Adesso ho capito perché sono stati uccisi Falcone e Borsellino
di Profilo artemide1955artemide1955 287 il 03 dic 08, 13:35:39
Il trasferimento del giudice Luigi De Magistris e le contrapposizioni di questi ultimi giorni fra la Procura della Repubblica di Salerno e quella di Catanzaro rendono chiare tutte le vicende oscure che si sono registrate nel nostro paese dal 1991 in poi.
Le sintetizzo: E' il 1991, Si deve celbrare in Cassazione il noto maxi-processo ai 350 capi di Cosa Nostra. Probabilmente all'inizio di questo processo, alcuni anni prima, Andreotti aveva promesso ai padrini che il processo in Cassazione sarebbe andato a terra. Ma poi cambia idea.
La crisi dei partiti tradizionali per la questione morale, la caduta del Muro di Berlino e quindi il venir meno di ragioni internazionalei per il sostegno a Cosa Nostra, le pressanti richieste della Comunità Europea di ridurre il tasso di criminalità del nostro paese onde consentire l'ingresso dell'Italia nell'Unione Monetaria Europea, lo inducono a elevare il livello di contrasto dello Stato contro Cosa Nostra e dunque a non dispaicersi dell'eventuale conferma della sentenza del maxi-processo.
Falcone già da lungo tempo uomo di Andreotti, simbolo di quella lotta alla mafia, voluta dallo stesso Andreotti perché il cittadino non perdesse la fiducia nello Stato, viene chiamato a collaborare con lui a Roma.
Fa sostituire il dott. Corrado Carnevale, giudice garantista, dalla presidenza della prima sezione della Cassazione che dovrà giudicare il maxi-processo e lo fa sostituire con altro Magistrato. Ma i complottatori questo non lo sanno e intervengono sul nuovo presidente designato affinché il maxi-processo vada ugualmente a terra. Ne vorranno poi dare la colpa ad Andreotti e vorranno far sommergere anche lui da una valanga di monetine in qualche piazza di Roma, come poi capitò all'on.le Bettino Craxi.
Ma il consgliere Scoppelliti viene a sapere di questo e ne informa il dott. Falcone. Il dott. Falcone a sua volta ne informa l'on.le Martelli.
L'on.le Martelli va in Cassazione si fa ricevere dal Primo Presidente il dott. Brancaccio e fa nominare presidente della Prima Sezione il giudice Valente, un magistrato organico al PCI-PDS in quanto anni prima era stato eletto membro del Consiglio Superiore della Magistratura in quota PCI-PDS.
E' la rottura. I complottatori vanno su tutte le furie. Un magistrato della Cassazione fornisce a Cosa Nostra la dritta affinché sia ucciso il consigliere della Cassazione Antonino Scoppelliti, Falcone lo viene a sapere e ne fa denuncia. Il terzo livello, ossia quel gruppo di giudici che per tutto il corso della Prima Repubblica aveva garantito il rapporto con Cosa Nostra per procurare sostegno politico alla D.C. e che nel frattempo ha stipulato un patto con la Sinistra Democristiana, insorge.
Intanto Andreotti fa un patto con Bossi e quindi, se si presenta presidente della Repubblica, sarà sicuramente eletto. Si sa che egli farà gestire i pentiti dal Sisde anziché dalla DNA, dopo aver trasformato il Sisde in un servizio segreto interno alle dipendenze dell'Esecutivo e quindi sue e lasciando al solo Sismi compiti di controspionaggio tradizionale. Il Sisde differentemente dalla DNA non sarà diretto da un Magistrato ma dal dott. Bruno Contrada.
Il terzo livello, non si sente garantito da questa prospettiva e insorge ancora di più. I pentiti, nelle loro propalazioni, potrebbero essere non sufficientemenmte gestiti e quindi potrebbero parlare di loro.
Occorre quindi assolutamente scongiurare l'elezione di Andreotti a presidente della Repubblica.
Si decide così di uccidere Giovanni Falcone se Andreotti presenta la sua candidatura. E ciò sia per sanzionarlo per la condotta da lui tenuta nel caso Scoppelliti, sia per sollecitare l'elezione a presidente della Repubblica del sen. Oscar Luigi Scalfaro, presidente del Senato e candidato istituzionale.
Così infatti avviene infatti quel fatidico 23 maggio 1992.
Il 1° luglio 1992 a Roma il dott. Borsellino interroga negli uffici della Criminalpol di Roma il pentito Gaspare Mutolo e costui gli parla del giudice Domenico Signorino, Pubblico Ministero requirente al maxi-processo di Palermo, membro del Terzo Livello e quindi in rapporti con Cosa Nostra. Il ministro degli Interni appena nominato Nicola Mancino lo ascolta attraverso le cimici e a un certo punto svela al sua presenza virtuale e lo manda a chiamare.
L'interogatorio viene sospeso per circa tre ore. Il dott. Borsellino incontra il Ministro Nicola Mancino e questi gli intima di estrapolare dall'interogatorio la parte di deposizione che riguarda il dott. Domencio Signorino. Borsellino si rifiuta, spalleggiato anche da Vincenzo Parisi, allora capo della Polizia, presente al colloquio.
Il giorno dopo viene fatto pervenire in Sicilia il tritolo che lo ammazzerà.
Il 19 luglio 92 viene eseguito l'attentato. Qualche tempo dopo morirà di morte sconosciuta anche Vincenzo Parisi e Giovanni Di Gennaro diventerà nuovo capo della Polizia e tale rimarrà per tutto il Governo Prodi. Un imbarazzatissimo Berlusconi lo confermerà capo della Polizia anche sotto il suo governo perché "così hanno ordinato gli americani".
Il dott. Luigi De Magistris non è stato ucciso ma è stato delegittimato, umiliato, trasferito e perseguitato e guarda caso da un Consiglio Superiore della Magistratura diretto ancora una volta da lui il senatore Nicola Mancino, che i Magistrati hanno voluto vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Egli ha toccato i medesimi interessi, che a suo tempo toccarono i suoi colleghi Falcone e Borsellino. Ha osato mettere sotto processo alcuni Magistrati lucani e alcuni uomini d'affari calabresi vicini al Presidente Romano Prodi.
Quel Romano Prodi, il quale tutte le sere si parlava al telefono con Eugenio Scalfari direttore di Repubblica.
La Procura della Repubblica di Salerno non ancora "normalizzata" adesso indaga.
Scrivo queste note unicamente per dare uno spassionato consiglio al PD, a Forza Italia e alla Lega: lasciateli indagare...........lasciate che la giustizia faccia il suo corso, tanto voi non c'entrate niente. Vacca, Mancino ed altri non sono vostri. Chiedete una buona volta le dimissioni del senatore Nicola Mancino e imponetele. Disponete il commissariamento del Consiglio Superiore della Magistratura, altrimenti delegittimate la Procura di Salerno. Evitate che questo Consiglio Superiore faccia altri danni al presitigio delle Istituzioni più di quelli cha finora ha già fatto.
Tenete presente che un domani il dott. Luigi De Magistris si presenterà candidato alle elezioni politiche. E se non avvicinate le posizioni vi annientierà a tutti e tre.
Io per primo voterò per lui, qualunque sarà lo schieramento in cui lui si presenta.
Non è possibile gestire uno Stato se alcune Procure sono diventate delle cloache.
ARTEMIDE
mercoledì 17 febbraio 2010
venerdì 12 febbraio 2010
ESPLOSIVA INTERVISTA ALL'EX MINISTRO SOCIALISTA RINO FORMICA (NASCOSTA DAL 'CORRIERE') - "TOGHE ROSSE? NO,TOGHE DEVIATE!" - "NESSUNO HA FATTO CASO CHE LA SERA IN CUI VENNE SCATTATA LA FOTO AL PM DI MANI PULITE, CONTRADA ERA GIÀ SOSPESO DAL SISDE!" - "COSSIGA HA SOSTENUTO CHE NEL ’90-91 L’FBI VENNE IN ITALIA PER ORIENTARE LA MAGISTRATURA CONTRO ANDREOTTI E CRAXI, FECE PRESSIONI E IL PRESIDENTE SI DIMISE" - "NELLA PRIMA REPUBBLICA IL DENARO SERVIVA A FINI POLITICI. ADESSO IL DANARO DA MEZZO È DIVENTATO IL MERO FINE DELLA POLITICA: CIOÈ IL RAPPORTO È ROVESCIATO" "BERLUSCONI ERA UN OPPORTUNISTA: PRIMA CON CRAXI PER LE TV, POI A FAVORE DEL POOL" img
Goffredo Buccini per "il Corriere Della Sera"
Di Pietro e Contrada a Cena nel 1992 berlusconi giovane
«E se non fossero state rosse?». Prego? «Dico, le toghe. Sui genitori di questa cosiddetta Seconda Repubblica, c'è una vulgata che parla di golpe, magistratura politicizzata, toghe rosse, appunto». Invece? «Si comincia a capire che non furono rosse, le toghe. La cena Contrada-Di Pietro, di cui voi del Corriere avete pubblicato le foto, e ciò che avvenne poi, ci può autorizzare a parlare semmai di magistrati deviati».
Nella bella casa in centro, accanto a Palazzo Valentini, Rino Formica non riesce a stare seduto cinque minuti di fila. Soffre di sciatica. Ma la verve polemica di un tempo è intatta. Come il gusto dell'iperbole (suo il copyright di «nani e ballerine», per dire). Come il filo di rasoio delle «erre», arrotate dei suoi ragionamenti «ampi». Come, in effetti, una certa dose di sassolini nelle scarpe. Sugli scaffali, Nenni e Plutarco, Spriano e Acton («Gli ultimi Borboni di Napoli»). Tra i vecchi sodali d'un tempo, quasi solo Cirino Pomicino («ne ammiro l'intelligenza»).
Craxi Di Pietro e Contrada a cena nel 1992 - Da sinistra, il colonnello dei carabinieri Gargiulo, Bruno Contrada, Antonio Di Pietro, il generale Tommaso Vitagliano, il colonnello Conforti e il colonnello Fa
Socialisti L'ex ministro alle Finanze Rino Formica (83 anni) con il segretario psi Bettino Craxi. Secondo Formica, i socialisti non hanno «mai sostenuto che bisognasse fare leggi per salvarsi dai processi». Quanto al premier, «nel '92 gli importava solo delle tv»
Cosa avvenne, secondo lei, tra l'89 e il '94?
«Una crisi sistemica, di panico, tra le classi dirigenti nel triennio '89/'92. Nel caos si inserirono contrastanti agenzie di Paesi alleati ed ex comunisti".
Alla fine di tutta questa fase vinse Berlusconi
«Appunto. Come può essere una rivoluzione di toghe rosse?».
Cossiga abbraccia CraxiDa sinistra Colonnello Gargiulo - contrada - colonnello fausto del vecchio - di pietro il comandante vitagliano
Ha saltato un passaggio: il Paese non reggeva più il sistema delle tangenti.
«Aspetti, ragioniamo. I soggetti politici si sono moltiplicati nel frattempo: una pluralità di soggetti visibili e identificabili e, spesso, invisibili e sfuggenti».
Siamo ai «misteri d'Italia»?
«Beh, c'è chi non vuole o non può disvelare le sorgenti di un'azione politica, che tanto occulte non sono».
Si spieghi meglio.
«Se si può parlare di servizi deviati, dico io, perché è così indecente parlare di interventi di agenzie estere deviate, lobby sommerse, informazioni manipolate e giustizia mirata?».
andreotti giulioDi schiena mentre gesticola Rocco mario modiati, gargiulo, FAusto del vecchio e francesco d'agostino.jpg contrada, di pietro, vitagliano, col conforti, fausto del Vecchio, In piedi francesco d'agostin
Perché bisogna dimostrare quello che si dice, forse.
«Io dico: vediamo questa foto di Contrada e Di Pietro. Al congresso Idv, Di Pietro, con la solita miscela di furbizia e ingenuità, ha detto: chiedete al generale Vitagliano, il padrone di casa... ma quella sera, Contrada era già sospeso dal Sisde».
Di Pietro poteva non saperlo.
«Il problema è un altro. Di Pietro non era il titolare di Mani pulite. Lo era il pool. Quella era la riunione dei carabinieri di supporto alla polizia giudiziaria. Perché non fu investito il pool?».
E le pare sufficiente a sostenere che Di Pietro fu un magistrato «deviato»?
«No. C'è un altro tassello grazie al presidente Cossiga. Due anni fa su Libero, attraverso il suo pseudonimo di Franco Mauri, ha sostenuto che nel '90-91 l'Fbi venne in Italia per orientare la magistratura contro Andreotti e Craxi, e fece pressioni su un presidente con la K nel cognome. Lui si dimise».
PIERO FASSINOColonnello GArgiulo Tommaso Vitagliano e Bruno Contrada
Che la classe politica italiana prendesse tangenti era oggetto di barzellette da anni. C'era bisogno dell'Fbi?
«No, qui sta il vostro errore! Nella Prima Repubblica la politica nobilitò la funzione dello sterco del diavolo come mezzo di raggiungimento di fini politici! Adesso il danaro da mezzo è diventato fine della politica: cioè il rapporto è rovesciato».
Non è colpa anche del lavoro di delegittimazione della magistratura cominciato forse proprio da voi socialisti?
«Nooo! Noi non abbiamo mai sostenuto che bisognasse fare leggi per salvarsi dai processi. Noi abbiamo detto che il nostro sistema aveva deviazioni individuali che andavano punite penalmente e un accomodamento sistemico che andava valutato sul superamento di una soglia».
dipietro contrada
Larini, Manzi, Troielli, Mach di Palmstein... quanti superarono la soglia, e per conto di chi?
«Lei continua a confondere ciò che è sistemico con ciò che è deviato, non ci capiamo».
Craxi, comunque, scappò.
«Craxi si avvalse del diritto alla resistenza teorizzato anche da alcuni padri costituenti».
Craxi e Occhetto
Craxi era un uomo dello Stato.
«Io sto a quello che ha detto Napolitano parlando di Craxi: "Durezza senza eguali sulla sua persona...". E le dico che allora si usarono metodi rivoluzionari senza fini rivoluzionari. Agenti parapolitici internazionali...».
... senta, persino le televisioni di Berlusconi nel '92 appoggiavano l'inchiesta di Milano.
«Guardi, ho per le mani un libro di Veltri, c'è un'intervista di allora del Cavaliere. Beh, gli importava solo delle tv. Diceva: "Il sistema è crollato e noi siamo più liberi". Berlusconi era un opportunista».
Occhetto
Lo dice lei. Molti «eredi» politici di Craxi oggi lo adorano.
«Vede, ad agosto '92 erano usciti già i corsivi di Craxi contro Mani pulite. E ancora a settembre i comunisti, il Pds, facevano la coda dietro la porta di Bettino, perché si discuteva la loro ammissione nell'Internazionale socialista. Io ho ancora una lettera di Fassino in cui si dice: mi raccomando, sosteneteci, cambieranno tutti i rapporti. Al rientro da Berlino, dove Craxi era intervenuto in loro favore, Occhetto fece un intervento di pura aggressione contro di lui. Capisce perché tanti sono andati con Forza Italia? Il... nemico minore».
Dica, dopo tanti anni, la politica è sempre «sangue e merda»?
«Beh, adesso c'è una bella differenza».
Quale?
«Il mix. Non bisogna esagerare con il secondo ingrediente».
[12-02-2010]
by dagospia
Di Pietro e Contrada a Cena nel 1992 berlusconi giovane
«E se non fossero state rosse?». Prego? «Dico, le toghe. Sui genitori di questa cosiddetta Seconda Repubblica, c'è una vulgata che parla di golpe, magistratura politicizzata, toghe rosse, appunto». Invece? «Si comincia a capire che non furono rosse, le toghe. La cena Contrada-Di Pietro, di cui voi del Corriere avete pubblicato le foto, e ciò che avvenne poi, ci può autorizzare a parlare semmai di magistrati deviati».
Nella bella casa in centro, accanto a Palazzo Valentini, Rino Formica non riesce a stare seduto cinque minuti di fila. Soffre di sciatica. Ma la verve polemica di un tempo è intatta. Come il gusto dell'iperbole (suo il copyright di «nani e ballerine», per dire). Come il filo di rasoio delle «erre», arrotate dei suoi ragionamenti «ampi». Come, in effetti, una certa dose di sassolini nelle scarpe. Sugli scaffali, Nenni e Plutarco, Spriano e Acton («Gli ultimi Borboni di Napoli»). Tra i vecchi sodali d'un tempo, quasi solo Cirino Pomicino («ne ammiro l'intelligenza»).
Craxi Di Pietro e Contrada a cena nel 1992 - Da sinistra, il colonnello dei carabinieri Gargiulo, Bruno Contrada, Antonio Di Pietro, il generale Tommaso Vitagliano, il colonnello Conforti e il colonnello Fa
Socialisti L'ex ministro alle Finanze Rino Formica (83 anni) con il segretario psi Bettino Craxi. Secondo Formica, i socialisti non hanno «mai sostenuto che bisognasse fare leggi per salvarsi dai processi». Quanto al premier, «nel '92 gli importava solo delle tv»
Cosa avvenne, secondo lei, tra l'89 e il '94?
«Una crisi sistemica, di panico, tra le classi dirigenti nel triennio '89/'92. Nel caos si inserirono contrastanti agenzie di Paesi alleati ed ex comunisti".
Alla fine di tutta questa fase vinse Berlusconi
«Appunto. Come può essere una rivoluzione di toghe rosse?».
Cossiga abbraccia CraxiDa sinistra Colonnello Gargiulo - contrada - colonnello fausto del vecchio - di pietro il comandante vitagliano
Ha saltato un passaggio: il Paese non reggeva più il sistema delle tangenti.
«Aspetti, ragioniamo. I soggetti politici si sono moltiplicati nel frattempo: una pluralità di soggetti visibili e identificabili e, spesso, invisibili e sfuggenti».
Siamo ai «misteri d'Italia»?
«Beh, c'è chi non vuole o non può disvelare le sorgenti di un'azione politica, che tanto occulte non sono».
Si spieghi meglio.
«Se si può parlare di servizi deviati, dico io, perché è così indecente parlare di interventi di agenzie estere deviate, lobby sommerse, informazioni manipolate e giustizia mirata?».
andreotti giulioDi schiena mentre gesticola Rocco mario modiati, gargiulo, FAusto del vecchio e francesco d'agostino.jpg contrada, di pietro, vitagliano, col conforti, fausto del Vecchio, In piedi francesco d'agostin
Perché bisogna dimostrare quello che si dice, forse.
