sabato 28 novembre 2015

IL TONFO DELLE BORSE CINESI, CON LA Più GRANDE BANCA D'AFFARI (CITIC) CHE HA BARATO SUI DERIVATI, NON DEPRIME MILANO, CHE CHIUDE PIATTA - CRESCE ANCORA LA FIDUCIA DI CONSUMATORI E IMPRESE, MA L'ISTAT HA FATTO LE RILEVAZIONI PRIMA DEGLI ATTENTATI - INTESA PASSA I TEST PATRIMONIALI BCE Gli acquisti su Telecom Italia (+2,8% sul via al processo di vendita di Inwit), su Mps (+1,9%) e Intesa Sanpaolo (+0,6%), promosse dall'ultimo esame di patrimonializzazione della Bce, hanno compensato le vendite su lusso e petroliferi e i realizzi su St e Cnh. In fondo al Ftse Mib Moncler (-3,2%) e Buzzi Unicem (-3%)...

BORSA: EUROPA TIRA REMI IN BARCA E CERCA SPINTA DA BCE, TELECOM OK A MILANO
IL SUPER RIPORTO DI WANG DONGMING DI CITIC IL SUPER RIPORTO DI WANG DONGMING DI CITIC
Radiocor - Il nuovo scossone dei mercati cinesi e lo scarso apporto degli investitori Usa, vista la festivita' del Ringraziamento, hanno fatto tirare i remi in barca alle Borse europee che si preparano invece a ricevere dalla Bce di Mario Draghi la direzione per il finale di 2015.

Il tonfo di Shanghai (-5,5%), innescato dall'indagine delle autorita' sulle operazioni di grossi broker a cominciare da Citic, e il brusco dietrofront delle materie prime (dopo il rally legato alla scommessa su acquisti massici di metalli da parte di Pechino) hanno caratterizzato una seduta di Borsa in cui gli indici si sono mossi poco e le vendite hanno colpito innanzitutto i minerari, l'energia e il settore chimico. Gli operatori sono gia' proiettati sulla prossima settimana che sara' ricca di spunti macroeconomici e culminera' nella riunione della Banca centrale europea. Francoforte, Parigi e Madrid hanno chiuso la seduta con una flessione intor no allo 0,3%, mentre Milano ha registrato un -0,07% nel Ftse Mib.
Wang Dongming CITIC Wang Dongming CITIC

Gli acquisti su Telecom Italia (+2,8% sul via al processo di vendita di Inwit), su Mps (+1,9%) e Intesa Sanpaolo(+0,6%), promosse come tutti gli istituti dall'ultimo esame di patrimonializzazione della Bce, hanno compensato le vendite su lusso e petroliferi e i realizzi su St e Cnh. In fondo al Ftse Mib Moncler (-3,2%) e Buzzi Unicem (-3%) che ha pagato il timore sull'esito dell'indagine Antitrust sui cementieri per presunti accordi sul prezzo del cemento. Il petrolio ha sofferto il malumore sulle materie prime e il rafforzamento del dollaro: -1% il Wti a 42,07 dollari al barile. L'euro e' tornato sotto 1,06 dollari scambiando a 1,0594 (1,0611 ieri sera).

2.CINA: CITIC HA BARATO SUI DERIVATI PER $166 MILIARDI
Alberto Battaglia - http://www.wallstreetitalia.com/ - Citic Securities, la più grande banca d’affari cinese, ha sovrastimato il proprio portafoglio di titoli derivati di 166 miliardi di dollari da aprile a settembre. Lo ha denunciato l’Associazione nazionale cinese sui titoli. Più precisamente viene contestato un report sulle transazioni di equity swap inoltrato lo scorso ottobre.

IL SUPER RIPORTO DI WANG DONGMING DI CITIC IL SUPER RIPORTO DI WANG DONGMING DI CITIC
A spiegare l’irregolarità sarebbe un errore del sistema, secondo quanto rispondono dalla banca d’affari.

Durante questo mese l’entità detenuta da Citic degli equity swaps (ossia titoli derivati in cui le due parti si accordano in date certe lo scambio dei profitti realizzati l’una conun indice di titoli, l’altra con un tasso d’interesse fisso) era stato ridimensionato a 6,2 miliardi di dollari.

Le azioni di Citic Securities sono scese – 1% circa alla borsa di Shanghai. Già in settembre era costata cara al titolo la notizia che tre dirigenti, incluso il presidente della banca, erano finiti sotto indagine.


3.DAMIANI: CONTI IN ROSSO PER LA HOLDING LUSSEMBURGHESE LEADING JEWELS
Radiocor - Conti in rosso per Leading Jewels, la finanziaria lussemburghese che controlla Damiani, storico marchio della gioielleria 'made in Italy'. Come emerge dai documenti consultati da Radiocor, nel 2014 la holding - che detiene il 58,8% della Damiani Spa - ha segnato una perdita di 718 mila euro dopo il disavanzo di 697 mila euro del 2013. Le perdite riportate a nuovo della finanziaria - fondata nel luglio 2007, pochi mesi prima dell'entrata in Borsa della Damiani - sfiorano gli 8 milioni di euro. La quota in Casa Damiani e' contabilizzata a 40,5 milioni a fine 2014, dopo una correzione di valore di 2,8 milioni nel 2013.

gioielli damiani logo gioielli damiani logo
L'indebitamento e' di 21,2 milioni di euro. In bilancio figura anche un rapporto creditizio con un'altra lussemburghese della ramificata galassia della famiglia Damiani, la Roof Garden, che ha invece chiuso il 2014 con un utile netto di 10,9 milioni, il doppio rispetto ai 5,4 milioni del 2013. A Roof Gard en fanno capo il 100% di alcune societa' italiane (Immobiliare Miralto, Magenta 82, Montenapoleone 10 e Duomo 25) e due immobili a New York e Dubai. Si tratta in generale di immobili in locazione al gruppo Damiani e gli asset complessivi ammontano a 38,4 milioni di euro.

La Roof Garden e' stata peraltro oggetto di una scissione che ha portato alla creazione il 1 gennaio scorso di tre nuove societa', la GreenRoof, la Ziggurats e la Caesarea, di cui e' amministratore Giorgio Grassi Damiani. La Roof Garden e' ora in liquidazione volontaria, come ha deciso l'assemblea del 3 novembre scorso. Le azioni delle tre nuove societa' sono attribuite a due fiduciarie, la Comfid e la Comitalia e alla capofila lussemburghese, la D. Holding. Quest'ultima in base al bilancio 2013 (l'ultimo disponibile) controlla la Leading Jewels con il 60,82% e detiene anche il 34% della Roof Garden.

4.MODA: LE CALZE LEVANTE RIPARTONO, LTV RILEVA AZIENDA DAL TRIBUNALE
Radiocor - Levante, azienda di calze fondata circa 50 anni fa dalla famiglia Pacchioni e fallita nel 2014, e' stata rilevata dal Tribunale di Mantova insieme ai complessi aziendali di Levante SpA e Tintoria Elledue SpA. Secondo quanto apprende Radiocor ad acquistare e' stata la LVT di Castel Goffredo, societa' nata nel 2013 che fa capo per il 99,73% all'importatore storico per il Medio Oriente, George Steimberg.

Detengono quote frazionali anche alcuni esponenti della famiglia Pacchioni, operativi in azienda (lo 0,13% e' di Claudio Pacchioni, lo 0,07% di Alessandro e lo 0,07% di Noris). Presidente e amministratore delegato e' stato nominato Giuliano Franceschini, proveniente dal mondo della finanza internazionale che ha gia' guidato la chiusura della complessa trattative con la Curatela e sta portando avanti la rinascita dell'azienda. LVT SpA ha concluso l'accordo definitivo di cessione per circa 13 milioni, somma concordata con la Curatela che comprende l'acquisto del magazzino, gli affitti dei rami d'azienda degli immobili fino ad oggi e il costo del riacquisto vero e proprio della societa' pari a 5,3 milioni. Quest'ultima somma sara' versata per meta' all'atto di acquisto e il resto in rate che scadranno nel 2018.
CARLO MESSINA GIOVANNI BAZOLI CARLO MESSINA GIOVANNI BAZOLI

5.INTESA SP: BCE, 'AMPIAMENTE RISPETTATI' REQUISITI PATRIMONIALI SREP
Radiocor - Intesa Sanpaolo ha ricevuto la decisione finale della Bce relativa ai requisiti patrimoniali da rispettare a partire dal primo gennaio 2016, a seguito degli esiti del Supervisory Rewiew and Evaluation Process (Srep), che consistono in un coefficiente patrimoniale a livello consolidato pari al 9,5% in termini di Common Equity Tier 1 ratio. I coefficenti patrimoniali di Intesa a fine settembre, tenendo conto di 1,5 miliardi di dividendi maturati nei primi nove mesi, risultano del 13,4% in termini di Common Equity Tier 1 ratio (in base ai criteri transitori in vigore per il 2015) e del 13,4% in termini di Common Equity Tier 1 ratio proforma calcolato secondo i criteri a regime.

