Pier Luigi Vercesi per Sette del Corriere della Sera
«Cosa
stai dicendo al papa?». Sulla scrivania di Lilli Gruber sono sparse
foto in cui dialoga con Francesco. Lui sorride, lei parla.
«Ho
voluto incontrarlo perché è una figura di rottura. Naturale che gran
parte del clero romano non ami quel che fa e dice. Credo rappresenti,
nell’era Trump, un’alternativa credibile sui grandi temi che ci
preoccupano: disuguaglianze, migrazioni, ecologia, corruzione».
«Non dirmi che l’hai invitato a Otto e mezzo...».
«Certo,
mi ha risposto che è molto impegnato. Poi ha aggiunto: “Voi giornalisti
avete una grande responsabilità e tre obblighi: bellezza, bontà,
verità».
«In questa sequenza?».
«Sì,
in pochi secondi mi ha ricordato come va fatto il nostro mestiere: nel
suo spirito queste parole esprimono tre grandi valori morali e di
disciplina intellettuale. Gli ho risposto: “Santo Padre, il più
difficile è l’ultimo”».
Lilli Gruber è il volto giornalistico più noto d’Italia. Il suo Otto e mezzo
in onda su La Sette sta macinando record d'ascolto: ogni sera racconta
l’Italia e il mondo a quasi due milioni di italiani non arrendendosi
all’apparenza dei fatti e dando voce ai contendenti. Stavolta, però, è
seduta dall’altra parte della scrivania, anche se le domande preferisce
farle che riceverle.
Ricordo
uno dei tuoi libri, il racconto in presa diretta della caduta del Muro
di Berlino. Non hai la sensazione che il ciclo cominciato allora si stia
chiudendo con l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati
Uniti?
«In questi anni non è stato
ricostruito un nuovo ordine mondiale come se lo immaginavano i Grandi
della Terra di allora. Quando si è sgretolato il mondo suddiviso in due
blocchi contrapposti, mai avremmo pensato che l’ex Unione Sovietica
potesse tornare forte come oggi. E nemmeno cosa sarebbe accaduto in
Cina. L’America è stata segnata dalle guerre decise da George W. Bush e
Bush padre. Allora si sperava in un radioso futuro globale di
democrazia, benessere, uguaglianza».
Si parlava addirittura di fine della Storia.
«La
realtà torna sempre alla ribalta, interpellandoti. Non si sono più
combattute grandi guerre mondiali ma i micro-conflitti hanno un impatto
enorme. Credo si stia chiudendo un ciclo per l’Occidente e i sinceri
democratici sono chiamati a confrontarsi con una fase di grandi
turbolenze. La crescita delle diseguaglianze è il problema principale:
il famoso 1% della popolazione detiene gran parte della ricchezza del
mondo; i nazionalismi crescono ovunque, e quando monta la paura è
difficile immaginarsi un futuro migliore. Trovo preoccupante che i
leader politici ci vogliano riportare indietro nella Storia. Trump vince
con lo slogan “Make America great again”, la Brexit si afferma
sull’onda del “dobbiamo difendere i nostri valori”; aggiungi Marine
LePen, la Germania, l’Italia... tutti a sbandierare valori privi di
contenuto».
Nostalgia: questi valori sono mai realmente esistiti?
«Se
dici che in America era meglio negli anni ’60, devi anche ricordare che
forse era meglio per i bianchi, ma per i neri erano anni terribili. La
globalizzazione ha messo sotto pressione l’Occidente, ma ha consentito a
centinaia di milioni di altre persone di migliorare la loro condizione
di vita. Oggi si fanno promesse impossibili da mantenere. È come se
mancassero gli ideali necessari per immaginare un mondo diverso. Dopo la
vittoria della Brexit, in Gran Bretagna non solo i problemi restano
irrisolti, ma ora cominciano i veri guai. Theresa May dice: “We want our country back”, rivogliamo indietro la nostra Patria. E anche: “We will promote British values”,
vogliamo promuovere i valori britannici. Cita uguaglianza, rispetto per
le minoranze, stato di diritto. L’uguaglianza dov’è? E il rispetto per
le minoranze? Lei stessa comincia escludendo».
Uno dei motivi per cui sono usciti dall’Europa è che non volevano i polacchi…
«Appunto.
