Federico Fubini per “la Repubblica”
Mirja
Cartia era appena rientrata dalla maternità e si accorse che molti dei
suoi colleghi presentavano richieste per una sola autorizzazione:
volevano comprare azioni della loro stessa società. La signora Cartia
era avvocato di Lehman Brothers a Milano. Era l’inizio di settembre del
2008 e il valore del titolo, in picchiata da mesi sulla Borsa di New
York, sembrava l’occasione del secolo. Che potesse fallire una banca
d’affari di Wall Street restava fuori dal radar mentale dei dipendenti.
Venerdì
11 settembre, al pomeriggio, si riunirono per brindare al salvataggio
che — si disse — era ormai imminente. Domenica 13 dopo pranzo furono
richiamati in ufficio per comunicazioni. Ciò che sarebbe seguito ha
cambiato la storia di una generazione: una bancarotta da 613 miliardi,
un collasso dell’economia mondiale più grave che nel ‘29, venti milioni
di disoccupati in Occidente, la crisi dell’euro, il Movimento 5 Stelle
al 25% nel 2013 in Italia, la Grecia di Alexis Tsipras.
Da
allora Mirja Cartia è rimasta a Lehman, e non solo con i suoi ricordi.
Lavora con i curatori fallimentari di Pwc, l’ultimo rapporto dei quali
contiene due informazioni che la interessano particolarmente. La prima è
che fra tra tre o quattro mesi verrà chiusa (almeno in Europa) la
liquidazione del più grande disastro finanziario della storia
contemporanea, e sarà come dismettere un lutto.
La
seconda invece non è fatta per lenire i disordini da stress
post-traumatico di chi visse quei giorni: Lehman Brothers non è fallita.
O, più esattamente, forse non era un caso disperato come si ritenne
quando il governo americano, la Federal Reserve, Jp Morgan Chase,
Barclays, Morgan Stanley, Goldman Sachs e molti altri decisero che era
tempo di staccarle la spina. Magari, amputata, la banca poteva vivere. O
poteva essere spinta verso una lenta uscita di scena durante la quale
alcune sue parti potevano rinascere sotto altre insegne.
I
numeri della liquidazione, ora che è quasi ultimata, suggeriscono che
Lehman non era insolvente. Lo assicurano per la parte europea, lo fanno
sospettare per la parte americana. La sola certezza è che oggi Lehman
sta rimborsando i suoi creditori con molto più denaro liquido di quanto
si ritenesse concepibile la notte del 15 settembre 2008 in cui fu
lasciata andare al suo destino.
lehman brothers 2008
Quei
dati sollevano domande difficili su ciò che significa per una, più
banche o aziende — forse anche per un Paese — apparire insolvente, cioè
finanziariamente morto, a un certo punto nel tempo. Sono domande fin
troppo attuali su cosa sia dettato dalla realtà, cosa dalla percezione
umana o dalle condizioni generali dell’economia globale in momenti
diversi della storia.
A
fine settembre 2008, al portafoglio di derivati di Lehman fu valutato a
12 centesimi sul dollaro: carta straccia, appena più di un decimo del
suo valore teorico. Il più recente rapporto del liquidatore europeo di
Lehman, Pwc, riferisce invece di aver «portato il dividendo a 100 pence
sulla sterlina». Significa che sulle molte decine di miliardi di euro o
dollari in attività e debiti legati a Lehman Brothers International
Europe, gli indennizzi ai creditori sono stati (in media) integrali.
In
più è stato versato loro ogni anno un tasso d’interesse dell’8%, e dopo
resterà ancora nei conti bancari del liquidatore un surplus di cassa
fra 4,96 e 7,39 miliardi di sterline (fino a 10 miliardi di euro), di
nuovo da spartire fra i creditori. È un caso che un addetto ai lavori
definisce «più unico che raro nelle procedure fallimentari». In totale
“Lehman Brothers International Europe in Administration”, il nome
dell’entità oggi in mano a Pwc, è già sicura di ripagare 43,3 miliardi
di sterline (59,6 miliardi di euro). Non esiste più, ma è tornata
immacolata.
