Washington, marzo 1976
Più che di una intervista si trattò di una rissa,
esasperata ed esasperante, angosciosa e cattiva, invano vestita coi toni
civili della discussione. Oltre il gioco delle domande e delle
risposte, il pretesto del giornalismo, la realtà rendeva entrambi
consapevoli dei nostri ruoli opposti e nemici. Lui rappresentava il
potere, la piovra invisibile e onnipresente che tutto domina e strozza.
Io, la sua vittima. Lui credeva al diritto di spiare, interferire,
corrompere, rovesciar governi, organizzare complotti, uccidere, tenere
sotto controllo perfino me: ad esempio registrando le mie telefonate. Io
credevo al diritto d’essere lasciata in pace e amministrarmi da sola la
libertà che mi spetta. Così il rancore con cui l’avevo aggredito
dicendogli subito che il mio paese non è una sua colonia, una sua
repubblica delle banane, presto lo contagiò. E non fu più possibile
trovare un punto d’intesa, di tolleranza reciproca. Per ore, come due
insetti impegnati a bucarsi, ferirsi, straziarsi, ci gettammo in faccia
rimproveri accuse e crudeltà. (Prevenzioni ideologiche, lui le
chiamava.) E lo spettacolo aveva qualcosa di assurdo, ai limiti di una
sottile pazzia. Avvelenata dalla passione e dalla rabbia, la mia voce a
volte tremava. La sua invece restava inalterata, controllata, sicura.
L’unico segno di ostilità veniva dagli occhi celesti, fermi quanto gli
occhi di un cieco, che a tratti si accendevano di silenziosa ferocia
senza che le sue labbra cessassero di sorridere, senza che le sue mani
cessassero di versare con dolcezza il caffè. A un certo punto mi chiesi a
chi assomigliasse quest’uomo di ghiaccio che mi faceva soffrire. E la
risposta fu facile. Assomigliava a un prete dell’Inquisizione, o un
funzionario del Partito comunista sovietico. Che poi è la stessa cosa.
Una volta avevo visto sui giornali la fotografia di Suslov. E William
Colby aveva lo stesso sguardo, lo stesso naso, la stessa bocca di
Suslov. Aveva anche lo stesso corpo lungo, asciutto, elegante. La stessa
compostezza spietata. Sbagliai a dirgli, da ultimo, che mi ricordava
Cunhal. Con Cunhal aveva in comune solo il fanatismo e la mancanza di
quella meravigliosa virtù che ha nome dubbio. (Ogni sua parola era tesa a
dimostrare il suo odio cieco incrollabile, non solo per i comunisti ma
per chiunque si definisse di sinistra.)
William Colby: per
ventott’anni funzionario eminente della CIA, per due anni e mezzo suo
direttore. Il suo vero ritratto è nel racconto che egli fa di se stesso.
Eccolo. «Come si diventa capo della CIA? Per caso, by chance. E perché
si entra nella CIA? Per avventura intellettuale. E per patriottismo. Mio
padre era ufficiale dell’esercito. Aveva un alto senso del dovere. L’ho
ereditato insieme al gusto di viaggiare e all’amore per l’America. La
famiglia di mio padre venne qui nel 1600, dall’Inghilterra. La famiglia
di mia madre ci venne duecento anni dopo, dall’Irlanda. Sono stato
concepito nel Panama, sono nato nel Minnesota, sono cresciuto per alcuni
anni in Cina: a Tien Tsin. A diciotto anni sono andato in Francia a
imparare il francese. So il francese, il norvegese, il tedesco,
l’italiano, il vietnamita: anche se li ho dimenticati un po’. Ho la
laurea in legge e pensavo di fare l’avvocato. Perché divenni invece una
spia? Non per divertimento, è sicuro. Non ho mai letto un libro su James
Bond. Leggo solo testi di politica, storia, filosofia, marxismo,
leninismo. La faccenda andò così. Durante la seconda guerra mondiale ero
ufficiale in Oklahoma. Allenavo i soldati. Ma non volevo seguire la
guerra da lontano, dall’Oklahoma. Così entrai volontario nei
paracadutisti. Avevo ventidue anni. Un giorno venne uno dell’OSS.
Cercava gente da paracadutare in Europa, per aiutare la Resistenza. Non
avevo nulla di meglio da fare. Accettai. Mi paracadutarono in Francia e
in Norvegia. Lì combattei coi partigiani. Operazioni di sabotaggio
eccetera. Finita la guerra, l’OSS fu dissolto e perciò mi misi a fare
l’avvocato. Ma scoppiò la guerra in Corea e rientrai nel servizio
segreto, nella CIA. Dopo la Corea fui alcuni anni in Italia. Poi a
Washington e in varie parti del mondo. Due volte in Vietnam. Al tempo di
Diem e nel 1969-1970, quand’ero a capo del programma Phoenix.»
Naturalmente non disse che il programma Phoenix sterminò, spesso con
l’assassinio, oltre ventimila vietcong. E, quando glielo ricordai,
sostenne che ventimila non sono molti: in battaglia muore più gente. Non
disse che nessuna delle tragedie avvenute negli ultimi anni gli era
estranea: che era implicato in quella del Cile, in quella di Cipro, in
quella dei Curdi. Tanto per citarne due o tre. Però ammise d’essere
stato lui il più forte sostenitore dei finanziamenti ai democristiani e
ai socialdemocratici italiani. E questo era molto importante visto che
ero andata da lui soprattutto per chiedergli della corruzione esercitata
dalla CIA nel mio paese.
L’intervista-rissa avvenne nella modesta
villetta in cui abitava, presso Washington, insieme alla moglie e ai due
figli minori. (I due maggiori erano sposati. Il più vecchio aveva
trentaquattr’anni e faceva l’avvocato.) Fui con lui due volte, per una
lunga mattina di venerdì e un intero pomeriggio di domenica. Né la prima
né la seconda volta si lasciò andare a un gesto di sgarberia o di
impazienza, né la prima né la seconda volta accennò a farmi fretta. Fu
sempre cortese, elegante, controllato: perfetto. Lo stesso comportamento
che aveva tenuto dinanzi al senatore Church e al deputato Pike che lo
interrogavano per i comitati di inchiesta parlamentare. Lo scandalo nato
in quella circostanza intorno ai delitti della CIA e le dimissioni cui
era stato costretto non gli avevano spaccato i nervi: figuriamoci se
avrei potuto spaccarglieli io. Mantenne il suo sangue freddo anche
quando l’intervista venne pubblicata, in quasi tutto il mondo,
sollevando un rumore pari a quello che avevo provocato con le interviste
a Kissinger e a Cunhal. Infatti sia alla televisione che alla stampa
dichiarò che il testo scritto dimostrava come la battaglia fosse stata
gloriosamente vinta da lui, penosamente persa da me, e perché non andavo
a intervistare il capo del KGB? Poi, per dimostrarmi quanto fosse
liberale e chiarire che la mia insolenza non lo toccava, prese anche a
scrivermi letterine di indulgente simpatia e bonario rimprovero per il
mio «anarchismo» e il mio «sinistrismo»: riconoscendo però che ero una
giornalista accurata ed onesta. In una diceva: «Possiamo trovarci in
disaccordo, e infatti noi due ci troviamo molto in disaccordo, ma
ritengo benefico per le società libere che ci si possa litigare e
scambiare idee senza paura l’uno dell’altro». Non gli risposi mai
chiedendogli cosa intendeva per società libere e scambio di idee senza
paura. Certo non avevo e non ho paura di lui o della sua CIA ma devo
confessare che, vedendo la sua firma, avvertivo ogni volta una specie di
brivido.