«Io dico: vediamo questa foto di Contrada e Di Pietro. Al congresso Idv, Di Pietro, con la solita miscela di furbizia e ingenuità, ha detto: chiedete al generale Vitagliano, il padrone di casa... ma quella sera, Contrada era già sospeso dal Sisde».
Di Pietro poteva non saperlo.
«Il problema è un altro. Di Pietro non era il titolare di Mani pulite. Lo era il pool. Quella era la riunione dei carabinieri di supporto alla polizia giudiziaria. Perché non fu investito il pool?».
E le pare sufficiente a sostenere che Di Pietro fu un magistrato «deviato»?
«No. C'è un altro tassello grazie al presidente Cossiga. Due anni fa su Libero, attraverso il suo pseudonimo di Franco Mauri, ha sostenuto che nel '90-91 l'Fbi venne in Italia per orientare la magistratura contro Andreotti e Craxi, e fece pressioni su un presidente con la K nel cognome. Lui si dimise».
PIERO FASSINOColonnello GArgiulo Tommaso Vitagliano e Bruno Contrada
Che la classe politica italiana prendesse tangenti era oggetto di barzellette da anni. C'era bisogno dell'Fbi?
«No, qui sta il vostro errore! Nella Prima Repubblica la politica nobilitò la funzione dello sterco del diavolo come mezzo di raggiungimento di fini politici! Adesso il danaro da mezzo è diventato fine della politica: cioè il rapporto è rovesciato».
Non è colpa anche del lavoro di delegittimazione della magistratura cominciato forse proprio da voi socialisti?
«Nooo! Noi non abbiamo mai sostenuto che bisognasse fare leggi per salvarsi dai processi. Noi abbiamo detto che il nostro sistema aveva deviazioni individuali che andavano punite penalmente e un accomodamento sistemico che andava valutato sul superamento di una soglia».
dipietro contrada
Larini, Manzi, Troielli, Mach di Palmstein... quanti superarono la soglia, e per conto di chi?
«Lei continua a confondere ciò che è sistemico con ciò che è deviato, non ci capiamo».
Craxi, comunque, scappò.
«Craxi si avvalse del diritto alla resistenza teorizzato anche da alcuni padri costituenti».
Craxi e Occhetto
Craxi era un uomo dello Stato.
«Io sto a quello che ha detto Napolitano parlando di Craxi: "Durezza senza eguali sulla sua persona...". E le dico che allora si usarono metodi rivoluzionari senza fini rivoluzionari. Agenti parapolitici internazionali...».
... senta, persino le televisioni di Berlusconi nel '92 appoggiavano l'inchiesta di Milano.
«Guardi, ho per le mani un libro di Veltri, c'è un'intervista di allora del Cavaliere. Beh, gli importava solo delle tv. Diceva: "Il sistema è crollato e noi siamo più liberi". Berlusconi era un opportunista».
Occhetto
Lo dice lei. Molti «eredi» politici di Craxi oggi lo adorano.
«Vede, ad agosto '92 erano usciti già i corsivi di Craxi contro Mani pulite. E ancora a settembre i comunisti, il Pds, facevano la coda dietro la porta di Bettino, perché si discuteva la loro ammissione nell'Internazionale socialista. Io ho ancora una lettera di Fassino in cui si dice: mi raccomando, sosteneteci, cambieranno tutti i rapporti. Al rientro da Berlino, dove Craxi era intervenuto in loro favore, Occhetto fece un intervento di pura aggressione contro di lui. Capisce perché tanti sono andati con Forza Italia? Il... nemico minore».
Dica, dopo tanti anni, la politica è sempre «sangue e merda»?
«Beh, adesso c'è una bella differenza».
Quale?
«Il mix. Non bisogna esagerare con il secondo ingrediente».
[12-02-2010]
by dagospia
martedì 9 febbraio 2010
LA STRANA BUGIA DI TONINO - L'EX PM FINGE DI NON AVER NULLA A CHE FARE CON IL FONDATORE DEL PARTITO MANI PULITE, PIERO ROCCHINI: "NON CONOSCO QUEST'UOMO" – MA CI SONO FOTO DEI DUE INSIEME E ROCCHINI RACCONTA IL DI PIETRO CHE CONOSCEVA: “SI PROFESSAVA UOMO DI DESTRA, TORNATO DAGLI USA SI BUTTÒ CON IL CENTROSINISTRA. CI SCONVOLSE”… 1- LA STRANA BUGIA DI DI PIETRO...
Gian Marco Chiocci per "il Giornale"
Nega spesso l'evidenza incurante di smentire se stesso. Ai tempi della Milano da bere era specializzato nel tradimento degli amici, poi s'è perfezionato nel rinnegare qualsiasi frequentazione scomoda per l'opinione pubblica: dalla cena con Contrada ai rapporti col provveditore Mautone (quello intercettato col figliol prodigo Cristiano) fino agli incontri con Antonio Saladino, l'indagato principe dell'inchiesta Why Not di Genchi e De Magistris. Tre casi, decine e decine di casi. Un Giuda degli affetti e della politica, Antonio Di Pietro.
DIPIETRO GIOVANE
Uno che s'è comportato alla solita maniera anche quando Piero Rocchini, un caro e vecchio amico psichiatra che per lui si sarebbe buttato nel fuoco e che insieme a lui inventò il «movimento politico Mani Pulite», ha avuto l'ardire di chiedergli spiegazioni in merito al cambio di strategia che Tonino fece al ritorno dal viaggio negli States: «Ebbi l'impressione che certi circoli americani gli avessero fatto intendere di preferire un Di Pietro dentro al sistema dei partiti anziché fuori. Era cambiato, non lo riconoscevo più».
DIPIETRO GIOVANE
Anche Tonino non l'ha più riconosciuto, a Rocchini. Quando? Una mattina di maggio dell'anno 2000. Di Pietro è convocato dalla difesa di Rocchini a testimoniare in un processo per diffamazione. C'è da chiarire i reali rapporti fra i due, posto che un imprenditore, Giorgio Panto, ha dato a Rocchini del millantatore. Rocchini conta sulla testimonianza di Tonino.
antonio di pietro idv
Alle prime domande del pm e del presidente, Di Pietro risponde però come un teste dell'accusa: inizia a dire che il presidente del movimento lui lo conosce appena, che agiva per conto suo senza averne diritto, che ricordava vagamente d'averlo incontrato in un viaggio all'estero, che era uno dei tanti simpatizzanti del pool, che tutti gliene parlavano male perché era vicino ai fascisti di Ordine Nuovo, eccetera. Insomma, per dirla in dipietresco napoletano, lo fa una chiavica.
di pietro
L'avvocato di Rocchini di fronte a quel disconoscimento non sa se ridere o piangere: «Ma scusa Antonio, non ti ricordi che Piero me lo hai presentato tu?». No, sì, forse. Balbetta. Quando capisce che in tribunale ci sono suoi scritti autografi, prove dei contatti «politici» e fotografie con l'amico carneade, il Molisano mette le mani avanti. E minimizza tutto, compresa quella foto che lo ritrae a casa sua (di Di Pietro) sdraiato sul petto di Piero Rocchini davanti a una bottiglia mezza vuota di vodka. Quel che segue è un ampio stralcio della sua deposizione shock. Giudicate voi.
Di Pietro
Pm: «(...) allora, se può sinteticamente riferire dei suoi rapporti personali con Piero Rocchini, se c'era un rapporto connotato d'amicizia o da frequentazione, e i risvolti politici (...). Di Pietro: «Dal punto di vista personale beh... non è che non lo conosco, però non lo conoscevo prima dell'inchiesta. L'ho conosciuto durante la mia attività di magistrato credo in relazione a un convegno in Australia o in Spagna dove l'ho incontrato con la moglie (...)».
Antonio Di Pietro
Dagli atti in possesso di Rocchini, visionati dal Giornale, Di Pietro non incontrò casualmente Rocchini in Australia perché fu proprio Rocchini a organizzare quel viaggio, gli incontri, le conferenze, gli spostamenti interni, vitto e alloggio inclusi. Rocchini accompagnò pure Di Pietro a Fiumicino.
Presidente: «Ci serve chiarire quali fossero i rapporti fra lei e Rocchini, in particolare del fatto che Rocchini avesse fondato un movimento denominato Mani pulite, lei quando lo è venuto a sapere?». Di Pietro: «Il fatto stesso che non ne abbia contezza piena le dice che io non ho fondato o co-fondato o autorizzato a fondare un movimento Mani pulite. A nome mio e ispirandosi alla mia persona tante persone hanno fondato in Italia tanti movimenti autonomi senza che io dicessi nulla. Anzi avevo preso la buona abitudine, per mantenere una differenziazione, che quando questi mi invitavano, a tutti dicevo. "Non posso venire mi dispiace"».
Antonio Di Pietro
Anche a Rocchini il buon Di Pietro ha risposto così in occasione di svariati convegni, in giro per l'Italia, organizzati dal Movimento Mani pulite. Però se uno dà un'occhiata alle carte custodite da Rocchini scopre che i rapporti erano costanti. In un biglietto autografo, Tonino scrive: «Ciao, come potrei dimenticarmi di te, consigliere occulto!". Oppure: «Caro Piero, interroga la tua campana di vetro oppure leggimi la mano: come andrà a finire? Ce la faremo?» Ogni riferimento alla discesa in campo di Tonino non è casuale.
Pm: «Le mostro questi fax. Se può ricordare in che contesto li ha spediti. Lei alle persone che le scrivono risponde dicendo: "Faccia riferimento al signor Rocchini"...». Di Pietro: «Ma no, era con riferimento a tutta questa attività non politica che stava facendo Rocchini...».
Antonio Di Pietro
Non è così. Il Pm tira fuori un altro biglietto scritto da Di Pietro ad alcuni personaggi poi entrati fattivamente nell'Idv. Si legge: «Sarà bene che prendiate contatto con il dottor Rocchini». Di Pietro dice di non ricordare bene, poi aggiunge che saranno centinaia le lettere che riceveva ogni giorno (...). "Non me ne voglia Rocchini ma io avrò detto di prendere contatto con 200mila Rocchini, non ricordo».
di pietro e Rocchini
Allora il Pm tira fuori un altro fax di Di Pietro, ancora più esemplificativo della vicinanza fra i due: «Rispondo al fax del 6 novembre per assicurarle che io sto facendo tutto tranne che disinteressarmi del vostro movimento». L'avvocato lo incalza: «Questo vuol dire che lei si sta interessando molto a questo movimento», o no?.
Pm: «Ci è stato riferito di contrasti che a un certo punto sarebbero incorsi tra il movimento del presidente Rocchini e lei. Questi fatti le risultano?». Di Pietro: «Io non ho mai intrattenuto rapporti politici».
rocchini a Sinistra - Di Pietro al centro
Non sembrerebbe così. Stando alle contestazioni documentate dell'avvocato di Rocchini, il 7 novembre 1995 Di Pietro scrive un organigramma politico, di suo pugno, con tanto di intestazione: «Movimento per i diritti civili». Lo schema del movimento è strutturato su sei linee («Programma: Veltri», «Organizzazione: io», «Stato giuridico: Stajano», «Struttura amministrativa», «l'analisi delle candidature: Cristina») e due sottolinee: «Controllo dell'immagine: Directa», «Movimento Mani pulite» appunto quello di Rocchini.
Di Pietro - Italia dei Valori
Di Pietro: «La parola "Io" l'ho scritta io? Non ho capito...». Pm: «Sì, se lei ha scritto quell'organigramma, non solo la parola io, ma tutto l'organigramma». Di Pietro: «Allora... rilevo che ci sono parti che hanno la mia scrittura e altre parti no(...). Questo documento... è stato fatto, ma non è un documento, è un appunto, poi non so se è stato ritagliato, non so dove è stato (...) La parte mia è uno studio di un movimento che volevano imbastire con Cristina Koc» (...). Pm: «Sì, ma poi c'è scritto anche Mani pulite».
congresso italia dei valori di pietro jpeg
Di Pietro: «Sì, ma che ci azzecca lui (Rocchini, ndr)?». Pm. «Ah non lo so, l'ha scritto lei». Di Pietro: «No, non ci azzecca niente» (...)». Pm: «In quell'occasione erano presenti queste persone, Stajano, Veltri, Rocchini. Non ricorda?». Di Pietro: «Veramente io non mi ricordo nemmeno quando è stata fatta quella roba lì (...). C'era una persona, credo Ferrieri, che mi segnalò che Rocchini aveva avuto a che fare con l'estrema destra, con Ordine nuovo. Mi irrigidii quando lessi i documenti giudiziari su Rocchini...».
Antonio Di Pietro si sarebbe potuto irrigidire di meno se solo le avesse tutte le carte su Rocchini, che finì in cella 3 mesi ma venne poi prosciolto per non aver commesso il fatto già 15 anni prima, il 20 giugno 1978.
Di Pietro: «A un certo punto mi sono accorto che c'è un signore, che conosco in un convegno, che frequento in un altro convegno... credo che sia addirittura venuto a casa mia, non vorrei sbagliarmi...». Pm: «Sì, c'è tanto di fotografia, ma non l'ho ammessa». Di Pietro: «Ah... ricordo siamo stati in Australia...» (...). Avvocato di Rocchini: «Lei dottor Di Pietro riconosce questa fotografia? Che io devo esibire al teste, dato che non è la solita foto al pranzo conviviale o al pranzo ufficiale, ma è come dire...».
congresso italia dei valori di pietro jpeg
Di Pietro: «Ci siamo sicuramente io e lui, è venuto a casa mia». Avv.: «Dov'è avvenuta questa ripresa?». Di Pietro: «Non lo so dov'è avvenuta». Avv. «Denota rapporti molto confidenziali...». Di Pietro: «(guarda la foto, ndr)... è avvenuta a casa mia». Avv: «Ecco, appunto, a casa sua, bene. I rapporti erano quindi confidenziali?». Di Pietro: «Confidenziali no. Amichevoli, ma da qui adesso non li facciamo confidenziali». Macché.
2- "DI PIETRO ERA DI DESTRA. POI TORNA DAGLI USA E PASSA ALLA SINISTRA"
Gian Marco Chiocci per "il Giornale"
Dottor Piero Rocchini, quale presidente del Movimento Mani pulite, lei fu uno dei primi a sollevare più di un interrogativo sui viaggi americani di Antonio Di Pietro...
congresso italia dei valori di pietro e de magistris jpeg
«Lo ricordo benissimo. Prima, a tu per tu con Antonio, gli chiesi conto del perché avesse cambiato idea sul movimento, sui progetti, sulle speranze che univano tutti coloro che credevano in lui e nell'ideale alto della politica che pensavamo incarnasse. Dopodiché riversai al settimanale Epoca, nel giugno del 1996, il mio disagio per quel voltafaccia seguito al tour che Di Pietro fece negli Stati Uniti. E da allora, a cominciare da una sua singolare testimonianza in un processo per diffamazione, fra me e Antonio c'è stato prima un raffreddamento dei rapporti e poi una rottura totale».
Di Pietro e Silvana Mura - Da Libero
Andiamo per gradi. A gennaio '95 Di Pietro lascia la toga, a luglio vola negli Usa. Nel mezzo c'è il Movimento Mani pulite e c'è grande attesa su quel che farà da grande l'ex Pm...
«Nell'aria c'erano più strade da percorrere. Una era quella di considerare Antonio Di Pietro come riferimento etico fuori dalla politica attiva. In continuazione parlava di quello che avrebbe voluto fare da grande ma al dunque era sempre abbastanza vago. Faceva riunioni su riunioni, discuteva di programmi da stilare, coinvolgeva persone che poi lo hanno seguito fino al giorno del battesimo dell'Idv. Addirittura arrivò a prendere personalmente contatti con i dirigenti del Movimento che stranamente evitarono di dirmelo. Era chiaro che ambiva a ricoprire un ruolo attivo, di primo piano, in politica.
Di Pietro e Silvana Mura limousine - Da Libero
Quando tornò dal viaggio non era più l'Antonio che conoscevo, quello che assieme a Veltri, Stajano e altri pianificò con me la formazione di un movimento trasversale, autonomo, che si rifaceva allo spirito di Mani pulite e al movimento di cui era ben informato. La sua idea iniziale era quella di utilizzare noi restando nelle retrovie. Non si voleva bruciare. Poi però il Tonino americano prese a fare strani discorsi, sosteneva che non era più il caso di continuare con i nostri entusiastici progetti politici, disse che era meglio combattere il sistema da dentro e non da fuori come a gran voce chiedeva la "sua" base. Ero perplesso...».
l’assegno di 50 mila dollari di Bianchini a Di Pietro
Torniamo ai circoli americani frequentati da Di Pietro...
«Andò, ufficialmente, per una serie di conferenze organizzate dal politologo Luttwak. Quando rientrò in Italia mi parlò di un suo impegno per rinnovare la classe politica non più come progetto autonomo dai partiti bensì come entità di appoggio a una determinata parte politica. L'aveva ripetuto in continuazione. Poi si buttò con il centrosinistra».
E la cosa la sorprese?
Antonio Di pietro - Coppola e Sigaro
«Assolutamente sì. Di Pietro era, e si professava, uomo di destra. Era chiaro che in quanto magistrato, proprio per una questione di opportunità, non si sarebbe dovuto candidare. Poi qualcosa cambiò. Un giorno ci convoca tutti alla Directa, la società di sondaggi che avrebbe fatto parte dell'organigramma del partito che si sarebbe dovuto chiamare Movimento per i diritti del cittadino. Tira fuori un foglio, ci dice che lui avrebbe curato l'organizzazione e a ognuno trova un incarico e dà un compito, me compreso. Ci disse anche che i soldi non erano un problema»
E poi che è successo?
craxi e di pietro
«Che Di Pietro, spinto da Veltri, decide di spostare il movimento a sinistra. Io protesto. Lui mi rassicura che c'è un progetto per stare al centro con il Ccd, grazie a Cimadoro, il cognato. Chiedo e gli chiedo se è normale allearsi con gente inquisita che ci porta nell'orbita di Berlusconi. Un casino. Alla fine me lo ritrovo con Prodi».
Ci perdoni Rocchini, ma perché Di Pietro poi nega tutto, compresi i rapporti con lei?
«Me lo chiedo ancora. Forse perché ero l'unico che aveva sollevato interrogativi pesanti sul suo modo di comportarsi, l'unico che gli chiese conto del cambio d'atteggiamento post America. Certo, non mi aspettavo quello che ha combinato nel mio processo per diffamazione nei confronti dell'imprenditore Giorgio Panto querelato per un'incomprensione politica che chiarimmo prima della sua morte. Per farla breve quando Di Pietro venne a testimoniare ero tranquillo, certo, che Antonio avrebbe detto la verità sui nostri rapporti e sul Movimento».
GENCHI PARLA DI PIETRO DORME
E invece?