Pochi giorni fa Tata Steel, che impiega in Gran Bretagna circa 11.000
persone, decide che non le conviene più produrre in Gran Bretagna e
vuole dismettere gli impianti. Tutti si mobilitano. Alla fine cosa
succede? Pur di tenere Tata Steel in patria e tutelare i posti di
lavoro, i sindacati accettano una riduzione dei salari e del piano
pensionistico. Ma non ci avevano spiegato che lasciando l’Ue, che
penalizzava i loro lavoratori, sarebbero diventati un paradiso?».
Gli
Oxford Dictionaries hanno scelto “post-truth” come parola dell’anno.
Ovvero verità percepita, non supportata da dati concreti. Si continua a
dire “la pancia del Paese”, forse non esiste più un “cervello del
Paese”?
«Da
tempo nelle società liquide assistiamo a una crescente distanza tra la
realtà e l’informazione che consumiamo. Un’informazione che, sempre meno
ancorata a fatti verificati, lascia il posto a percezioni ed emozioni.
Così è facile invitare l’elettore a votare con la pancia. Per questo i
bravi giornalisti, gli artigiani della notizia, restano fondamentali per
la costruzione del tessuto democratico di un Paese».
Ma i giornalisti sono ormai percepiti come parte della “casta”: quel che dicono scatena una reazione contraria.
«Cosa
significa essere “casta”? Se significa avere visibilità lavorando con
trasparenza, onestà e credibilità, questa non è casta. I giornalisti del
Watergate, per esempio, erano noti e capaci di influenzare l’opinione
pubblica grazie al loro minuzioso lavoro di investigazione e di ricerca
dei fatti, non perché diffondevano bufale o post-verità non suffragate
da prove concrete.
Populismo
e post-verità sono complementari, e l’intreccio rischia di diventare
fatale. Viene erosa la fiducia nell’autorità e nelle istituzioni, mentre
aumenta quella “nella gente come me”. Trump dice: sono uno di voi. Come
un immobiliarista miliardario possa essere simile a un lavoratore dalla
Pennsylvania non si capisce, però si presenta così e ha successo.
Perché se tu “sei uno come noi” vuol dire che “io sono come te”: di
conseguenza, ciò che dico e penso vale quanto l’opinione dell’esperto,
dello studioso, del giornalista.
Il
ricercatore Nicolò Porcelluzzi ha dimostrato che i discorsi di Trump
hanno una complessità sintattica comprensibile da un alunno di quarta
elementare. Le dieci parole più utilizzate sono: people (gente), great (grande), now (oggi), country (Paese), China (Cina), good (buono), right (giusto), big (grande), world (mondo), billion (miliardo). C’è populismo, sensazionalismo, urgenza, paranoia. Ma credo che questa semplificazione non reggerà a lungo».
Molti penseranno: se è così, lasciamo che trionfi la post-verità, anzi, approfittiamone.
«No,
dobbiamo intervenire là dove la post-verità impera, soprattutto Twitter
e Facebook. I siti che diffondono bugie vanno contrastati con la
“controinformazione”. Bisogna intervenire alla radice della creazione di
informazioni false. Vale per noi, per i ricercatori, i politici, per
ogni segmento del tessuto sociale di una democrazia sana».
Un paradosso: controinformazione della controinformazione per dire la verità.
«Le
tecnologie determinano i contenuti, è sempre stato così. Le più recenti
hanno generato mezzi di comunicazione più superficiali e facilmente
manipolabili. La tecnologia opera indipendentemente da quello che noi
vorremmo. Poi però c’è la realtà di un mondo, l’Occidente, che ha
vissuto decenni di crescita e benessere oggettivo pensando che fosse a
costo zero, che fossimo su un’isola, mentre attorno…».
... Quattro miliardi di persone morivano di fame.
«Esatto,
e gli interessi economici e finanziari potevano allargare il loro
raggio di azione a un mondo sempre più vasto. Siamo diventati decadenti,
abbiamo creduto che il consumo fosse un valore fondamentale nelle
nostre vite, abbiamo pensato che educare i nostri figli non fosse più
necessario. L’autorità è importante in un processo formativo, e deve
essere credibile. Contestualmente sono cresciute l’ineguaglianza e la
corruzione e abbiamo cominciato a tornare indietro. Abbiamo perso la
strada».
Da un punto di vista morale, mi pare di capire.
«Io
ho avuto un’educazione austroungarica, molto severa. Con mille errori,
certo, però con dei punti fermi: i valori venivano riempiti di
contenuto, era scontata l’assunzione di responsabilità che comincia da
quando sei piccolo, da quando vai a scuola e il tuo dovere è di essere
promosso. Se sbagli non è colpa del maestro, non è sempre colpa di
qualcun altro. Se ognuno facesse il proprio dovere, le cose andrebbero
meglio. Possono sembrare discorsi semplicistici, ma credo si debba
ripartire dai fondamentali, altrimenti il Paese è finito».