6.ISTAT: FIDUCIA CONSUMATORI A 118,4 A NOVEMBRE, RECORD STORICO DAL 1995
Radiocor - L'indice del clima di fiducia dei consumatori aumenta a novembre a 118,4 da 117 del mese precedente. Lo comunica Istat segnalando che si tratta del massimo storico dall'inizio della serie datato gennaio 1995. A crescere di piu' e' stata la componente 'clima economico' che raggiunge anch'essa il valore massimo da inizio serie.
istat istat

7.ISTAT: FIDUCIA IMPRESE SALE A 107,1 A NOVEMBRE, MASSIMO DAL 2007
Radiocor - L'indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane mostra una sostanziale stazionarieta' a novembre (107,1 da 107 di ottobre). Tuttavia si tratta del valore massimo da ottobre 2007. Lo comunica Istat.
 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/tonfo-borse-cinesi-pi-grande-banca-affari-citic-che-ha-113926.htm

giovedì 26 novembre 2015

MA COME SONO I RAPPORTI TRA KAKI ELKANN E MARPIONNE? SONO SEMPLICEMENTE TRAGICI 2. LO SPULLOVERATO VUOLE CONQUISTARE GENERAL MOTOR CON OPA OSTILE MA L'EVENTUALE FUSIONE AZZEREREBBE LA QUOTA AGNELLI-ELKANN E IL PALLIDO NIPOTINO SI OPPONE 2. NON SOLO, MARPIONNE AVEVA CONCLUSO GIA' LA SPONSORIZZAZIONE DELL'INTER COL MARCHIO ALFA ROMEO. COSA CHE HA FATTO IMBESTIALIRE ELKANN E ANDREA AGNELLI 3. L’INTERA FAMIGLIA AGNELLI DETESTA L’INDIPENDENZA NAPOLEONICA DI MARPIONNE E IL SUO ARCI-NEMICO MONTEZEMOLO OVVIAMENTE SEMINA ZIZZANIA CON TUTTO IL PARENTADO 4. LAVINIA BORROMEO HA DETTO AL MARITO JOHN: “IL PADRONE SEI TU. LO DEVI CACCIARE” 5. UN MESE FA SERGIONE SI È SPOSATO CON MANUELA BATTEZZATO, DIPENDENTE FIAT, E LEI È STATA SUBITO RIBATTEZZATA “LA BADANTE” PERCHÈ GLI GESTISCE INCONTRI E TELEFONATE 6. DI PIU'. HA PRONTA LE DE-LUCHINIZZAZIONE DELLA FERRARI: FUORI L’AD FELISA E I MANAGER LAI, GHINI E MAIRANO. DI MONTEZUMA A MARANELLO NON DEVE RESTARE PROPRIO NULLA

DAGOREPORT

“Tra Elkann e Marchionne c’è una forte complementarietà e una forma di complicità. John si occupa di strategie e non gestisce il gruppo giorno per giorno”, ha assicurato il gran capo di LVMH, Bernard Arnault, a “Les Echos”. Il quotidiano economico francese, la scorsa settimana, ha dedicato una lungo servizio per celebrare i “successi” del nipote dell’Avvocato e, dopo aver sentito testimoni del rango di Gian Luigi Gabetti e Lapo Elkann, ha sentenziato che “nel giro di un decennio John Elkann ha dimostrato di essere ben più di un ereditiere”.
marchionne grande stevens john elkann marchionne grande stevens john elkann

Non c’è che dire, il ritrattone del quotidiano transalpino è un bel colpo di immagine per John Elkann, che ne esce come uno che comanda davvero. Ma è davvero così? In realtà le voci e i segnali che arrivano da Torino e da Detroit raccontano un’altra storia, assai meno patinata.

sergio marchionne john elkann sergio marchionne john elkann
Ultimamente pare che i rapporti tra il giovine Elkann e Marpionne siano semplicemente “tragici”. L’assoluta indipendenza con la quale il manager dal passaporto canadese (e dalla residenza fiscale svizzera) gestisce Fca comincia a dare sui nervi alla sterminata famiglia Agnelli-Elkann-Nasi. Gli eredi e parenti di Gianni Agnelli hanno un po’ dimenticato che Marchionne, dal 2004 a oggi, ha fatto un autentico miracolo con le sue idee visionarie e ha garantito loro un flusso di dividendi insperato. E oggi covano sentimenti mal mostosi.

renzi elkann marchionne a melfi renzi elkann marchionne a melfi
In questa situazione di nervosismo si è inserito da par suo un altro personaggio che a Torino si considera di “famiglia” come Luca Cordero di Montezemolo, malamente defenestrato dalla Ferrari proprio a opera dello spulloverato di Detroit. Montezuma ha raccontato a vari rami dell’augusto Parentado che negli Stati Uniti Marpionne ha fatto in modo da presentarsi quasi come il proprietario di Fca, relegando Kaki al ruolo di suo ‘’assistente’’ e chiamandolo “il bambino”.
Agnelli Marchionne Agnelli Marchionne

La storia del “bambino” è arrivata anche alle nobili orecchie di Lavinia Borromeo, quella che a casa Elkann porta i pantaloni. “John, il padrone sei tu. Questo lo devi cacciare”, gli avrebbe detto Donna Lavinia. Ma Kaki, che non riesce neppure a mollare il pantano di Rcs, le ha risposto abbastanza impaurito: “Non si può fare. Senza Marchionne Fca che fine farebbe? Negli Usa ci siamo grazie a lui”. Come dargli torto, in effetti.

mary barra general motors mary barra general motors
Kaki Elkann sa perfettamente che il manager, nella sua megalomania, ha portato risultati importanti. Adesso Marpionne si è fissato con una nuova grande impresa, la fusione con Gm, e procede come un treno. Al suo fianco ha un paio di grandi banche d’affari che hanno studiato nei minimi particolari: per lui, che il management della società, guidato da Mary Barra, sia contrario all’alleanza, non è un problema. Lui si rivolgerà direttamente ai soci (come ha fatto Exor con PartnerRe) ed è pronto anche all’Opa ostile.

LAPO E JOHN ELKANN CON LAVINIA BORROMEO FOTO ANSA LAPO E JOHN ELKANN CON LAVINIA BORROMEO FOTO ANSA
A questo progetto John Elkann si oppone perché sa che in un’eventuale GM-FCA il suo peso evaporerebbe quasi del tutto, con una quota finale del 3% scarso. E così il dissidio con Marpionne è esploso e un mese e mezzo fa, nel corso di un loro incontro, si potevano sentire le urla del manager oltre i muri della stanza dove s’erano chiusi.
ANDREA AGNELLI MARCHIONNE ELKANN ANDREA AGNELLI MARCHIONNE ELKANN

In proposito va raccontato anche un episodio quasi comico, ma che rende bene la natura dei veri rapporti tra presidente e amministratore delegato del fu Lingotto. Marchionne, nel suo disperato tentativo di rilanciare il marchio Alfa Romeo, aveva trovato un accordo di sponsorizzazione con un grande club di calcio internazionale. Solo che era internazionale con la “I” maiuscola. Quando Elkann l’ha saputo ha dato di matto. In duplex con il cugino Andrea, presidente della Juventus, gli ha detto: “Ma ti rendi conto? Il nome Alfa Romeo sulle maglie nerazzurre, quelli che ci hanno sfilato lo scudetto ai tempi di Calciopoli?”. E gli ha fatto stracciare il contratto. Marchionne, che segue il calcio con fastidio, ha eseguito, non senza rispondere con un bel “Fate un po’ come c. volete”.
general-motors-sede general-motors-sede SERGIO MARCHIONNE E JOHN ELKANN SERGIO MARCHIONNE E JOHN ELKANN

Sbaglierebbe però chi pensasse che Marpionne abbia in testa solo la scalata a General Motors. Dopo quattro anni, il mese scorso, si è sposato con Manuela Battezzato, funzionaria dell’ufficio stampa conosciuta al Lingotto. Lei lo segue anche a Detroit e gli alti dirigenti di Fca ormai la chiamano “la Badante” (come la Rossi per Berlusconi) perché gli filtra anche le telefonate e gli gestisce gli incontri. Senza passare dalla Battezzato, a Marpionne ormai non si arriva.
SERGIO MARCHIONNE E MANUELA BATTEZZATO SERGIO MARCHIONNE E MANUELA BATTEZZATO

E anche su consiglio della “Badante”, Marpionne ha deciso di fare piazza pulita in Ferrari di tutti i manager dell’era Montezemolo. Una “pulizia etnica” che riguarderà l’ad Amedeo Felisa, il direttore del Museo Ferrari Antonio Ghini, il capo della comunicazione Stefano Lai e il capo del personale Mario Mairano. Perché i ricordi di Luchino vanno totalmente cancellati.

 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/ma-come-sono-rapporti-kaki-elkann-marpionne-sono-semplicemente-113797.htm

giovedì 19 novembre 2015

ELKANN IN BERMUDA - GLI AZIONISTI DI PARTNER-RE DICONO SI' ALLA FUSIONE CON EXOR, UN'OPERAZIONE DA 6,9 MILIARDI - GLI AGNELLI INVESTONO IL CASH INCASSATO DA FERRARI E CHRYSLER E SI TRASFORMANO IN RIASSICURATORI, PRONTI A LASCIARE IL SETTORE DELL'AUTO NEI PROSSIMI ANNI L'assemblea straordinaria degli azionisti della società di riassicurazione PartnerRe, svoltasi oggi a Pembroke (Bermuda), ha approvato l'accordo di fusione firmato da Exor il 2 agosto - A 140,50 dollari per azione, PartnerRe viene (sopra?)valutata 6,9 miliardi...