Io mi rendo conto che la CIA ha sempre il vantaggio di
farsi intervistare e il KGB no: l’osservazione era giusta. Però è
difficile dimenticare il senso di minaccia che si prova a sentirsi e
sapersi controllati da essa: come io lo sono da anni. E non so se Colby
ne è al corrente, visto che la cosa accadde quando egli era ormai un
privato cittadino: ma sembra che la CIA non sia del tutto estranea
all’uccisione di Alessandro Panagulis. E, per quanto ciò possa
ingiustamente ferire il signor Colby, devo dire che tale pensiero fu il
primo che mi venne alla mente quando, per il Natale del 1976, ricevetti
un suo gentile cartoncino di auguri. Con la Madonna ammantata d’azzurro e
teneramente abbracciata al Bambin Gesù.
ORIANA FALLACI. Quei
nomi, signor Colby. I nomi dei miserabili che in Italia hanno preso
soldi dalla CIA. L’Italia non è una repubblica delle banane della United
Fruits, signor Colby, e non è giusto che il sospetto gravi su un’intera
classe politica. Non crede che Pertini, il presidente della nostra
Camera, abbia diritto di conoscere quei nomi?
WILLIAM COLBY. No,
perché la nostra House of Representatives ha detto col voto che i nomi
devono restare segreti e perché la CIA deve proteggere i suoi soci, deve
proteggere chi lavora con lei. Naturalmente la decisione di dare o no
quei nomi spetta al governo degli Stati Uniti, e io non parlo per il
governo. Parlo per la CIA. Ma il mio giudizio è no, la mia
raccomandazione è no. Niente nomi. È il minimo ch’io possa fare per
rispettare l’accordo con la gente che lavorava con me. Al suo Parlamento
possono fare tutte le inchieste che vogliono: non esiste una polizia
per le indagini? Chi si sente sospettato non ha che da dire «non è vero,
non ho ricevuto il denaro». Per me va benissimo. Io non posso
sacrificare alcuni per evitare il sospetto su altri. Io ho promesso di
tenere un segreto e lo terrò perché, se rompo la promessa, non potrò più
rivolgermi a gente nuova. Sarebbe facile andare per esclusione,
rispondere «no» a sei nomi e «no comment» al settimo. Lei avrebbe quello
che cerca. Perché non cerca la stessa cosa coi russi? Perché non chiede
al governo sovietico i nomi dei comunisti che prendono i soldi di Mosca
in Italia? I sovietici fanno esattamente ciò che facciamo noi. Hanno i
nostri identici problemi.
Parleremo dopo dei russi. Ora
parliamo della CIA, signor Colby. Se io, cittadina straniera, venissi
qui a finanziare un partito americano e ventuno dei vostri uomini
politici, inoltre alcuni dei vostri giornalisti, cosa...
Lei commetterebbe una cosa illegale e, se venissi a saperlo, la denuncerei all’FBI perché la arrestasse.
Bene. Dunque io dovrei denunciare alla polizia italiana lei, il suo ambasciatore, i suoi agenti, e farvi arrestare.
Non dico questo.
Come
no? Se è illegale che io corrompa, diciamo, un signor Pike o un signor
Church, non è altrettanto illegale che lei corrompa, diciamo, un signor
Miceli?
Io non dico che lei corromperebbe. Dico che agirebbe contro la mia legge.
Ma
anche lei ha agito contro la mia, signor Colby! E sa cosa aggiungo? V’è
solo un tipo più disgustoso del corrotto: il corruttore.
Noi
della CIA non corrompiamo. Se avete un problema di corruzione, nella
vostra società, esso esisteva molto prima che la CIA arrivasse.
Corrompere significa dare denaro a chi fa cose per noi, e noi non diamo
denaro per questo. Diamo denaro a chi non ha abbastanza denaro per fare
quello che vuole. Fondamentalmente noi sosteniamo i regimi democratici
e, fra tutti i paesi che dovrebbero capirlo, c’è l’Italia. È stato
l’aiuto americano che per trent’anni ha impedito all’Italia di cadere in
un comunismo autoritario. E ci siamo riusciti sostenendo i partiti del
centro democratico, sempre.
I vostri «clienti», come lei li
definisce nel rapporto Pike. Signor Colby, sul dizionario
inglese-italiano la parola «client» è proprio tradotta «cliente». Ma
cosa significa «cliente» per lei?
Bè,... ecco... Com’è che un
avvocato chiama... Cosa fa un avvocato col suo cliente? Un avvocato
aiuta il cliente... Sì, clienti dell’avvocato.
Dunque lei si considera l’avvocato dei democristiani e dei socialdemocratici in Italia.
Giusto. Cioè... No. Non voglio commentare nessuna situazione particolare.
Perché? Mi aveva forse risposto con una bugia?
Io
non dico bugie. E soffro quando mi accusano di dire bugie. Non le dico
proprio. A volte taccio qualcosa, a volte mi rifiuto di dare
un’informazione, tengo il segreto. Ma niente bugie: neanche se volessi.
La Camera non me lo permetterebbe, e neanche il Senato, neanche la
stampa. Il capo dell’Intelligence americana non è come il capo
dell’Intelligence di altri paesi dove gli è consentito negare cose vere.
Qui l’Intelligence agisce sotto il controllo della legge, non al di
fuori della legge. E, per cavarsela, bisogna dire «no comment». Ma, sui
nostri finanziamenti ai partiti democratici, voglio porle una domanda
io: sarebbe stato giusto o no se l’America avesse aiutato i partiti
democratici contro Hitler?
Le rispondo subito, signor Colby:
in Italia non esiste alcun Hitler. E quegli ottocentomila dollari che
l’ambasciatore Graham Martin volle dare al generale Miceli, con la
benedizione di Kissinger, non finirono affatto in mani democratiche.
Finirono in quelle dei seguaci di Hitler.
Non discuterò alcuna
operazione specifica della CIA ma le dirò che ho un grande rispetto per
l’ambasciatore Martin. Siamo stati insieme in molte parti del mondo e
l’ho sempre giudicato un uomo forte, un uomo che prendeva sempre le
posizioni giuste e le responsabilità giuste nell’interesse degli Stati
Uniti. Inoltre ritengo che in questo genere di attività la CIA possa
avere un punto di vista e il nostro governo possa averne un altro. Non è
la CIA che decide, è il presidente che decide. Non dimentichi che in
ciascuna di queste operazioni la CIA è al servizio del governo, segue le
direttive del governo. A volte le direttive sono accettabili, a volte
no. Ma, in ogni caso, la CIA le segue con rigore. Almeno fino a un anno
fa, cioè fino a quando è passata la nuova legge, il presidente poteva
chiamare il direttore della CIA e dirgli: «Fai questo e non dirlo a
nessuno».
Dunque furono proprio Nixon e Kissinger a voler
dare quei soldi a Miceli: la CIA era davvero contraria. Se li vede, li
ringrazi per le bombe che i fascisti fabbricano con quei soldi.
Non
posso parlare di questo. Però so che i neofascisti hanno solo l’8 per
cento dei voti e che, sebbene esistano elementi molto estremisti fra
loro, non rischiate certo un’altra marcia su Roma. So che il pericolo
per voi è rappresentato dai comunisti. E so che, dalla fine della
guerra, noi della CIA non abbiamo fatto altro che aiutare le varie forme
democratiche contro la minaccia comunista. E questo ha continuato per
venticinque, anzi trent’anni.
Col risultato che i comunisti
ora sono alle soglie del governo e ad ogni elezione guadagnano voti. Ma
le sembra di averli spesi bene quei soldi? Le sembra che la sua
Intelligence sia stata intelligente?