Parliamo
di una crisi che continua da 7-8 anni e in Italia ha la sua principale
manifestazione nel tasso di disoccupazione. Negli Usa, quel tasso non è
mai stato così basso, eppure la percezione del malessere è identica se
non peggiore a quella europea. Cosa significa?
«La
disoccupazione negli Usa è al 5% circa, ma i salari sono peggiorati e
la classe media scivola verso il basso. Si lavora di più e si viene
pagati meno. Trump indica Wall Street e la finanza internazionale come i
cattivi. C’è del vero, naturalmente».
Ma lui non è il loro miglior rappresentante?
«Questo
la dice lunga su come i fatti diventano irrilevanti quando l’opinione
pubblica è arrabbiata. Noi, con il nostro referendum, ne siamo un
esempio. Renzi l’ha personalizzato, e se anche non l’avesse fatto lui
l’avrebbero fatto le opposizioni: era chiaro da mesi che stavamo andando
verso un plebiscito su di lui. Quelli che hanno votato sulla
Costituzione alla fine sono un’esigua minoranza, e c’è da chiedersi se
questioni molto complesse debbano essere sottoposte a consultazione
popolare.
In
Italia abbiamo una democrazia rappresentativa, quindi eleggiamo chi
pensiamo possa rappresentarci al meglio e, si presume, con competenza.
Ma ormai si è fatta una gran confusione. E in Europa è ancora peggio.
Troppo spesso gli eurodeputati dicono una cosa a Bruxelles e il suo
esatto contrario nel loro Paese. L’ho constatato di persona nella mia
esperienza di parlamentare europeo: avevo in mano il dossier
immigrazione, eravamo tutti d’accordo sull’apertura di corridoi di
immigrazione legale e sul contrasto a quella illegale nei Paesi di
partenza, ecc... Poi i politici tornavano a casa loro e ululavano contro
i migranti e contro l’Europa. Non si può fare il doppio gioco per così
tanto tempo senza conseguenze deleterie sull’opinione pubblica».
Già, l’immigrazione, grande tema del 2016 che li abbraccia tutti, a partire dalla guerra in Siria, dall’Isis, dal terrorismo.
«Nel
2016 abbiamo sconfitto l’Isis. Diciamo che quando la comunità
internazionale ha deciso che andava combattuto, così è stato. Ma il brand,
il marchio Isis non è morto. Dove vanno i combattenti che stanno
lasciando Aleppo e le altre zone occupate? Lì c’è di tutto: estremisti
islamici, ceceni, afghani, pakistani, europei di provenienza araba. C’è
un Islam estremista sovvenzionato soprattutto dall’Arabia Saudita: danno
soldi, armi, costruiscono moschee. Abbiamo per esempio consentito ai
sauditi di finanziare per decenni la grande moschea di Bruxelles in
pieno centro città. Sono troppe le incongruenze, per usare un eufemismo,
nei rapporti dell’Occidente con alcuni Paesi arabi».
Prima al-Qaeda, poi l’Isis…pensi davvero che l’estremismo islamico si possa riorganizzare?
«Credo
possa in Afghanistan, uno Stato ormai fallito. I talebani hanno ripreso
quasi tutto. Lì al-Qaeda prese forma, e non dimentichiamo che i
mujaheddin sono stati foraggiati dagli americani per contrastare i
russi. Queste cose bisogna ricordarsele, altrimenti si può pensare che
certi fenomeni arrivino dal nulla. Poi tutti hanno avuto le loro
cosiddette “guerre per procura”: ogni Paese dello scacchiere
mediorientale ha voluto giocare la propria partita nell’area più
incendiaria, più massacrata del mondo. Questi sono i risultati. Ci
possiamo stupire? Abbiamo detto per anni che il Medio Oriente aveva
bisogno di una pacificazione seria che non è mai avvenuta, a cominciare
dalla soluzione del problema israelo-palestinese. Pensavamo davvero che
le cosiddette primavere arabe a forza di tweet avrebbero messo radici?
Ma dai. L’Egitto è un Paese di quasi 90 milioni di abitanti dove il
tasso di povertà è altissimo e la stragrande maggioranza non sa neanche
cosa sia un tweet. Siamo sempre troppo frettolosi nell’abbracciare le
narrazioni epiche. La verifica sul campo dimostra che non esistono».
