrati in casa, e si fermò solo quanto vide Savasta puntare la pistola alla testa della moglie.
Neppure il blitz dei Nocs andò nella realtà come fu raccontato: i brigatisti si accorgono dell'arrivo degli agenti; uno di loro, come prevede il protocollo Br, punta la pistola alla tempia dell'ostaggio; poi ha un attimo di esitazione, non ha il coraggio di andare sino in fondo, e gli uomini dei reparti speciali riescono a liberare il generale; ma l'operazione passata alla storia come un esempio di azione fulminea stava per trasformarsi in disfatta.
Savasta racconta anche delle origini del terrorismo. E indica in un gruppo «proto brigatista» di ex di Potere Operaio i responsabili dell'uccisione del giovanissimo missino Mario Zicchieri al Prenestino. In precedenza Savasta aveva già accusato Morucci, Maccari e Seghetti, che erano stati prosciolti. Ma ora fornisce nuovi particolari.
Ad esempio racconta che, la sera dell'omicidio Zicchieri, Seghetti ordinò a lui e a un altro compagno di stare a casa e sintonizzarsi sulle frequenze radio della polizia, per verificare gli spostamenti e le comunicazioni delle forze dell'ordine. E aggiunge, senza farne il nome, che uno dei componenti del gruppo di fuoco era un compagno poi morto in un incidente stradale. Dalla discussione interna alla colonna romana sul pericolo rappresentato dai fascisti della sezione Acca Larenzia, del Tuscolano e di Cinecittà nasce l'assalto alla sezione missina finito in tragedia.
Savasta racconta delle armi distribuite dalle Br agli Autonomi durante i cortei del ‘77 romano. E dell'inchiesta che condusse su Aldo Moro, che inizialmente doveva essere ucciso all'interno dell'università, come poi sarebbe accaduto a Bachelet. Ed ancora: la vita quotidiana all'interno dell'organizzazione, le paure dei brigatisti, il terrore delle donne di essere torturate e violentate, le liti, i tradimenti, gli amori, le antipatie. E il suo rapporto conflittuale con il padre: un agente di polizia.
by dagospia
PERCHÉ LA GRECIA NON DEVE FALLIRE (TANTOMENO L’ITALIA) - SALVARE IL GRUPPO FRANCO-BELGA ‘DEXIA’ SIGNIFICA EVITARE UNA SERIE DI FALLIMENTI A CATENA DI ALTRI ISTITUTI DI CREDITO - LE BANCHE FRANCESI, TEDESCHE E INGLESI SONO ESPOSTE VERSO GLI STATI ‘PIIGS’ PER 750 MLD € E IL RISCHIO DEFAULT SIGNIFICHEREBBE IL BLACKOUT DEL SISTEMA - I TITOLI DI ATENE NON POSSONO DIVENTARE CARTA STRACCIA (ALTRIMENTI BYE BYE EURO) E I CONTRIBUENTI DEVONO SCUCIRE ALTRA MONETA PER SALVARE LA BARACCA…
Luca Fornovo e Gianluca Paolucci per "la Stampa"
ILLUSTRAZIONE - LA BANK NON STA IN PIEDI
Un foglio in formato Excel zeppo di numeri e sigle spiega meglio di tante analisi perché la Grecia non deve fallire e perché Dexia verrà salvata grazie all'intervento pubblico per la seconda volta in tre anni. Ma mostra anche che i salvataggi di tre anni fa non hanno di certo risolto i problemi, dato che i protagonisti sono gli stessi per la crisi del debito in corso come per quella innescata nel 2007 dai mutui subprime.
PAPANDREOU
Si tratta di un documento ad uso interno redatto da una importante banca d'affari internazionale, in possesso de La Stampa, nel quale viene ricostruita puntualmente l'esposizione delle principali banche di ciascun Paese verso Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. I titoli di Stato e anche i prestiti, gli impieghi, i contratti di finanza derivata come i famigerati Cds, le «assicurazioni» contro il fallimento di un emittente. Il totale, per i soli titoli di Stato, fa 750 miliardi di euro. Dal documento, emerge chiaramente che il sistema non può permettersi né un fallimento di Dexia né un fallimento «formale» della Grecia, fallimento che da un punto di vista sostanziale è già avvenuto nel momento in cui i suoi bond pagano rendimenti stellari, nell'ordine del 70% per cento.