ANSA) - L'assemblea straordinaria degli azionisti della società di riassicurazione PartnerRe, svoltasi oggi a Pembroke (Bermuda), ha approvato l'accordo di fusione firmato da Exor il 2 agosto. Il perfezionamento dell'operazione è atteso nel primo trimestre del 2016.

L'accordo prevede l'acquisizione da parte di Exor, holding della famiglia Agnelli, di tutte le azioni ordinarie di PartnerRe in circolazione al prezzo di 137,50 dollari per azione in contanti, più un dividendo speciale di 3 dollari per azione, per un controvalore complessivo di 140,50 dollari per azione, con una valorizzazione di PartnerRe di circa 6,9 miliardi. Exor ha già ottenuto tutte le autorizzazioni di legge da parte delle autorità antitrust e ha iniziato a ricevere le autorizzazioni da parte delle autorità assicurative necessarie per il perfezionamento dell'operazione.
PARTNER RE REASSURANCE PARTNER RE REASSURANCE


 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/elkann-bermuda-azionisti-partner-re-dicono-si-fusione-113286.htm

La corsa all’oro nero della Siria e la «guerra degli oleodotti»

Le riserve petrolifere accertate della Siria, ammontanti a 2,5 miliardi di barili, sono maggiori di quelle di tutti i paesi vicini eccetto l’Iraq: lo stima  la U.S. Energy Information Administration,  che di petrolio (soprattutto quello degli altri) se ne intende. Ciò rende la Siria uno dei maggiori produttori ed esportatori di greggio in Medio Oriente.
Il paese possiede anche grosse riserve di gas naturale, usato finora per il consumo interno, soprattutto per riconvertire a gas le centrali termoelettriche.  C’è però un problema, segnala l’agenzia statunitense: dal 1964 le licenze per l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti sono riservate agli enti statali siriani. Ciò procurava allo stato, fino al 2010, un’entrata annua di oltre 4 miliardi di dollari proveniente dall’esportazione di petrolio soprattutto in Europa.
Le cose però stanno cambiando con la guerra.  L’«Esercito libero siriano» si è impadronito di importanti campi petroliferi nell’area di Deir Ezzor. Altri campi, nell’area di Rumeilan, sono controllati dai curdi del Partito di unione democratica, ostili però anche ai «ribelli» con i quali si sono più volte scontrati.
La strategia Usa/Nato punta sui «ribelli», che sono stati aiutati a impadronirsi dei campi petroliferi con un duplice scopo: privare lo stato siriano degli introiti delle esportazioni, già fortemente calati per effetto dell’embargo Ue; far sì che i maggiori giacimenti passino in futuro, tramite i «ribelli», sotto il controllo delle grandi compagnie petrolifere occidentali. Fondamentale, a tal fine, è il controllo  della rete interna di oleodotti e gasdotti. Questa è stata sabotata dai «ribelli» in più punti, soprattutto nei pressi di Homs dove c’è una delle due raffinerie del paese, per interrompere la fornitura di prodotti petroliferi.
Ma c’è un’altra posta in gioco strategicamente ancora più importante: il ruolo della Siria quale hub di corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee. La «guerra degli oleodotti» è iniziata da tempo: nel 2003, invadendo l’Iraq, gli Stati uniti hanno subito distrutto l’oleodotto Kirkuk-Banias che trasportava in Siria il greggio iracheno. E’ restato però in funzione quello tra Ain Zalah e Suweidiva. Successivamente, sfidando i divieti di Washington, Damasco e Baghdad hanno varato il progetto di due oleodotti e un gasdotto che, attraverso la Siria, collegheranno i giacimenti iracheni al Mediterraneo e quindi ai mercati esteri. Ancora più pericoloso per gli interessi occidentali l’accordo stipulato nel maggio 2011 tra Damasco, Baghdad e Teheran: esso prevede la realizzazione di un gasdotto che, attraverso l’Iraq, trasporterà il gas naturale iraniano in Siria e da qui ai mercati esteri. Questi e altri progetti, già finanziati, sono stati bloccati da quelle che l’agenzia statunitense  definisce «le incerte condizioni di sicurezza in Siria».
Manlio Dinucci

 http://www.imolaoggi.it/2013/04/29/la-corsa-alloro-nero-della-siria-e-la-guerra-degli-oleodotti/

martedì 17 novembre 2015

E ORA “CANTA” DON RAFFAÈ - DOPO 34 ANNI DI ISOLAMENTO, PERCHE' CUTOLO HA DECISO DI COLLABORARE CON LO STATO? - DUE MESI FA HA PARLATO DEL RAPIMENTO MORO (VERBALE SECRETATO) Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l’ex capo della Nco? Ha riferito circostanze che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di totale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito “usato e abbandonato”?... -

Paolo Berizzi per “la Repubblica”

Nessun pentimento («solo davanti a Dio» ). Nemmeno una dissociazione. Ma, per la prima volta dopo oltre mezzo secolo dietro le sbarre — 34 anni in isolamento, 23 in regime di 41 bis — , Raffaele Cutolo ha deciso di collaborare con lo Stato. Una scelta clamorosa che
Repubblica è in grado di rivelare e di ricostruire. Una scelta maturata recentemente, in gran segreto, nel carcere di Parma, dove l’ex capo della Nuova camorra organizzata ha appena compiuto 74 anni.

rosetta cutolo rosetta cutolo
Qui, due mesi fa, Cutolo ha chiesto — a sorpresa — di essere interrogato sul rapimento e la morte di Aldo Moro. E ha parlato. Le sue rivelazioni — il verbale è stato secretato — le hanno raccolte in cella un luogotenente dei carabinieri e un magistrato. Collaborano entrambi con la Commissione parlamentare di inchiesta che indaga sulla complessa, e ancora oscura vicenda, dello statista democristiano rapito e ucciso dai terroristi delle Brigate Rosse il 9 maggio 1978.

Ma vediamo, con ordine, quello che è successo nel carcere di Parma. Siamo all’inizio di settembre: l’Italia e l’Europa sono alle prese con il caos migranti. Cutolo, come da routine, incontra la moglie Immacolata Iacone nell’unico colloquio mensile previsto per i detenuti sottoposti al regime del carcere duro (41bis). Piccolo ma non irrilevante passo indietro: sei mesi prima. È il 2 marzo.

Raffaele Cutolo Raffaele Cutolo
L’ex boss della camorra si sfoga in un colloquio riportato sulle colonne di questo giornale: «Mi hanno sepolto vivo in cella, se parlo crolla lo Stato», dichiara Cutolo. A stretto giro arriva la replica del procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti. «Cutolo dica quello che sa e sarà valutato, siamo pronti a indagare», lo incalza il 10 marzo. Un invito, più che eloquente, rivolto a “don Raffaele” affinché potesse prendere in considerazione l’idea — sempre parole di Roberti — di fare «seguire alle dichiarazioni contro lo Stato anche delle dichiarazioni concrete».

Perché, è il ragionamento, «la possibilità di uscire dalla condizione del 41bis dipende soltanto da lui...». Lui, Cutolo. Torniamo dunque a settembre. Non si sa se e quanto le parole di Roberti abbiano instillato nel vecchio padrino della camorra lo spunto per una riflessione (a parte una breve parentesi nel ’94 — morta sul nascere — l’ex boss di Ottaviano è sempre stato un muro di silenzio). Ma adesso Raffaele Cutolo vuole parlare. Di Moro, sicuramente. Forse anche di altro.

ALDO MORO CON LA FIGLIA AGNESE ALDO MORO CON LA FIGLIA AGNESE
Chiede di essere ascoltato da chi sulla morte del politico Dc sta cercando di fare chiarezza. In questi casi la prassi prevede due possibilità: o il detenuto scrive — di persona o attraverso il proprio legale — al magistrato (o ai magistrati) che indagano. O affida la sua richiesta al direttore del carcere. Sta di fatto che la seconda metà di settembre, Giuseppe Boschieri, luogotenente dei carabinieri, consulente della Commissione Moro, contatta uno dei legali di Cutolo, l’avellinese Gaetano Aufiero.

ALDO MORO IL COVO BR DI VIA GRADOLI ALDO MORO IL COVO BR DI VIA GRADOLI
Il carabiniere chiede se all’interrogatorio richiesto dal detenuto eccellente volesse prendere parte anche il suo difensore. Ma non trattandosi di un interrogatorio di garanzia, il legale ritiene superflua la propria presenza. Lunedì 14 settembre 2015. Nel carcere di via Burla — dove sono reclusi tra gli altri anche i super boss Totò Riina e Leoluca Bagarella (quest’ultimo appena trasferito in Sardegna), il “Nero” Massimo Carminati e Marcello Dell’Utri — Cutolo parla. Dichiarazioni spontanee. Che finiscono in un verbale.

uomo della scorta di aldo moro assassinato roma 16 march 1978 uomo della scorta di aldo moro assassinato roma 16 march 1978
È uno dei 41 documenti raccolti dalla Commissione Moro e annunciati all’ufficio di presidenza. Si legge nell’elenco: “Verbale di riversamento di files audio su supporto informatico relativi all’escussione del detenuto Cutolo Raffaele, avvenuta il 14 settembre 2015”. Mittente del documento 316/1, protocollo 1027, data 21-09-2015, è il luogotenente Boschieri. Leggendo le carte che mettono in ordine i documenti c’è un particolare che balza all’occhio: il verbale relativo all’interrogatorio di Cutolo è segreto. Di più. dei 41 documenti raccolti da parlamentari, magistrati, poliziotti, carabinieri che collaborano con la commissione, il 316/1 è l’unico secretato.

