[Carta di Laura Canali]
Dopo il lutto e
la condanna della barbarie per gli attentati del 13 novembre,
ricordiamoci che il vero protagonista del conflitto che stiamo vivendo
non è l’Occidente ma il mondo islamico. Le nostre priorità: rimanere in
Medio Oriente e spegnere la guerra di Siria.
Di fronte alla strage di Parigi, il primo atteggiamento giusto è dolore e lutto
per le vittime assieme a tutta la nostra solidarietà e commozione per
un paese fratello e una città simbolo della convivenza e dei valori
europei.
Subito dopo, è opportuna la più totale e ferma condanna per tali barbari attentati che nulla può – nemmeno indirettamente – giustificare.
È indispensabile essere uniti nel ripudio assoluto del jihadismo
e del terrorismo islamico contemporanei, chiedendo a tutti, musulmani
inclusi, di far propria una incondizionata e radicale riprovazione.
Infine occorre mettere in campo tutta l’intelligenza,
la lucidità e la calma possibili, al fine di capire ciò che sta
accedendo per trovare le misure adeguate. È da irresponsabili mettersi a
gridare o agitarsi senza criterio: occorre prima pensare e comprendere
bene. Se i barbari sono tra noi, c’è un’origine di tale vicenda, una sua
evoluzione e – speriamo presto – un rimedio.
Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro,
da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli
anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida
intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze
musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.),
nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia
in movimento.
Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere,
che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e
sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla
Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is).
Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
In questa guerra, noi europei e occidentali non siamo i protagonisti primari; è il nostro narcisismo che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto. Sono altri i veri protagonisti.
L’obiettivo degli attentati di Parigi è quello di terrorizzarci
per spingerci fuori dal Medio Oriente, che rappresenta la vera posta in
gioco. Si tratta di una sorta di “guerra dei Trent’anni islamica”, in
cui siamo coinvolti a causa della nostra (antica) presenza in quelle
aree e dei nostri stessi interessi. L’ideologia di Daesh è sempre stata
chiara su questo punto: creare uno Stato laddove gli Stati precedenti
sono stati creati dagli stranieri quindi sono “impuri”.
L’Is sta combattendo un conflitto per il potere legittimandosi con l’arma della “vera religione”. Concorre
ad affermarsi presso la Umma musulmana (la “casa dell’islam”, che
include le comunità musulmane all’estero) quale unico vero e legittimo
rappresentante dell’Islam contemporaneo. Questo nel linguaggio islamico
si chiama fitna: una scissione, uno scisma nel mondo islamico. Per capirci: una guerra politica nella
religione, che manipola i segni della religione, così come i nazisti
usavano segni pagani mescolati a finzioni cristiane. Infatti l’Is, come
al-Qaida, uccide soprattutto musulmani e attacca chiunque si intromette
in tale conflitto.
Per chi ha la memoria corta: al-Qaida chiedeva la cacciata delle basi Usa dall’Arabia
Saudita e puntava a prendersi quello Stato (o alternativamente il Sudan
e poi l’Afghanistan in combutta coi talebani). Daesh pretende di più:
conquistare “cuori e menti” della Umma; esigere la fine di ogni
coinvolgimento occidentale e russo in Siria e Iraq; creare un nuovo
Stato laddove esisteva l’antico califfato: la Mesopotamia.
Geopoliticamente c’è una novità: al-Qaida si muoveva
in una situazione in cui gli Stati erano ancora relativamente forti;
l’Is approfitta della loro fragilità nel mondo liquido, in cui saltano
le frontiere. In sintesi: non esiste lo scontro tra civiltà ma c’è uno
scontro dentro una civiltà, in corso da molto tempo. Per utilizzare un
linguaggio da web: oggi nella Umma il potere è contendibile.
A partire da tale fatto incontestabile, due questioni si impongono all’Occidente e alla Russia.
La prima è esterna e riguarda la presenza
(politica, economica e militare) in Medio Oriente: se e come starci. La
seconda è interna: come difendere le nostre democrazie, basate sulla
convivenza tra diversi, allorquando i musulmani qui residenti sono
coinvolti in tale brutale contesa? Come preservare la nostra civiltà dai
turbamenti violenti della civiltà vicina? Se ci limitiamo a perdere la
testa, invocando vendetta senza capire il contesto, infilandoci senza
riflessione sempre di più nel pantano mediorientale e utilizzando lo
stesso linguaggio bellicoso dei terroristi, non facciamo niente di
buono. Potremmo anzi concedere allo Stato Islamico la resa del “nostro”
modello di convivenza, per entrare nel “loro” clima di guerra.