DEXIA
Andiamo con ordine. Dexia, importante banca «sistemica» a cavallo tra Francia, Belgio e Lussemburgo, dovrà essere salvata dalla mano pubblica per la seconda volta dal 2008. Sospesa in Borsa fino a lunedì, tra oggi e domani se ne conoscerà il destino e quanto costerà ancora ai contribuenti francesi e belgi. Il timore legato al «caso Dexia» è molto semplice e si chiama «effetto valanga». Se «salta» la banca francobelga, potrebbe innescare una serie di fallimenti bancari a catena. Il problema delle banca è legato strettamente alla crisi dei debiti sovrani europei, verso i quali è fortemente esposta.
IL PREMIER SILVIO BERLUSCONI E MINISTRO GIULIO TREMONTI
Il problema non è però solo di Dexia. Dalle elaborazioni, emerge ad esempio un'esposizione verso i bond greci di 16,4 miliardi di euro da parte della Landesbank Berlin, che fa della relativamente piccola banca berlinese - promossa peraltro a pieni voti dagli stress test europei dell'Eba dello scorso luglio, con un Core Tier1 post test oltre il 10% - di gran lunga l'istituto più esposto al rischio-Atene tra tutte le banche europee. Sempre in Germania, ad avere qualche grattacapo è anche Commerzbank, altra banca già «salvata» dai contribuenti, in questo caso tedeschi.
Oltre 3 miliardi di esposizione verso i titoli di Stato greci e oltre 17 miliardi di esposizione complessiva verso i «Piigs». Esposizione zero verso la Grecia ma oltre 11 miliardi complessivi verso i Piigs per Hypo Re, ancora una banca già salvata dai contribuenti. Le stesse fonti riferiscono che i dati tengono conto anche delle posizioni di trading, che potrebbero essere state liquidate negli ultimi tre mesi.
E infatti le banche tedesche hanno ridotto in maniera sostanziale la loro esposizione complessiva al rischio-Grecia nei tre mesi chiusi al 30 settembre, scendendo a dieci miliardi di euro. Ma il dato della Landesbank Berlin, relativo al 30 giugno scorso, spiega da solo tutti i dubbi del mercato sull'affidabilità dei test condotti con grande enfasi nello stesso periodo. Neppure le banche francesi possono permettersi un fallimento della Grecia, né tantomeno dell'Italia. Al 30 giugno, ad esempio, Bnp Paribas aveva 5 miliardi di bond di Atene in portafoglio e altri 3,5 miliardi di impieghi verso istituzioni, cittadini o aziende greche.
BNP PARIBAS LOGO
Credit Agricole, con appena 655 milioni di Sirtakibond, paga però il fatto di aver comprato nel 2006 la Emporiki Bank e ha impieghi per oltre 25 miliardi. Va detto che Bnp, che controlla Bnl, almeno fino al 30 giugno non credeva possibile manco lontanamente un fallimento dell'Italia, dato che risulta «venditore netto» di Cds legati al rischio-Italia per 462 milioni di euro. Mentre «comprava» (cioè si proteggeva dal rischio) 108 milioni di Cds sulla Grecia.
Tra le britanniche, c'è il caso di Royal Bank of Scotland. Ha ricevuto una montagna di fondi pubblici, è controllata dal Tesoro britannico, ma rischia di nuovo di dover essere salvata dai contribuenti. Il ministro del Tesoro, George Osborne, si è precipitato ad affermare che le banche del Regno Unito sono in una «situazione diversa» rispetto a quelle dell'area euro. Dipende dai punti di vista: ha in pancia 1,1 miliardi di bond greci.
GEORGE OSBORNE
E impieghi complessivi per 92 miliardi verso i Piigs. Forte di una rete commerciale solida in Italia e Spagna, Barclays ha invece impegni per 77 miliardi nei Piigs. Oltre a 10 miliardi di bond sovrani di questi Paesi. Hsbc, che soldi dei contribuenti non ne ha mai ricevuti, è ancora la più grande banca del mondo e ha in portafoglio bond sovrani dei Piigs per «appena» 5,8 miliardi, compresi i nostri Btp. Soldi pubblici ne prese anche l'olandese Ing. Dieci miliardi nell'ottobre del 2008.