Gli altri sono tutti liberi o, al massimo, riservati. Perché? Che cosa ha rivelato sulla fine di Moro l’ex capo della Nco? Ha riferito circostanze e particolari che non devono o non possono essere resi pubblici? E, soprattutto, perché a 74 anni, dopo mezzo secolo al gabbio, e 34 anni di tolale isolamento, Cutolo decide di parlare accettando, di fatto, di collaborare con quello Stato da cui si è sentito «usato e abbandonato»?

L AGGUATO DI VIA FANI DELLE BRIGATE ROSSE PER RAPIRE ALDO MORO L AGGUATO DI VIA FANI DELLE BRIGATE ROSSE PER RAPIRE ALDO MORO
Il riferimento è al suo coinvolgimento nella vicenda dell’ex assessore regionale Dc Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br a Torre del Greco nel 1981 e poi liberato — secondo una sentenza passata in giudicato — «alla fine di una lunga e serrata trattativa tra apparati dello Stato e il boss Raffaele Cutolo, a cui si è chiesto di intervenire presso le Br per ottenere la liberazione di Cirillo».

Tredici ergastoli, record italiano di lungodegenza carceraria, sposato con Immacolata Iacone da cui ha avuto (inseminazione artificiale) la figlia Denise di 7 anni. Disse Cutolo in un’intervista a Repubblica nel 2006: «Mi sono pentito davanti a Dio, non davanti agli uomini. È immorale fare arrestare persone innocenti per avere soldi e protezione dallo Stato. Riabilitarsi significa pagare gli errori con dignità. La dignità è più forte della libertà, non si baratta con nessun privilegio... ».

 http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/ora-canta-don-raffa-dopo-34-anni-isolamento-perche-cutolo-ha-113051.htm

AL G20 DI ANTALYA PUTIN ROMPE L’IPOCRISIA GENERALE E LA DICE TUTTA SUL CALIFFO E I SUOI FINANZIATORI OCCULTI: “ALL'ISIS ARRIVANO SOLDI DA PAESI DEL G20”. IL RIFERIMENTO, NEANCHE TANTO VELATO, E’ AGLI AIUTI INVIATI DAGLI SCEICCHI SCIOCCHI DI QATAR, ARABIA, EMIRATI ARABI 2. MA ANCHE LA TURCHIA DI ERDOGAN FA IL GIOCO SPORCO, AIUTANDO I JIHADISTI NEL TRAFFICO ILLEGALE DI PETROLIO. I SOLDI DEGLI AFFARI PASSANO ATTRAVERSO BANCHE DEL KUWAIT, DOVE I CONTROLLI NON ESISTONO, E FINISCONO ALL’ISIS CHE POI LI USA PER ARMAMENTI E STIPENDI 3. ALTRA FONTE DI ENTRATE SONO LE TASSE E LE IMPOSTE PAGATE DA CIRCA SEI MILIONI DI PERSONE CHE ABITANO NELLE AREE CONTROLLATE DALLO STATO ISLAMICO. POI CI SONO LE PICCOLE ESTORSIONI A LIVELLO LOCALE E INFINE I RISCATTI MILIONARI PAGATI DAI PAESI STRANIERI PER LA LIBERAZIONE DEGLI OSTAGGI (VEDI IL CASO DI GRETA E VANESSA)

OCCHIELLO: CHI FINANZIA L’ISIS
isis isis
Maurizio Molinari per “la Stampa”
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«Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20»: Vladimir Putin sceglie la chiusura del summit di Antalya per far sapere ai leader attorno al tavolo che la forza dello Stato Islamico è anche in una zona grigia di complicità finanziarie che include cittadini di molti Stati. Con un colpo di teatro, sono gli sherpa russi a consegnare alle altre delegazioni i «dati a nostra disposizione sul finanziamento dei terroristi».
PUTIN PUTIN

Si tratta di informazioni che il Dipartimento del Tesoro di Washington raccoglie dal 2013 ed hanno portato, nella primavera 2014, a pubblicare un rapporto che chiama in causa «donazioni private» da parte di cittadini del Qatar e dell' Arabia Saudita trasferite a Isis «attraverso il sistema bancario del Kuwait».

IL RAPPORTO
i soldi sporchi dell isis i soldi sporchi dell isis
Un rapporto della «Brookings Institution» di Washington indica nei carenti controlli delle istituzioni finanziarie del Kuwait il vulnus che consente a tali fondi «privati» di arrivare a destinazione «nonostante i provvedimenti dei governi kuwaitiano, saudita e qatarino per bloccarli».

Fuad Hussein, capo di gabinetto di Massoud Barzani leader del Kurdistan iracheno, ritiene che «molti Stati arabi del Golfo in passato hanno finanziato gruppi sunniti in Siria ed Iraq che sono confluiti in Isis o in Al Nusra consentendogli di acquistare armi e pagare stipendi». «Una delle ragioni per cui i Paesi del Golfo consentono tali donazioni private - aggiunge Mahmud Othman, ex deputato curdo a Baghdad - è per tenere questi terroristi lontani il più possibile da loro».
RE SALMAN RE SALMAN

David Phillips, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato Usa ora alla Columbia University di New York, assicura: «Sono molti i ricchi arabi che giocano sporco, i loro governi affermano di combattere Isis mentre loro lo finanziano». L'ammiraglio James Stavridis, ex comandante supremo della Nato, li chiama «angeli investitori» i cui fondi «sono semi da cui germogliano i gruppi jihadisti» ed arrivano da «Arabia Saudita, Qatar ed Emirati».

ARABIA SAUDITA
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L' Arabia Saudita appartiene al G20 ed è dunque probabile che la mossa di Putin abbia voluto mettere in imbarazzo il re Salman protagonista di una dichiarazione pubblica dai toni accesi contro i «terroristi diabolici da sconfiggere».

Ma non è tutto perché fra i «singoli finanziatori di Isis» nelle liste del Cremlino c' è anche un cospicuo numero di turchi: sono nomi che in parte coincidono con quelli che le forze speciali Usa hanno trovato nella casa-bunker di Abu Sayyaf, il capo delle finanze di Isis ucciso in un raid avvenuto lo scorso maggio. Abu Sayyaf gestiva la vendita illegale di greggio e gas estratti nei territori dello Stato Islamico - con entrate stimate in 10 milioni al mese - e i trafficanti che la rendono possibile operano quasi sempre dal lato turco del confine siriano.
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LA TURCHIA
Ankara assicura di aver rafforzato i controlli lungo la frontiera ma un alto ufficiale d' intelligence occidentale spiega che «la Turchia del Sud resta la maggior fonte di rifornimenti per Isis». «Ci sono oramai troppe persone coinvolte nel business nel sostegno agli estremisti in Turchia - conclude Jonathan Shanzer, ex analista di anti-terrorismo del Dipartimento del Tesoro Usa - e tornare completamente indietro è diventato assai difficile, esporrebbe Ankara a gravi rischi interni». Lo sgambetto di Putin è stato dunque anche a Recep Tayyp Erdogan, anfitrione del sum-mit.

2 - PETROLIO, TASSE, DONI: CHI FINANZIA IL TERRORE
Davide Maria De Luca per “Libero Quotidiano”

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All’alba di lunedì 16 novembre, una decina di aerei americani si è alzata in volo dalle basi aeree in Turchia per intraprendere una missione che l’aviazione degli Stati Uniti non aveva mai compiuto prima. Dopo il decollo, gli aerei si sono diretti sopra Deir el-Zour, il principale centro di produzione petrolifera nelle mani dell’Isis. Con bombe e mitragliatrici hanno attaccato la lunghissima colonna di autocisterne in coda davanti agli impianti e, in pochi minuti, hanno distrutto 116 veicoli.

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È difficile stabilire con certezza quali e quante siano le entrate dell’Isis,ma quasi tutti gli esperti sono concordi nel dire che la vendita del petrolio siriano è di gran la più sostanziosa. Secondo le stime più diffuse, l’Isis ricava 1,5milioni di dollari al giorno grazie alla vendita del petrolio. Quello di lunedì è stato il primo attacco a questaf ondamentale fonte di sostentamento per lo Stato Islamico.

Attaccare direttamente i pozzi di petrolio siriani,infatti, rischia di innescare un disastro ecologico e di pregiudicare la ripresa economica del paese. Colpire le fasi successive del ciclo produttivo è altrettanto difficile perché non sono gli uomini dell’Isis a occuparsi di raffinare e distribuire il petrolio, ma migliaia di civili siriani che comprano il greggio dallo Stato Islamico, lo raffinano in impianti privati,lo trasportano sui loro automezzi e lo vendono nei loro distributori. Paralizzare l’industria petrolifera siriana senza causare danni a lungo termine rischia di provocare un’ecatombe di civili.
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Sono proprio loro,purtroppo, ad acquistare gran parte del petrolio estratto dall’Isis. Quello che resta viene contrabbandato in Turchia e in Iraq, oppure viene acquistato dai nemici dell’Isis, come il regime di Bashar al Assad e i ribelli moderati della FSA, che lo usano per alimentare i loro veicoli e per mantenere in funzione gli ospedali nelle aree sotto il loro controllo. Secondo l’intelligence americana, questa industria dipende da una flotta formata da circa 1.000 autocisterne, un decimo delle quali sono state distrutte negli attacchi di lunedì.