Occorre innanzitutto proteggere la nostra convivenza interna
e la qualità della nostra democrazia. Serve più intelligence e una
maggiore opera di contrasto coordinata tra polizie, soprattutto
nell’ambito delle collettività immigrate di origine arabo-islamiche, che
rappresentano un’importante posta in gioco del terrorismo islamico. Da
notare anche che tali attentati si moltiplicano proprio mentre lo Stato
Islamico perde terreno in Siria.
Contemporaneamente occorre conservare il nostro clima sociale il più
sereno possibile. Mantenere la calma significa non cedere ai richiami
dell’odio che bramerebbero vendetta, che per rancore trasformerebbero le
nostre città in ghetti contrapposti, seminando cultura del disprezzo e
inimicizia. Le immagini del britannico che spinge la ragazza velata sotto la metro di Londra fanno il gioco di Daesh.
Sarebbe da apprendisti stregoni incoscienti
rendere incandescente il nostro clima sociale, provocare risentimenti
eccetera. Così regaliamo il controllo delle comunità islamiche
occidentali ai terroristi, cedendo alla loro logica dell’odio proprio in
casa nostra. Per dirla col linguaggio politico italiano: mostrarci più
forti del loro odio non è buonismo complice, è parte della sfida. Il
“cattivismo” diventa invece oggettivamente complice perché appunto fa il
gioco dello Stato Islamico.
In secondo luogo, dobbiamo darci una politica comune sulla guerra di Siria,
vero crogiuolo dove si formano i terroristi. Imporre la tregua e il
negoziato è una priorità strategica. Solo la fine di quel
conflitto potrà aiutarci. Aggiungere guerra a guerra produce solo
effetti devastanti, come pensa papa Francesco sulla Siria. Finora
abbiamo commesso molti errori: l’Occidente si è diviso, alcuni governi
si sono schierati, altri hanno silenziosamente fornito armi, altri
ancora hanno avuto atteggiamenti ondivaghi, non si è parlato con una
sola voce agli Stati vicini a Siria e Iraq eccetera.
L’Italia ha dichiarato da oltre due anni che Iran
(ricordate ciò che disse Emma Bonino prima di Ginevra II?) e Russia
(ricordate le accuse a Federica Mogherini di essere filorussa?) andavano
coinvolti nella soluzione. Matteo Renzi l’ha più volte ripetuto,
facendone una politica. In parlamento se n’è dibattuto. Non siamo stati
ascoltati, almeno finora. Tuttavia (finalmente!) le riunioni di Vienna
con Russia e Iran possono far ben sperare: oggi tutti ci danno ragione.
Meglio tardi che mai: il governo italiano è totalmente impegnato nella
riuscita di un reale accordo.
Nel nostro paese ci sono stati anche paralleli sforzi di pace e dialogo:
dalle riunioni di Sant’Egidio con l’opposizione siriana non violenta,
all’appello per Aleppo di Andrea Riccardi, all’ascolto dei leader
cristiani di quell’area. La fine della guerra in Siria (e
nell’immediato il suo contenimento) è il vero modo per togliere acqua al
pesce terrorista. Senza zone fuori controllo ove prosperare,
il jihadismo perderebbe la maschera.
In terzo luogo, dobbiamo occuparci con urgenza del resto del quadro geopolitico mediterraneo: la Libia,
che è per noi prioritaria (e in cui almeno si è frenato il conflitto
armato mediante l’embargo delle armi); lo Yemen; la stabilizzazione
dell’Iraq; le fragilità di Libano, Egitto e Tunisia…
Anche se tali crisi sono in parte legate, vanno assolutamente tenute distinte.
L’Is vorrebbe invece saldarle in un unico enorme conflitto (la sua
propaganda è chiara), allo scopo di mostrarsi più potente di quello che
è. In tale impegno occorrono alleanze forti con gli Stati islamici
cosiddetti moderati: un modo per trattenere anche loro dal cadere (o
essere trascinati) nella trappola del jihadismo che li vuole portare sul
proprio terreno. Ogni conflitto mediorientale e mediterraneo ha una
propria via di composizione e occorre fare lo sforzo di compiere tale
lavoro simultaneamente. In altre parole: restare in Medio Oriente
comporta un impegno politico a vasto raggio e continuo.