«Disse cose fuori dal mondo. Arrivò a negare una frequentazione assidua, un'amicizia vera, una collaborazione politica intensa, documentata da centinaia di atti. Negò la comune strategia fatta di progetti messi anche nero su bianco. Persino sul viaggio che gli organizzai in Australia fu vago, disse che c'eravamo incontrati lì come se non sapesse che viaggiammo insieme da Fiumicino e che grazie a me fece trasferimenti interni, cene, conferenze e interviste.
Ha addirittura sostenuto che non appena lesse degli atti giudiziari sul mio conto, riguardanti un'inchiesta su Ordine Nuovo, rabbrividì. Lui sa bene che sono stato coinvolto solo perché patito di paracadutismo e paracadutisti era alcuni indagati. Sa benissimo che mi hanno assolto definitivamente con tante scuse. Sa bene tutto ma ha negato l'evidenza solo perché, al ritorno da Washington, gli abbiamo detto che non eravamo disposti a tradire i programmi e i valori del Movimento».
È sorpreso da quanto si viene a sapere in questi giorni sui trascorsi di Di Pietro?
«Un passaggio di un mio libro di fantasia riassume il suo modo di pensare: Aggio 'a cumanna'»
[09-02-2010]
by dagospia
Nega spesso l'evidenza incurante di smentire se stesso. Ai tempi della Milano da bere era specializzato nel tradimento degli amici, poi s'è perfezionato nel rinnegare qualsiasi frequentazione scomoda per l'opinione pubblica: dalla cena con Contrada ai rapporti col provveditore Mautone (quello intercettato col figliol prodigo Cristiano) fino agli incontri con Antonio Saladino, l'indagato principe dell'inchiesta Why Not di Genchi e De Magistris. Tre casi, decine e decine di casi. Un Giuda degli affetti e della politica, Antonio Di Pietro.
DIPIETRO GIOVANE
Uno che s'è comportato alla solita maniera anche quando Piero Rocchini, un caro e vecchio amico psichiatra che per lui si sarebbe buttato nel fuoco e che insieme a lui inventò il «movimento politico Mani Pulite», ha avuto l'ardire di chiedergli spiegazioni in merito al cambio di strategia che Tonino fece al ritorno dal viaggio negli States: «Ebbi l'impressione che certi circoli americani gli avessero fatto intendere di preferire un Di Pietro dentro al sistema dei partiti anziché fuori. Era cambiato, non lo riconoscevo più».
DIPIETRO GIOVANE
Anche Tonino non l'ha più riconosciuto, a Rocchini. Quando? Una mattina di maggio dell'anno 2000. Di Pietro è convocato dalla difesa di Rocchini a testimoniare in un processo per diffamazione. C'è da chiarire i reali rapporti fra i due, posto che un imprenditore, Giorgio Panto, ha dato a Rocchini del millantatore. Rocchini conta sulla testimonianza di Tonino.
antonio di pietro idv
Alle prime domande del pm e del presidente, Di Pietro risponde però come un teste dell'accusa: inizia a dire che il presidente del movimento lui lo conosce appena, che agiva per conto suo senza averne diritto, che ricordava vagamente d'averlo incontrato in un viaggio all'estero, che era uno dei tanti simpatizzanti del pool, che tutti gliene parlavano male perché era vicino ai fascisti di Ordine Nuovo, eccetera. Insomma, per dirla in dipietresco napoletano, lo fa una chiavica.
di pietro
L'avvocato di Rocchini di fronte a quel disconoscimento non sa se ridere o piangere: «Ma scusa Antonio, non ti ricordi che Piero me lo hai presentato tu?». No, sì, forse. Balbetta. Quando capisce che in tribunale ci sono suoi scritti autografi, prove dei contatti «politici» e fotografie con l'amico carneade, il Molisano mette le mani avanti. E minimizza tutto, compresa quella foto che lo ritrae a casa sua (di Di Pietro) sdraiato sul petto di Piero Rocchini davanti a una bottiglia mezza vuota di vodka. Quel che segue è un ampio stralcio della sua deposizione shock. Giudicate voi.
Di Pietro
Pm: «(...) allora, se può sinteticamente riferire dei suoi rapporti personali con Piero Rocchini, se c'era un rapporto connotato d'amicizia o da frequentazione, e i risvolti politici (...). Di Pietro: «Dal punto di vista personale beh... non è che non lo conosco, però non lo conoscevo prima dell'inchiesta. L'ho conosciuto durante la mia attività di magistrato credo in relazione a un convegno in Australia o in Spagna dove l'ho incontrato con la moglie (...)».
Antonio Di Pietro
Dagli atti in possesso di Rocchini, visionati dal Giornale, Di Pietro non incontrò casualmente Rocchini in Australia perché fu proprio Rocchini a organizzare quel viaggio, gli incontri, le conferenze, gli spostamenti interni, vitto e alloggio inclusi. Rocchini accompagnò pure Di Pietro a Fiumicino.
Presidente: «Ci serve chiarire quali fossero i rapporti fra lei e Rocchini, in particolare del fatto che Rocchini avesse fondato un movimento denominato Mani pulite, lei quando lo è venuto a sapere?». Di Pietro: «Il fatto stesso che non ne abbia contezza piena le dice che io non ho fondato o co-fondato o autorizzato a fondare un movimento Mani pulite. A nome mio e ispirandosi alla mia persona tante persone hanno fondato in Italia tanti movimenti autonomi senza che io dicessi nulla. Anzi avevo preso la buona abitudine, per mantenere una differenziazione, che quando questi mi invitavano, a tutti dicevo. "Non posso venire mi dispiace"».
Antonio Di Pietro
Anche a Rocchini il buon Di Pietro ha risposto così in occasione di svariati convegni, in giro per l'Italia, organizzati dal Movimento Mani pulite. Però se uno dà un'occhiata alle carte custodite da Rocchini scopre che i rapporti erano costanti. In un biglietto autografo, Tonino scrive: «Ciao, come potrei dimenticarmi di te, consigliere occulto!". Oppure: «Caro Piero, interroga la tua campana di vetro oppure leggimi la mano: come andrà a finire? Ce la faremo?» Ogni riferimento alla discesa in campo di Tonino non è casuale.
Pm: «Le mostro questi fax. Se può ricordare in che contesto li ha spediti. Lei alle persone che le scrivono risponde dicendo: "Faccia riferimento al signor Rocchini"...». Di Pietro: «Ma no, era con riferimento a tutta questa attività non politica che stava facendo Rocchini...».
Antonio Di Pietro
Non è così. Il Pm tira fuori un altro biglietto scritto da Di Pietro ad alcuni personaggi poi entrati fattivamente nell'Idv. Si legge: «Sarà bene che prendiate contatto con il dottor Rocchini». Di Pietro dice di non ricordare bene, poi aggiunge che saranno centinaia le lettere che riceveva ogni giorno (...). "Non me ne voglia Rocchini ma io avrò detto di prendere contatto con 200mila Rocchini, non ricordo».
di pietro e Rocchini
Allora il Pm tira fuori un altro fax di Di Pietro, ancora più esemplificativo della vicinanza fra i due: «Rispondo al fax del 6 novembre per assicurarle che io sto facendo tutto tranne che disinteressarmi del vostro movimento». L'avvocato lo incalza: «Questo vuol dire che lei si sta interessando molto a questo movimento», o no?.
Pm: «Ci è stato riferito di contrasti che a un certo punto sarebbero incorsi tra il movimento del presidente Rocchini e lei. Questi fatti le risultano?». Di Pietro: «Io non ho mai intrattenuto rapporti politici».
rocchini a Sinistra - Di Pietro al centro
Non sembrerebbe così. Stando alle contestazioni documentate dell'avvocato di Rocchini, il 7 novembre 1995 Di Pietro scrive un organigramma politico, di suo pugno, con tanto di intestazione: «Movimento per i diritti civili». Lo schema del movimento è strutturato su sei linee («Programma: Veltri», «Organizzazione: io», «Stato giuridico: Stajano», «Struttura amministrativa», «l'analisi delle candidature: Cristina») e due sottolinee: «Controllo dell'immagine: Directa», «Movimento Mani pulite» appunto quello di Rocchini.
Di Pietro - Italia dei Valori
Di Pietro: «La parola "Io" l'ho scritta io? Non ho capito...». Pm: «Sì, se lei ha scritto quell'organigramma, non solo la parola io, ma tutto l'organigramma». Di Pietro: «Allora... rilevo che ci sono parti che hanno la mia scrittura e altre parti no(...). Questo documento... è stato fatto, ma non è un documento, è un appunto, poi non so se è stato ritagliato, non so dove è stato (...) La parte mia è uno studio di un movimento che volevano imbastire con Cristina Koc» (...). Pm: «Sì, ma poi c'è scritto anche Mani pulite».
congresso italia dei valori di pietro jpeg
Di Pietro: «Sì, ma che ci azzecca lui (Rocchini, ndr)?». Pm. «Ah non lo so, l'ha scritto lei». Di Pietro: «No, non ci azzecca niente» (...)». Pm: «In quell'occasione erano presenti queste persone, Stajano, Veltri, Rocchini. Non ricorda?». Di Pietro: «Veramente io non mi ricordo nemmeno quando è stata fatta quella roba lì (...). C'era una persona, credo Ferrieri, che mi segnalò che Rocchini aveva avuto a che fare con l'estrema destra, con Ordine nuovo. Mi irrigidii quando lessi i documenti giudiziari su Rocchini...».
Antonio Di Pietro si sarebbe potuto irrigidire di meno se solo le avesse tutte le carte su Rocchini, che finì in cella 3 mesi ma venne poi prosciolto per non aver commesso il fatto già 15 anni prima, il 20 giugno 1978.
Di Pietro: «A un certo punto mi sono accorto che c'è un signore, che conosco in un convegno, che frequento in un altro convegno... credo che sia addirittura venuto a casa mia, non vorrei sbagliarmi...». Pm: «Sì, c'è tanto di fotografia, ma non l'ho ammessa». Di Pietro: «Ah... ricordo siamo stati in Australia...» (...). Avvocato di Rocchini: «Lei dottor Di Pietro riconosce questa fotografia? Che io devo esibire al teste, dato che non è la solita foto al pranzo conviviale o al pranzo ufficiale, ma è come dire...».
congresso italia dei valori di pietro jpeg
Di Pietro: «Ci siamo sicuramente io e lui, è venuto a casa mia». Avv.: «Dov'è avvenuta questa ripresa?». Di Pietro: «Non lo so dov'è avvenuta». Avv. «Denota rapporti molto confidenziali...». Di Pietro: «(guarda la foto, ndr)... è avvenuta a casa mia». Avv: «Ecco, appunto, a casa sua, bene. I rapporti erano quindi confidenziali?». Di Pietro: «Confidenziali no. Amichevoli, ma da qui adesso non li facciamo confidenziali». Macché.
2- "DI PIETRO ERA DI DESTRA. POI TORNA DAGLI USA E PASSA ALLA SINISTRA"
Gian Marco Chiocci per "il Giornale"
Dottor Piero Rocchini, quale presidente del Movimento Mani pulite, lei fu uno dei primi a sollevare più di un interrogativo sui viaggi americani di Antonio Di Pietro...
congresso italia dei valori di pietro e de magistris jpeg
«Lo ricordo benissimo. Prima, a tu per tu con Antonio, gli chiesi conto del perché avesse cambiato idea sul movimento, sui progetti, sulle speranze che univano tutti coloro che credevano in lui e nell'ideale alto della politica che pensavamo incarnasse. Dopodiché riversai al settimanale Epoca, nel giugno del 1996, il mio disagio per quel voltafaccia seguito al tour che Di Pietro fece negli Stati Uniti. E da allora, a cominciare da una sua singolare testimonianza in un processo per diffamazione, fra me e Antonio c'è stato prima un raffreddamento dei rapporti e poi una rottura totale».
Di Pietro e Silvana Mura - Da Libero
Andiamo per gradi. A gennaio '95 Di Pietro lascia la toga, a luglio vola negli Usa. Nel mezzo c'è il Movimento Mani pulite e c'è grande attesa su quel che farà da grande l'ex Pm...
«Nell'aria c'erano più strade da percorrere. Una era quella di considerare Antonio Di Pietro come riferimento etico fuori dalla politica attiva. In continuazione parlava di quello che avrebbe voluto fare da grande ma al dunque era sempre abbastanza vago. Faceva riunioni su riunioni, discuteva di programmi da stilare, coinvolgeva persone che poi lo hanno seguito fino al giorno del battesimo dell'Idv. Addirittura arrivò a prendere personalmente contatti con i dirigenti del Movimento che stranamente evitarono di dirmelo. Era chiaro che ambiva a ricoprire un ruolo attivo, di primo piano, in politica.
Di Pietro e Silvana Mura limousine - Da Libero
Quando tornò dal viaggio non era più l'Antonio che conoscevo, quello che assieme a Veltri, Stajano e altri pianificò con me la formazione di un movimento trasversale, autonomo, che si rifaceva allo spirito di Mani pulite e al movimento di cui era ben informato. La sua idea iniziale era quella di utilizzare noi restando nelle retrovie. Non si voleva bruciare. Poi però il Tonino americano prese a fare strani discorsi, sosteneva che non era più il caso di continuare con i nostri entusiastici progetti politici, disse che era meglio combattere il sistema da dentro e non da fuori come a gran voce chiedeva la "sua" base. Ero perplesso...».
l’assegno di 50 mila dollari di Bianchini a Di Pietro
Torniamo ai circoli americani frequentati da Di Pietro...
«Andò, ufficialmente, per una serie di conferenze organizzate dal politologo Luttwak. Quando rientrò in Italia mi parlò di un suo impegno per rinnovare la classe politica non più come progetto autonomo dai partiti bensì come entità di appoggio a una determinata parte politica. L'aveva ripetuto in continuazione. Poi si buttò con il centrosinistra».
E la cosa la sorprese?
Antonio Di pietro - Coppola e Sigaro
«Assolutamente sì. Di Pietro era, e si professava, uomo di destra. Era chiaro che in quanto magistrato, proprio per una questione di opportunità, non si sarebbe dovuto candidare. Poi qualcosa cambiò. Un giorno ci convoca tutti alla Directa, la società di sondaggi che avrebbe fatto parte dell'organigramma del partito che si sarebbe dovuto chiamare Movimento per i diritti del cittadino. Tira fuori un foglio, ci dice che lui avrebbe curato l'organizzazione e a ognuno trova un incarico e dà un compito, me compreso. Ci disse anche che i soldi non erano un problema»
E poi che è successo?
craxi e di pietro
«Che Di Pietro, spinto da Veltri, decide di spostare il movimento a sinistra. Io protesto. Lui mi rassicura che c'è un progetto per stare al centro con il Ccd, grazie a Cimadoro, il cognato. Chiedo e gli chiedo se è normale allearsi con gente inquisita che ci porta nell'orbita di Berlusconi. Un casino. Alla fine me lo ritrovo con Prodi».
Ci perdoni Rocchini, ma perché Di Pietro poi nega tutto, compresi i rapporti con lei?
«Me lo chiedo ancora. Forse perché ero l'unico che aveva sollevato interrogativi pesanti sul suo modo di comportarsi, l'unico che gli chiese conto del cambio d'atteggiamento post America. Certo, non mi aspettavo quello che ha combinato nel mio processo per diffamazione nei confronti dell'imprenditore Giorgio Panto querelato per un'incomprensione politica che chiarimmo prima della sua morte. Per farla breve quando Di Pietro venne a testimoniare ero tranquillo, certo, che Antonio avrebbe detto la verità sui nostri rapporti e sul Movimento».
GENCHI PARLA DI PIETRO DORME
E invece?
«Disse cose fuori dal mondo. Arrivò a negare una frequentazione assidua, un'amicizia vera, una collaborazione politica intensa, documentata da centinaia di atti. Negò la comune strategia fatta di progetti messi anche nero su bianco. Persino sul viaggio che gli organizzai in Australia fu vago, disse che c'eravamo incontrati lì come se non sapesse che viaggiammo insieme da Fiumicino e che grazie a me fece trasferimenti interni, cene, conferenze e interviste.
Ha addirittura sostenuto che non appena lesse degli atti giudiziari sul mio conto, riguardanti un'inchiesta su Ordine Nuovo, rabbrividì. Lui sa bene che sono stato coinvolto solo perché patito di paracadutismo e paracadutisti era alcuni indagati. Sa benissimo che mi hanno assolto definitivamente con tante scuse. Sa bene tutto ma ha negato l'evidenza solo perché, al ritorno da Washington, gli abbiamo detto che non eravamo disposti a tradire i programmi e i valori del Movimento».
È sorpreso da quanto si viene a sapere in questi giorni sui trascorsi di Di Pietro?
«Un passaggio di un mio libro di fantasia riassume il suo modo di pensare: Aggio 'a cumanna'»
[09-02-2010]
by dagospia
CHI VINCE IN SICILIA (O IN CAMPANIA, TRA LE REGIONI PIÙ POPOLOSE) HA IN MANO IL PAESE – MA SE VINCE LA DC, L’UDC, BERLUSCONI (O I SOCIALISTI DI MARTELLI) È “PATTO CON LA MAFIA”. QUANDO VINSE LEOLUCA ORLANDO FU RINASCITA DEMOCRATICA - A PALERMO O A NAPOLI LA REGOLA È UNA E UNA SOLA: O TI ACCORDI CON COSA NOSTRA O SONO CAZZI VOSTRI, TERZA VIA NON ESISTE ( PERCHÉ LO STATO NON HA CITTADINANZA IN QUELLE REGIONI)
Attilio Bolzoni per "la Repubblica"
CIANCIMINO JR
Covi e tesori potrebbero raccontare la Palermo di ieri e l'Italia di oggi. Ma covi e tesori non parlano.E non parlano alti ufficiali in divisa nera. A volte non parlano neanche carte lasciate ammuffire negli armadi di qualche Tribunale. Ci resta solo lui: ci resta solo Massimo Ciancimino che fa parlare un morto.
Suo padre.
Massimo Ciancimino
Sui soldi sporchi arrivati da Palermo per costruire la Milano 2 di Berlusconi. Sui latitanti mai presi. Sulla nascita di quel nuovo partito- Forza Italia- voluto da una trattativa fra mafia e Stato durante le stragi siciliane. Vicende di confine. Di scambio e di ricatto. Perché dice tutto questo soltanto ora?, si chiedono tutti.
Perché chiama in causa il presidente del Consiglio? Perché sono arrivate soltanto ora e così in ritardo le verità di Massimo Ciancimino? La risposta è semplice nella sua banalità: nessuno gli aveva mai chiesto niente prima.
Mai, mai una volta.