Arabo - Emirati Arabi - Dubai Arabo - Emirati Arabi - Dubai
Gli Stati Uniti hanno detto che la decisione di cambiare strategia e di iniziare a colpire l’industria petrolifera siriana, risale a molto tempo fa e che non è una risposta agli attacchi di Parigi. È una scelta, dicono, per colpire quella che ancora oggi è la principale fonte di guadagno dello Stato Islamico. Al secondo posto invece c’è un tipo di finanziamento che non sarà possibile fermare con qualche attacco aereo: le imposte. Circa sei milioni di persone abitano sotto il controllo dello Stato Islamico,più  degli abitanti della Danimarca.

A loro l’Isis impone una serie di tasse tratte dalla tradizione dei primi secoli della storia islamica: la kharaj, la tassa sui terreni; l’ushr, un’imposta sui beni importati; la zakat, una forma di carità obbligatoria e infine la jizya, la tassa che sono obbligati a pagare i non musulmani. Accanto a queste imposte, «legali» dal punto di vista delle scritture islamiche, l’Isis spesso ricorre a rapimenti ed estorsioni per arrotondare i suoi bilanci o per arricchire i suoi comandanti locali.

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Diversi commercianti di Raqqa e Mosul, ad esempio, hanno raccontato di essere obbligati a pagare una specie di «pizzo» per essere lasciati in pace. I riscatti pagati dai governi occidentali sono un’altra fonte di guadagno importante, anche se incostante: un paio di rapimenti possono fruttare anche decine di milioni di dollari. Secondo gli esperti, petrolio e tasse hanno reso l’Isis finanziariamente autosufficiente. In altre parole, lo Stato Islamico riesce a mantenere in piedi gran parte della sua struttura sfruttando le risorse che estrae dai territori sotto il suo controllo.

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Esiste comunque una terza fonte di finanziamento,anche se piuttosto lontana per volume dalle prime due: i trasferimenti di denaro dall’estero. È un flusso che si è inaridito nel corso degli ultimi anni, ma che era consistente quando l’organizzazione era poco più di una delle numerose brigate ribelli che combattevano il regime di Bashar al Assad. Secondo una stima fatta dal settimanale Newsweek, tra il 2012 e il 2013, l’Isis ha ricevuto circa 40 milioni di dollari da donatori situati nei ricchi paesi del Golfo -una cifra pari a quanto oggi l’organizzazione ricava in un mese dalla vendita del petrolio.

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Oggi, i governi di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e degli altri paesi del Golfo hanno spostato i loro finanziamenti verso gruppi ribelli che considerano meno pericolosi per la stabilità delle loro dinastie regnanti. Hanno anche iniziato a collaborare con i servizi di intelligence occidentali per bloccare i flussi di finanziamento privati.

I loro sforzi, però, non sempre si sono rivelati genuini e ancora oggi esiste una rete di simpatizzanti dell’Isis, estesa dal Marocco all’Indonesia, che raccoglie denaro, a volte in piccole o piccolissime somme, e, seguendo strade tortuose, riesce a farlo arrivare fino in Siria e in Iraq. L’Isis è sotto attacco di una coalizione internazionale oramai da più di un anno e tutte e tre le sue principali fonti di sostentamento sono state messe sotto pressione.

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I servizi segreti di mezzo mondo stanno dando la caccia ai suoi finanziatori; curdi, iracheni e ribelli moderati hanno riconquistato vaste aree del suo territorio e i caccia americani hanno iniziato a colpirne l’infrastruttura petrolifera. Eppure sembra ancora vero quello che all’inizio di questa guerra disse il sottosegretario al Tesoro americano: l’Isis «è la più ricca organizzazione terroristica che abbiamo mai incontrato».


 http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/g20-antalya-putin-rompe-ipocrisia-generale-dice-tutta-113033.htm

domenica 15 novembre 2015

CINQUANTA ANNI FA IL MONITO DI EISENHOWER di Daniela Zini

Ogni cannone costruito, ogni nave da guerra varata, ogni missile sparato rappresenta, infine, un furto verso coloro che hanno fame e non sono sfamati, verso coloro che hanno freddo e non hanno di che coprirsi. Questo mondo non spende per le armi solo denaro, ma spende il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. (…)
Questo non è un modo di vivere nel vero senso della parola. Sotto le nubi della guerra vi è l’umanità appesa a una croce di ferro.”
Dwight David Eisenhower (1890-1969), discorso del 16 aprile 1953 (1)
Tre giorni prima di lasciare la Casa Bianca, dopo due mandati, Dwight David Eisenhower (2), trentaquattresimo presidente degli Stati Uniti, ammoniva la popolazione del suo paese di fare attenzione al complesso industriale–militare, che non era affatto interessato alla pace e avrebbe tentato, per mantenersi in vita e potenziarsi, di portare il paese nuovamente in guerra.
Accadeva cinquanta anni fa, più precisamente, il 17 gennaio 1961.
Ripropongo qui uno dei passaggi più significativi del discorso di commiato (3) alla nazione:
 “(…) Ora questa combinazione tra un grande apparato militare e una vasta industria bellica è un fatto nuovo nell'esperienza americana. La totale influenza – economica, politica, perfino spirituale – viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Riconosciamo il bisogno ineluttabile di questo sviluppo, ma non dobbiamo esimerci dal comprendere le sue gravi implicazioni. Ne sono, inevitabilmente, coinvolti il nostro lavoro, le nostre risorse e il nostro stile di vita. La stessa struttura portante della nostra società.
Nei consigli di governo, dobbiamo vigilare per impedire il conseguimento di un’influenza ingiustificata, più o meno ricercata, da parte del complesso industriale-militare. L’eventualità dell'ascesa disastrosa di un potere mal riposto esiste e persisterà.
Non dobbiamo mai permettere che la pressione di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e accorta è in grado di esigere una corretta integrazione della gigantesca macchina industriale-militare di difesa con i nostri metodi e obiettivi pacifici in modo tale che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme. (…)”
Prima di divenire presidente e di fare il suo ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio 1953, Eisenhower aveva condotto una brillante carriera militare, che aveva fatto di lui il soldato di più alto grado nella gerarchia militare americana (generale a cinque stelle). La posizione centrale, che occupava in questa gerarchia, faceva di lui un osservatore privilegiato delle pratiche poco ortodosse del complesso industriale-militare. E gli otto anni passati alla Casa Bianca avevano finito per convincerlo della pericolosità di questa potente lobby, che, senza la presenza di una “cittadinanza vigile e accorta”, rischiava di fare man bassa dei meccanismi decisionali della strategia militare e della politica estera degli Stati Uniti.
Il monito di Eisenhower è stato ignorato, perché non vi è stata negli Stati Uniti questa “cittadinanza vigile e accorta” a impedire le derive militari e politiche che, da decenni, non cessano di minare lo statuto, la reputazione e le finanze della superpotenza americana.
Trattandosi di grandi scelte di strategia militare e di politica estera del paese, la cittadinanza americana, nella sua maggioranza, non è né “vigile”“accorta” nel senso auspicato da Eisenhower, vale a dire nel senso di una forza capace di controllare, strettamente, le decisioni governative e di opporvisi, eventualmente, se queste vadano contro l’interesse generale. La sua assoluta indifferenza a quanto accade fuori delle sue frontiere la predispone a fare affidamento nei propri leaders e a prendere per oro colato tutto quello che questi dicono.
L’esempio più sbalorditivo è la convergenza della maggioranza degli americani con l’ex-presidente George W. Bush. Non è un segreto per nessuno che questi sia stato la marionetta comune del complesso industriale-militare e della lobby petrolifera, che lo hanno utilizzato e manipolato a volontà. Per servire gli interessi dei fabbricanti di armi e delle compagnie petrolifere, Bush e il suo staff hanno manipolato, a loro volta, il popolo americano, facendogli ingoiare la menzogna delle armi di distruzione di massa e del pericolo rappresentato da Saddam Hussein per il mondo, in generale, e per gli Stati Uniti, in particolare.
E nonostante la menzogna di Bush venisse alla luce, nonostante la sua invasione dell’Iraq volgesse al disastro, i cittadini americani lo rieleggevano, nel novembre del 2004, per un secondo mandato.
Una così grande mancanza di vigilanza e di coscienza farebbe rivoltare Eisenhower nella tomba!
Il popolo americano, che conta 300 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della popolazione mondiale, non si è mai posto la domanda perché si spenda per il suo esercito e per la sua sicurezza quanto se non di più del resto del mondo. Ironia della storia, il cinquantesimo anniversario del celebre monito di Eisenhower coincide con l’adozione da parte dei rappresentanti del popolo americano di un budget militare record: 735 miliardi di dollari, il cui principale beneficiario non è altri che il complesso industriale-militare. Se si aggiungono a questo budget del Pentagono quelli dei dipartimenti della sicurezza interna, dell’energia e quello dei veterani delle guerre americane, il budget totale per la difesa e la sicurezza sale a 861 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2011, superando di gran lunga quello che spende il resto dell’umanità in questi settori.
Il popolo americano, che conta 300 milioni di individui e rappresenta meno del 5% della popolazione mondiale, non si è neppure mai posto la domanda perché occorrano 800 basi militari, disseminate in una quarantina di paesi, dal momento che l’America è il paese meglio protetto del mondo, e non solo da un potente esercito e da una competitiva difesa antiaerea, ma soprattutto da due immensi oceani, capaci di scoraggiare, da soli, qualsiasi nemico tentasse di attraversarli per invaderlo. Anche in questo caso, il principale beneficiario della disseminazione e della moltiplicazione delle basi americane attraverso il mondo è il complesso industriale-militare, da cui aveva messo in guardia Eisenhower, mezzo secolo fa.
La corsa all’armamento nucleare e convenzionale, imposto dagli Stati Uniti ai loro rivali della Guerra Fredda, le politiche aggressive condotte da Washington in Vietnam e in diversi paesi del Medio Oriente e in America Latina e la “guerra globale contro il terrorismo” possono essere comprese solo attraverso l’“influenza ingiustificata” del complesso industriale-militare, il cui unico interesse si limita al numero di contratti ottenuti e al calcolo della percentuale relativa all’incremento annuale del numero di affari.
Fino a quando continuerà?
Fino all’emersione di quella “cittadinanza vigile e accorta”.
Se mai emergerà un giorno!

 http://www.ildialogo.org/storia/Analisi_1295386907.htm

Discorso d'addio alla nazione del Presidente Eisenhower Il complesso industriale militare


Dwight D. Eisenhower

17 gennaio 1961

Un elemento vitale nel mantenimento della pace sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all'azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione...

Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un'enorme industria di armamenti è nuovo nell'esperienza americana. L'influenza totale nell'economia, nella politica, anche nella spiritualità; viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Noi riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse ed il nostro stile di vita vengono coinvolti; la struttura portante della nostra società.

Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l'acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l'ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro.

Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l'enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme.. »

 http://bushblaircontrosicurapacefeceroguerrairakimpedendoesilioasaddam.it/content/discorso-daddio-alla-nazione-del-presidente-eisenhower

Guerra e affari, il decennio d’oro dell’industria bellica americana Iraq. Per combattere l’Is, spesi 7,5 milioni di $ al giorno di Chiara Cruciati

Per l’industria bellica Usa la guerra è ovviamente un affare. Il terzo conflitto in Iraq in poco più di due decenni uno dei più redditizi. Mentre l’amministrazione Obama cercava di mascherare l’intervento prima con l’impellente necessità di salvare la minoranza yazidi, poi con il sostegno a Baghdad e infine con una nuova crociata anti-islamista, gli amministratori delegati delle principali multinazionali della guerra accumulavano profitti.
In un’analisi pubblicata da TomDispach, l’autore Peter Van Buren fa i conti in tasca all’industria militare Usa. Dietro stanno gli accordi di vendita siglati dal Congresso con il governo iracheno, su pressione del Pentagono, responsabile del coordinamento tra i contractor privati statunitensi e gli acquirenti stranieri. A monte sta la legge Usa, per la quale «la vendita di articoli da difesa e servizi a Stati stranieri viene finalizzata quando il presidente ritiene che serva a rafforzare la sicurezza degli Usa e a promuovere la pace globale».
Ovvero, vendete armi se serve a proteggere il cittadino Usa. Che, in molti casi, paga per quelle armi: nel caso di paesi impossibilitati a spendere cifre astronomiche per difendere i propri confini dai nemici dell’Occidente, è Washington ad aprire i cordoni della borsa. Ad oggi gli Usa spendono in media 7,5 milioni di dollari al giorno nella crociata anti-Isis. Denaro che finisce poi nelle casse dell’industria militare, giovando anche all’amministrazione pubblica.
La lista dei contractor beneficiari è lunga: la General Atomics per i droni Predator, la Northrop Grumman per i droni Global Hawk, la AeroVironment per i minuscoli droni di sorveglianza Nano Hummingbird, la DigitalGlobe per i satellite, la Lockhed Martin per i missili Hellfire, la Raytheon per i missili a lungo raggio Tomahawk. Dopo i primi raid contro postazioni islamiste in Iraq e le dichiarazioni del presidente Obama di un conflitto a lungo termine (che fece sfumare il taglio di 500 miliardi di dollari in 10 anni al budget del Pentagono) i prezzi delle armi delle compagnie private sono lievitati, insieme alle quotazioni in borsa.
Prendiamo i contratti siglati con Baghdad. Nelle prime settimane di offensiva i miliziani di al-Baghdadi hanno occupato con estrema facilità basi militari e magazzini dell’esercito iracheno, impossessandosi di enormi quantitativi di armi made in Usa. Con l’esercito iracheno allo sbando e a secco, per i venditori di armi si è aperto un ventaglio di possibilità: c’era da rimettere in sesto una forza militare saccheggiata. E da bombardare dall’alto le stesse armi Usa oggi in mano all’Isis.
A soli tre giorni dai primi raid in Siria, invece, il Pentagono ha siglato un contratto da 251 milioni di dollari con la Raytheon per l’acquisto di missili Tomahawk. Al momento sul tavolo del Congresso è in attesa di approvazione una lista della spesa da 3 miliardi di dollari: 175 carri armati Abrams, 15 veicoli Hercules, 55mila munizioni. Pochi mesi prima, a luglio, la General Dynamics aveva siglato un contratto da 65,3 milioni di dollari per il programma Abrams iracheno; ad ottobre è stata data luce verde alla vendita di munizioni per i carri armati iracheni (600 milioni), veicoli Humvees (579 milioni), camion (600 milioni) e missili Hellfire (700 milioni).
A far lievitare i profitti c’è poi l’addestramento: sono le stesse compagnie private a insegnare ai soldati americani e iracheni a utilizzare i nuovi sistemi. Un esempio: nel contratto per la vendita di carri armati, una clausola prevede che «5 rappresentati del governo Usa e 100 rappresentanti del contractor privato raggiungano l’Iraq per un periodo massimo di 5 mesi per consegnare il materiale, verificarne la funzionalità e addestrare».
Un pacchetto da far girare la testa: alla fine del 2014 il Congresso Usa ha approvato una legge di spesa che prevede l’investimento di 1,2 miliardi di dollari in equipaggiamento e addestramento futuri dell’esercito iracheno, altri 500 milioni saranno diretti ad addestrare l’Esercito Libero Siriano anti-Assad tra Turchia, Giordania e Arabia Saudita.
La disintegrazione dell’Iraq, la modifica irreversibile dei confini suoi e della Siria, la destabilizzazione del Medio Oriente garantiranno gli affari dei privati Usa per anni. La catastrofica strategia delle precedenti amministrazioni ha permesso la nascita dei gruppi estremisti che oggi sognano il califfato e la rimappatura della regione. Come dice bene Van Burke, «ogni errore di Washington è una manna per le vendite future di armi».

 http://ilmanifesto.info/guerra-e-affari-il-decennio-doro-dellindustria-bellica-americana/

Dichiarazione bomba di un Generale francese al Senato: “L’Isis è stato creato dagli Stati Uniti”


Isis creato dagli USA? A destra il Senatore americano John McCain e nel cerchietto rosso Al Baghdadi
Isis creato dagli USA? A destra il Senatore americano John McCain e nel cerchietto rosso Al Baghdadi

Si parla tanto delle porcate commesse dall’Isis in questi giorni. Ma è passata sotto silenzio la dichiarazione fatta dal Generale francese Vincent Desportes, generale di divisione a riposo e professore associato presso la facoltà di Scienze Politiche di Parigi, che davanti alla commissione per gli Affari Esteri, per la Difesa e per le Forze Armate, ha dichiarato: “L’Isis creato dagli USA.” Ecco tutti i dettagli.