Non è
mai un processo indolore. Dopo la guerra, gli abitanti di Dresda,
bombardata al fosforo, raccolsero le pietre della cattedrale distrutta,
le pulirono e numerarono una ad una, per poter ricostruire in futuro. I
curatori fallimentari hanno fatto con Lehman qualcosa di simile eppure
diverso: hanno raccolto i milioni di pezzi, nell’idea di pulirli,
numerarli, ma poi venderli per ripagare i creditori.
È
un avanzamento passo dopo passo dopo la catastrofe. Lehman Brothers
Holdings, la capogruppo americana oggi affidata allo studio newyorkese
Alvarez and Marsal, ha per esempio venduto una catena di hotel presente
da Assisi a Da Nang, nel Vietnam centrale; ha incassato 144 miliardi di
dollari di dividendi dalla Formula Uno, di cui è azionista; ha ricevuto
rimborsi per 176 milioni di dollari da un prestito a Endemol, la società
che produce format tivù come «Il grande fratello » o «Che tempo che
fa».
JAMES WOODS E' IL CEO DELLA LEHMAN BROTHERS IN _TOO BIG TO FAIL_
In
Italia, questo lavoro fra le macerie è toccato a Mirja Cartia.
All’inizio gli ex dipendenti la aspettavano sotto casa per sapere del
loro bonus o della liquidazione, ma poteva anche andarle peggio. È stata
questione di pochi giorni.
Subito
prima del fallimento, Lehman era pronta a passare all’azione entro
poche ore ed eseguire quello che in segreto aveva battezzato “Project
Palio”: comprare una quota estremamente rilevante del Monte dei Paschi
di Siena, con opzioni a salire ancora di più nel capitale in un secondo
tempo. Una banca che stava per fallire stava per comprare un’altra banca
che di lì a poco sarebbe stata sull’orlo del fallimento.
Dipanare
la matassa a quel punto sarebbe diventato impossibile, la perdita molto
più alta. Invece pian piano sono andate sul mercato a ottimi prezzi le
quote in mano a Lehman della Sator di Matteo Arpe, del fondo
semi-pubblico F2i o di partecipazioni immobiliari in Prelios, Aedes,
Beni Stabili e Cordea Savills. Con quei proventi, creditori come Intesa
Sanpaolo, Unicredit, Unipol o la stessa Mps sono stati rimborsati nel
del tutto, ma per quote sostanziali. Si stima che la parte italiana di
Lehman Europe oggi sia indennizzata all’85%.
Una
prima occhiata agli Stati Uniti mostra che lì tutto è più difficile. La
banca commissariata avrebbe attività nominalmente da circa 240
miliardi, ma ha tirato fuori denaro solo per 94 e stima ulteriori
proventi per altri 13. In più ha aperti contenziosi per altre decine di
miliardi di dollari, di cui uno per 15 miliardi su un pacchetto di
derivati con Jp Morgan Chase. Dietro la contabilità c’è però il trauma
di quello che un ex addetto Lehman di New York definisce «uno squalo che
sanguinava nell’acqua e gli altri predatori volevano divorare».
Poiché
il Tesoro Usa e la Fed le rifiutavano un finanziamento-ponte, nelle
settimane subito prima del fallimento la banca ha dovuto svendere titoli
in bilancio per una quantità imprecisata di miliardi. La sola certezza è
che, con l’America in ripresa, quelle posizioni un tempo di Lehman ora
valgono molto di più. Ci sono poi i derivati della banca, un colossale
libro da 39 mila miliardi di dollari di valore teorico: Alvarez and
Marsal stima che il caos della morte traumatica dell’istituto abbia
causato perdite da 50 miliardi, altri le ritengono da 80. Quel colosso
di Wall Street ha commesso errori, fu accecato dalla sua arroganza e
forse non meritava di vivere.
Altrettanto
certo è che la sua fine ha generato un’industria di avvocati e
consulenti che stanno ancora banchettando sulla carcassa: fino a un paio
di anni fa le parcelle dei liquidatori a New York erano di un miliardo
l’anno, mille dollari l’ora, mentre la parte europea costa ancora mezzo
miliardo di euro l’anno. L’industria delle pompe funebri non va mai in
recessione, e chi non lo capisce perde occasioni preziose. Giorni dopo
l’insolvenza del 2008, sotto shock, Mirja Cartia salì su un taxi a
Milano. «Ma non mi paghi con i buoni della Lecman — la avvertì il
conducente — Quelli non valgono più nulla».