Berlusconi il 25 gennaio al San Raffaele di Milano - Senza capelli
Anzi, stando a quello che sostiene il più piccolo dei cinque figli di don Vito, alcuni personaggi (un ufficiale dei Ros, un agente segreto chiamato «Carlo» o «signor Franco» e un misterioso «capitano»), gli avevano assicurato che nessuno lo avrebbe mai «disturbato» su queste faccende né a Palermo né altrove in Italia.
Le cose sono andate diversamente. E lui a domanda, adesso risponde. Sempre. Quanto ci sia di vero o di verosimile in quello che dice, è un altro discorso.
E' tutto scombinato l' affaire Ciancimino, visto al presente e visto al passato. Scombinato ai tempi del padre e scombinato ai tempi del figlio. Generazione dopo generazione loro tengono sempre banco. Il verbo di Palermo da cinquant'anni è sempre sulla bocca di un Ciancimino.
Dell Utri in Aula - Depone Spatuzza - Da Repubblica 9
Cominciamo dall'inizio che poi è anche la fine: il 19 novembre del 2002. Anche se non spiega tutto, questa data già spiega tanto: è il giorno che muore Vito Ciancimino ed è pure il giorno che suo figlio Massimo viene indagato per il riciclaggio dei soldi di suo padre. Per i tre o quattro decenni precedenti mai un'indagine patrimoniale (se si esclude un tentativo di Falcone naufragato fra gli «aggiustamenti» di consulenti e di giudici buoni amici di don Vito) sull'impero costruito da un ex sindaco che era alla guida di un partito cosca trasversale dominante a Palermo.
vito e massimo ciancimino
Mai un solo accertamento fiscale, un'ispezione bancaria. Vito Ciancimino era uno degli uomini più ricchi della Sicilia e, quando se n'è andato- «per cause naturali», rassicurava un'agenzia di stampa quel giorno - risultava nullatenente. Quel 19 novembre del 2002, Massimo è scivolato per la prima volta in un'inchiesta giudiziaria. Tutti a Palermo erano stati ciechi e muti e sordi. Naturalmente, magistrati dell'antimafia compresi.
Provenzano Mafia
C'è un'altra data da ricordare: la primavera del 1993. E' in quei mesi che Ciancimino - padre - comincia a parlare con i procuratori di Palermo, nel carcere dove era rinchiuso. A dire più o meno, difendendosi, quello che oggi sta ripetendo il figlio per le storie di Palermo dagli Anni Sessanta agli Anni Ottanta. Su cadaveri eccellenti. Su appalti. Su Giulio Andreotti. E' tutto in un memoriale che molti considerarono «spazzatura».
Toto Riina
Vito Ciancimino, una quindicina di anni fa quando cominciò a rivelare i suoi segreti, fu trattato come un depistatore. Il suo pensiero adesso sono diventate le «rivelazioni» del figlio. Con l'aggiunta - non secondaria per la verità - dei patti per la cattura pilotata di Totò Riina il 15 gennaio del 1993, della mancata cattura di Bernardo Provenzano, del ruolo di «mediatore» che prese Marcello Dell'Utri al posto di suo padre. E' il Ciancimino parte seconda, che però viene sempre dalla prima: la fonte è sempre don Vito. Il morto.
GENERALE MORI
Perché parla soltanto ora Massimo Ciancimino? Perché se non avesse rilasciato un'intervista a «Panorama» nel dicembre del 2007 - sugli incontri di suo padre con Bernardo Provenzano, sulle trattative con i carabinieri dei Reparti speciali a cavallo delle stragi Falcone e Borsellino, sul famigerato papello ricevuto da Totò Riina - non avrebbe parlato mai. Poi, i procuratori di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo l'hanno invitato a «spiegare». E da quel momento - era il giugno del 2008 - non si è fermato più. Un testimone un po' particolare ma sempre un testimone. Seguito, minacciato, invitato a «stare zitto» da misteriosi personaggi che una volta erano in intimità con suo padre, Massimo Ciancimino riempie verbali e inonda l'aula bunker dell'Ucciardone con i suoi racconti.
Un'altra coincidenza molto palermitana: il covo di Bernardo Provenzano e il tesoro di Vito Ciancimino. Il primo l'hanno trovato dopo quarantatré anni di latitanza, il secondo l'hanno cominciato a cercare subito dopo.
Antonio Ingroia
Sembravano due indagini separate nel 2006, oggi è la stessa indagine e la stessa storia. Covo e tesoro, un unico incastro. Potere militare e potere economico di Cosa Nostra. Della mancata cattura di Provenzano, il piccolo Ciancimino ha riferito probabilmente tutto ciò che sapeva («Il padrino corleonese aveva immunità su tutto il territorio nazionale»), sul tesoro di famiglia probabilmente non dirà mai niente. Non è che a Palermo, in questi mesi, sta accadendo qualcosa che ci sfugge?
2 - L'OLTRAGGIO IMPUNITO...
Paolo Granzotto per "Il Giornale"
A essere scandalose non sono le parole di Massimo Ciancimino, lo scandalo risiede nel fatto che quelle parole gliele si facciano pronunciare nel corso di un procedimento giudiziario che nulla ha a che vedere con Berlusconi, Dell'Utri o Forza Italia. Scandaloso è che non si sia fatto tacere il «dichiarante», incriminandolo per oltraggio alla giustizia e all'intelligenza dei componenti la Corte.
LEOLUCA ORLANDO - Copyright Pizzi
Nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone si stanno giudicando il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra per la mancata cattura, nell'ottobre del '95, del boss mafioso Bernardo Provenzano.
Cosa c'entra, dunque, la fondazione di Forza Italia? E come fa una Corte a non respingere per evidente assurdità, per palese farneticazione la «rivelazione» che Forza Italia fu il frutto della trattativa tra lo Stato e la mafia? Lo Stato rappresentato da chi, dal primo ministro Ciampi? Dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro?
Traendo dal cilindro i suoi conigli - cose dette o fatte dal padre; copie se non addirittura bozze di papelli e pizzini; una lettera scritta da Provenzano ma elaborata dal padre Vito e alla quale manca il destinatario, che però il «dichiarante» assicura fosse destinata a Marcello Dell'Utri e «per conoscenza» - per conoscenza! - a Silvio Berlusconi; memorie relative al disastro di Ustica; figure di ambigui agenti dei servizi segreti - Massimo Ciancimino non fa mistero di voler dar corpo all'immagine di un Silvio Berlusconi mafioso a tutto tondo.
Ciò che gli è lecito fare, salvo poi doverne pagare le inevitabili conseguenze penali. Ma non in un'aula dove si dibatte sulle accuse mosse a Mori e a Obinu, non in un'aula dove la ricerca della verità è indirizzata alla presunta collusione dei due imputati con Cosa Nostra, non alle origini di Forza Italia.
È lecito chiedersi perché ciò sia stato consentito a Massimo Ciancimino, non un pentito, un collaboratore di giustizia, non un teste, ma un «dichiarante», figura dai contorni non ben definiti e proprio per questo circoscritti di volta in volta, secondo l'interesse e la disposizione d'animo.
0gus29 claudio martelli
È poi doveroso chiedersi perché la Corte, una volta ascoltate le sorprendenti rivelazioni di Ciancimino non ne abbia subito fatto notare la palese contraddizione con quelle che il «dichiarante» giusto l'estate scorsa: «Io a Silvio Berlusconi mafioso non ci credo. Né papà mi ha mai detto qualcosa al riguardo. Glielo chiesi tre o quattro volte, e rispose sempre allo stesso modo: "È fuori da tutto". Per certo so che Berlusconi era piuttosto una vittima della mafia. Forse qualcuno intorno a lui, magari del suo più stretto entourage, può aver avuto contatti con Cosa Nostra millantando amicizie e mandati del Cavaliere, muovendosi in suo nome e per suo conto, senza che Berlusconi lo sapesse. Papà aveva solo delle perplessità su alcuni personaggi...».
È noto che la magistratura - e ciò va a suo onore - non lascia nulla al caso. Ma riempie faldoni su faldoni di atti, documenti, informative, copie conformi, carte bollate, verbali eccetera su ogni soggetto implicato nella causa in corso (e anche non in corso, se è per questo). Possibile che mancasse quell'intervista rilasciata da Massimo Ciancimino? Non lo crediamo ragionevole: non si prende in mano un «dichiarante», non gli si offre la platea di un'aula giudiziaria affollata di cronisti senza prima passarlo ai raggi X.
Non resta quindi da pensare o a un governo alla carlona dei pentiti e dei «dichiaranti», e allora si fa impellente una legge che ne regoli la gestione. O a una precisa volontà di cogliere l'occasione per coinvolgere in un processo di mafia il presidente del Consiglio. E farlo apparire, ancorché per bocca di un Ciancimino poco credibile perché pronto a cambiare opinione e verità, mafioso anch'esso. Tertium non datur.
[09-02-2010]
by dagospia
CIANCIMINO JR
Covi e tesori potrebbero raccontare la Palermo di ieri e l'Italia di oggi. Ma covi e tesori non parlano.E non parlano alti ufficiali in divisa nera. A volte non parlano neanche carte lasciate ammuffire negli armadi di qualche Tribunale. Ci resta solo lui: ci resta solo Massimo Ciancimino che fa parlare un morto.
Suo padre.
Massimo Ciancimino
Sui soldi sporchi arrivati da Palermo per costruire la Milano 2 di Berlusconi. Sui latitanti mai presi. Sulla nascita di quel nuovo partito- Forza Italia- voluto da una trattativa fra mafia e Stato durante le stragi siciliane. Vicende di confine. Di scambio e di ricatto. Perché dice tutto questo soltanto ora?, si chiedono tutti.
Perché chiama in causa il presidente del Consiglio? Perché sono arrivate soltanto ora e così in ritardo le verità di Massimo Ciancimino? La risposta è semplice nella sua banalità: nessuno gli aveva mai chiesto niente prima.
Mai, mai una volta.
Berlusconi il 25 gennaio al San Raffaele di Milano - Senza capelli
Anzi, stando a quello che sostiene il più piccolo dei cinque figli di don Vito, alcuni personaggi (un ufficiale dei Ros, un agente segreto chiamato «Carlo» o «signor Franco» e un misterioso «capitano»), gli avevano assicurato che nessuno lo avrebbe mai «disturbato» su queste faccende né a Palermo né altrove in Italia.
Le cose sono andate diversamente. E lui a domanda, adesso risponde. Sempre. Quanto ci sia di vero o di verosimile in quello che dice, è un altro discorso.
E' tutto scombinato l' affaire Ciancimino, visto al presente e visto al passato. Scombinato ai tempi del padre e scombinato ai tempi del figlio. Generazione dopo generazione loro tengono sempre banco. Il verbo di Palermo da cinquant'anni è sempre sulla bocca di un Ciancimino.
Dell Utri in Aula - Depone Spatuzza - Da Repubblica 9
Cominciamo dall'inizio che poi è anche la fine: il 19 novembre del 2002. Anche se non spiega tutto, questa data già spiega tanto: è il giorno che muore Vito Ciancimino ed è pure il giorno che suo figlio Massimo viene indagato per il riciclaggio dei soldi di suo padre. Per i tre o quattro decenni precedenti mai un'indagine patrimoniale (se si esclude un tentativo di Falcone naufragato fra gli «aggiustamenti» di consulenti e di giudici buoni amici di don Vito) sull'impero costruito da un ex sindaco che era alla guida di un partito cosca trasversale dominante a Palermo.
vito e massimo ciancimino
Mai un solo accertamento fiscale, un'ispezione bancaria. Vito Ciancimino era uno degli uomini più ricchi della Sicilia e, quando se n'è andato- «per cause naturali», rassicurava un'agenzia di stampa quel giorno - risultava nullatenente. Quel 19 novembre del 2002, Massimo è scivolato per la prima volta in un'inchiesta giudiziaria. Tutti a Palermo erano stati ciechi e muti e sordi. Naturalmente, magistrati dell'antimafia compresi.
Provenzano Mafia
C'è un'altra data da ricordare: la primavera del 1993. E' in quei mesi che Ciancimino - padre - comincia a parlare con i procuratori di Palermo, nel carcere dove era rinchiuso. A dire più o meno, difendendosi, quello che oggi sta ripetendo il figlio per le storie di Palermo dagli Anni Sessanta agli Anni Ottanta. Su cadaveri eccellenti. Su appalti. Su Giulio Andreotti. E' tutto in un memoriale che molti considerarono «spazzatura».
Toto Riina
Vito Ciancimino, una quindicina di anni fa quando cominciò a rivelare i suoi segreti, fu trattato come un depistatore. Il suo pensiero adesso sono diventate le «rivelazioni» del figlio. Con l'aggiunta - non secondaria per la verità - dei patti per la cattura pilotata di Totò Riina il 15 gennaio del 1993, della mancata cattura di Bernardo Provenzano, del ruolo di «mediatore» che prese Marcello Dell'Utri al posto di suo padre. E' il Ciancimino parte seconda, che però viene sempre dalla prima: la fonte è sempre don Vito. Il morto.
GENERALE MORI
Perché parla soltanto ora Massimo Ciancimino? Perché se non avesse rilasciato un'intervista a «Panorama» nel dicembre del 2007 - sugli incontri di suo padre con Bernardo Provenzano, sulle trattative con i carabinieri dei Reparti speciali a cavallo delle stragi Falcone e Borsellino, sul famigerato papello ricevuto da Totò Riina - non avrebbe parlato mai. Poi, i procuratori di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo l'hanno invitato a «spiegare». E da quel momento - era il giugno del 2008 - non si è fermato più. Un testimone un po' particolare ma sempre un testimone. Seguito, minacciato, invitato a «stare zitto» da misteriosi personaggi che una volta erano in intimità con suo padre, Massimo Ciancimino riempie verbali e inonda l'aula bunker dell'Ucciardone con i suoi racconti.
Un'altra coincidenza molto palermitana: il covo di Bernardo Provenzano e il tesoro di Vito Ciancimino. Il primo l'hanno trovato dopo quarantatré anni di latitanza, il secondo l'hanno cominciato a cercare subito dopo.
Antonio Ingroia
Sembravano due indagini separate nel 2006, oggi è la stessa indagine e la stessa storia. Covo e tesoro, un unico incastro. Potere militare e potere economico di Cosa Nostra. Della mancata cattura di Provenzano, il piccolo Ciancimino ha riferito probabilmente tutto ciò che sapeva («Il padrino corleonese aveva immunità su tutto il territorio nazionale»), sul tesoro di famiglia probabilmente non dirà mai niente. Non è che a Palermo, in questi mesi, sta accadendo qualcosa che ci sfugge?
2 - L'OLTRAGGIO IMPUNITO...
Paolo Granzotto per "Il Giornale"
A essere scandalose non sono le parole di Massimo Ciancimino, lo scandalo risiede nel fatto che quelle parole gliele si facciano pronunciare nel corso di un procedimento giudiziario che nulla ha a che vedere con Berlusconi, Dell'Utri o Forza Italia. Scandaloso è che non si sia fatto tacere il «dichiarante», incriminandolo per oltraggio alla giustizia e all'intelligenza dei componenti la Corte.
LEOLUCA ORLANDO - Copyright Pizzi
Nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone si stanno giudicando il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra per la mancata cattura, nell'ottobre del '95, del boss mafioso Bernardo Provenzano.
Cosa c'entra, dunque, la fondazione di Forza Italia? E come fa una Corte a non respingere per evidente assurdità, per palese farneticazione la «rivelazione» che Forza Italia fu il frutto della trattativa tra lo Stato e la mafia? Lo Stato rappresentato da chi, dal primo ministro Ciampi? Dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro?
Traendo dal cilindro i suoi conigli - cose dette o fatte dal padre; copie se non addirittura bozze di papelli e pizzini; una lettera scritta da Provenzano ma elaborata dal padre Vito e alla quale manca il destinatario, che però il «dichiarante» assicura fosse destinata a Marcello Dell'Utri e «per conoscenza» - per conoscenza! - a Silvio Berlusconi; memorie relative al disastro di Ustica; figure di ambigui agenti dei servizi segreti - Massimo Ciancimino non fa mistero di voler dar corpo all'immagine di un Silvio Berlusconi mafioso a tutto tondo.
Ciò che gli è lecito fare, salvo poi doverne pagare le inevitabili conseguenze penali. Ma non in un'aula dove si dibatte sulle accuse mosse a Mori e a Obinu, non in un'aula dove la ricerca della verità è indirizzata alla presunta collusione dei due imputati con Cosa Nostra, non alle origini di Forza Italia.
È lecito chiedersi perché ciò sia stato consentito a Massimo Ciancimino, non un pentito, un collaboratore di giustizia, non un teste, ma un «dichiarante», figura dai contorni non ben definiti e proprio per questo circoscritti di volta in volta, secondo l'interesse e la disposizione d'animo.
0gus29 claudio martelli
È poi doveroso chiedersi perché la Corte, una volta ascoltate le sorprendenti rivelazioni di Ciancimino non ne abbia subito fatto notare la palese contraddizione con quelle che il «dichiarante» giusto l'estate scorsa: «Io a Silvio Berlusconi mafioso non ci credo. Né papà mi ha mai detto qualcosa al riguardo. Glielo chiesi tre o quattro volte, e rispose sempre allo stesso modo: "È fuori da tutto". Per certo so che Berlusconi era piuttosto una vittima della mafia. Forse qualcuno intorno a lui, magari del suo più stretto entourage, può aver avuto contatti con Cosa Nostra millantando amicizie e mandati del Cavaliere, muovendosi in suo nome e per suo conto, senza che Berlusconi lo sapesse. Papà aveva solo delle perplessità su alcuni personaggi...».
È noto che la magistratura - e ciò va a suo onore - non lascia nulla al caso. Ma riempie faldoni su faldoni di atti, documenti, informative, copie conformi, carte bollate, verbali eccetera su ogni soggetto implicato nella causa in corso (e anche non in corso, se è per questo). Possibile che mancasse quell'intervista rilasciata da Massimo Ciancimino? Non lo crediamo ragionevole: non si prende in mano un «dichiarante», non gli si offre la platea di un'aula giudiziaria affollata di cronisti senza prima passarlo ai raggi X.
Non resta quindi da pensare o a un governo alla carlona dei pentiti e dei «dichiaranti», e allora si fa impellente una legge che ne regoli la gestione. O a una precisa volontà di cogliere l'occasione per coinvolgere in un processo di mafia il presidente del Consiglio. E farlo apparire, ancorché per bocca di un Ciancimino poco credibile perché pronto a cambiare opinione e verità, mafioso anch'esso. Tertium non datur.