Di solito non spendiamo i
nostri soldi in sciocchezze. Certe cose non si giudicano da un fattore e
basta. In questo caso, dal 33 per cento che hanno ottenuto i comunisti
nelle ultime elezioni. E forse gli interventi americani in Italia dopo
la seconda guerra mondiale non sono stati perfetti, però sono stati
utili. Positivi. Parlo anche della NATO e del Piano Marshall. Quando io
ero a Roma, nel 1953, la gente viaggiava in Vespa. Ora viaggia in
automobile. Oggi vivete meglio di come sareste vissuti se i comunisti
avessero vinto nel 1948 e anche nel 1960. L’italiano medio vive meglio
del polacco medio, dunque la politica americana non è stata un errore in
Italia. Abbiamo fatto un buon lavoro. Quando dite di cavarvela male,
ripetete le stesse cose del 1955. Anche allora gridavate che il governo
era pessimo e tutto crollava. In Italia vedete sempre le cose in modo
catastrofico, vi sentite sempre sull’orlo del precipizio. Eppure la
catastrofe, nel 1955, non è avvenuta. E non avverrà neanche ora. Perché
vi sono buoni italiani.
Certo non i suoi «clienti», signor Colby.
Io parlo della gente normale.
Qual era l’uomo politico che le piaceva di più quand’era in Italia?
De
Gasperi, direi. Ma non posso far nomi. Non devo. Del resto non
conoscevo molte persone importanti... Ero un giovane funzionario e il
mio lavoro consisteva piuttosto nel raccogliere informazioni e stare in
contatto coi gruppi politici giacché parlavo italiano. Posso dirle solo
che, a quel tempo, io ero per l’apertura a sinistra. Sì, un’apertura ai
socialisti. Li rispettavo. Li rispetto ancora perché i socialisti sono
occidentali, sono europei, credono davvero nella libertà e nella
democrazia. Negli anni Cinquanta ritenevo che avessero commesso un
grande errore ad allearsi coi comunisti ma ritenevo anche che, alla
lunga, non avrebbero mantenuto quell’alleanza. E così ero per una
apertura verso di loro, sì. Ma, a quel tempo, questo non era il fattore
decisivo della politica americana in Italia.
Già. C’era
Claire Boothe Luce come ambasciatore. Fino a che punto, come CIA, lei
operava e opera in collaborazione con l’ambasciata USA?
Operavo
molto con l’ambasciata, ovvio. Ero l’addetto politico: political
attaché. Si opera sempre con le ambasciate. La maggior parte delle
informazioni le abbiamo attraverso le nostre ambasciate. E la signora
Luce faceva un buon lavoro. Un ottimo lavoro. Sono ancora amico della
signora Luce. Donna interessante, capace.
Soprattutto di
interferire nelle faccende del mio paese, neanche fosse stato una sua
colonia. Però non è solo attraverso la vostra ambasciata che voi operate
in Italia: sappiamo tutti che il vero pied-à-terre della CIA in Italia è
il SID. E le chiedo: con quale diritto lei si permette di spiarmi in
casa mia usando il servizio segreto del mio paese? Con quale diritto
controlla ad esempio il mio telefono?
Perché così io so quel che
succede nel mondo. E il controllo del telefono, guardi... io ho avuto
il telefono controllato tante volte, in tanti paesi, ne sono certo. E
non me ne è mai importato. Anche se fosse controllato ora, cosa che
escludo, non me ne importerebbe nulla. Almeno sul piano emotivo. Non ci
vedo nulla di male a tentar di capire cosa succede nel mondo, cosa pensa
la gente e cosa fa. Non si tratta mica di spiare la privacy altrui: si
tratta di sapere se lei ha una pistola puntata contro di me, o una
qualsiasi altra arma per farmi del male. Insomma, lei mi sta chiedendo:
una nazione ha diritto o no di usare la sua Intelligence in un’altra
nazione, attraverso attività clandestine? Bè, in ogni paese c’è una
legge che risponde no. E quasi in ogni paese lo si fa. Perché moralmente
si ha il diritto di tentar di scoprire cosa accade, e così proteggerci.
È illegale ma se ne ha il diritto.
Guardiamo se ho capito
bene. Lei considera illegale ma legittimo agire anche attraverso il
servizio segreto di un altro paese. Ad esempio il mio.
Dipende. A
volte un’altra Intelligence ci aiuta. Dipende dalla politica del paese.
A volte due paesi hanno un interesse reciproco, ad esempio sono molto
vicini ai loro alleati e molto preoccupati di una penetrazione. Così
lavoriamo insieme.
Come dicevo. È vero o no che la migliore operazione della CIA col SID fu la fuga da Mosca di Svetlana Stalin?
Non
posso dirlo. Soprattutto in questo periodo di investigazioni non devo
parlare dei nostri soci e dei nostri rapporti coi servizi segreti
stranieri. Se lo faccio, se chiunque di noi lo fa, non si fidano più
della nostra Intelligence. Un servizio di Intelligence non deve dire
nulla sui suoi soci. Lei non immagina quanto sia stata danneggiata la
CIA da quel che è successo. Immensamente. In tutto il mondo. C’è gente
che ora ci dice: «Ma come faccio a stare con voi? Posso davvero
affidarvi la mia vita? Oppure racconterete tutto al Senato e al
Congresso?». Molti ci hanno voltato le spalle. Molti che operavano con
noi ci hanno detto no, basta, non continuo. Perfino certi servizi
segreti stranieri ci hanno detto no, basta, vi davamo tanto materiale
segreto e d’ora innanzi non vi daremo più nulla. Abbiamo perduto una
quantità di collaborazione, una quantità di agenti...
Solo agenti o anche clienti?
Anche
clienti. Alcuni ci hanno detto: «Non dateci più nulla, per carità,
sennò poi lo raccontate». Gente nuova e gente di antica data. Si sono
sentiti traditi. Noi della CIA ci siamo battuti molto per tenere i loro
nomi segreti, e direi che abbiamo vinto. Ma la pubblicità intorno a
questa faccenda ci ha fatto lo stesso un gran male. E queste sono cose
che al KGB non succedono. In Italia avete un mucchio di agenti del KGB.
Molti. Anche italiani, naturalmente. Il KGB fa uno sforzo molto grosso
in Italia, a parte il fatto che può contare sul Partito comunista
italiano. Uno sforzo molto energico. Però nessuno chiede al KGB di
rivelare i nomi dei suoi agenti, dei suoi clienti, o le sue attività.
Nessuno gli chiede di comportarsi in modo democratico e liberale. Al KGB
non si rimproverano colpe, del KGB non si rivela nulla: né il giusto né
lo sbagliato. Chi accusa il KGB di interferire con le faccende private
del suo paese?
Lei si sbaglia, signor Colby. La santa verità è che non vogliamo né voi né loro. Ne abbiamo abbastanza di voi e di loro.
Bene,
bene. Ma allora perché non parlate dei soldi che i comunisti italiani
prendono dal commercio con l’Europa dell’Est? Tutto il materiale che va e
viene attraverso il commercio con l’Unione Sovietica e i paesi
satelliti passa da agenzie che danno una percentuale ai comunisti
italiani. È un buon sistema. Complicato ma buono. Ci hanno messo
trent’anni per perfezionarlo. Che ne direbbe se l’America avesse con
l’Italia un commercio governativo e desse la percentuale a un partito?
Non
ci pensa la CIA a fare questo? Non ci pensano gli ambasciatori come
Martin? Non ci pensano le ditte come la Lockheed, la Gulf, la Esso?