Racconta un banchiere dell'atteggiamento di sufficienza dei suoi manager, nel corso dell'assemblea del fondo monetario a Washington del mese scorso, nei confronti dei colleghi italiani e spagnoli e del ruolo dei rispettivi Paesi nell'eurozona. Nel suo portafoglio ci sono 8,9 miliardi di titoli dei «periferici». E in Italia, a fronte di impieghi scarsi, grazie al Conto Arancio fa invece molta raccolta.
PASSERA
Tornando a Dexia, se passerà il piano di scorporare gli asset «tossici» in una bad bank, sarà interessante vedere se finirà in quel pacchetto anche l'esposizione all'Italia. Si tratterebbe di 15 miliardi di titoli di Stato su 21,8 miliardi totali verso i Piigs. Più 777 milioni di altra esposizione sempre al livello «sovrano» (garantita cioè dallo Stato italiano) e 27,8 miliardi di impieghi.
L'attività di Dexia in Italia, ha spiegato il suo ad Stefano Catalano, «è un'attività legata al finanziamento degli enti locali italiani. Gli enti locali italiani hanno dei sistemi di garanzia che sono le delegazioni di pagamento: la banca tesoriera dell'ente locale trattiene presso di sé le finanze per far fronte ai debiti che l'ente locale ha contratto, è un sistema molto solido e l'attivo è composto da questo». Quanto avrà ragione, lo vedremo in questo fine settimana.
HSBC
Segnali d'allarme Italiane e spagnole, grandi e piccole, scontano la forte esposizione «domestica» a fronte di posizioni molto basse o nulle di esposizione verso i grandi malati dell'Eurozona, Grecia in primis ma anche Irlanda e Portogallo. E magari colgono per tempo i segnali giusti. Al 30 giugno Intesa Sanpaolo risultava «compratore netto» di Cds legati al rischio sovrano sull'Italia per 55 milioni. Si «proteggeva» contro un aumento della tensione sui Btp. Scelta, col senno di poi, azzeccata.
by dagospia
ILLUSTRAZIONE - LA BANK NON STA IN PIEDI
Un foglio in formato Excel zeppo di numeri e sigle spiega meglio di tante analisi perché la Grecia non deve fallire e perché Dexia verrà salvata grazie all'intervento pubblico per la seconda volta in tre anni. Ma mostra anche che i salvataggi di tre anni fa non hanno di certo risolto i problemi, dato che i protagonisti sono gli stessi per la crisi del debito in corso come per quella innescata nel 2007 dai mutui subprime.
PAPANDREOU
Si tratta di un documento ad uso interno redatto da una importante banca d'affari internazionale, in possesso de La Stampa, nel quale viene ricostruita puntualmente l'esposizione delle principali banche di ciascun Paese verso Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. I titoli di Stato e anche i prestiti, gli impieghi, i contratti di finanza derivata come i famigerati Cds, le «assicurazioni» contro il fallimento di un emittente. Il totale, per i soli titoli di Stato, fa 750 miliardi di euro. Dal documento, emerge chiaramente che il sistema non può permettersi né un fallimento di Dexia né un fallimento «formale» della Grecia, fallimento che da un punto di vista sostanziale è già avvenuto nel momento in cui i suoi bond pagano rendimenti stellari, nell'ordine del 70% per cento.
DEXIA
Andiamo con ordine. Dexia, importante banca «sistemica» a cavallo tra Francia, Belgio e Lussemburgo, dovrà essere salvata dalla mano pubblica per la seconda volta dal 2008. Sospesa in Borsa fino a lunedì, tra oggi e domani se ne conoscerà il destino e quanto costerà ancora ai contribuenti francesi e belgi. Il timore legato al «caso Dexia» è molto semplice e si chiama «effetto valanga». Se «salta» la banca francobelga, potrebbe innescare una serie di fallimenti bancari a catena. Il problema delle banca è legato strettamente alla crisi dei debiti sovrani europei, verso i quali è fortemente esposta.