È prioritario entrare dentro la spirale dei foreign fighters per prosciugarne le fonti. Ho recentemente scritto un libro
su tale fenomeno. Qui aggiungo solo che non sarei sorpreso che tra gli
attentatori di Parigi ci fossero vecchie conoscenze della polizia
francese. Esistono antiche filiere degli anni Novanta, mai del tutto
distrutte, che si riattivano in appoggio a chi pare egemone sul campo.
Qualcuno può essere un combattente straniero di ritorno: il problema è
capire la genesi del fenomeno. Ma non ce ne sarebbe nemmeno tanto
bisogno: attentati di questo tipo possono essere compiuti da chiunque.
Si è parlato di lupi solitari; qui siamo in presenza di un branco.
Un ristorante, una trattoria, uno stadio, una sala di concerti non
rappresentano reali obiettivi sensibili, segno che non occorre
particolare addestramento. Sorprende piuttosto che dispongano di armi da
guerra, non così facili da reperire in Francia. In Italia sappiamo che
le mafie ne sono provviste ma anche molto gelose. Combattere il fenomeno
foreign fighters corrisponde a coinvolgere le comunità islamiche e non spingerle verso l’uscita.
Tutto ciò va fatto contemporaneamente.
Gridare “siamo in guerra!” senza capire quale sia questa guerra,
invocando irresponsabili atti di vendetta e reazioni armate, ci fa
cadere nell’imboscata jihadista. Proprio lì lo Stato Islamico vuole
portarci, per mettere le mani sull’islam europeo ma soprattutto su
quello mediorientale. Vuole dividere il terreno in due schieramenti
contrapposti, giocando sul fatto che per riflesso i musulmani saranno
fatalmente attirati dalla sua parte.
Per tale motivo la propaganda dell’Is
(come quella di al-Qaeda prima) tira continuamente in ballo
l’Occidente: in realtà sta parlando alla Umma islamica per farla
reagire. Intraprendere tutto ciò non è facile ma necessario.
Contenere e spegnere la guerra di Siria è il solo modo per prosciugare il lago terrorista.
Sarà operazione lunga e complessa, ci saranno altri attentati, ma è una
strada vincente alla lunga. Certo si tratta di far dialogare nemici
acerrimi, di dare un posto a tavola a gente che non ci piace (Assad e i
suoi) o a formazioni ribelli ambigue, ma è l’unico modo.
Andare in Siria in ordine sparso è al contrario la via per compiacere Daesh e i suoi strateghi:
un Occidente e una Russia divisi su tutto favoriscono chi sta creando
uno “Stato” alternativo. Si tratta di una vecchia lezione della storia.
L’operazione militare europea diretta, boots on the ground,
è dunque necessaria? Non sembra, e comunque non ora: sarebbe andare
allo sbaraglio. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è che ribelli siriani
e milizie di Assad – assieme ai rispettivi alleati – capiscano che il
nemico comune esiste, si siedano e parlino. Lo Stato
Islamico furbescamente si presenta alla Umma come “diverso”: non alleato
con nessuno, patriottico, anti-neocolonialista, no-global, non
inquinato da interessi stranieri e puramente islamico, duro ma nazionale
(nel senso che patria e nazione hanno per l’islam politico). In questo
modo mette a repentaglio la sopravvivenza e gli interessi di tutti:
dell’Occidente, della Russia, di Assad, dei ribelli, dei curdi e delle
altre minoranze. Gli unici ad averlo apparentemente capito sono i curdi:
c’è un solo nemico comune, sorto nel vuoto di potere. Il negoziato
parte da questa consapevolezza e per questo deve coinvolgere anche russi
e iraniani.
L’obiettivo minimo è una tregua immediata;
quello massimo un patto per il futuro della Siria. Solo a queste
condizioni si potrà mettere in piedi un’operazione internazionale di
terra, che miri a stabilizzare il paese e a mettere l’Is spalle al muro.
Solo così si potrà svelare cos’è veramente l’Is: una cricca di ex
militari iracheni e fanatici jihadisti che vengono dal passato e che
hanno approfittato delle nostre divisioni.
Il vuoto della politica, si sa, genera mostri.
A meno – sarebbe l’altra soluzione – di non lasciare tutto e ritirarsi.
Andarcene totalmente dal Medio Oriente, rinunciare tutti a ogni
interesse e presenza, abbandonare i mediorientali al loro dramma.
Qualcuno lo pensa, qualcuno lo dice.
Se ce ne andassimo dal Medio Oriente, gli attentati in Europa smetterebbero subito, probabilmente. D’altro canto le vittime in quella regione sarebbero ancora maggiori.
Lasceremmo il lago jihadista diventare un mare. E questa non è un’opzione.
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