È
straordinario il suo modo di razionalizzare e indirettamente concludere
che gli altri sono bravi ragazzi, creature buone pulite squisite. I
sovietici danno una percentuale dei loro commerci con l’Italia a certe
persone che poi la passano al PCI, e lei dice: è la stessa cosa. Sì, è
la stessa cosa che fecero in Polonia affinché il PC polacco andasse al
governo e poi al potere. Si incomincia sempre così: si aiuta il partito
comunista coi soldi, il partito va al governo, poi va al potere, e ci
resta. Ma guai se non ci resta come vuole l’Unione Sovietica! Arriva una
delegazione da Mosca, si mette intorno a un tavolo col comitato
centrale, e gli spiega che è «meglio comportarsi bene». Vorrebbe che
l’Italia finisse così? E supponiamo che la corruzione in Italia sia da
una parte e basta, supponiamo che i comunisti in Italia siano bravi
ragazzi puliti: per questo li lascerebbe andare al governo? Per questo
lei correrebbe un simile rischio? Nomini un paese che sia stato
comunista e che ora non lo sia più. Uno solo! Uno dove il PC sia andato
al potere e poi si sia ritirato secondo le regole del gioco democratico,
lasciando a un altro partito il diritto di governare. Lo nomini! Uno!
Uno solo!
Signor Colby: cosa ci fareste, voi americani, se i comunisti vincessero le elezioni in Italia?
Nomini un paese! Uno solo!
Signor Colby, ci fareste un golpe come in Cile?
Un paese! Un paese solo! Romania? Cecoslovacchia? Ungheria? Polonia?
Mi risponda, signor Colby: un altro Cile?
E
se poi non ci fossero altre elezioni? Se poi accadesse come accadde con
Hitler e Mussolini? Ma non capisce che i comunisti sono stati tutti
questi anni al gioco democratico perché gli conveniva? Non capisce che,
finché erano in minoranza, il sistema democratico gli serviva? Ma lei
crede davvero che quando saranno al governo continueranno a essere
democratici? Quella non è gente cui si possa dire
«siccome-siete-bravi-ragazzi-vi-lasciamo-comandare-per-un-po’». Il loro
centralismo democratico non ha nulla a che fare con la democrazia. E i
vostri guai potete risolverli in modo migliore che lasciandogli vincere
le elezioni. Lo ricordi. O non vincerete le elezioni mai più.
Lei
potrebbe anche aver ragione. Però le ricordo che a gettare i paesi
nelle braccia dei comunisti siete proprio voi americani: comprando,
corrompendo, proteggendo i fascisti in tutto il mondo. L’America è la
più grande fabbrica di comunisti del mondo, signor Colby.
Questo è un insulto dettato da prevenzioni ideologiche e io lo respingo.
Respinga,
respinga. Però mi dica: secondo le informazioni che lei ha sempre avuto
come capo della CIA, vede nessuna differenza tra il PC di Cunhal e i PC
di Carrillo, Marchais, Berlinguer?
Il PCI è lo stesso che era
ai tempi di Gramsci e di Togliatti, cioè un partito che cerca di
lanciare un ponte tra il sistema sovietico e quello occidentale tentando
di vivere un po’ nell’uno e un po’ nell’altro campo. C’è un’ambivalenza
nel PCI. E i comunisti francesi, come i comunisti spagnoli, non fanno
che imitarlo. Il PCI ha sempre preteso di essere molto rivoluzionario
per tenere il passo totalitario, e allo stesso tempo ha sempre preteso
di essere molto italiano per riempire il vuoto col resto dell’Italia.
Lei in realtà vuol chiedermi se io credo o no a certi uomini del PCI
quando dicono d’essere per il pluralismo eccetera. Le rispondo: non
conosco quegli individui ma la questione non è avere fiducia o no negli
individui. La questione sta nei loro imperativi politici. Attualmente,
con un’Europa occidentale piuttosto unita e forte e protetta dagli
interessi americani, l’imperativo politico per i comunisti è far parte
dell’Europa occidentale. Domani, se l’Europa occidentale ha problemi
economici o se c’è un cambio di leadership nell’Unione Sovietica, il
loro imperativo politico può cambiare. Ed essi possono diventare più
autoritari e più leali ai sovietici.
Recentemente il PCI e il PCE e il PCF hanno attaccato con una certa chiarezza l’Unione Sovietica.
Oh,
questo è facile. Lo fecero anche in Cecoslovacchia nel 1968. In
compenso hanno appoggiato l’URSS in molte occasioni e continuano a
mantenere ottimi rapporti con Mosca. La loro politica dice che non
dovrebbe esserci né la NATO né il Patto di Varsavia. La cosa più
semplice, intanto, è eliminare la NATO. Liberarsi del Patto di Varsavia è
duro. Loro mirano a ridurre il contributo dell’Italia alla NATO
dicendo, bè, del Patto di Varsavia ci occuperemo dopo. Ma quale sarebbe
il grado di collaborazione tra militari italiani e militari americani,
governo italiano e governo americano, il giorno in cui aveste un primo
ministro comunista? Crede davvero che ci sarebbe una collaborazione
nell’interesse della NATO? Io credo che sorgerebbero molte difficoltà.
Forse.
Ma insisto nella domanda cui lei non vuole rispondere: cosa ci
farebbero gli americani se i comunisti andassero al governo in Italia?
Non lo so. Questo riguarda la politica degli Stati Uniti. Non lo so.
Sì che lo sa, signor Colby. Un altro Cile?
Non
necessariamente. Non so... È una domanda ipotetica, non posso
rispondervi. Dipende da troppi elementi. Potrebbe non succedere nulla,
potrebbe succedere qualcosa, potrebbe succedere qualche sbaglio.
Uno
sbaglio come il Cile? Coraggio, signor Colby. Crede che sarebbe
legittimo per gli Stati Uniti intervenire in Italia con un Pinochet se i
comunisti andassero al governo?
Non credo di poter rispondere a questa domanda. E il vostro Pinochet non è in America. È in Italia.
Lo
so, ma ha bisogno di voi. Senza di voi non combina nulla. Signor Colby,
io cerco di farle ammettere che l’Italia è uno Stato indipendente, non
una repubblica delle banane, non una vostra colonia! Non potete far
sempre i poliziotti del mondo. Chiaro?
Chiaro ma sbagliato. [In
italiano nel testo.] Lasci che spieghi. Dopo la prima guerra mondiale
l’America visse un fenomeno di rigetto. Dicemmo che la guerra era stata
sbagliata, mal combattuta, e avemmo un periodo di innocenza. Riducemmo
il nostro esercito a qualcosa come 150.000 uomini, volemmo una
diplomazia aperta, e il segretario di Stato dissolse l’Intelligence
sostenendo che i gentiluomini non leggono la posta altrui. Ci accingemmo
insomma a vivere in un mondo di gentiluomini e annunciammo di non
volerci coinvolgere più negli affari stranieri. Sorsero problemi in
Europa e non intervenimmo. Sorsero problemi in Manciuria e non
intervenimmo. Venne la guerra in Spagna e ci dichiarammo neutrali.
Passammo perfino una legge sulla nostra neutralità. Ma non funzionò. E
ci caddero addosso i problemi economici, e vennero leader autoritari che
credettero di poter dominare i loro vicini, e scoppiò la seconda guerra
mondiale e dovemmo entrarci. Dopo la seconda guerra mondiale
ricominciammo daccapo: nel 1945 dissolvemmo l’esercito, e dissolvemmo
l’OSS, e dicemmo Pace. Però ebbe inizio la guerra fredda. Diventò subito
chiaro che Stalin non avrebbe seguito la strada che avevamo tracciata.
Il comunismo russo divenne una minaccia in Grecia, in Turchia, in Iran. E
così imparammo la lezione. Rimettemmo insieme il nostro servizio
segreto, lo chiamammo CIA, contenemmo l’espansione autoritaria
dell’Unione Sovietica con la NATO e il Piano Marshall e la CIA. Liberali
e conservatori insieme: entrambi convinti, stavolta, di dover aiutare
all’estero. Io ero uno di quei liberali. Ero stato addirittura radicale
da ragazzo e...