2. MASSINI: FU UNA VITTIMA SACRIFICALE NELLA LOTTA DEL CAPITALISMO GLOBALE
Anna Bandettini per “la Repubblica”
Il
“caso Lehman” verrà ricordato anche come l’evento culturale dell’anno:
in scena in diverse edizioni in Francia, Germania, Portogallo, Spagna,
Belgio, Grecia, Austria, Svizzera, Ungheria, Canada... è stato
applaudito in Italia da 28mila spettatori in due mesi di repliche al
Piccolo (che lo riprenderà in maggio) e non solo perché è l’ultima regia
teatrale di Luca Ronconi e perché ha una compagnia di attori
straordinari — Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Massimo De
Francovich, Paolo Pierobon... — ma perché in cinque ore di spettacolo
Lehman Trilogy, la storia dei tre fratelli ebrei-tedeschi
americanizzati, dal primo commercio di cotone al fallimento finanziario
nel 2008, restituisce l’immagine della vulnerabilità del capitalismo che
regola i paesi del mondo ricco, lo specchio in cui riflettere paure e
preoccupazioni collettive.
«Quando
Ronconi lesse il testo mi disse che era colpito da quanto fosse
contemporanea la storia dei Lehman: fino a un certo punto radicata in
una passione etica poi sempre più fredda, cinica, caotica, scollegata da
principi morali e reali dice Stefano Massini, il trentacinquenne autore
di Lehman Trilogy (Einaudi), tradotto in più di otto lingue, ora
richiesto da diversi paesi europei per farne anche un film, due anni di
ricerche e studi economici per realizzarlo.
Massini,
il successo del suo testo indica che quel fallimento è ancora qualcosa
di simbolico per noi tutti? «Lo è sicuramente. L’etica del lavoro e del
denaro è un elemento identitario della nostra società. Conosciamo una
persona e subito chiediamo che lavoro fa: sapere cosa fai e cosa
guadagni è una forma di riconoscimento di quello che sei. Il crollo
della Lehman è dunque simbolicamente una paura in cui ci riflettiamo, la
prova che il sistema è fallibile e a quel punto, tutto può accadere.
Non a caso le borse di tutto il mondo sono fortemente condizionate
dall’emotività».
Sì, ma ora viene fuori che l’insolvenza della Lehman non c’era, che il fallimento si poteva evitare.
«Tra
le tante cose che ho letto per la preparazione del testo c’è questa:
due giorni prima di quel famoso 15 settembre 2008, giorno del
fallimento, la Lehman chiese ad altre banche di acquistare il suo
debito, istituti della Corea, del Giappone e di Singapore. Rifiutarono
tutti. Sono in molti a sostenere che il crollo di una grande banca
statunitense sia stato voluto dai veri padroni dell’economia mondiale di
oggi, gli orientali, per dimostrare il cambio di baricentro del
capitalismo globale. É una tesi, ma riconosciuta. Sarà un caso, ma il
giorno in cui abbiamo debuttato a Milano con Lehman trilogy poco
distante dal Piccolo si è aperta la prima filiale di una banca cinese.
La Lehman è stata la vittima sacrificale, anche per quello che
rappresentava ».
Cosa rappresentava?
Lehman Brothers
«La
Lehman ha sostenuto l’economia americana in ogni momento della sua
storia, nel bene e nel male. C’era nel cotone, nel petrolio, nel caffè. I
tre fratelli hanno finanziato le ferrovie, la corsa all’oro, le corse
alla presidenza di svariati candidati. Hanno finanziato Via col vento e
King Kong i due film più identitari per l’America, hanno sostenuto le
carriere di Marlon Brando e altri divi, i teatri di Broadway, la PanAm e
la bomba H. Ecco perché la sua caduta è stata fragorosa ».
Ci si chiede: ma non è che anche il fallimento di cui si parla tanto della Grecia si può evitare?
«Per
quel che so la vicenda Lehman era legata alla crisi dei mutui subprime,
sulla Grecia pesa un debito sovrano che è un’altra cosa. Ma forse è
simile l’elemento simbolico. Al di là della hybris che caratterizza la
storia della Lehman c’è qualcosa di omerico nella sua vicenda: la
necessità di un’epoca di immolare qualcuno per segnare un momento di
passaggio».
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/lehman-non-doveva-fallire-banca-che-ha-scatenato-crisi-2008-97816.htm
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