[09-02-2010]
by dagospia
LA VERSIONE DI CONTRADA (NUOVE FOTO) - TRA ME E L’EX PM DI MANI PULITE UN INCONTRO CASUALE. IO ERO SEDUTO ACCANTO A VITAGLIANO E, QUANDO ARRIVO’ DI PIETRO, CEDETTI IL MIO POSTO A LUI - NEGLI SCATTI CON TONINO, ROCCO MARIO MODIATI, UOMO DELLA KROLL SECRET SERVICE….
Felice Cavallaro per "il Corriere Della Sera"
Da sinistra Colonnello Gargiulo - contrada - colonnello fausto del vecchio - di pietro il comandante vitagliano
Non è solo l'ex segretario di Italia dei Valori Mario Di Domenico a custodire alcune delle foto scattate nella caserma dei carabinieri di Roma il 15 dicembre 1992 con Antonio Di Pietro e Bruno Contrada vicini. Perché proprio l'ex numero tre del Sisde arrestato per mafia nove giorni dopo ne ha trovato sette in un cassetto di casa, a Palermo. E ce n'è pure una in cui di spalle compare l'«americano», Rocco Mario Modiati, l'agente della Kroll Secret Service collegata alla Cia, ancora in servizio all'ambasciata Usa di via Veneto.
Colonnello GArgiulo Tommaso Vitagliano e Bruno Contrada Di schiena mentre gesticola Rocco mario modiati, gargiulo, FAusto del vecchio e francesco d'agostino.jpg contrada, di pietro, vitagliano, col conforti, fausto del Vecchio, In piedi francesco d'agostin
Eccolo mentre, tutt'intorno, ufficiali dell'Arma e vertici dei servizi segreti sorridono verso l'obiettivo. A differenza di Di Pietro che, rilassato e quasi divertito, ascolta proprio Modiati, arrivato con una targa del Servizio statunitense per premiare il magistrato più determinato del pool Mani Pulite, quel giorno a Roma con il suo fidato collaboratore dell'Arma, il maggiore Francesco D'Agostino, per la notifica dell'avviso di garanzia a Bettino Craxi.
Contrada sta ai «domiciliari» per ragioni di salute, scontando una condanna definitiva e parla attraverso il suo avvocato catanese Giuseppe Lipera, pronto a mostrare foto «innocenti», come ripete l'ex 007, guardando però le istantanee con amarezza perché dietro il sorriso di quella sera, spiega, c'è la rabbia dell'umiliazione: «Il 7 dicembre mi avevano sospeso dal Sisde ed ero rientrato in polizia...». Lo status di «sospeso» potrebbe acuire le polemiche suscitate dalla pubblicazione delle prime foto sparite dalla circolazione dopo l'arresto dello stesso Contrada e riapparse adesso in vista di un libro d'attacco scritto da Di Domenico contro il suo ex amico Di Pietro.
Di Pietro e Contrada a cena nel 1992 - Da sinistra, il colonnello dei carabinieri Gargiulo, Bruno Contrada, Antonio Di Pietro, il generale Tommaso Vitagliano, il colonnello Conforti e il colonnello Fa
Il provvedimento di sospensione doveva essere ovviamente noto ai colleghi di Contrada, ai capi dei servizi, certamente a tanti ufficiali riuniti quella sera dal comandante del reparto operativo Tommaso Vitagliano. Tutti stupiti dall'atteggiamento dell'amministrazione, come lo saranno poi al momento dell'arresto, increduli davanti alle accuse di due pentiti contro il collega e il giudice Domenico Signorino, pm al maxi processo, per questo già suicidatosi il 3 dicembre.
Quell'evento drammatico aveva scosso gli apparati, mentre l'Italia, oltre che sul fronte antimafia, accendeva attenzioni internazionali anche per le scosse dell'inchiesta Mani pulite. Un vortice. Montavano tensioni e ansie. Ma quella sera, alla mensa della caserma di via In Selci, è il momento degli auguri. E Contrada, chiamato come Di Pietro pure per il saluto ufficiale al microfono, siede accanto all'ospite d'onore.
da sx Andrea Arcai-Colonnello Turchi-Alessandra Casali-Narcisa Brassesco-Alessandro Casali-Caterina Balivo-Stefano Saglia
«Ma fu tutto casuale» assicura il funzionario. «Io ero seduto accanto a Vitagliano e, quando arrivò, cedetti il mio posto a Di Pietro che mi chiese "Ma lei che grado ha nei carabinieri?". Spiegai di essere un questore. "Allora siamo colleghi", sorrise pensando a quando era poliziotto».
dipietro contrada
E Modiati? «Non saprei se si conoscessero, forse sì, forse no. La targa premio? Non so. Anch'io ho i diplomi firmati George Bush senior. I servizi americani sono molto attenti al nostro lavoro. E in quel caso premiavano le operazioni da noi fatte contro le fabbriche di dollari falsi». Perché Di Pietro? «Io non parlo di quello che non so» ripete a Lipera. «La Cia interessata aMani pulite? I servizi seguono tutte le vicende politiche degli altri Stati. Difficile che fossero distratti sul punto. E' prassi normale. E la Kroll in particolare si occupa di tutela del presidente, protezione del dollaro e attività economiche».
[08-02-2010]
by dagospia
Da sinistra Colonnello Gargiulo - contrada - colonnello fausto del vecchio - di pietro il comandante vitagliano
Non è solo l'ex segretario di Italia dei Valori Mario Di Domenico a custodire alcune delle foto scattate nella caserma dei carabinieri di Roma il 15 dicembre 1992 con Antonio Di Pietro e Bruno Contrada vicini. Perché proprio l'ex numero tre del Sisde arrestato per mafia nove giorni dopo ne ha trovato sette in un cassetto di casa, a Palermo. E ce n'è pure una in cui di spalle compare l'«americano», Rocco Mario Modiati, l'agente della Kroll Secret Service collegata alla Cia, ancora in servizio all'ambasciata Usa di via Veneto.
Colonnello GArgiulo Tommaso Vitagliano e Bruno Contrada Di schiena mentre gesticola Rocco mario modiati, gargiulo, FAusto del vecchio e francesco d'agostino.jpg contrada, di pietro, vitagliano, col conforti, fausto del Vecchio, In piedi francesco d'agostin
Eccolo mentre, tutt'intorno, ufficiali dell'Arma e vertici dei servizi segreti sorridono verso l'obiettivo. A differenza di Di Pietro che, rilassato e quasi divertito, ascolta proprio Modiati, arrivato con una targa del Servizio statunitense per premiare il magistrato più determinato del pool Mani Pulite, quel giorno a Roma con il suo fidato collaboratore dell'Arma, il maggiore Francesco D'Agostino, per la notifica dell'avviso di garanzia a Bettino Craxi.
Contrada sta ai «domiciliari» per ragioni di salute, scontando una condanna definitiva e parla attraverso il suo avvocato catanese Giuseppe Lipera, pronto a mostrare foto «innocenti», come ripete l'ex 007, guardando però le istantanee con amarezza perché dietro il sorriso di quella sera, spiega, c'è la rabbia dell'umiliazione: «Il 7 dicembre mi avevano sospeso dal Sisde ed ero rientrato in polizia...». Lo status di «sospeso» potrebbe acuire le polemiche suscitate dalla pubblicazione delle prime foto sparite dalla circolazione dopo l'arresto dello stesso Contrada e riapparse adesso in vista di un libro d'attacco scritto da Di Domenico contro il suo ex amico Di Pietro.
Di Pietro e Contrada a cena nel 1992 - Da sinistra, il colonnello dei carabinieri Gargiulo, Bruno Contrada, Antonio Di Pietro, il generale Tommaso Vitagliano, il colonnello Conforti e il colonnello Fa
Il provvedimento di sospensione doveva essere ovviamente noto ai colleghi di Contrada, ai capi dei servizi, certamente a tanti ufficiali riuniti quella sera dal comandante del reparto operativo Tommaso Vitagliano. Tutti stupiti dall'atteggiamento dell'amministrazione, come lo saranno poi al momento dell'arresto, increduli davanti alle accuse di due pentiti contro il collega e il giudice Domenico Signorino, pm al maxi processo, per questo già suicidatosi il 3 dicembre.
Quell'evento drammatico aveva scosso gli apparati, mentre l'Italia, oltre che sul fronte antimafia, accendeva attenzioni internazionali anche per le scosse dell'inchiesta Mani pulite. Un vortice. Montavano tensioni e ansie. Ma quella sera, alla mensa della caserma di via In Selci, è il momento degli auguri. E Contrada, chiamato come Di Pietro pure per il saluto ufficiale al microfono, siede accanto all'ospite d'onore.
da sx Andrea Arcai-Colonnello Turchi-Alessandra Casali-Narcisa Brassesco-Alessandro Casali-Caterina Balivo-Stefano Saglia
«Ma fu tutto casuale» assicura il funzionario. «Io ero seduto accanto a Vitagliano e, quando arrivò, cedetti il mio posto a Di Pietro che mi chiese "Ma lei che grado ha nei carabinieri?". Spiegai di essere un questore. "Allora siamo colleghi", sorrise pensando a quando era poliziotto».
dipietro contrada
E Modiati? «Non saprei se si conoscessero, forse sì, forse no. La targa premio? Non so. Anch'io ho i diplomi firmati George Bush senior. I servizi americani sono molto attenti al nostro lavoro. E in quel caso premiavano le operazioni da noi fatte contro le fabbriche di dollari falsi». Perché Di Pietro? «Io non parlo di quello che non so» ripete a Lipera. «La Cia interessata aMani pulite? I servizi seguono tutte le vicende politiche degli altri Stati. Difficile che fossero distratti sul punto. E' prassi normale. E la Kroll in particolare si occupa di tutela del presidente, protezione del dollaro e attività economiche».
[08-02-2010]
by dagospia
CDB E IL VENTICELLO LIBERALE - LA LOBBY POTENTONA DEL GRUPPO “REPUBBLICA-ESPRESSO” OSSERVA SMARRITA IL NUOVO SCENARIO DEGLI ASSETTI DEL CAPITALISMO ITALIANO - TENTA DI SPIEGARE CHE GLI INTERESSI DI MEDIASET SONO DOMINANTI OVUNQUE, MA NON C’È TRIPPA PER GATTI: BANCHIERI, MANAGER E IMPRENDITORI NON RISPONDONO PIÙ ALL’APPELLO…
Lodovico Festa per "il Giornale"
CARLO DE BENEDETTI
La Fiat vuole unilateralmente chiudere uno stabilimento su cui pure ha ricevuto cospicui contributi dello Stato. Proprietà e management di Telecom Italia sono di fronte a conti aziendali difficili e a innovazioni strategiche non semplici da finanziare. Banca Intesa prepara l'assemblea di bilancio dove si rinnoveranno le cariche: grandi le manovre tra i soci. Stessa scadenza per le Generali, con meno esibizioni pubbliche. L'Eni mentre si afferma come player globale dell'energia, affronta sfide complesse: dal calo della domanda di gas ai giacimenti iraniani, ai richiami dell'Antitrust europeo sui gasdotti.
Carlo De Benedetti con moglie
Gli assetti del capitalismo italiano, anche dei suoi soggetti maggiori, sono «naturalmente» in movimento. Molti problemi sono «i soliti», molti protagonisti sono «i soliti». Eppure si avverte un'aria di novità. Solo pochi anni fa vicende come quelle descritte erano affrontate con trabocchetti politici, invasioni di campo nella politica e della politica, anche al generoso aiuto di media e magistratura.
Berlusconi alla camera - con capelli - 27 gennaio
O ai ricatti di un sindacalismo che non contrattava ma «pesava» politicamente. Oggi, ci si potrà lamentare per qualche arroganza eccessiva di Sergio Marchionne o per una politica governativa di supporto all'industria non sempre perfetta. Si potrà constatare come il management di Telecom Italia non manchi di persuasive capacità comunicative. Come l'Eni oltre che grande impresa sia anche perno di una brillante politica estera italiana. Che Banca Intesa abbia manager abili nell'interloquire con i giornali.
Mediaset
Per quel che riguarda pesi e contrappesi tra economia, politica e media non siamo sicuramente in un mondo perfetto. Ma l'atmosfera complessiva è determinata da confronti tra proprietà e management, tra imprese e sindacati (pur con una segreteria Cgil penosamente allo sbando), tra politica e mondo economico in cui i diversi soggetti si concentrano essenzialmente nello sforzo di assolvere al proprio mestiere.
Logo "Fiat"
La potente lobby del gruppo "Repubblica-Espresso" osserva quasi smarrita questo nuovo scenario, tenta di spiegare come gli interessi di Mediaset siano ormai dominanti dovunque, siano la vera e sola bussola dell'azione del governo. Ma gli sforzi di pur fantasiosi giornalisti producono ricostruzioni senza sugo.
la_repubblica_logo
Carlo De Benedetti, cresciuto come protagonista della scena italiana grazie alla capacità di interdizione della sua stampa, è disperato e rinunciando ai suoi sogni egemonici, alle sue fasi «maggioritarie» prima prodiane, poi veltroniane,punta a ricostruire assetti neoproporzionalistici dove un gruppo editoriale spericolato come il suo possa riprendere una funzione di condizionamento a largo raggio. Non mancano le sponde in questo senso. Ma i grandi banchieri (anche quelli che continuano a votare a sinistra), i grandi manager, gli imprenditori di maggior prestigio non rispondono all'appello.
Logo "Eni"
Anche quelli abituati ai più bizantini giochi di palazzo, si sottraggono alla chiamata. Il venticello liberale di un Paese dove naturalmente i conflitti non scompaiono ma tendono a essere regolati dai voti, dal mercato, dal libero confronto delle idee e dei progetti, e non più da conventicole ristrette in toga o in grisaglia che fossero, alla fine sta prevalendo. Forse abbiamo vissuto in autunno l'ultimo organico tentativo di ripiombare il Paese nel pantano dei condizionamenti senza fine. Ne siamo usciti. Molto è da consolidare nel nuovo quadro. Servirebbe anche un'opposizione meno frastornata. Ma la via giusta è stata imboccata.
by dagospia
CARLO DE BENEDETTI
La Fiat vuole unilateralmente chiudere uno stabilimento su cui pure ha ricevuto cospicui contributi dello Stato. Proprietà e management di Telecom Italia sono di fronte a conti aziendali difficili e a innovazioni strategiche non semplici da finanziare. Banca Intesa prepara l'assemblea di bilancio dove si rinnoveranno le cariche: grandi le manovre tra i soci. Stessa scadenza per le Generali, con meno esibizioni pubbliche. L'Eni mentre si afferma come player globale dell'energia, affronta sfide complesse: dal calo della domanda di gas ai giacimenti iraniani, ai richiami dell'Antitrust europeo sui gasdotti.
Carlo De Benedetti con moglie
Gli assetti del capitalismo italiano, anche dei suoi soggetti maggiori, sono «naturalmente» in movimento. Molti problemi sono «i soliti», molti protagonisti sono «i soliti». Eppure si avverte un'aria di novità. Solo pochi anni fa vicende come quelle descritte erano affrontate con trabocchetti politici, invasioni di campo nella politica e della politica, anche al generoso aiuto di media e magistratura.
Berlusconi alla camera - con capelli - 27 gennaio
O ai ricatti di un sindacalismo che non contrattava ma «pesava» politicamente. Oggi, ci si potrà lamentare per qualche arroganza eccessiva di Sergio Marchionne o per una politica governativa di supporto all'industria non sempre perfetta. Si potrà constatare come il management di Telecom Italia non manchi di persuasive capacità comunicative. Come l'Eni oltre che grande impresa sia anche perno di una brillante politica estera italiana. Che Banca Intesa abbia manager abili nell'interloquire con i giornali.
Mediaset
Per quel che riguarda pesi e contrappesi tra economia, politica e media non siamo sicuramente in un mondo perfetto. Ma l'atmosfera complessiva è determinata da confronti tra proprietà e management, tra imprese e sindacati (pur con una segreteria Cgil penosamente allo sbando), tra politica e mondo economico in cui i diversi soggetti si concentrano essenzialmente nello sforzo di assolvere al proprio mestiere.
Logo "Fiat"
La potente lobby del gruppo "Repubblica-Espresso" osserva quasi smarrita questo nuovo scenario, tenta di spiegare come gli interessi di Mediaset siano ormai dominanti dovunque, siano la vera e sola bussola dell'azione del governo. Ma gli sforzi di pur fantasiosi giornalisti producono ricostruzioni senza sugo.
la_repubblica_logo
Carlo De Benedetti, cresciuto come protagonista della scena italiana grazie alla capacità di interdizione della sua stampa, è disperato e rinunciando ai suoi sogni egemonici, alle sue fasi «maggioritarie» prima prodiane, poi veltroniane,punta a ricostruire assetti neoproporzionalistici dove un gruppo editoriale spericolato come il suo possa riprendere una funzione di condizionamento a largo raggio. Non mancano le sponde in questo senso. Ma i grandi banchieri (anche quelli che continuano a votare a sinistra), i grandi manager, gli imprenditori di maggior prestigio non rispondono all'appello.
Logo "Eni"
Anche quelli abituati ai più bizantini giochi di palazzo, si sottraggono alla chiamata. Il venticello liberale di un Paese dove naturalmente i conflitti non scompaiono ma tendono a essere regolati dai voti, dal mercato, dal libero confronto delle idee e dei progetti, e non più da conventicole ristrette in toga o in grisaglia che fossero, alla fine sta prevalendo. Forse abbiamo vissuto in autunno l'ultimo organico tentativo di ripiombare il Paese nel pantano dei condizionamenti senza fine. Ne siamo usciti. Molto è da consolidare nel nuovo quadro. Servirebbe anche un'opposizione meno frastornata. Ma la via giusta è stata imboccata.
by dagospia
JAKI REGISTA INVISIBILE - DALLA DISTRIBUZIONE DEI DIVIDENDI ALLO SCONTRO FIAT-GOVERNO SUGLI INCENTIVI, C’E’ LA STRATEGIA DI JOHN ELKANN – L’ASSE TRA LUI E MARPIONNE È SEMPRE PIÙ SOLIDO E INTERNAZIONALISTA (VERSO LA CINA) – MA IN CASA AGNELLI LA COSTRUZIONE DEL POTERE PASSA ANCHE DAL FUTURO DELLA JUVE:
Stefano Feltri per "il Fatto Quotidiano"
ALAIN E JOHN ELKANN
Nella partita di questi giorni tra Fiat e governo, i ruoli sono abbastanza definiti. All'amministratore delegato Sergio Marchionne spetta quello del poliziotto cattivo - chiudiamo Termini Imerese, gli incentivi non ci interessano - mentre il presidente Luca di Montezemolo è il poliziotto buono, che cerca di salvare i rapporti con la politica di cui il Lingotto continuerà ad aver bisogno.