Perbacco. Come ha fatto a cambiare così?
Clemenceau
dice che chi non è radicale da giovane non ha cuore, e chi non è
conservatore da vecchio non ha testa. Ma mi lasci concludere. La NATO
funzionò. Il contenimento dell’espansionismo sovietico funzionò. Il
piano di sovversione dei partiti comunisti fu neutralizzato. E questo
non fu gettarci dalla parte dei fascisti, non fu la destra contro la
sinistra. Fu la ricerca di una soluzione democratica. E fu la politica
americana che la CIA abbracciò e da allora seguì: decidendo che avremmo
combattuto per la libertà a ogni costo. Certo... bè, sì: nel corso di
questa battaglia a ogni costo capitarono e capitano situazioni con
leader locali piuttosto autoritari. O più autoritari di quanto la gente
vorrebbe.
Da Franco a Caetano, da Diem a Thieu, da
Papadopulos a Pinochet. Senza contare tutti i dittatori fascisti
dell’America Latina. I torturatori brasiliani ad esempio. E così, in
nome della libertà, diventaste i sostenitori di tutti coloro che
dall’altra parte uccidono la libertà.
Come nella seconda guerra
mondiale quando, contro la maggiore minaccia di Hitler, sostenemmo la
Russia di Stalin. Sì, proprio allo stesso modo in cui allora lavorammo
con Stalin ora capita che lavoriamo con... insomma, talvolta dobbiamo
lavorare con qualcun altro. La espansione comunista, dagli anni
Cinquanta in poi, prese il posto della minaccia nazista, e noi... Bè,
sostenendo qualche leader autoritario contro la minaccia comunista si
lascia sempre aperta l’opzione che il paese di quel leader autoritario
diventi democratico in futuro. Coi comunisti, invece, il futuro non
offre speranze. Così non vedo motivo di scandalo in certe nostre
alleanze. Alle alleanze si arriva sempre per fronteggiare una minaccia
più grossa. E, per noi americani, la minaccia più grossa resta il
comunismo. Il mio governo riconosce Pinochet come il governo legittimo
del Cile, è vero. Ma io non accetto che duecento milioni di russi vivano
sotto il comunismo sovietico? E poi Pinochet non vuole conquistare il
mondo. Chi si preoccupa di Pinochet?
Glielo dico io, Mr.
Colby. Anzitutto se ne preoccupano i cileni che da oltre due anni
vengono imprigionati e perseguitati e torturati e uccisi da lui. Poi se
ne preoccupano quelli che alla libertà ci credono davvero e non a parole
come lei. Infine se ne preoccupano i paesi che, come il mio, temono di
diventare un secondo Cile. Grazie a voi americani.
Lei sbaglia
proprio a scegliere il Cile come esempio. Se legge attentamente il
rapporto senatoriale sul Cile, pubblicato malgrado le mie obiezioni,
vede che dal 1964 in poi noi ci limitammo ad aiutare il centro
democratico contro un Allende che si diceva associato con Castro e coi
comunisti. La CIA non ebbe parte nel rovesciamento di Allende nel 1973.
Il comitato senatoriale non trovò una prova della nostra collaborazione,
dopo il 1970.
Davvero? E il finanziamento degli scioperi? E gli interventi della ITT?
Bè,
un po’ di denaro fu dato: un contributo infinitesimale. Lo demmo
attraverso altra gente, cioè a un gruppo che poi lo passò a un altro
gruppo. Roba da niente. Legga i miei dinieghi dinanzi al senatore Church
quando dico: «Con una eccezione che durò sei settimane nel 1970».
Io
direi piuttosto che incominciò nel 1970: l’11 novembre, quando Nixon e
Kissinger chiamarono Richard Helms, allora capo della CIA, e gli
ordinarono di rovesciare Allende organizzando un golpe.
Durò
solo sei settimane... E non riuscimmo... Il resto del nostro programma
in Cile fu di sostegno alle forze del centro democratico contro la
minaccia della sinistra. Non rientrava nella nostra politica rovesciare
Allende nel 1973. Noi aspettavamo le elezioni del 1976 sperando che le
forze democratiche vincessero nel 1976. Certo non aiutammo Allende, però
siamo innocenti del golpe del 1973. Quel golpe fu causato dallo stesso
Allende che stava distruggendo la società e l’economia cilena, che si
comportava in modo antidemocratico, che sopprimeva la stampa di
opposizione, che agiva in modo anticostituzionale come dissero sia il
Parlamento che la Corte suprema che...
Ma che diavolo sta
inventando, signor Colby?!? Ma come si permette di falsificare la storia
così? Ma se la stampa di opposizione tormentò Allende fino all’ultimo
momento!
Che Allende fosse democratico è una sua opinione
personale. Lo dichiarava lui stesso di voler sopprimere l’opposizione,
la borghesia. Sopprimere! Era un estremista, il suo Allende, un
oppressore. Io lo so. Io ho buone informazioni.
Se tutte le
sue informazioni assomigliano a questa, signor Colby, capisco perché la
CIA si rende così spesso ridicola. Ma io voglio sapere questo da lei che
si batte in nome della democrazia: avendo vinto democraticamente le
elezioni, Allende aveva o no il diritto di governare il suo paese?
Bè, ecco...
Non esiti, signor Colby. Mi risponda.
Mussolini non vinse le elezioni? Hitler non divenne cancelliere della Germania grazie alle elezioni?
Lei non può essere così in malafede, signor Colby. Lei non può paragonare Allende con Hitler e Mussolini. Questo è fanatismo.
Io non sono fanatico. Io credo in una democrazia liberale occidentale.
In che modo? Ammazzando? Mi racconti dell’assassinio del generale Schneider, il capo di Stato maggiore di Allende.
Noi
della CIA avemmo pochissimo a che fare con l’assassinio del generale
Schneider. Pochissimo... È scritto nel rapporto senatoriale sul Cile:
apparentemente il gruppo che tentò di rapirlo non era lo stesso che
riceveva le armi dalla CIA. È la solita storia di quelle sei settimane.
Oh, il suo modo di vedere la CIA è davvero paranoico. Lei si comporta
come la stampa americana quando si eccita per la Pistola Nera, quella
con le frecce, di cui parla il senatore Church. Un’arma che non fu mai
usata, mai. Ah, siete voi della stampa che gettate il fango sulla CIA,
che falsate, distorcete. Naturalmente, nel corso delle nostre attività
all’estero, qualcuno è rimasto ucciso... Naturalmente... Nostri agenti e
anche persone dall’altra parte della barricata... Ma niente assassinii.
Conosco chi lavora per me e posso assicurarle che si tratta di buoni
americani, di veri patrioti che lottano per proteggere il proprio
paese... per il diritto di difendere la libertà...
Perché quel diritto non ve lo prendete con Pinochet?
Ogni
nazione deve fare le sue scelte e poi queste sono faccende che
riguardano il mio governo. Lei non lo capisce perché parte da un
atteggiamento ideologico. Io non sono ideologico, sono nazionalista e
pragmatista. E da buon pragmatista le dico che tocca agli Stati Uniti
decidere dove vogliono aiutare e dove no. Era nostro diritto sostenere
gli oppositori di Allende, così come è nostro diritto aiutare in Europa
chi si oppone all’avanzata comunista. La CIA fa questo da trent’anni
ripeto e lo fa bene. E l’Italia è l’esempio migliore, ripeto.
Mi
dica, signor Colby: in nome di quel pragmatismo è mai capitato che la
CIA suggerisse al suo governo un dialogo coi comunisti italiani ed
europei?