Il 17 dicembre 2014 la commissione per gli Affari Esteri, per la Difesa e per le Forze Armate ha dibattuto in seduta pubblica la proroga dell’operazione “Chammal” in Iraq.
Presieduta da Jean-Pierre Raffarin, la commissione ha sentito − durante la discussione – il generale di seconda sezione Henri Bentégeat, ex capo di stato maggiore delle forze armate, il generale di corpo d’armata Didier Castres, vicecapo operativo di stato maggiore, l’on. Hubert Védrine, ex ministro degli Esteri, il generale di divisione a riposo Vincent Desportes − professore associato presso la facoltà di Scienze Politiche di Parigi − e l’on. Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa.
ISIS CREATO DAGLI USA
Il Generale francese Vincent Deportes
Il Generale francese Vincent Desportes
Iniziando il suo discorso con una breve presentazione dell’ISIS (Daech), nel mettere soprattutto in evidenza il vero pericolo di questo gruppo terroristico rispetto ai nostri interessi vitali, ha detto senza mezzi termini: “Chi è il dottor Frankenstein che ha creato questo mostro? Diciamolo chiaramente, perché ciò comporta delle conseguenze: sono gli Stati Uniti. Per interessi politici a breve termine, altri soggetti – alcuni dei quali appaiono come amici dell’Occidente − hanno contribuito, per compiacenza o per calcolata volontà, a questa creazione e al suo rafforzamento, ma le responsabilità principali sono degli Stati Uniti. Questo movimento, con la fortissima capacità di attrarre e diffondere violenza, è in espansione. È potente, anche se è caratterizzato da punti profondamente vulnerabili. È potente, ma sarà distrutto. Questo è certo. Non ha altro scopo che quello di scomparire.”
LA GUERRA LAMPO NON ESISTE
Mettendo in guardia i membri della commissione sulle implicazioni di una guerra in un contesto di ridimensionamento delle nostre forze, il generale Desportes ha aggiunto: “In bilancio, di qualsiasi esercito si tratti, ci siamo impegnati oltre situazioni operative standard, nel senso che ogni esercito sta usando le proprie risorse senza avere il tempo di rigenerarle. In termini reali abbiamo forze insufficienti: per compensare, a livello sia tattico che bellico, le facciamo girare a un elevatissimo ritmo di utilizzo. Vale a dire che, se continua questo sovraccarico di impiego, l’esercito francese si troverà nella situazione dell’usurato esercito britannico in Iraq e in Afghanistan, costretto da alcuni anni a interrompere gli interventi e rigenerare le proprie risorse “a casa”. Il notevole sforzo prodotto ora a favore degli interventi avrà ripercussioni forti e quantificabili sulle forze nel nostro Paese, in particolare in termini di prontezza operativa. Il senso di responsabilità impone di sfatare definitivamente il mito della guerra breve”.
I CINQUE PRINCIPI PER LA STRATEGIA MILITARE 
Dopo alcuni cenni sulle basi della strategia militare, il generale Desportes ha delineato una serie di cinque principi che dovranno guidare qualsiasi decisione di intervento.
Secondo il primo principio, ci si deve impegnare solo se si può controllare il livello strategico. Se questo precetto non è rispettato, è evidenziato il rischio di usare le proprie forze armate col discredito e la perdita d’immagine che ne conseguono.
È il caso della Francia in Afghanistan: ha fatto una “guerra americana” senza un controllo strategico d’insieme, senza controllo sullo svolgimento delle operazioni e senza controllo sulla direzione della coalizione.”
Il secondo principio dice che si deve intervenire solo laddove ci sia “senso strategico”.
La Francia è grande nel mondo, in particolare per il suo posto nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma poiché questo posto le viene contestato ogni giorno, deve difenderlo e legittimarlo ogni giorno. E può farlo solo attraverso la sua capacità di gestione utile dei focolai di tensione del mondo. Il che, tra l’altro, richiede assolutamente la necessità di rafforzare la nostra capacità di agire come “nazione guida” e di “entrare per primi”. Non ci sono dubbi: il nostro posto tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU e la nostra influenza nelle questioni mondiali si basano in primo luogo sulla nostra capacità di agire concretamente nelle situazioni di crisi (capacità e credibilità).”
Terzo principio: occorre definire obiettivi raggiungibili. Prendendo l’esempio dell’Afghanistan, Desportes dice che«gli obiettivi hanno assai rapidamente deviato e superato i mezzi di cui disponeva la coalizione (soprattutto in termini di tempi e di capacità di controllo dello spazio terrestre)».
Quarto principio: intervenire solo quando l’azione considerata è compatibile con i mezzi a disposizione, immediatamente e nel lungo termine.
Essendo uno dei primi ad avere criticato pubblicamente il Libro bianco sulla difesa del 2013, il generale Desportes ha dichiarato: “Il Libro bianco 2013 parla di «volume di forze sufficienti». In effetti, come è noto, l’operazione “Serval” è stata una scommessa estremamente rischiosa, a causa del basso volume di forze dispiegate combinato con la grande obsolescenza della maggior parte delle attrezzature impiegate. L’operazione “Sangaris” un azzardo finito male, poiché la scommessa fatta sulla “sorpresa iniziale” non è stata vinta. Poi la negazione della realtà unita alla nostra mancanza di risorse ha impedito l’adattamento della forza alla reale situazione sul campo e allo schieramento immediato dei cinquemila uomini che erano indispensabili.”
Quinto principio: non fare il primo passo senza considerare l’ultimo.
Ciò significa che si devono valutare − senza condizionamenti ideologici, senza essere ciechi − le conseguenze di un intervento, soprattutto se non si intende arrivare fino in fondo”.
LA GRANDEUR FRANCESE È FINITA
Al termine del suo discorso, il generale Desportes ha continuato a mettere sull’avviso i membri della Commissione sul decadimento delle forze armate francesi.
L’evidente sottodimensionamento della spesa operativa produce significativi effetti negativi di cui deve essere consapevole chi decide. Anzitutto, apprendere dai media − senza una chiara smentita − che i corpi militari spendono ingiustificatamente il magro bilancio francese evidenzia il fallimento morale, dal momento che i nostri soldati combattono su tutti i fronti, per la Francia e ai suoi ordini, con risorse veramente troppo scarse. Inoltre c’è che siamo sempre sotto il livello della “massa critica”: questo sottodimensionamento del budget ha un impatto diretto sia sul successo delle operazioni sia sulla sicurezza dei nostri soldati, che finiscono per ritrovarsi messi in pericolo”. 
L’OPERAZIONE CHAMMAL UN FALLIMENTO
Operazione Chammal, l'arrivo del caccia Dassault Rafale
Operazione Chammal, l’arrivo del caccia Dassault Rafale
A proposito dell’operazione “Chammal”, il generale dichiara: “Giungo a Chammal dopo un paio di giri, lo ammetto, ma non si perde mai tempo a prendere un momento di distanza strategica, in un’epoca in cui la tendenza è proprio quella di ragionare in fretta, in termini di spese di cassa, su problemi che richiedono tempi lunghi e investimenti pesanti. Non mi trattengo sull’attuale sconcertante contraddizione tra, da un lato, il conflitto del mondo alle nostre porte, nel nostro est, nel nostro sud-est, nel nostro sud, la moltiplicazione dei nostri interventi e, dall’altro lato, il deterioramento rapido e profondo delle nostre capacità di bilancio con, a valle, quello delle nostre capacità militari. A destra e a sinistra lo sanno tutti; alcuni, troppo pochi, lo dicono. […] E allora? Atteniamoci al ben noto principio della guerra, il principio di concentrazione… o alla sua versione popolare: “chi troppo vuole nulla stringe”. Smettiamo di espanderci! Guardiamo in faccia la realtà. Stato islamico. “ISIS delenda est”: certamente! Siamo profondamente solidali, ma non siamo in alcun modo responsabili. I nostri interessi esistono, ma sono indiretti. Da quelle parti le nostre capacità sono limitate e irrisorie, rispetto agli Stati Uniti, e la nostra influenza strategica è estremamente limitata”.
Clicca qui per leggere l’intervento integrale del generale al Senato

 http://www.infiltrato.it/inchieste/dichiarazione-bomba-di-un-generale-francese-al-senato-l-isis-e-stato-creato-dagli-stati-uniti/

Parigi: il branco di lupi, lo Stato Islamico e quello che possiamo fare

Carta di Laura Canali sull'estensione attuale dello Stato Islamico
[Carta di Laura Canali]
Dopo il lutto e la condanna della barbarie per gli attentati del 13 novembre, ricordiamoci che il vero protagonista del conflitto che stiamo vivendo non è l’Occidente ma il mondo islamico. Le nostre priorità: rimanere in Medio Oriente e spegnere la guerra di Siria.
Di fronte alla strage di Parigi, il primo atteggiamento giusto è dolore e lutto per le vittime assieme a tutta la nostra solidarietà e commozione per un paese fratello e una città simbolo della convivenza e dei valori europei.

Subito dopo, è opportuna la più totale e ferma condanna per tali barbari attentati che nulla può – nemmeno indirettamente – giustificare.

È indispensabile essere uniti nel ripudio assoluto del jihadismo e del terrorismo islamico contemporanei, chiedendo a tutti, musulmani inclusi, di far propria una incondizionata e radicale riprovazione.

Infine occorre mettere in campo tutta l’intelligenza, la lucidità e la calma possibili, al fine di capire ciò che sta accedendo per trovare le misure adeguate. È da irresponsabili mettersi a gridare o agitarsi senza criterio: occorre prima pensare e comprendere bene. Se i barbari sono tra noi, c’è un’origine di tale vicenda, una sua evoluzione e – speriamo presto – un rimedio.

Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento.

Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.

In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.

L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.

L’Is sta combattendo un conflitto per il potere legittimandosi con l’arma della “vera religione”. Concorre ad affermarsi presso la Umma musulmana (la “casa dell’islam”, che include le comunità musulmane all’estero) quale unico vero e legittimo rappresentante dell’Islam contemporaneo. Questo nel linguaggio islamico si chiama fitna: una scissione, uno scisma nel mondo islamico. Per capirci: una guerra politica nella religione, che manipola i segni della religione, così come i nazisti usavano segni pagani mescolati a finzioni cristiane. Infatti l’Is, come al-Qaida, uccide soprattutto musulmani e attacca chiunque si intromette in tale conflitto.

Per chi ha la memoria corta: al-Qaida chiedeva la cacciata delle basi Usa dall’Arabia Saudita e puntava a prendersi quello Stato (o alternativamente il Sudan e poi l’Afghanistan in combutta coi talebani). Daesh pretende di più: conquistare “cuori e menti” della Umma; esigere la fine di ogni coinvolgimento occidentale e russo in Siria e Iraq; creare un nuovo Stato laddove esisteva l’antico califfato: la Mesopotamia.

Geopoliticamente c’è una novità: al-Qaida si muoveva in una situazione in cui gli Stati erano ancora relativamente forti; l’Is approfitta della loro fragilità nel mondo liquido, in cui saltano le frontiere. In sintesi: non esiste lo scontro tra civiltà ma c’è uno scontro dentro una civiltà, in corso da molto tempo. Per utilizzare un linguaggio da web: oggi nella Umma il potere è contendibile.