IL PREMIER SILVIO BERLUSCONI E MINISTRO GIULIO TREMONTI
Il problema non è però solo di Dexia. Dalle elaborazioni, emerge ad esempio un'esposizione verso i bond greci di 16,4 miliardi di euro da parte della Landesbank Berlin, che fa della relativamente piccola banca berlinese - promossa peraltro a pieni voti dagli stress test europei dell'Eba dello scorso luglio, con un Core Tier1 post test oltre il 10% - di gran lunga l'istituto più esposto al rischio-Atene tra tutte le banche europee. Sempre in Germania, ad avere qualche grattacapo è anche Commerzbank, altra banca già «salvata» dai contribuenti, in questo caso tedeschi.
Oltre 3 miliardi di esposizione verso i titoli di Stato greci e oltre 17 miliardi di esposizione complessiva verso i «Piigs». Esposizione zero verso la Grecia ma oltre 11 miliardi complessivi verso i Piigs per Hypo Re, ancora una banca già salvata dai contribuenti. Le stesse fonti riferiscono che i dati tengono conto anche delle posizioni di trading, che potrebbero essere state liquidate negli ultimi tre mesi.
E infatti le banche tedesche hanno ridotto in maniera sostanziale la loro esposizione complessiva al rischio-Grecia nei tre mesi chiusi al 30 settembre, scendendo a dieci miliardi di euro. Ma il dato della Landesbank Berlin, relativo al 30 giugno scorso, spiega da solo tutti i dubbi del mercato sull'affidabilità dei test condotti con grande enfasi nello stesso periodo. Neppure le banche francesi possono permettersi un fallimento della Grecia, né tantomeno dell'Italia. Al 30 giugno, ad esempio, Bnp Paribas aveva 5 miliardi di bond di Atene in portafoglio e altri 3,5 miliardi di impieghi verso istituzioni, cittadini o aziende greche.
BNP PARIBAS LOGO
Credit Agricole, con appena 655 milioni di Sirtakibond, paga però il fatto di aver comprato nel 2006 la Emporiki Bank e ha impieghi per oltre 25 miliardi. Va detto che Bnp, che controlla Bnl, almeno fino al 30 giugno non credeva possibile manco lontanamente un fallimento dell'Italia, dato che risulta «venditore netto» di Cds legati al rischio-Italia per 462 milioni di euro. Mentre «comprava» (cioè si proteggeva dal rischio) 108 milioni di Cds sulla Grecia.
Tra le britanniche, c'è il caso di Royal Bank of Scotland. Ha ricevuto una montagna di fondi pubblici, è controllata dal Tesoro britannico, ma rischia di nuovo di dover essere salvata dai contribuenti. Il ministro del Tesoro, George Osborne, si è precipitato ad affermare che le banche del Regno Unito sono in una «situazione diversa» rispetto a quelle dell'area euro. Dipende dai punti di vista: ha in pancia 1,1 miliardi di bond greci.
GEORGE OSBORNE
E impieghi complessivi per 92 miliardi verso i Piigs. Forte di una rete commerciale solida in Italia e Spagna, Barclays ha invece impegni per 77 miliardi nei Piigs. Oltre a 10 miliardi di bond sovrani di questi Paesi. Hsbc, che soldi dei contribuenti non ne ha mai ricevuti, è ancora la più grande banca del mondo e ha in portafoglio bond sovrani dei Piigs per «appena» 5,8 miliardi, compresi i nostri Btp. Soldi pubblici ne prese anche l'olandese Ing. Dieci miliardi nell'ottobre del 2008.
Racconta un banchiere dell'atteggiamento di sufficienza dei suoi manager, nel corso dell'assemblea del fondo monetario a Washington del mese scorso, nei confronti dei colleghi italiani e spagnoli e del ruolo dei rispettivi Paesi nell'eurozona. Nel suo portafoglio ci sono 8,9 miliardi di titoli dei «periferici». E in Italia, a fronte di impieghi scarsi, grazie al Conto Arancio fa invece molta raccolta.