Un dialogo? Non vedo come possa esserci un dialogo tra
noi e loro. E poi le loro posizioni sono note: conosciamo la loro
politica, i loro programmi. La buona fede di un individuo non ci
interessa: un uomo in buona fede può sempre essere rimpiazzato da un
altro. Quanto alle loro promesse... Anche Gromiko faceva promesse. Anche
Molotov. Anche Vishinski. Promesse solenni.
Dunque fu la CIA
a raccomandare che non fosse concesso il visto a Segre e a Napolitano,
quando furono invitati dal Council on Foreign Affairs.
Non mi
sembra utile indicare ai comunisti che siamo pronti per il loro
compromesso storico. Peggio ancora, per un compromesso storico tra il
PCI e gli Stati Uniti. No, non accetto quella roba. Non accetto gente
che, una volta al potere, ridurrebbe la sua amicizia per gli Stati
Uniti. Non ho simpatia alcuna per gente di quel tipo.
E il viaggio di Almirante a Washington?
Questa
è una domanda per il Dipartimento di Stato, non per me. Io non lo
conosco questo Almirante. So soltanto che è un fascista al di fuori del
centro democratico. E i fascisti non mi piacciono. La CIA non c’entra
proprio col suo viaggio in America. Io non ne sapevo nulla.
Ma
come?! Con tutte le spie che avete nei partiti italiani vi vien a
mancare un’informazione così? Perché ne avete di spie, no? Anche nel
PCI.
Naturalmente abbiamo tutto l’interesse di conoscere i loro
piani futuri e segreti. Naturalmente vogliamo sapere in che direzione
vanno e se sono sinceri quando dicono di voler restare nella NATO. Anche
il KGB ha i suoi agenti per questo. Però otteniamo le nostre
informazioni anche in molti altri modi: leggendole, ad esempio. Prenda
questa razionalizzazione del compromesso storico. A leggerla bene si
capisce che, al di sotto dei discorsi tattici, si nasconde una
dichiarazione strategica. Sicché, in due anni, tutti quei discorsi
tattici possono essere sostituiti da una visione stalinista della
storia. Non dimentichi che Stalin poté fare un accordo con Hitler e poi
romperlo. Io credo nel leggere ciò che la gente dice di voler fare.
Forse lo farà. Se avessimo letto con più attenzione Mein Kampf di Hitler...
Signor
Colby, lei mi sta presentando la CIA come un’associazione di boy scouts
che passano la maggior parte del loro tempo in biblioteca. Per
cominciare, voi siete delle spie...
Un momento. Sì, nei tempi
andati l’Intelligence era solo spionaggio. Mata Hari e via dicendo. Oggi
invece l’Intelligence è un processo intellettuale che consiste
principalmente nell’accumulare informazioni le quali vengono
centralizzate e studiate da specialisti. Informazioni ottenute dalla
radio, dalla stampa, dai, libri, dai discorsi. Per questo ci chiamiamo
Central Intelligence Agency. Oltre a questo c’è l’elettronica, ci sono i
computers, c’è la tecnologia insomma. E negli ultimi quindici anni la
tecnologia ha talmente cambiato l’Intelligence che non c’è più bisogno
di Mata Hari che ruba il segreto per darlo al generale. Voglio dire:
prima ci chiedevamo quanti missili avessero i sovietici. Ora li
contiamo, sappiamo quanto sono grandi, quanto vanno lontano...
Naturalmente il lavoro clandestino c’è ancora, soprattutto nei paesi
chiusi. Ma la vecchia Intelligence come segreto totale è finita. E la
parola spia non rende l’idea, proprio perché l’Intelligence non
significa soltanto spionaggio. Significa analisi, tecnologia. Una
faccenda molto più grossa, molto più affascinante del lavoro alla Mata
Hari. Ed è questo che rende la CIA il servizio segreto migliore del
mondo.
Meglio del KGB?
Oh, il KGB è un’altra cosa. La
maggior parte del lavoro del KGB si svolge nell’Unione Sovietica dove
esso è l’FBI, la CIA, la polizia di Stato, i carabinieri, tutto.
Naturalmente, c’è poi il resto. Qui negli Stati Uniti, al tempo delle
spie atomiche, fecero alcune buone operazioni. Davvero eccellenti. Come
quando reclutarono una ragazza della sezione controspionaggio del nostro
Dipartimento di Giustizia, e lei rivelò tutto ciò che sapevamo sulle
loro spie. Ottima operazione, ottima. E quando sistemarono un
trasmettitore nel tacco della scarpa di un nostro diplomatico? Anche
quello fu un colpo eccellente. Eccellente. Sa, questa è gente che lavora
per il suo governo, e il fatto che io non sia d’accordo con la loro
filosofia non significa che non li ritenga capaci di fare un buon
lavoro. Naturalmente, bisogna distinguere tra la loro abilità e il loro
scopo. Se la prima può essere ottima, il secondo può essere pessimo.
Comunque le dirò che, attualmente, anche il KGB sta copiando i sistemi
della CIA. Anche i russi incominciano a vedere l’Intelligence come un
processo intellettuale, uno studio sofisticato, una analisi.
Signor
Colby, la CIA è anche qualcosa di peggio. È una forza politica segreta
che organizza complotti e colpi di Stato. È uno strumento che punisce
chiunque sia contro gli interessi o la politica degli Stati Uniti. È...
Ciò
a cui lei si riferisce riguarda solo il 5 per cento del nostro
bilancio. Solo il cinque per cento va alle nostre attività politiche e
paramilitari. Attività segrete, ovvio, e necessarie nel mondo in cui
viviamo. Siamo realisti: un po’ di aiuto ad alcuni paesi, ad alcuni
amici, può evitare lo svilupparsi di una crisi seria e magari la terza
guerra mondiale. Negli anni Cinquanta quelle attività costituivano il
trenta per cento del nostro bilancio. Negli anni Ottanta, se il mondo
continua a svilupparsi in direzione totalitaria come sembra, possiamo
tornare al trenta per cento. O anche di più. Ma, ora come ora, è solo il
5 per cento. E su quello avete sollevato questo illegittimo polverone.
Illegittimo, sì. Non è meglio difenderci finanziando qualcuno anziché
facendo la guerra?
Sì, ma qui non si tratta di finanziare e
basta. Si tratta, ad esempio, di assassinare i leader stranieri. Parlo
dei vostri veleni e delle vostre fiale batteriologiche per ammazzare
Castro, Lumumba...
Nel 1973, prima che esplodesse questa
faccenda, io detti ordini precisi contro i progetti di assassinio. Ho
respinto numerose proposte di assassinio in numerose occasioni durante
la mia carriera e soprattutto quando sono diventato capo della CIA. Ho
sempre detto che l’assassinio era una cosa sbagliata. Però molti le
risponderanno che se Hitler fosse stato assassinato nel 1938, oggi il
mondo andrebbe meglio.
E dài con Hitler! Castro non è Hitler.
Castro
permise all’Unione Sovietica di installare missili nucleari a Cuba,
così mettendo sotto la minaccia nucleare tutte le città americane a
sud-est del Mississippi.
E ciò la autorizzava ad ammazzare Castro?
Le
garantisco che nell’Italia del Rinascimento molta gente discuteva,
dentro e fuori la Chiesa, sui pro e i contro del tirannicidio.
Anzi
la discussione era incominciata alcuni secoli prima, coi greci e i
romani. Come morì Giulio Cesare? Come morivano i principi dei vari Stati
italiani? L’assassinio era un’arma politica e, come tale, non è stato
davvero inventato in America ieri mattina. Per favore, non venga a farmi
del moralismo. Non si alzi in piedi, come italiana, per darmi lezioni
di morale su quest’argomento.
Lezioni di morale forse no.