Un altro errore delle élite occidentali?
«Mi
riesce difficile pensare che l’amministrazione americana, con al
proprio interno i massimi esperti di Medio Oriente, mondo arabo, Islam
non abbia avuto a disposizione un’analisi dettagliata della realtà. Sono
stata in Iraq nel 2002, 2003, 2004, prima ero stata in America per l’11
settembre e ho toccato con mano come si costruisce una grande menzogna
giorno per giorno, come i giornalisti a un certo punto sembrano non
riuscire più a resistere a una propaganda talmente assordante che
distinguere il vero dal falso è possibile solo con un esercizio
quotidiano di ricerca, di studio e di equilibrio psicologico. Qualcuno
poteva pensare che abbattendo Saddam Hussein sarebbe arrivata la
democrazia in Iraq? Non raccontiamoci sciocchezze. Non faccio certo la
difesa dei feroci dittatori, ma un bagno di realtà. La cosa più
difficile da spiegare all’opinione pubblica è che non esistono soluzioni
semplici per problemi complessi. Capisco che per un politico sia il
peggior slogan possibile, ma questa è la verità».
Eccoci
arrivati alla Russia, con la scenografica uccisione dell’ambasciatore
di Mosca ad Ankara. Paga il prezzo per essersi esposta più degli
americani in Siria?
«Non
sottovaluterei comunque il ruolo di Obama in Siria. Sì, ha fornito droni
più che uomini, ma le uccisioni mirate hanno decapitato la classe
dirigente dell’Isis. Non credo che Trump cambierà strategia. L’America
non si mobiliterà per tentare un’altra avventura come quella irachena
del 2003. Quindi, il problema dell’estremismo islamico ora sarà
soprattutto nostro e russo, oltre che di tanti musulmani».
Credi che la grande apertura di Trump a Putin sia reale?
«Penso
di sì. Non credo che il Trump che abbiamo visto in campagna elettorale
cambierà. Lo dimostra con ogni sua nomina. Sta mettendo insieme una
squadra composta da militari, razzisti, miliardari, ex finanzieri e
amici di Putin. Non riuscirà invece a mantenere le promesse fatte contro
la globalizzazione, perché non potrà arrestare i suoi processi
macroeconomici, come non fermerà le migrazioni. Sarà curioso vedere cosa
racconterà agli americani e alla stampa. Trump non ama i giornalisti,
almeno quelli che cercano di fare bene il proprio lavoro. Potrebbe
ricorrere all’Espionage Act, che rende illegale la diffusione di
informazioni che possono mettere a repentaglio la sicurezza nazionale,
incriminando i giornalisti e perseguendo anche le fonti. Diventerebbe
così oggettivamente molto più difficile vigilare sull’attività di
governo. I confini sono molto labili e pericolosi per l’autonomia della
professione».
Pur
non essendo mai stata iscritta a un partito tu sei stata parlamentare
europea eletta nelle file della sinistra. Che fine hanno fatto quelle
idee? Perché la sinistra non rappresenta più i deboli?
«Per
la precisione ero capolista indipendente dell’Ulivo, un’alleanza di
centrosinistra. Purtroppo i partiti social-democratici hanno adottato
spesso politiche economiche neoliberiste e questo ha prodotto,
oggettivamente, un aumento della disuguaglianza, della povertà e della
corruzione. I cittadini che avevano riposto le loro speranze in chi
tradizionalmente difendeva i loro diritti, hanno avuto l’impressione di
essere stati traditi. Non puoi non mettere la giustizia sociale e il
crescente divario tra ricchi e poveri al centro dell’azione politica: se
non lo fa la sinistra, lo fa la destra. Arriva qualcuno che si presenta
come più vicino ai bisogni dell’elettore, più moderno, più adeguato a
gestire l’emergenza del nostro tempo. Non a caso uno degli slogan, non
solo dei grillini, ma di tutte queste forze è: “Non siamo né di destra
né di sinistra, categorie che non esistono più!”. Non esistono più? Non
lo so».
Una notizia passata sotto traccia che ti ha colpita nel 2016?
«Milena Gabanelli che se ne va da Report.
La sua squadra porterà avanti il suo lavoro, vent’anni di giornalismo
investigativo molto prezioso, però lei è l’icona di quel modo di
lavorare che non guarda in faccia nessuno. La dimostrazione che il
giornalismo serio non può essere prodotto da un algoritmo. Spero torni
presto».
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/gruber-alles-fuori-otto-mezzo-lilli-scodella-apertamente-suo-138639.htm
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