JOHN ELKANN E FIGLIO
Alle loro spalle, più regista che spettatore, silenzioso ma presente, c'è il grande azionista: John Elkann, vicepresidente di Fiat. E Marchionne non perde occasione per ricordare che sta agendo in piena sintonia con la proprietà, lo ha fatto anche nella lunga intervista concessa al giornale del gruppo, "La Stampa", giovedì scorso: "C'è una collaborazione stretta e continua, soprattutto con John Elkann, e penso siano soddisfatti di quello che la squadra sta facendo".
IL DIVIDENDO
Per capire il ruolo di Elkann in questa fase bisogna partire da una scelta tattica che è stata letta in Italia come un errore di comunicazione (a cui l'intervista di Marchionne ha cercato di porre rimedio). Lunedì 25 gennaio il consiglio di amministrazione Fiat annuncia di aver chiuso l'anno 2009 con una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante questo, e nonostante un indebitamento netto a 4,4, miliardi, verrà distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni.
MArchionne Fiat
Due giorni dopo Marchionne mette in cassa integrazione 30 mila dipendenti del gruppo per il calo della domanda a gennaio. Non c'è nessuna relazione con la crescente tensione con il governo sul rinnovo degli incentivi alla rottamazione - sostiene il top manager Fiat - ma è una fisiologica reazione a un'inevitabile abbassamento degli ordini, visto che molti potenziali clienti hanno anticipato l'acquisto per sfruttare gli incentivi scaduti a dicembre.
Marchionne
La concomitanza dei due eventi - dividendo e cassa integrazione - contribuisce a far infuriare gli operai che in alcuni stabilimenti, soprattutto Termini Imerese, organizzano scioperi spontanei. Si dice che Elkann avesse bisogno di quei soldi per sostenere i conti della Juventus, per ridistribuirli tra i diversi rami della famiglia che già l'anno precedente non avevano incassato nulla.
Montezemolo
All'Exor, la finanziaria che controlla la Fiat, camera di compensazione degli eredi Agnelli di cui Elkann è presidente e che incasserà 67 milioni dei 237 del dividendo, danno un'altra spiegazione. Marchionne - come ha detto anche alla "Stampa" - sta per invadere gli schermi americani durante il Superbowl con gli spot delle nuove Chrysler. Quindi aveva bisogno di lanciare un messaggio di ottimismo ai mercati finanziari che ancora non sono del tutto convinti che l'espansione internazionale del Lingotto - rimasta monca dopo aver perso l'Opel - si rivelerà davvero un successo.
Meglio quindi scontentare un po' i dipendenti italiani, qualche ministro e persino Silvio Berlusconi (che, caso raro, ha polemizzato direttamente con Marchionne) perché la Fiat deve far capire che ormai è davvero un gruppo globale e, semplificando,ragiona più guardando a Detroit che a Termini Imerese. Quindi può permettersi di pagare il dividendo anche quando è in perdita.
Berlusconi alla camera - con capelli - 27 gennaio
LA CINA
John Elkann, da presidente Exor, sostiene in prima persona la linea di apertura internazionale della Fiat. Chi lo conosce racconta che è sempre più spesso in Asia, quasi sempre in Cina. Viaggi di lavoro che da Torino definiscono con diplomatica vaghezza "esplorativi", negli interessi tanto di Exor che di Fiat. I primi risultati degli interessi asiatici di Elkann (sta pensando di far studiare cinese al figlio Leone) si sono visti a luglio quanto Fiat ha siglato una joint venture con la Guangzhou Automotive Company per la produzione di 140 mila vetture e 220 mila motori all'anno, un investimento da 400 milioni di euro nello stabilimento di Changsha, provincia dello Hunan, operativo dall'autunno 2011.
CONCESSIONARIA CHRYSLER
Non si tratta soltanto di attenzione al mercato più importante del prossimo decennio, ma anche della consapevolezza che in Italia avviare nuove iniziative è sempre più difficile (Marchionne aveva provato a immaginare la produzione della nuova Small in Sicilia, ma ha dovuto rinunciare, Termini Imerese non aveva speranza). L'asse tra Elkann e Marchionne, quindi, è sempre più solido, cementato intorno alla comune linea internazionalista.
y 2bag41 john elkann
Anche perché Marchionne ha superato quella che nei corridoi del Lingotto chiamavano "l'ultima tentazione di Sergio", dal film di Martin Scorsese su quella di Cristo: la carica da vicepresidente non esecutivo della disastrata banca svizzera Ubs che Marchionne ricopre dalla fine del 2008. Per un po' il manager italo canadese ha coltivato l'ipotesi di lasciare Fiat nel 2010 e tentare un altro risanamento impossibile, poi ha capito che dopo l'accordo con Chrysler Torino rimaneva più interessante di Zurigo.
y 2bag10 john elkann
GENERAZIONI
L'esterofilia di Elkann non implica però il disinteresse verso l'Italia, non soltanto per l'attenzione con cui segue il suo business editoriale (soprattutto La Stampa, un po' meno il Corriere). Se il nonno Gianni Agnelli voleva fornire all'Italia l'hardware delle fabbriche, Elkann ha l'ambizione di lavorare sul software. Per questo ha trasformato la fondazione intitolata all'avo Giovanni Agnelli in un istituto con un unica missione: fare ricerca sulla formazione, nella più ampia accezione inglese di "education". Il 24 febbraio la fondazione presenterà il rapporto 2010 al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini.
agnelli romiti tribuna juve
Lo scrittore Leonardo Colombati ha pubblicato per Mondadori un romanzo sulle ultime ore di Gianni Agnelli, "Il Re", ma di John Elkann non si è ancora occupato: "La sua è una generazione meno interessante che vive in tempi meno interessanti". E John sembra avere la capacità di attraversare indenne anche le più "interessanti" tra le recenti storie di famiglia.
agnelli juventus giamp boniperti
Dalle accuse della madre - Margherita - ai suoi mentori professionali, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, di aver tenuto nascosto un tesoro estero dell'Avvocato, al processo equity swap. L'internazionalità di Elkann lo ha salvato infatti dal peccato originale della nuova Fiat, l'operazione illecita (Consob l'ha sanzionata) con cui nel 2005, grazie a un accordo tenuto segreta al mercato, l'Exor guidata da Gabetti riesce a conservare il pacchetto di maggioranza della Fiat al momento in cui le banche convertono in azioni i loro crediti. Il reato contestato riguarda il comunicato alla Consob scritto il 24 agosto 2005 con cui la finanziaria degli Agnelli diceva di non aver approntato alcuna manovra difensiva.
GIANLUIGI GABETTI
Quel giorno Elkann non era in Italia e quindi non può aver partecipato alla redazione del comunicato, e poco importa se forse era informato dei fatti. Penalmente non è rilevante. Il 30 marzo si arriverà alla sentenza di primo grado. E anche se il suo mentore Gabetti sarà condannato, per Elkann non cambierà nulla: ha già ereditato da lui la presidenza della finanziaria.
fiat08 franzo grande stevens lap
LA JUVE
Nei complessi equilibri interni alla galassia Agnelli è forse più rilevante la data dell'undici luglio, quella della finale dei mondiali di calcio in Sud Africa. Il giorno dopo Marcello Lippi lascerà la nazionale che oggi allena e sarà pronto a tornare nella sua società di sempre, la Juventus presieduta da Elkann. A quel punto John, che oggi ha imposto come tecnico provvisorio Alberto Zaccheroni al posto del fallimentare Ciro Ferrara, dovrà decidere che fare.
Rimettere al suo posto l'allenatore di Calciopoli (questa volta come direttore tecnico), tuttora sponsorizzato da Luciano Moggi (che tifa anche per una presidenza affidata ad Andrea Agnelli, figlio di Umberto), oppure marcare la cesura con il passato scegliendo come nuovo uomo forte della Juve 2010 una personalità più internazionale come Rafael Benitez, attuale allenatore del Liverpool? In casa Agnelli la costruzione del potere passa anche da queste cose.
[08-02-2010]
by dagospia
ALAIN E JOHN ELKANN
Nella partita di questi giorni tra Fiat e governo, i ruoli sono abbastanza definiti. All'amministratore delegato Sergio Marchionne spetta quello del poliziotto cattivo - chiudiamo Termini Imerese, gli incentivi non ci interessano - mentre il presidente Luca di Montezemolo è il poliziotto buono, che cerca di salvare i rapporti con la politica di cui il Lingotto continuerà ad aver bisogno.
JOHN ELKANN E FIGLIO
Alle loro spalle, più regista che spettatore, silenzioso ma presente, c'è il grande azionista: John Elkann, vicepresidente di Fiat. E Marchionne non perde occasione per ricordare che sta agendo in piena sintonia con la proprietà, lo ha fatto anche nella lunga intervista concessa al giornale del gruppo, "La Stampa", giovedì scorso: "C'è una collaborazione stretta e continua, soprattutto con John Elkann, e penso siano soddisfatti di quello che la squadra sta facendo".
IL DIVIDENDO
Per capire il ruolo di Elkann in questa fase bisogna partire da una scelta tattica che è stata letta in Italia come un errore di comunicazione (a cui l'intervista di Marchionne ha cercato di porre rimedio). Lunedì 25 gennaio il consiglio di amministrazione Fiat annuncia di aver chiuso l'anno 2009 con una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante questo, e nonostante un indebitamento netto a 4,4, miliardi, verrà distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni.
MArchionne Fiat
Due giorni dopo Marchionne mette in cassa integrazione 30 mila dipendenti del gruppo per il calo della domanda a gennaio. Non c'è nessuna relazione con la crescente tensione con il governo sul rinnovo degli incentivi alla rottamazione - sostiene il top manager Fiat - ma è una fisiologica reazione a un'inevitabile abbassamento degli ordini, visto che molti potenziali clienti hanno anticipato l'acquisto per sfruttare gli incentivi scaduti a dicembre.
Marchionne
La concomitanza dei due eventi - dividendo e cassa integrazione - contribuisce a far infuriare gli operai che in alcuni stabilimenti, soprattutto Termini Imerese, organizzano scioperi spontanei. Si dice che Elkann avesse bisogno di quei soldi per sostenere i conti della Juventus, per ridistribuirli tra i diversi rami della famiglia che già l'anno precedente non avevano incassato nulla.
Montezemolo
All'Exor, la finanziaria che controlla la Fiat, camera di compensazione degli eredi Agnelli di cui Elkann è presidente e che incasserà 67 milioni dei 237 del dividendo, danno un'altra spiegazione. Marchionne - come ha detto anche alla "Stampa" - sta per invadere gli schermi americani durante il Superbowl con gli spot delle nuove Chrysler. Quindi aveva bisogno di lanciare un messaggio di ottimismo ai mercati finanziari che ancora non sono del tutto convinti che l'espansione internazionale del Lingotto - rimasta monca dopo aver perso l'Opel - si rivelerà davvero un successo.
Meglio quindi scontentare un po' i dipendenti italiani, qualche ministro e persino Silvio Berlusconi (che, caso raro, ha polemizzato direttamente con Marchionne) perché la Fiat deve far capire che ormai è davvero un gruppo globale e, semplificando,ragiona più guardando a Detroit che a Termini Imerese. Quindi può permettersi di pagare il dividendo anche quando è in perdita.
Berlusconi alla camera - con capelli - 27 gennaio
LA CINA
John Elkann, da presidente Exor, sostiene in prima persona la linea di apertura internazionale della Fiat. Chi lo conosce racconta che è sempre più spesso in Asia, quasi sempre in Cina. Viaggi di lavoro che da Torino definiscono con diplomatica vaghezza "esplorativi", negli interessi tanto di Exor che di Fiat. I primi risultati degli interessi asiatici di Elkann (sta pensando di far studiare cinese al figlio Leone) si sono visti a luglio quanto Fiat ha siglato una joint venture con la Guangzhou Automotive Company per la produzione di 140 mila vetture e 220 mila motori all'anno, un investimento da 400 milioni di euro nello stabilimento di Changsha, provincia dello Hunan, operativo dall'autunno 2011.
CONCESSIONARIA CHRYSLER
Non si tratta soltanto di attenzione al mercato più importante del prossimo decennio, ma anche della consapevolezza che in Italia avviare nuove iniziative è sempre più difficile (Marchionne aveva provato a immaginare la produzione della nuova Small in Sicilia, ma ha dovuto rinunciare, Termini Imerese non aveva speranza). L'asse tra Elkann e Marchionne, quindi, è sempre più solido, cementato intorno alla comune linea internazionalista.
y 2bag41 john elkann
Anche perché Marchionne ha superato quella che nei corridoi del Lingotto chiamavano "l'ultima tentazione di Sergio", dal film di Martin Scorsese su quella di Cristo: la carica da vicepresidente non esecutivo della disastrata banca svizzera Ubs che Marchionne ricopre dalla fine del 2008. Per un po' il manager italo canadese ha coltivato l'ipotesi di lasciare Fiat nel 2010 e tentare un altro risanamento impossibile, poi ha capito che dopo l'accordo con Chrysler Torino rimaneva più interessante di Zurigo.
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GENERAZIONI
L'esterofilia di Elkann non implica però il disinteresse verso l'Italia, non soltanto per l'attenzione con cui segue il suo business editoriale (soprattutto La Stampa, un po' meno il Corriere). Se il nonno Gianni Agnelli voleva fornire all'Italia l'hardware delle fabbriche, Elkann ha l'ambizione di lavorare sul software. Per questo ha trasformato la fondazione intitolata all'avo Giovanni Agnelli in un istituto con un unica missione: fare ricerca sulla formazione, nella più ampia accezione inglese di "education". Il 24 febbraio la fondazione presenterà il rapporto 2010 al ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini.
agnelli romiti tribuna juve
Lo scrittore Leonardo Colombati ha pubblicato per Mondadori un romanzo sulle ultime ore di Gianni Agnelli, "Il Re", ma di John Elkann non si è ancora occupato: "La sua è una generazione meno interessante che vive in tempi meno interessanti". E John sembra avere la capacità di attraversare indenne anche le più "interessanti" tra le recenti storie di famiglia.
agnelli juventus giamp boniperti
Dalle accuse della madre - Margherita - ai suoi mentori professionali, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, di aver tenuto nascosto un tesoro estero dell'Avvocato, al processo equity swap. L'internazionalità di Elkann lo ha salvato infatti dal peccato originale della nuova Fiat, l'operazione illecita (Consob l'ha sanzionata) con cui nel 2005, grazie a un accordo tenuto segreta al mercato, l'Exor guidata da Gabetti riesce a conservare il pacchetto di maggioranza della Fiat al momento in cui le banche convertono in azioni i loro crediti. Il reato contestato riguarda il comunicato alla Consob scritto il 24 agosto 2005 con cui la finanziaria degli Agnelli diceva di non aver approntato alcuna manovra difensiva.
GIANLUIGI GABETTI
Quel giorno Elkann non era in Italia e quindi non può aver partecipato alla redazione del comunicato, e poco importa se forse era informato dei fatti. Penalmente non è rilevante. Il 30 marzo si arriverà alla sentenza di primo grado. E anche se il suo mentore Gabetti sarà condannato, per Elkann non cambierà nulla: ha già ereditato da lui la presidenza della finanziaria.
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LA JUVE
Nei complessi equilibri interni alla galassia Agnelli è forse più rilevante la data dell'undici luglio, quella della finale dei mondiali di calcio in Sud Africa. Il giorno dopo Marcello Lippi lascerà la nazionale che oggi allena e sarà pronto a tornare nella sua società di sempre, la Juventus presieduta da Elkann. A quel punto John, che oggi ha imposto come tecnico provvisorio Alberto Zaccheroni al posto del fallimentare Ciro Ferrara, dovrà decidere che fare.
Rimettere al suo posto l'allenatore di Calciopoli (questa volta come direttore tecnico), tuttora sponsorizzato da Luciano Moggi (che tifa anche per una presidenza affidata ad Andrea Agnelli, figlio di Umberto), oppure marcare la cesura con il passato scegliendo come nuovo uomo forte della Juve 2010 una personalità più internazionale come Rafael Benitez, attuale allenatore del Liverpool? In casa Agnelli la costruzione del potere passa anche da queste cose.
[08-02-2010]
by dagospia
LO “SCIPPO” DEL "CORRIERE" – ANGELO RIZZOLI, PROSCIOLTO DALLA CASSAZIONE, CHIEDE 650 MLN DI DANNI E CONTESTA IL PASSAGGIO DEL QUOTIDIANO ALLA CORDATA GEMINA-BAZOLI - L'INGRESSO IN VIA SOLFERINO, NEL 1974, FU PER LA FAMIGLIA RIZZOLI L'INIZIO DELLA DISFATTA – E ORA ANGELO RIVUOLE IL SUO GIORNALE…
Nicola Porro per "il Giornale"
Angelo e Melania Rizzoli ANGELO RIZZOLI - copyright Pizzi
Quella che segue è una storia incredibile, favolosa. È la storia di uno scippo, ma è anche la vicenda umana di una famiglia che ha saputo distruggere la sua fantastica ricchezza nel giro di pochi anni. È la storia dei Rizzoli, dei tipografi che si fanno editori, del martinitt che diventa conte, dei poveracci che si scoprono miliardari. È la storia di un giornale, "il Corriere della Sera", che a seconda di chi lo compra ha un valore diverso: altissimo quando lo acquistano i Rizzoli, vile per gli Agnelli.
È una storia già scritta in tanti libri che hanno raccontato molto di ciò che si doveva sapere della Erre Verde (il più completo è il testo di Alberto Mazzuca). Ma è anche una vicenda che non si è ancora chiusa. Molto, se non tutto, ruota intorno alla sciagurata decisione della famiglia di portarsi a casa all'inizio degli anni '70 la proprietà del "Corriere della Sera". E oggi Angelo Rizzoli, dopo 26 anni dalla sua cessione, lo rivuole indietro e ha avviato una causa per un risarcimento danni monstre di 650 milioni di euro.
Melania e Andrea Rizzoli - Copyright Pizzi
LE ORIGINI
Angelo Rizzoli, il fondatore, lo aveva sempre detto. Anzi lo aveva confidato al proprio autista: «È nata la terza generazione, quella che manderà in rovina tutto quanto. Io costruisco, mio figlio mantiene, i nipoti distruggeranno. È una regola». Non sarà così semplice e non sarà forse così vero.
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Quelle che contano in questa storia sono le A: quella di Angelo, il fondatore, il Cummenda (come tutti lo chiamavano e continuano a chiamarlo); quella di Andrea il figlio; quella di Angelo jr o Angelone e Alberto, i nipoti. Certo di mezzo ci sono tante donne: parenti, figlie, amanti e attrici. E avranno come è ovvio una grande parte nella storia di questa dinastia, ma ai nostri fini hanno un ruolo laterale.