Sebbene, personalmente e nel 1976, io ne abbia tutto il diritto. Lezioni
di storia, sì. Le ricordo infatti che Cesare fu ucciso da un romano e
non da un americano. E Pericle innalzava monumenti ai greci che
uccidevano un tiranno greco, non agli americani che ammazzavano i
cubani.
Però Vercingetorige fu ammazzato da Cesare, e Attilio
Regolo dai cartaginesi, e una quantità di capi stranieri da Lucrezia
Borgia. Io non cerco giustificazioni. Io dico che s’è sempre fatto e che
è difficile per un paese dare lezioni morali a un altro paese.
Siete
voi che dite d’essere più morali degli altri. Siete voi che vi
presentate come l’arcangelo Gabriele. Democrazia, libertà, e via
dicendo. Ora si ripara sotto le gonne di Lucrezia Borgia?
Forse
la nostra morale non è perfetta ma è meglio di quella degli altri. In
tutto il mondo la politica americana è guardata come un faro di libertà e
le vostre calunnie sulla CIA hanno il solo scopo di ingiuriare
l’America. Ho lavorato ventott’anni alla CIA e sono in grado di
affermare che in ventott’anni, sono state ben poche le cose che non
avremmo dovuto fare. Per esempio, aprire la posta. Sì, ci fu un periodo
degli anni Cinquanta in cui aprivamo la posta in partenza e in arrivo
dall’Unione Sovietica. V’era un motivo: l’America pullulava di spie
sovietiche. Tuttavia non avremmo dovuto e...
Ma chi parla di posta! Qui si parla di assassinii, signor Colby!
La
CIA non ha mai assassinato nessuno. Neanche Diem. Accusarci di
assassinio è ingiusto. Vi furono casi in cui andammo e tentammo, è vero.
Ma non riuscimmo mai. Non realizzammo mai i nostri piani.
Anche
se lei dicesse la verità, signor Colby, non le sembra vergognoso che la
CIA facesse progetti per ammazzare gli avversari come faceva Al Capone?
La
gente fa queste cose in tutto il mondo, che sia saggio o no. Progetti
di uccidere capi di Stato esistono in tutto il mondo. Io lo so. Lo so...
E confermo che sono sempre stato contro l’idea di ammazzare in quel
modo. Ne ho fatto una regola, nel 1973. Ho personalmente licenziato
alcuni direttori della CIA perché mi proponevano cose simili. Gli ho
detto: «Lei non lo farà!». Chiarito questo, le cito un motto di
Jefferson: «L’albero della libertà deve essere innaffiato ogni vent’anni
dal sangue dei tiranni».
Insomma, quando-ci-va-ci-vuole. È religioso, lei, Mr. Colby?
Sì, molto. Sono un cattolico osservante e rigoroso.
Di quelli che vanno alla messa ogni domenica mattina?
Sì, certo. Anche stamani sono andato.
Di quelli che credono al Paradiso e all’Inferno?
Sì, certo. Io credo in tutto quello che la Chiesa dice. Perché?
Così. Mi racconti della mafia. Dell’uso che la CIA fa della mafia.
Un
caso! Un caso solo! Nel 1960! Per Castro! Quando Castro prese il potere
a Cuba considerammo l’opportunità di lavorare con persone che a Cuba
avevano ancora certi amici. Persone della mafia, voglio dire. Amici
della mafia. E li contattammo e, secondo il nostro progetto, essi
dovevano tentare di uccidere Castro. Ma fu molto... Bè, non funzionò.
Allen Dulles e McCone erano direttori della CIA a quel tempo.
E McCone disse di non saperne nulla.
Bobby
Kennedy però lo sapeva. Quindi lo sapeva anche John, il presidente. Sa
cosa penso? Chi rimane più screditato da queste rivelazioni non è
nemmeno la CIA, sono i presidenti degli Stati Uniti.
Le
rivelazioni dimostrano che la CIA non è mai stata un elefante selvaggio,
uno Stato dentro lo Stato, un governo al di fuori del governo, ma ha
sempre lavorato come parte della politica americana. E ora che il paese
sta attraversando un processo di revisionismo, la CIA è un po’ il capro
espiatorio di quel revisionismo... La prova che i presidenti volessero
certe azioni specifiche non è molto evidente, in alcuni casi non è
neppure chiaro se il presidente lo sapesse o no. Ma i fatti indicano,
semplicemente, che la CIA operava entro i limiti di una politica che
sembrava autorizzarla a fare certe cose.
Infatti da
Eisenhower a Nixon non se ne salva uno. E sotto Johnson quale
birbanteria combinaste? Ah, sì: il golpe di Papadopulos.
La CIA
non appoggiò, ripeto non appoggiò, il golpe dei colonnelli in Grecia. I
colonnelli... certo non li respingemmo. Ma nemmeno li sostenemmo.
Diciamo insomma che lavorammo con loro. Dopo che Papadopulos ebbe
assunto il potere, tenemmo una liaison con lui per lo scambio di
informazioni. E anche con Joannidis la CIA aveva la stessa liaison per
lo stesso scopo. Il resto è mito. E avere buoni rapporti con qualche
leader autoritario non significa mica sostenerlo. Ah, lei non vuol
proprio accettare l’immagine di una CIA diversa da quella che la sua
fantasia ha costruito. Lei mi ricorda la storia dei ciechi e
dell’elefante. Sa quale? Arriva un elefante e i quattro ciechi gli si
avvicinano. Uno gli tocca la proboscide e dice: «È una lancia». Uno gli
tocca una zampa e dice: «È un albero». Uno gli tocca la coda e dice: «È
un serpente». Uno gli tocca un fianco e dice: «È un muro». E nessuno di
loro si accorge che, nell’insieme, è un elefante. Certo una parte della
colpa è nostra. L’Intelligence dovrebbe essere segreto totale. Quando
Schlesinger divenne direttore della CIA, disse: «Perché sull’autostrada
non c’è un cartello che indica l’edificio della CIA?». Gli rispondemmo:
«C’era ma quando Kennedy divenne presidente ci ordinò di toglierlo
giudicando ridicolo che un servizio segreto fosse indicato con un
cartello sull’autostrada». E Schlesinger rispose: «Rimettetelo». Così lo
rimettemmo e... Ma la democrazia non dipende forse dal segreto? Il voto
non è forse segreto?
Eppure lei è proprio quello che ha
infranto il segreto. Si pente mai di aver rivelato tante cose ai
comitati di investigazione? Poteva rifiutarsi?
Certo non mi
pento di aver detto la verità. Non ho mai avuto dubbi o esitazioni sul
fatto di dover rispondere alle loro domande con la verità. Quanto a
rifiutarmi di testimoniare, non avrei potuto neanche se avessi voluto.
La legge mi ingiungeva di parlare. Non avevo scelta. Non mi aspettavo
nemmeno che le mie rivelazioni restassero segrete. Però non credevo che
certi casi venissero così sensazionalizzati. Il fatto è che non è comodo
vivere in una società aperta come quella americana. Consideri il caso
di Richard Welsh, l’agente della CIA ammazzato ad Atene. Sa come sono
andate le cose? Un anno fa un funzionario chiamato John March scrisse un
articolo, qui a Washington, sostenendo di sapere come si fa a
identificare nelle varie ambasciate chi lavora per la CIA. E lo
dimostrò. Avremmo potuto impedirlo? No. Avremmo potuto impedire che i
vari nomi fossero pubblicati? No. La nostra legislazione è debole in
quel senso. Perché il rapporto Pike non fosse pubblicato è stato
necessario l’intervento del Parlamento. E perché il Parlamento giungesse
a tanto è stato necessario che Welsh morisse. Una perdita enorme per
noi della CIA. Enorme. Era un agente estremamente abile.
Era stato anche in Cile?