PASSERA
Tornando a Dexia, se passerà il piano di scorporare gli asset «tossici» in una bad bank, sarà interessante vedere se finirà in quel pacchetto anche l'esposizione all'Italia. Si tratterebbe di 15 miliardi di titoli di Stato su 21,8 miliardi totali verso i Piigs. Più 777 milioni di altra esposizione sempre al livello «sovrano» (garantita cioè dallo Stato italiano) e 27,8 miliardi di impieghi.
L'attività di Dexia in Italia, ha spiegato il suo ad Stefano Catalano, «è un'attività legata al finanziamento degli enti locali italiani. Gli enti locali italiani hanno dei sistemi di garanzia che sono le delegazioni di pagamento: la banca tesoriera dell'ente locale trattiene presso di sé le finanze per far fronte ai debiti che l'ente locale ha contratto, è un sistema molto solido e l'attivo è composto da questo». Quanto avrà ragione, lo vedremo in questo fine settimana.
HSBC
Segnali d'allarme Italiane e spagnole, grandi e piccole, scontano la forte esposizione «domestica» a fronte di posizioni molto basse o nulle di esposizione verso i grandi malati dell'Eurozona, Grecia in primis ma anche Irlanda e Portogallo. E magari colgono per tempo i segnali giusti. Al 30 giugno Intesa Sanpaolo risultava «compratore netto» di Cds legati al rischio sovrano sull'Italia per 55 milioni. Si «proteggeva» contro un aumento della tensione sui Btp. Scelta, col senno di poi, azzeccata.
by dagospia
lunedì 3 ottobre 2011
INDIGNADOS A WALL STREET
Ennio Caretto per il "Corriere della Sera"
INDIGNADOS SUL PONTE DI BROOKLYN
«Spero, ma non sono certo, che sia la nascita di un movimento egualitario simile al movimento pacifista nella guerra del Vietnam, che i giovani, a cui si prospetta un misero futuro, si ribellino contro la finanza selvaggia che ha spaccato l'America, un'esigua minoranza sempre più ricca e un'enorme maggioranza sempre più povera.
INDIGNADOS A NEW YORK
Oggi il vero potere è nelle mani di Wall Street perché essa sovvenziona la politica e condiziona così non solo il Congresso ma anche il governo, sottraendosi al loro controllo. E' un sistema che va cambiato, ma per farlo bisogna che lo sdegno popolare esploda e che i media gli diano rilievo, cose che sinora non si sono verificate, a differenza che in Gran Bretagna, in Spagna, nei Paesi della primavera araba».
INDIGNADOS A NEW YORK
Gli arresti a New York e a Boston hanno sorpreso Gay Talese, 79 anni, l'autore di «Onora il padre», «Il potere e la gloria» e di numerosi libri sulla mafia: «Potrebbero costituire una svolta, sono stati i primi scontri tra i dimostranti e la polizia, segno che la protesta cresce, e a ragione, perché le condizioni di troppe famiglie sono insostenibili».
Ma lo scrittore dubita che la protesta si diffonda in fretta nel Paese: «Al momento è disorganizzata, non fa ancora presa sui ceti medio-bassi. Soprattutto, è quasi ignorata da radio, tv e giornali. Avrà qualche successo se ci sarà un'altra recessione, come negli anni 30».
Non è troppo scettico?
«Sono realista. Il movimento pacifista prevalse nella guerra del Vietnam perché il servizio militare era obbligatorio, e l'America vi aderì per proteggere la vita dei suoi figli. In maggioranza, i media l'appoggiarono senza remore. Ma oggi l'America è divisa perché una parte è al servizio di Wall Street mentre un'altra ne è vittima. E tra i clienti della finanza vi è la maggioranza dei media, per via della pubblicità, della proprietà, delle alleanze».
INDIGNADOS A NEW YORK
Non si salva nessuno?
«Ho passato mezzo secolo a New York, la metà nei giornali. Un tempo non era così, ma adesso i media sono veloci nell'evidenziare le ribellioni all'estero, ma lenti a illustrare quelle in casa. Eppure, i giovani di "Occupare Wall Street" meritano attenzione. La finanza che ha causato il disastro del 2007-2008 è più forte di prima, e i colpevoli non sono stati puniti, con l'eccezione di pochi personaggi secondari».