A partire da tale fatto incontestabile, due questioni si impongono all’Occidente e alla Russia.

La prima è esterna e riguarda la presenza (politica, economica e militare) in Medio Oriente: se e come starci. La seconda è interna: come difendere le nostre democrazie, basate sulla convivenza tra diversi, allorquando i musulmani qui residenti sono coinvolti in tale brutale contesa? Come preservare la nostra civiltà dai turbamenti violenti della civiltà vicina? Se ci limitiamo a perdere la testa, invocando vendetta senza capire il contesto, infilandoci senza riflessione sempre di più nel pantano mediorientale e utilizzando lo stesso linguaggio bellicoso dei terroristi, non facciamo niente di buono. Potremmo anzi concedere allo Stato Islamico la resa del “nostro” modello di convivenza, per entrare nel “loro” clima di guerra.

Occorre innanzitutto proteggere la nostra convivenza interna e la qualità della nostra democrazia. Serve più intelligence e una maggiore opera di contrasto coordinata tra polizie, soprattutto nell’ambito delle collettività immigrate di origine arabo-islamiche, che rappresentano un’importante posta in gioco del terrorismo islamico. Da notare anche che tali attentati si moltiplicano proprio mentre lo Stato Islamico perde terreno in Siria. Contemporaneamente occorre conservare il nostro clima sociale il più sereno possibile. Mantenere la calma significa non cedere ai richiami dell’odio che bramerebbero vendetta, che per rancore trasformerebbero le nostre città in ghetti contrapposti, seminando cultura del disprezzo e inimicizia. Le immagini del britannico che spinge la ragazza velata sotto la metro di Londra fanno il gioco di Daesh.

Sarebbe da apprendisti stregoni incoscienti rendere incandescente il nostro clima sociale, provocare risentimenti eccetera. Così regaliamo il controllo delle comunità islamiche occidentali ai terroristi, cedendo alla loro logica dell’odio proprio in casa nostra. Per dirla col linguaggio politico italiano: mostrarci più forti del loro odio non è buonismo complice, è parte della sfida. Il “cattivismo” diventa invece oggettivamente complice perché appunto fa il gioco dello Stato Islamico.

In secondo luogo, dobbiamo darci una politica comune sulla guerra di Siria, vero crogiuolo dove si formano i terroristi. Imporre la tregua e il negoziato è una priorità strategica. Solo la fine di quel conflitto potrà aiutarci. Aggiungere guerra a guerra produce solo effetti devastanti, come pensa papa Francesco sulla Siria. Finora abbiamo commesso molti errori: l’Occidente si è diviso, alcuni governi si sono schierati, altri hanno silenziosamente fornito armi, altri ancora hanno avuto atteggiamenti ondivaghi, non si è parlato con una sola voce agli Stati vicini a Siria e Iraq eccetera.

L’Italia ha dichiarato da oltre due anni che Iran (ricordate ciò che disse Emma Bonino prima di Ginevra II?) e Russia (ricordate le accuse a Federica Mogherini di essere filorussa?) andavano coinvolti nella soluzione. Matteo Renzi l’ha più volte ripetuto, facendone una politica. In parlamento se n’è dibattuto. Non siamo stati ascoltati, almeno finora. Tuttavia (finalmente!) le riunioni di Vienna con Russia e Iran possono far ben sperare: oggi tutti ci danno ragione. Meglio tardi che mai: il governo italiano è totalmente impegnato nella riuscita di un reale accordo.

Nel nostro paese ci sono stati anche paralleli sforzi di pace e dialogo: dalle riunioni di Sant’Egidio con l’opposizione siriana non violenta, all’appello per Aleppo di Andrea Riccardi, all’ascolto dei leader cristiani di quell’area. La fine della guerra in Siria (e nell’immediato il suo contenimento) è il vero modo per togliere acqua al pesce terrorista. Senza zone fuori controllo ove prosperare, il jihadismo perderebbe la maschera.

In terzo luogo, dobbiamo occuparci con urgenza del resto del quadro geopolitico mediterraneo: la Libia, che è per noi prioritaria (e in cui almeno si è frenato il conflitto armato mediante l’embargo delle armi); lo Yemen; la stabilizzazione dell’Iraq; le fragilità di Libano, Egitto e Tunisia…

Anche se tali crisi sono in parte legate, vanno assolutamente tenute distinte. L’Is vorrebbe invece saldarle in un unico enorme conflitto (la sua propaganda è chiara), allo scopo di mostrarsi più potente di quello che è. In tale impegno occorrono alleanze forti con gli Stati islamici cosiddetti moderati: un modo per trattenere anche loro dal cadere (o essere trascinati) nella trappola del jihadismo che li vuole portare sul proprio terreno. Ogni conflitto mediorientale e mediterraneo ha una propria via di composizione e occorre fare lo sforzo di compiere tale lavoro simultaneamente. In altre parole: restare in Medio Oriente comporta un impegno politico a vasto raggio e continuo.

È prioritario entrare dentro la spirale dei foreign fighters per prosciugarne le fonti. Ho recentemente scritto un libro su tale fenomeno. Qui aggiungo solo che non sarei sorpreso che tra gli attentatori di Parigi ci fossero vecchie conoscenze della polizia francese. Esistono antiche filiere degli anni Novanta, mai del tutto distrutte, che si riattivano in appoggio a chi pare egemone sul campo. Qualcuno può essere un combattente straniero di ritorno: il problema è capire la genesi del fenomeno. Ma non ce ne sarebbe nemmeno tanto bisogno: attentati di questo tipo possono essere compiuti da chiunque.

Si è parlato di lupi solitari; qui siamo in presenza di un branco. Un ristorante, una trattoria, uno stadio, una sala di concerti non rappresentano reali obiettivi sensibili, segno che non occorre particolare addestramento. Sorprende piuttosto che dispongano di armi da guerra, non così facili da reperire in Francia. In Italia sappiamo che le mafie ne sono provviste ma anche molto gelose. Combattere il fenomeno foreign fighters corrisponde a coinvolgere le comunità islamiche e non spingerle verso l’uscita.

Tutto ciò va fatto contemporaneamente. Gridare “siamo in guerra!” senza capire quale sia questa guerra, invocando irresponsabili atti di vendetta e reazioni armate, ci fa cadere nell’imboscata jihadista. Proprio lì lo Stato Islamico vuole portarci, per mettere le mani sull’islam europeo ma soprattutto su quello mediorientale. Vuole dividere il terreno in due schieramenti contrapposti, giocando sul fatto che per riflesso i musulmani saranno fatalmente attirati dalla sua parte.

Per tale motivo la propaganda dell’Is (come quella di al-Qaeda prima) tira continuamente in ballo l’Occidente: in realtà sta parlando alla Umma islamica per farla reagire. Intraprendere tutto ciò non è facile ma necessario.

Contenere e spegnere la guerra di Siria è il solo modo per prosciugare il lago terrorista. Sarà operazione lunga e complessa, ci saranno altri attentati, ma è una strada vincente alla lunga. Certo si tratta di far dialogare nemici acerrimi, di dare un posto a tavola a gente che non ci piace (Assad e i suoi) o a formazioni ribelli ambigue, ma è l’unico modo.

Andare in Siria in ordine sparso è al contrario la via per compiacere Daesh e i suoi strateghi: un Occidente e una Russia divisi su tutto favoriscono chi sta creando uno “Stato” alternativo. Si tratta di una vecchia lezione della storia.

L’operazione militare europea diretta, boots on the ground, è dunque necessaria? Non sembra, e comunque non ora: sarebbe andare allo sbaraglio. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è che ribelli siriani e milizie di Assad – assieme ai rispettivi alleati – capiscano che il nemico comune esiste, si siedano e parlino. Lo Stato Islamico furbescamente si presenta alla Umma come “diverso”: non alleato con nessuno, patriottico, anti-neocolonialista, no-global, non inquinato da interessi stranieri e puramente islamico, duro ma nazionale (nel senso che patria e nazione hanno per l’islam politico). In questo modo mette a repentaglio la sopravvivenza e gli interessi di tutti: dell’Occidente, della Russia, di Assad, dei ribelli, dei curdi e delle altre minoranze. Gli unici ad averlo apparentemente capito sono i curdi: c’è un solo nemico comune, sorto nel vuoto di potere. Il negoziato parte da questa consapevolezza e per questo deve coinvolgere anche russi e iraniani.

L’obiettivo minimo è una tregua immediata; quello massimo un patto per il futuro della Siria. Solo a queste condizioni si potrà mettere in piedi un’operazione internazionale di terra, che miri a stabilizzare il paese e a mettere l’Is spalle al muro. Solo così si potrà svelare cos’è veramente l’Is: una cricca di ex militari iracheni e fanatici jihadisti che vengono dal passato e che hanno approfittato delle nostre divisioni.

Il vuoto della politica, si sa, genera mostri. A meno – sarebbe l’altra soluzione – di non lasciare tutto e ritirarsi. Andarcene totalmente dal Medio Oriente, rinunciare tutti a ogni interesse e presenza, abbandonare i mediorientali al loro dramma. Qualcuno lo pensa, qualcuno lo dice.

Se ce ne andassimo dal Medio Oriente, gli attentati in Europa smetterebbero subito, probabilmente. D’altro canto le vittime in quella regione sarebbero ancora maggiori.

Lasceremmo il lago jihadista diventare un mare. E questa non è un’opzione.