Non so, era stato in vari paesi dell’America Latina.
Parliamo
un po’ del rapporto Pike. Anche nel rapporto Church la CIA fa una
pessima figura. Ma in quello di Pike, siamo sinceri, passa proprio da
cretina. Non si sa se ridere o piangere, ecco.
Il rapporto Pike è
assolutamente parziale, totalmente prevenuto, e scritto con
l’intenzione di screditare la CIA. Il rapporto Church, cioè quello sugli
assassinii e sul Cile, è abbastanza giusto. Quello Pike è... è... Non
c’è nemmeno tutto quello che ho detto! Lui afferma che lo spionaggio
della CIA è così cattivo che, se l’America fosse attaccata, non lo
saprebbe in tempo. È una dichiarazione falsa. E insensata. E
irresponsabile. Tutto ciò che Pike afferma in quel senso non viene
nemmeno dalle sue investigazioni: viene dalle nostre stesse critiche.
Lui non ha fatto che prendere le nostre carte e copiarle. Ma non le
carte che parlano dei nostri successi: quelle che parlano dei nostri
insuccessi! Prenda l’esempio del Medio Oriente. Nella primavera del 1973
noi dicemmo al nostro governo che, ammeno di un intervento politico,
con probabilità ci sarebbe stata una guerra nel Medio Oriente. E demmo
tutte le informazioni a sostegno di questa tesi. La sera del 5 ottobre
valutammo le cose in altro modo: «Alcuni segni indicano che la guerra
non ci sarà. In complesso riteniamo dunque che la guerra non ci sarà».
D’accordo, questo secondo dispaccio fu un errore. Però, mesi prima,
avevamo detto che forse la guerra ci sarebbe stata, e alla CIA non
leggiamo mica il futuro dentro una palla di cristallo, no? Non lo
sappiamo mica al cento per cento tutto quello che accadrà domani, no?
Signor
Colby, per una Intelligence che si vanta d’essere la migliore del
mondo, l’errore mi sembra grossino. Quasi grosso come quello che
commetteste in Cecoslovacchia quando per due settimane «perdeste»
l’esercito sovietico e fu l’ambasciatore sovietico a dire a Johnson cosa
stava accadendo. Quanto al Portogallo... Non sapevate nulla neanche sul
Portogallo.
Sapevamo qualcosa, checché ne dica il signor Pike.
Sapevamo che c’erano dissensi nell’esercito, che c’era disagio. E lo
dicemmo al nostro governo. Il Portogallo, guardi... Come per la guerra
tra gli arabi e Israele, uno può conoscere il quadro nel suo insieme e
poi fare piccoli errori. Il Portogallo non lo seguivamo nei dettagli
perché a quel tempo non era importante.
Però, dopo, lo avete seguito bene. No?
Eh,
sì. Certo. Ora sappiamo tutto quel che succede, eccome. Uno non dà
molta importanza a ciò che succede nell’Antartide oggi. Ma, se
nell’Antartide scoppia una guerra, le cose cambiano.
Voglio dire, tutte quelle sommosse nel nord del Portogallo quando i cattolici si ribellarono a Cunhal. Uno zampino di CIA... eh?
La
gente come lei vede la CIA sotto ogni divano. La vede perfino nei
concorsi per l’elezione del più bel cane dell’anno. Ma quello, ripeto,
riguarda solo il cinque per cento delle attività della CIA. Non abbiamo
il tempo di trovarci in ogni villaggio del mondo. Il Portogallo... cosa
vuole che le dica del Portogallo? È ragionevole dedurre che, dopo,
abbiamo lavorato molto duramente su ciò che stava succedendo.
Un aiutino qua, un aiutino là...
No comment. Né sull’Italia, né sul Portogallo, né su alcun paese specifico.
Suvvia,
signor Colby. Non vorrà farci credere che l’Italia è il solo paese dove
la CIA ha speso miliardi. Perché non mi parla, ad esempio, della
Germania?
Certi paragoni non sono possibili. Ogni paese è un
caso a parte. Noi ci preoccupiamo e ci siamo sempre preoccupati di tutti
i paesi europei. L’Europa è molto importante per gli Stati Uniti.
Tutta. E non direi proprio che l’Italia sia il paese dove abbiamo dovuto
lavorare di più. Quanto alla Germania... ha abbastanza soldi per conto
suo. Io posso dirle soltanto che il posto dove noi della CIA abbiamo
avuto maggiore successo nel mondo è, indiscutibilmente, l’Europa
occidentale. Un programma davvero riuscito.
Signor Colby, chi ha voluto che lei lasciasse la direzione della CIA? Kissinger?
No.
Kissinger è sempre stato un grande sostenitore dell’Intelligence. Tra
me e lui vi sono stati momenti di accordo e di disaccordo, però non
siamo affatto nemici. Di Kissinger non posso che dire un gran bene:
ritengo che sia stato un eccellente segretario di Stato e che meriti un
Premio Nobel per la Pace. Un altro. Sì. Per il Medio Oriente. Io sono
fuori della CIA perché il presidente mi fece sapere che intendeva
offrirmi un altro lavoro e... Il presidente può avere molte ragioni per
cambiare il capo della CIA. È un suo privilegio e... Mi offrì un altro
lavoro ma io lo rifiutai. Gli dissi che avrei servito meglio la CIA
scrivendo un libro su ciò che la CIA è veramente e... Del resto, quando
ebbero inizio le investigazioni senatoriali, io fui il primo a dire che
al mio posto ci sarebbe voluto una faccia nuova. Le assicuro che non v’è
in me nessuna amarezza.
Lo vedo. Niente scuote il suo gelo, la sua imperturbabilità.
Non
sono un emotivo, lo ammetto. Però alcune cose mi feriscono. Come quando
fui nominato capo della CIA e un gruppo innominato riempì Washington di
manifesti che mi definivano assassino. La cosa mi ferì. Molto. Proprio
come quando lei dice che la CIA è una associazione di assassini. Per
settimane i miei figli dovettero vivere con quei manifesti e...
Capita mai che i suoi figli le diano di «sporco reazionario»?
Reazionario...
no. Conservatore semmai. Ci sono discussioni in famiglia. I miei figli
erano contro la guerra in Vietnam, si figuri e... Non smentisco d’essere
un conservatore. Votai per Nixon. E ancora oggi ritengo che, in
politica internazionale, egli abbia fatto un lavoro splendido. Pensi
alla Cina, a...
... al Cile, a Cipro, al finanziamento dei
democristiani e dei socialdemocratici in Italia. Signor Colby, sono
esausta. Solo quando intervistai Cunhal soffrii quanto ho sofferto con
lei.
Mi dica, mi dica: che tipo è Cunhal?
Gliel’ho detto: in fondo, un tipo come lei.
Cosa?!?
Sì,
un prete come lei. Oh, non capirà mai, signor Colby, quanto vi
assomigliate voi due. Se fosse nato dall’altra parte della barricata,
lei sarebbe uno stalinista perfetto.
Respingo con sdegno questa
affermazione. Però, forse... No, no. E non sono un prete. Tutt’al più
sono un puritano. Nessun’altra domanda?
Una sola. Posso leggere il rapporto che la CIA ha su di me?
Secondo
la legge americana, lei può scrivere una lettera alla CIA e chiedere di
leggere qualsiasi cosa abbiamo su di lei. Le costerà qualcosa, spese di
francobolli eccetera, ma le faranno vedere tutto. Ammenoché non esista
qualche ragione per tenere segreto il rapporto. Antropov, il capo del
KGB, può fare lo stesso. Non è ridicolo?
No, è sconcertante. Ma tutto ciò che mi ha detto era sconcertante,
signor Colby. E molto, molto triste.
http://www.oriana-fallaci.com/colby/intervista.html