Rizzoli
Angelo, partendo dalla casa degli orfanelli è finito conte, per di più in epoca repubblicana, per un appartamento donato all'Unione monarchica. Alla fine degli anni '50 la piccola tipografia di Angelo Rizzoli è diventata una casa editrice tra le più importanti in Italia. La tiratura dei periodici Rizzoli sfiora quota tre milioni. E poi i grandi marchi di successo: "Novella", con cui parte la fortuna nel 1919 e che negli anni diventerà 2000, "Oggi", che per lungo tempo si voleva fare quotidiano, "l'Europeo", "Candido", "Sorrisi e Canzoni" e tanti altri.
Il tocco di Angelo sembra d'oro. Si fanno quattrini persino con la Bur. L'idea era per l'epoca folle (siamo nel 1949): pubblicare i grandi classici in edizione povera e a poco prezzo, 50 lire per ogni cento pagine. Il successo fu tale che si pubblicarono quasi tremila titoli. Anche "il Cinema" portò quattrini e fortuna alla Rizzoli. Grandi successi: dalla "Dolce Vita" a "Don Camillo e Peppone". E quella incredibile gita di Chaplin a Ischia (che Angelo aveva scoperto come località turistica e che con Rizzoli sembrava Beverly Hills quanto a frequentazioni) per la prima continentale di "Un re a New York".
GIULIA MARIA MOZZONI CRESPI - copyright Pizzi
Rizzoli nasce povero, ma ambizioso. Sono due le sue caratteristiche principali. La prima, che non riesce minimamente a trasferire ai suoi eredi: mai un debito, mai una cambiale, mai un prestito. C'è un tratto che invece passa per le tre generazioni e che nel ventennio fu definito il «rizzolismo»: la capacità di fare affari a destra e a sinistra, di stare in mezzo non già perché si creda nella media, ma perché è la strada più breve per spostarsi da una parte o dall'altra. Angelo avrà solo un grande amico nella politica: Nenni. Ma non i socialisti.
LA FISSAZIONE
Un quotidiano è sempre mancato alla Rizzoli. E anche Angelo, il Cummenda, ne sentiva il vuoto. All'inizio degli anni '60 si mette in contatto con i Crespi, allora proprietari del "Corriere della Sera". L'idea era piuttosto ambiziosa: mettere insieme i periodici Rizzoli e il quotidiano di via Solferino e realizzare un cartello sulla raccolta pubblicitaria. «Il Cummenda mi disse - ricorda Indro Montanelli - che i Crespi lo misero alla porta con arroganza poiché non lo ritenevano alla loro altezza.
GELLI
E da quel momento si mise in testa di fare un quotidiano suo». Angelo aveva già tutto pronto in testa. Da immaginare la scena del martinitt che interpella Montanelli e gli dice: «Vieni a fare il direttore del mio nuovo quotidiano. Si chiamerà Buondì, così quando ci si presenta all'edicola verrà automatico comprarlo». Alla fine la ragionevolezza porterà la scelta su un marchio di fabbrica che è stato il best seller dei periodici Rizzoli nel dopoguerra: Oggi.
Sul tetto degli stabilimenti fu così issata un'insegna che continuò a mostrarsi anche quando il progetto ero bello che affondato: «Oggi, il quotidiano di domani». Nonostante le prime assunzioni (Granzotto, Afeltra, Barzini), Oggi, il quotidiano di domani, non uscì mai in edicola, anche se si realizzarono decine di numeri zero. Nel frattempo ci fu un tentativo di stampare la Notte di Nutrizio (grande amico dei Rizzoli) negli stabilimenti della Erre Verde, e un abboccamento prima con Enrico Mattei e poi con Eugenio Cefis per comprare dall'Eni il Giorno. Si provò invano e più tardi anche con "il Messagero" e "il Tempo".
Paul Marcinkus
Quando nel 1970 il Cummenda muore lascerà agli eredi un patrimonio valutato cento miliardi di lire, zero debiti, due pagine del "Corriere" zeppe di necrologi, ma nessun quotidiano.
IL CORRIERE DELLA SERA
Chi ha deciso veramente l'acquisto del "Corriere della Sera"? Chi ha detto l'ultima parola? Chi l'ha voluto davvero? Quando il sogno, o l'inizio dell'incubo, si realizza nel 1974, sono solo due i possibili indiziati: padre e figlio. Andrea e Angelone saranno evidentemente complici in questo passo. Alberto il fratello, che poi dopo cinque anni uscirà completamente dal gruppo di famiglia, è stato sempre il più immune alla malattia di via Solferino.
CALVI
Andrea comanda in azienda così come il padre, con un piglio da monarca. Suo figlio Angelo, a 28 anni, è già il delfino designato e viene nominato amministratore delegato. Mica male. Quando si parla di queste vicende conviene sempre riflettere sulla giovane età in cui furono catapultati al vertice i ragazzi Rizzoli. All'epoca dell'acquisto del "Corsera", il gruppo impegnava circa 5mila dipendenti, realizzava una sessantina di miliardi di fatturato, e circa sei di utili: aveva un quinto del mercato dei periodici e circa il 10 per cento dei libri.
Aveva una prima linea di manager compatta, tra cui il giovane e «disinnescato» Tassan Din (un direttore finanziario per un'impresa con pochi debiti, ha poco peso). «Ho comprato "il Corriere della Sera" perché l'azienda è granitica» disse in un'intervista sul suo "Europeo", Andrea. Non era proprio così.
A tre anni dalla morte del Cummenda si manifestarono i primi debiti: una ventina di miliardi. Sopportabili, ma una novità in casa Rizzoli. Non in casa di Andrea per la verità: da presidente del Milan conquistò successi unici, la prima Coppa dei Campioni, ma anche la prima esposizione finanziaria con in calce la firma Rizzoli.
agnelli, 1986
Andrea inoltre è tutto preso dal suo nuovo e appassionante amore con Ljuba Rosa e il suo cuore fa le bizze: nei momenti clou delle trattative viene ricoverato in gravi, gravissime condizioni in ospedale. I Crespi non sono più soci unici, ma comandano, e hanno diritto di vita e di morte sul quotidiano. Con quote paritetiche nel capitale (ciascuno ha il 33 per cento) ci sono anche i Moratti e gli Agnelli, come semplici soci finanziatori. È da qui che parte l'attacco dei Rizzoli.
All'epoca "il Corriere" era già pieno di debiti, con i conti in rosso, e con un sindacato che comandava. In Rizzoli il '68 non era ancora arrivato, in via Solferino invece c'erano Ottone, Fiengo e i comitati di fabbrica. Montanelli, che nel frattempo era uscito bruscamente dal "Corriere", li aveva avvertiti: «Ci sbatterete il muso» e li aveva anche invitati, senza successo, a diventare editori del suo (e nostro) "Giornale". Niente da fare.
Sede del Corriere della Sera in via Solferino
I primi a cadere saranno dunque i Moratti e gli Agnelli, inclini a cedere una partecipazione che oltre a costare molto, non rendeva, politicamente, nulla. A quel punto sono costretti a cedere anche i Crespi. Il primo assegno da 27 miliardi di lire, a metà luglio del 1974, viene staccato a favore di Giulia Maria Crespi. Con la zarina fuori, si comanda al "Corriere". La sua è la quota con diritti assoluti, è quella a cui lo statuto riconosce di fatto la conduzione unica ed esclusiva dell'azienda.
È l'epoca, come diceva Cuccia, in cui le azioni non si contavano, ma si pesavano. Ma Andrea Rizzoli va avanti, dopo pochi giorni si porta a casa anche il 33 per cento dei Moratti per 14 miliardi: "il Corriere" è vinto. Con il 66 per cento del capitale e la quota ex Crespi, a questo punto non ci sarebbe più bisogno della fetta Agnelli.
E qui si commette il primo grande errore di ingordigia. Nonostante una parte della famiglia non volesse, la Rizzoli si impegna a comprare anche la quota Agnelli. L'annuncio della cessione per 13 miliardi è fatto subito, ma il pagamento sarà dilazionato a tre anni: nel 1977. Il saldo finale sarà vicino ai 100 miliardi. Molto più del previsto. Ma soprattutto molto peggio del previsto saranno le condizioni di salute del quotidiano.
I Rizzoli lo comprarono al buio, e nel primo anno le perdite previste in 4 miliardi si rivelarono quattro volte tanto. A soli 5 anni dalla morte del Cummenda gli eredi violano il caposaldo della sua filosofia: si riempiono di debiti, ne hanno più di cento miliardi. In compenso hanno una casa editrice molto più influente, politicamente preziosa, diecimila dipendenti, un quinto del mercato dei quotidiani, quasi la metà di quello dei periodici e il 10 per cento di quello dei libri. Sono una potenza: dai piedi di argilla.
rizzoli Angelo
LA P2 E LA TRAPPOLA
Quello che succede nei mesi che seguono è l'inizio della fine per i Rizzoli. Due sono le rivoluzioni in corso. La prima è quella finanziaria: il gruppo è lentamente consumato dai suoi deficit che raggiungono i 4 miliardi al mese. Di pari passo una figura marginale all'interno del gruppo, quella del direttore finanziario, Tassan Din, diventa chiave. Saranno Tassan Din e Angelo a fare il giro delle sette chiese romane per cercare disperatamente finanziamenti da parte del sistema bancario.
Saranno a tal punto a corto di liquidi che metteranno infine in vendita le proprietà immobiliari di Ischia. È intorno a questa vendita che si verifica il contagio con la P2 e con l'avvocato democristiano che ne fu il primo punto di contatto, Umberto Ortolani. Con il Corriere sanguisuga, con gli interessi che corrono e con gli immobili di Ischia bloccati, Ortolani apparirà come una via d'uscita.
Da una parte permetterà la vendita del complesso alberghiero costruito dal Cummenda e dall'altra in una stanza dell'Excelsior di Roma presenterà Angelo e Tassan Din a Licio Gelli, gran maestro venerabile della P2. Sono gli anni della follia, le banche, soprattutto l'Ambrosiano di Calvi, iniziano ad aprire i cordoni della borsa. Di pari passo la Rizzoli, non paga della sua insicura situazione finanziaria, inizia una politica di espansione che alla fine si rivelò giovare solo all'aumento del potere interno di Tassan Din e degli uomini della P2.
La famiglia Rizzoli è ormai cotta, Andrea, il padre, sempre più distaccato e malato a Cap Ferrat, Angelo invischiato nella rete piduista, Alberto, con un piede già fuori dall'azienda di famiglia. Il colpo finale avverrà con il pagamento della quota Agnelli. Di quel superfluo 33 per cento del Corriere, che i Rizzoli si erano impegnati a comprare nel 1974 e che nel 1977 comportava un esborso di 22 miliardi.
Impegno maledetto, che aveva diviso la famiglia tre anni prima, e che soprattutto nessuno era più in grado di onorare. Tanto meno l'azienda che nel 1976 aveva chiuso il bilancio con 20 miliardi di perdite e 105 miliardi di prestiti bancari. La soluzione viene trovata da Gelli-Ortolani-Calvi: è la trappola. In buona sostanza il Banco Ambrosiano di Calvi fornisce alla Rizzoli 20 miliardi, sotto forma di un aumento di capitale. Ovviamente non lo fa gratis. Ottiene in cambio dai Rizzoli l'80 per cento delle quote del gruppo.
Come dire con 20 miliardi la P2 e l'Ambrosiano si portano a casa il primo gruppo editoriale italiano. Non è per la verità così semplice. Su questo pacchetto di azioni, la famiglia Rizzoli ha un diritto di riscatto dopo tre anni, al valore già fissato di 35 miliardi. I Rizzoli per pagare il debito agli Agnelli, ipotecano pesantemente le loro quote in azienda. È un continuo spostare in avanti il redde rationem.
Ricapitolando: nel 1974 comprano il Corriere. Ma si lasciano un debituccio con gli Agnelli, da saldare nel 1977. Dopo tre anni non sono più in grado di far fronte ai loro impegni con la famiglia torinese. E a questo punto cedono l'azienda, con l'arrière pensée di ricomprarla dopo alcuni anni. L'impegno originale di 14 miliardi è così lievitato a 35 e soprattutto la famiglia Rizzoli ha perso il controllo del gruppo. Rizzoli e Corriere della Sera vengono di fatto eterodirette, Tassan Din diventa direttore generale e il giovane Angelo prende il posto del padre, ma con scarsissimi poteri.
Ciò che nessuno sa all'esterno, il passaggio della maggioranza della Rizzoli a misteriosi investitori e la fine del potere della famiglia, in azienda si nota. Resta il problema di un gruppo che nonostante le sue dimensioni continua ad avere una posizione debitoria con le banche insopportabile. In questo contesto nasce il cosiddetto Pattone o il patto BLU (dalle iniziali dei nomi di chi lo pensa e lo sottoscrive Bruno Tassan Din, Licio Gelli e Umberto Ortolani).
L'accordo non comprende i Rizzoli, e come vedremo, fa scattare la molla della trappola. In una certa misura, soprattutto grazie alle dismissioni e alla possibilità concessa dalla politica di aumentare finalmente il prezzo dei quotidiani, le cose vanno migliorando dal punto di vista industriale. Ma non a sufficienza per ripianare i debiti e per fornire ai Rizzoli le risorse per riscattare la loro quota dell'80 per cento.
Il meccanismo che viene limato e limato alla fine prevede il solito aumento di capitale della Rizzoli: questa volta da 150 miliardi. In più la Centrale, braccio operativo dell'Ambrosiano, si comprerà alla luce del sole il 40 per cento della Rizzoli, fornendo così i quattrini ai Rizzoli sia per pagare i 35 miliardi necessari al riscatto del loro vecchio 80 per cento, sia per sottoscrivere pro quota l'aumento di capitale. Ebbene come si vedrà in seguito è la mossa che definitivamente inguaia la famiglia.
L'aumento di capitale si rivelerà un falso: non una lira entra in Rizzoli. Formalmente sembrerà tutto a posto: viene comunicato al pubblico e annotato in azienda. Si tratta di un complicato castelletto di menzogne, dove alla fine i quattrini che escono in effetti dall'Ambrosiano vanno a finire sui conti personali dei BLU. Una serie di manovre che vengono fatte proprio in coincidenza con l'emergere delle liste P2 e la conseguente fuga di Gelli.
Per i Rizzoli la storia in Rizzoli è finita. Angelo (insieme al fratello Alberto ormai da tempo fuori dal gruppo) fu sbattuto in galera e solo dopo 26 anni una sentenza della Cassazione lo ha riconosciuto definitivamente innocente rilevando come il crac, che poi è seguito, della casa editrice, sia stato cagionato tra l'altro da quest'ultimo clamoroso ladrocinio.
IL RITORNO DEGLI AGNELLI
La saga dei Rizzoli finisce dunque quando finalmente recuperano fisicamente l'80% delle azioni che erano state cedute tramite Calvi e di queste si gira il 40% alla Centrale. Si dovrà pazientare qualche giorno: le azioni erano finite in Vaticano (che per tutti quegli anni era stato dunque formalmente l'azionista occulto e di maggioranza della Rizzoli) nella cassaforte dello Ior: però il custode delle chiavi, il vice di Marcinkus, era in galera per l'affaire Sindona.
Questo era il pasticcio in cui si erano ficcati i nipoti del Cummenda. Quando il 7 agosto 1982 il ministero del Tesoro e la Banca d'Italia creano il Nuovo Banco Ambrosiano (Nba) che eredita attraverso la società Centrale anche il pacchetto del 40% di Rizzoli, i nodi vengono al pettine. Il nuovo presidente del Banco, Giovanni Bazoli, mette al muro il gruppo: chiede l'immediato rientro dei fidi, pari a 70 miliardi.
Ma nel frattempo sembra dimenticarsi che il Nba ha ereditato anche la Centrale con tutte le sue posizioni giuridiche. Tra cui un debito della Centrale (e dunque del Nba) di 150 miliardi mai onorati nei confronti sia del gruppo Rizzoli sia di Angelo, per l'aumento di capitale dell'81 sottoscritto ma mai versato. La Rizzoli in questo modo schizofrenico si vede contestati i propri debiti e non già riconosciuti i propri crediti. Sarà questo il centro dell'azione legale intrapresa in questi mesi da Angelo Rizzoli.
La società infatti in questo modo è cotta e finisce in amministrazione controllata e Angelo in galera per bancarotta fraudolenta, con la sua quota della Rizzoli (il 50,2%) sequestrata dai custodi giudiziari. Il teorema è semplice: Rizzoli ha occultato i quattrini che l'Ambrosiano ha versato in azienda dopo l'aumento di capitale. Falso, come dimostra una recente sentenza della Cassazione: quei miliardi non arrivarono mai sui conti Rizzoli, ma sui depositi esteri di BLU. Angelo ritorna libero nel 1984: la Rizzoli ha recuperato vigore ma è troppo tardi.
Il 4 ottobre del 1984 Angelo è di fatto obbligato a vendere la sua quota e dunque il Corriere della Sera a un gruppo di investitori che comprende la Fiat, Mediobanca, Montedison, l'industriale Arvedi e la finanziaria Mittel di Bazoli, per il prezzo scontato di 9 miliardi di lire. Facendo un conto un po' grossolano gli Agnelli avevano venduto nel 1974 un terzo del solo Corriere della Sera a una cifra tre volte superiore a quanto valesse dieci anni dopo l'intero gruppo Rizzoli.
Evidentemente il prezzo di vendita del gruppo nel 1984 era più che da saldo. Pier Domenico Gallo, all'epoca direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, nel bel libro Intesa San Paolo, si duole di questa vendita. «Conveniva, dal nostro punto di vista, convertire i debiti che Rizzoli aveva con il Banco in azioni... mi ero convinto che la Rizzoli potesse costituire un grande valore potenziale per Nba e per i suoi azionisti». Non gli fu permesso. In realtà le direttive del Cicr non permettevano alle banche di avere la proprietà di un quotidiano.
Regole che però valevano a corrente alternata: qualcuno si era dimenticato del Mattino in mano al Banco di Napoli. Senza considerare come queste stesse norme non furono evocate per la clamorosa presenza di Mediobanca nella cordata che poi sfilò il Corriere ai Rizzoli. Ma la verità è che evidentemente c'erano altri progetti.
Gallo si stupisce inoltre: «È abbastanza singolare pensare come in quel momento nessun gruppo imprenditoriale italiano, a parte la cordata Fiat-Mediobanca, capisse la bontà dell'affare facendo un'offerta formale alternativa». Entriamo in Rizzoli per disinfestarla, dirà l'avvocato Agnelli, a conclusione dell'affare. «Io - confida onestamente Gallo - e tutti quelli che avevano lavorato alla ripartenza della casa editrice negli ultimi due anni, consapevoli del grande affare fatto da Torino, fummo sconcertati e disturbati».