Wall Street è responsabile delle attuali tensioni sociali?
«Certamente. Se la finanza, salvata a carico dei contribuenti, fosse stata penalizzata e regolamentata, avrebbe cambiato condotta. Hanno molte responsabilità anche i governi, che non l'hanno riformata e che non hanno saputo creare nuovi posti di lavoro. I danneggiati sono soprattutto i giovani, una generazione che temo perduta. Io crebbi durante la Grande Depressione, a mio parere rischiamo di fare il bis».
BARACK OBAMA
Il silenzio dei media non rispecchia l'indifferenza del popolo americano?
«In qualche misura sì. La protesta in Europa è stata ed è più rapida e forte, anche perché i vostri sindacati sono più combattivi e i vostri partiti più numerosi e meno passivi. Per muoverci noi americani abbiamo bisogno di un nemico simbolico, uno alla Gheddafi, e a Wall Street non lo abbiamo individuato. Ma nemmeno Martin Luther King sarebbe riuscito a lanciare il Movimento dei diritti civili se i media l'avessero ignorato».
Perché è così duro con il mondo della finanza?
«Ci sono molti finanzieri e banchieri onesti. Ma ce ne sono anche molti per cui conta solo il profitto a tutti i costi. Una specie di mafia che si arricchisce a danno di chi lavora. Mi hanno colpito le immagini dei big di Wall Street che festeggiano mentre i dimostranti sfilano in strada, le due facce della nostra realtà economica».
GAY TALESE
New York non è stata spesso così?
«New York è una città cinica, che vive della ricchezza di Wall Street. I nostri ristoranti, cinema, teatri, negozi traboccano di gente, è come se la crisi non ci fosse. Qui vengono i ricchi di tutto il mondo a spendere. Non sarebbe nel suo interesse imbrigliare la finanza. Ma New York è anche una città liberal, e potrebbe ribellarsi».
INDIGNADOS A WALL STREET
La protesta è pro o contro Obama?
«Sarà pro Obama se spingerà il presidente a intervenire con maggiore decisione sulla finanza. Al momento è contro, i dimostranti lo accusano di essere troppo debole. Purtroppo anche nel suo governo ci sono ex leader di Wall Street. E' il guaio della nostra democrazia. Noi diciamo che tra Wall Street e Washington c'è una porta girevole».
Iscriviti a:
Post (Atom)
USTICA, GHEDDAFI DEVE MORIRE (COSÌ IMPARA A ESPROPRIARE IL PETROLIO TOTAL) - IL RACCONTO DEL SUPERTESTIMONE A PURGATORI, NEL 2013: DUE MIRAGE FRANCESI VIOLANO LO SPAZIO AEREO ITALIANO, SONO ALL’INSEGUIMENTO DEL MIG LIBICO (MA GHEDDAFI NON C’ERA, ERA STATO AVVISATO DAI NOSTRI SERVIZI). UN CACCIA ITALIANO SI ALZA IN VOLO E LI INTERCETTA. QUANDO PARTE IL MISSILE FRANCESE IL MIG SI NASCONDE SOTTO LA PANCIA DEL DC9 ITAVIA, ED È STRAGE – SUL DUELLO AEREO TRA DUE PAESI DELLA NATO, SCENDE IL SILENZIO - I DUE PILOTI DEL CACCIA SONO MORTI NELL’INCIDENTE DELLE FRECCE TRICOLORI A RAMSTEIN NEL 1986…
STRAGE USTICA, IL SUPERTESTIMONE NELLA SALA OPERATIVA: "ECCO COSA SUCCESSE CON IL MIG LIBICO, I DUE MIRAGE E IL TOMCAT" Andrea Pur...
-
Vittorio Malagutti per Corriere della Sera (13 aprile 1999) giorgio magnoni L' indirizzo e' esotico quanto basta per un villaggio...
-
Estratto del libro di Gigi Moncalvo su "Libero" GIANNI AGNELLI GIOVANE Pubblichiamo alcuni estratti dal volume, appena arrivato ...
-
Con operazione Blue Moon [1] si intende un'operazione sotto copertura messa in atto dai servizi segreti dei paesi del blocco occiden...