Un senso di sconcerto e di disturbo che oggi deve sentire a maggior ragione Angelone, Angelo jr, il figlio di Andrea, il nipote del grande Cummenda, solo a ripensare alla storia di questo clamoroso scippo.
[08-02-2010]
by dagospia
Angelo e Melania Rizzoli ANGELO RIZZOLI - copyright Pizzi
Quella che segue è una storia incredibile, favolosa. È la storia di uno scippo, ma è anche la vicenda umana di una famiglia che ha saputo distruggere la sua fantastica ricchezza nel giro di pochi anni. È la storia dei Rizzoli, dei tipografi che si fanno editori, del martinitt che diventa conte, dei poveracci che si scoprono miliardari. È la storia di un giornale, "il Corriere della Sera", che a seconda di chi lo compra ha un valore diverso: altissimo quando lo acquistano i Rizzoli, vile per gli Agnelli.
È una storia già scritta in tanti libri che hanno raccontato molto di ciò che si doveva sapere della Erre Verde (il più completo è il testo di Alberto Mazzuca). Ma è anche una vicenda che non si è ancora chiusa. Molto, se non tutto, ruota intorno alla sciagurata decisione della famiglia di portarsi a casa all'inizio degli anni '70 la proprietà del "Corriere della Sera". E oggi Angelo Rizzoli, dopo 26 anni dalla sua cessione, lo rivuole indietro e ha avviato una causa per un risarcimento danni monstre di 650 milioni di euro.
Melania e Andrea Rizzoli - Copyright Pizzi
LE ORIGINI
Angelo Rizzoli, il fondatore, lo aveva sempre detto. Anzi lo aveva confidato al proprio autista: «È nata la terza generazione, quella che manderà in rovina tutto quanto. Io costruisco, mio figlio mantiene, i nipoti distruggeranno. È una regola». Non sarà così semplice e non sarà forse così vero.
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Quelle che contano in questa storia sono le A: quella di Angelo, il fondatore, il Cummenda (come tutti lo chiamavano e continuano a chiamarlo); quella di Andrea il figlio; quella di Angelo jr o Angelone e Alberto, i nipoti. Certo di mezzo ci sono tante donne: parenti, figlie, amanti e attrici. E avranno come è ovvio una grande parte nella storia di questa dinastia, ma ai nostri fini hanno un ruolo laterale.
Rizzoli
Angelo, partendo dalla casa degli orfanelli è finito conte, per di più in epoca repubblicana, per un appartamento donato all'Unione monarchica. Alla fine degli anni '50 la piccola tipografia di Angelo Rizzoli è diventata una casa editrice tra le più importanti in Italia. La tiratura dei periodici Rizzoli sfiora quota tre milioni. E poi i grandi marchi di successo: "Novella", con cui parte la fortuna nel 1919 e che negli anni diventerà 2000, "Oggi", che per lungo tempo si voleva fare quotidiano, "l'Europeo", "Candido", "Sorrisi e Canzoni" e tanti altri.
Il tocco di Angelo sembra d'oro. Si fanno quattrini persino con la Bur. L'idea era per l'epoca folle (siamo nel 1949): pubblicare i grandi classici in edizione povera e a poco prezzo, 50 lire per ogni cento pagine. Il successo fu tale che si pubblicarono quasi tremila titoli. Anche "il Cinema" portò quattrini e fortuna alla Rizzoli. Grandi successi: dalla "Dolce Vita" a "Don Camillo e Peppone". E quella incredibile gita di Chaplin a Ischia (che Angelo aveva scoperto come località turistica e che con Rizzoli sembrava Beverly Hills quanto a frequentazioni) per la prima continentale di "Un re a New York".
GIULIA MARIA MOZZONI CRESPI - copyright Pizzi
Rizzoli nasce povero, ma ambizioso. Sono due le sue caratteristiche principali. La prima, che non riesce minimamente a trasferire ai suoi eredi: mai un debito, mai una cambiale, mai un prestito. C'è un tratto che invece passa per le tre generazioni e che nel ventennio fu definito il «rizzolismo»: la capacità di fare affari a destra e a sinistra, di stare in mezzo non già perché si creda nella media, ma perché è la strada più breve per spostarsi da una parte o dall'altra. Angelo avrà solo un grande amico nella politica: Nenni. Ma non i socialisti.
LA FISSAZIONE
Un quotidiano è sempre mancato alla Rizzoli. E anche Angelo, il Cummenda, ne sentiva il vuoto. All'inizio degli anni '60 si mette in contatto con i Crespi, allora proprietari del "Corriere della Sera". L'idea era piuttosto ambiziosa: mettere insieme i periodici Rizzoli e il quotidiano di via Solferino e realizzare un cartello sulla raccolta pubblicitaria. «Il Cummenda mi disse - ricorda Indro Montanelli - che i Crespi lo misero alla porta con arroganza poiché non lo ritenevano alla loro altezza.
GELLI
E da quel momento si mise in testa di fare un quotidiano suo». Angelo aveva già tutto pronto in testa. Da immaginare la scena del martinitt che interpella Montanelli e gli dice: «Vieni a fare il direttore del mio nuovo quotidiano. Si chiamerà Buondì, così quando ci si presenta all'edicola verrà automatico comprarlo». Alla fine la ragionevolezza porterà la scelta su un marchio di fabbrica che è stato il best seller dei periodici Rizzoli nel dopoguerra: Oggi.
Sul tetto degli stabilimenti fu così issata un'insegna che continuò a mostrarsi anche quando il progetto ero bello che affondato: «Oggi, il quotidiano di domani». Nonostante le prime assunzioni (Granzotto, Afeltra, Barzini), Oggi, il quotidiano di domani, non uscì mai in edicola, anche se si realizzarono decine di numeri zero. Nel frattempo ci fu un tentativo di stampare la Notte di Nutrizio (grande amico dei Rizzoli) negli stabilimenti della Erre Verde, e un abboccamento prima con Enrico Mattei e poi con Eugenio Cefis per comprare dall'Eni il Giorno. Si provò invano e più tardi anche con "il Messagero" e "il Tempo".
Paul Marcinkus
Quando nel 1970 il Cummenda muore lascerà agli eredi un patrimonio valutato cento miliardi di lire, zero debiti, due pagine del "Corriere" zeppe di necrologi, ma nessun quotidiano.
IL CORRIERE DELLA SERA
Chi ha deciso veramente l'acquisto del "Corriere della Sera"? Chi ha detto l'ultima parola? Chi l'ha voluto davvero? Quando il sogno, o l'inizio dell'incubo, si realizza nel 1974, sono solo due i possibili indiziati: padre e figlio. Andrea e Angelone saranno evidentemente complici in questo passo. Alberto il fratello, che poi dopo cinque anni uscirà completamente dal gruppo di famiglia, è stato sempre il più immune alla malattia di via Solferino.
CALVI
Andrea comanda in azienda così come il padre, con un piglio da monarca. Suo figlio Angelo, a 28 anni, è già il delfino designato e viene nominato amministratore delegato. Mica male. Quando si parla di queste vicende conviene sempre riflettere sulla giovane età in cui furono catapultati al vertice i ragazzi Rizzoli. All'epoca dell'acquisto del "Corsera", il gruppo impegnava circa 5mila dipendenti, realizzava una sessantina di miliardi di fatturato, e circa sei di utili: aveva un quinto del mercato dei periodici e circa il 10 per cento dei libri.
Aveva una prima linea di manager compatta, tra cui il giovane e «disinnescato» Tassan Din (un direttore finanziario per un'impresa con pochi debiti, ha poco peso). «Ho comprato "il Corriere della Sera" perché l'azienda è granitica» disse in un'intervista sul suo "Europeo", Andrea. Non era proprio così.
A tre anni dalla morte del Cummenda si manifestarono i primi debiti: una ventina di miliardi. Sopportabili, ma una novità in casa Rizzoli. Non in casa di Andrea per la verità: da presidente del Milan conquistò successi unici, la prima Coppa dei Campioni, ma anche la prima esposizione finanziaria con in calce la firma Rizzoli.
agnelli, 1986
Andrea inoltre è tutto preso dal suo nuovo e appassionante amore con Ljuba Rosa e il suo cuore fa le bizze: nei momenti clou delle trattative viene ricoverato in gravi, gravissime condizioni in ospedale. I Crespi non sono più soci unici, ma comandano, e hanno diritto di vita e di morte sul quotidiano. Con quote paritetiche nel capitale (ciascuno ha il 33 per cento) ci sono anche i Moratti e gli Agnelli, come semplici soci finanziatori. È da qui che parte l'attacco dei Rizzoli.
All'epoca "il Corriere" era già pieno di debiti, con i conti in rosso, e con un sindacato che comandava. In Rizzoli il '68 non era ancora arrivato, in via Solferino invece c'erano Ottone, Fiengo e i comitati di fabbrica. Montanelli, che nel frattempo era uscito bruscamente dal "Corriere", li aveva avvertiti: «Ci sbatterete il muso» e li aveva anche invitati, senza successo, a diventare editori del suo (e nostro) "Giornale". Niente da fare.
Sede del Corriere della Sera in via Solferino
I primi a cadere saranno dunque i Moratti e gli Agnelli, inclini a cedere una partecipazione che oltre a costare molto, non rendeva, politicamente, nulla. A quel punto sono costretti a cedere anche i Crespi. Il primo assegno da 27 miliardi di lire, a metà luglio del 1974, viene staccato a favore di Giulia Maria Crespi. Con la zarina fuori, si comanda al "Corriere". La sua è la quota con diritti assoluti, è quella a cui lo statuto riconosce di fatto la conduzione unica ed esclusiva dell'azienda.
È l'epoca, come diceva Cuccia, in cui le azioni non si contavano, ma si pesavano. Ma Andrea Rizzoli va avanti, dopo pochi giorni si porta a casa anche il 33 per cento dei Moratti per 14 miliardi: "il Corriere" è vinto. Con il 66 per cento del capitale e la quota ex Crespi, a questo punto non ci sarebbe più bisogno della fetta Agnelli.
E qui si commette il primo grande errore di ingordigia. Nonostante una parte della famiglia non volesse, la Rizzoli si impegna a comprare anche la quota Agnelli. L'annuncio della cessione per 13 miliardi è fatto subito, ma il pagamento sarà dilazionato a tre anni: nel 1977. Il saldo finale sarà vicino ai 100 miliardi. Molto più del previsto. Ma soprattutto molto peggio del previsto saranno le condizioni di salute del quotidiano.
I Rizzoli lo comprarono al buio, e nel primo anno le perdite previste in 4 miliardi si rivelarono quattro volte tanto. A soli 5 anni dalla morte del Cummenda gli eredi violano il caposaldo della sua filosofia: si riempiono di debiti, ne hanno più di cento miliardi. In compenso hanno una casa editrice molto più influente, politicamente preziosa, diecimila dipendenti, un quinto del mercato dei quotidiani, quasi la metà di quello dei periodici e il 10 per cento di quello dei libri. Sono una potenza: dai piedi di argilla.
rizzoli Angelo
LA P2 E LA TRAPPOLA
Quello che succede nei mesi che seguono è l'inizio della fine per i Rizzoli. Due sono le rivoluzioni in corso. La prima è quella finanziaria: il gruppo è lentamente consumato dai suoi deficit che raggiungono i 4 miliardi al mese. Di pari passo una figura marginale all'interno del gruppo, quella del direttore finanziario, Tassan Din, diventa chiave. Saranno Tassan Din e Angelo a fare il giro delle sette chiese romane per cercare disperatamente finanziamenti da parte del sistema bancario.
Saranno a tal punto a corto di liquidi che metteranno infine in vendita le proprietà immobiliari di Ischia. È intorno a questa vendita che si verifica il contagio con la P2 e con l'avvocato democristiano che ne fu il primo punto di contatto, Umberto Ortolani. Con il Corriere sanguisuga, con gli interessi che corrono e con gli immobili di Ischia bloccati, Ortolani apparirà come una via d'uscita.
Da una parte permetterà la vendita del complesso alberghiero costruito dal Cummenda e dall'altra in una stanza dell'Excelsior di Roma presenterà Angelo e Tassan Din a Licio Gelli, gran maestro venerabile della P2. Sono gli anni della follia, le banche, soprattutto l'Ambrosiano di Calvi, iniziano ad aprire i cordoni della borsa. Di pari passo la Rizzoli, non paga della sua insicura situazione finanziaria, inizia una politica di espansione che alla fine si rivelò giovare solo all'aumento del potere interno di Tassan Din e degli uomini della P2.
La famiglia Rizzoli è ormai cotta, Andrea, il padre, sempre più distaccato e malato a Cap Ferrat, Angelo invischiato nella rete piduista, Alberto, con un piede già fuori dall'azienda di famiglia. Il colpo finale avverrà con il pagamento della quota Agnelli. Di quel superfluo 33 per cento del Corriere, che i Rizzoli si erano impegnati a comprare nel 1974 e che nel 1977 comportava un esborso di 22 miliardi.
Impegno maledetto, che aveva diviso la famiglia tre anni prima, e che soprattutto nessuno era più in grado di onorare. Tanto meno l'azienda che nel 1976 aveva chiuso il bilancio con 20 miliardi di perdite e 105 miliardi di prestiti bancari. La soluzione viene trovata da Gelli-Ortolani-Calvi: è la trappola. In buona sostanza il Banco Ambrosiano di Calvi fornisce alla Rizzoli 20 miliardi, sotto forma di un aumento di capitale. Ovviamente non lo fa gratis. Ottiene in cambio dai Rizzoli l'80 per cento delle quote del gruppo.
Come dire con 20 miliardi la P2 e l'Ambrosiano si portano a casa il primo gruppo editoriale italiano. Non è per la verità così semplice. Su questo pacchetto di azioni, la famiglia Rizzoli ha un diritto di riscatto dopo tre anni, al valore già fissato di 35 miliardi. I Rizzoli per pagare il debito agli Agnelli, ipotecano pesantemente le loro quote in azienda. È un continuo spostare in avanti il redde rationem.
Ricapitolando: nel 1974 comprano il Corriere. Ma si lasciano un debituccio con gli Agnelli, da saldare nel 1977. Dopo tre anni non sono più in grado di far fronte ai loro impegni con la famiglia torinese. E a questo punto cedono l'azienda, con l'arrière pensée di ricomprarla dopo alcuni anni. L'impegno originale di 14 miliardi è così lievitato a 35 e soprattutto la famiglia Rizzoli ha perso il controllo del gruppo. Rizzoli e Corriere della Sera vengono di fatto eterodirette, Tassan Din diventa direttore generale e il giovane Angelo prende il posto del padre, ma con scarsissimi poteri.
Ciò che nessuno sa all'esterno, il passaggio della maggioranza della Rizzoli a misteriosi investitori e la fine del potere della famiglia, in azienda si nota. Resta il problema di un gruppo che nonostante le sue dimensioni continua ad avere una posizione debitoria con le banche insopportabile. In questo contesto nasce il cosiddetto Pattone o il patto BLU (dalle iniziali dei nomi di chi lo pensa e lo sottoscrive Bruno Tassan Din, Licio Gelli e Umberto Ortolani).
L'accordo non comprende i Rizzoli, e come vedremo, fa scattare la molla della trappola. In una certa misura, soprattutto grazie alle dismissioni e alla possibilità concessa dalla politica di aumentare finalmente il prezzo dei quotidiani, le cose vanno migliorando dal punto di vista industriale. Ma non a sufficienza per ripianare i debiti e per fornire ai Rizzoli le risorse per riscattare la loro quota dell'80 per cento.
Il meccanismo che viene limato e limato alla fine prevede il solito aumento di capitale della Rizzoli: questa volta da 150 miliardi. In più la Centrale, braccio operativo dell'Ambrosiano, si comprerà alla luce del sole il 40 per cento della Rizzoli, fornendo così i quattrini ai Rizzoli sia per pagare i 35 miliardi necessari al riscatto del loro vecchio 80 per cento, sia per sottoscrivere pro quota l'aumento di capitale. Ebbene come si vedrà in seguito è la mossa che definitivamente inguaia la famiglia.
L'aumento di capitale si rivelerà un falso: non una lira entra in Rizzoli. Formalmente sembrerà tutto a posto: viene comunicato al pubblico e annotato in azienda. Si tratta di un complicato castelletto di menzogne, dove alla fine i quattrini che escono in effetti dall'Ambrosiano vanno a finire sui conti personali dei BLU. Una serie di manovre che vengono fatte proprio in coincidenza con l'emergere delle liste P2 e la conseguente fuga di Gelli.
Per i Rizzoli la storia in Rizzoli è finita. Angelo (insieme al fratello Alberto ormai da tempo fuori dal gruppo) fu sbattuto in galera e solo dopo 26 anni una sentenza della Cassazione lo ha riconosciuto definitivamente innocente rilevando come il crac, che poi è seguito, della casa editrice, sia stato cagionato tra l'altro da quest'ultimo clamoroso ladrocinio.
IL RITORNO DEGLI AGNELLI
La saga dei Rizzoli finisce dunque quando finalmente recuperano fisicamente l'80% delle azioni che erano state cedute tramite Calvi e di queste si gira il 40% alla Centrale. Si dovrà pazientare qualche giorno: le azioni erano finite in Vaticano (che per tutti quegli anni era stato dunque formalmente l'azionista occulto e di maggioranza della Rizzoli) nella cassaforte dello Ior: però il custode delle chiavi, il vice di Marcinkus, era in galera per l'affaire Sindona.
Questo era il pasticcio in cui si erano ficcati i nipoti del Cummenda. Quando il 7 agosto 1982 il ministero del Tesoro e la Banca d'Italia creano il Nuovo Banco Ambrosiano (Nba) che eredita attraverso la società Centrale anche il pacchetto del 40% di Rizzoli, i nodi vengono al pettine. Il nuovo presidente del Banco, Giovanni Bazoli, mette al muro il gruppo: chiede l'immediato rientro dei fidi, pari a 70 miliardi.
Ma nel frattempo sembra dimenticarsi che il Nba ha ereditato anche la Centrale con tutte le sue posizioni giuridiche. Tra cui un debito della Centrale (e dunque del Nba) di 150 miliardi mai onorati nei confronti sia del gruppo Rizzoli sia di Angelo, per l'aumento di capitale dell'81 sottoscritto ma mai versato. La Rizzoli in questo modo schizofrenico si vede contestati i propri debiti e non già riconosciuti i propri crediti. Sarà questo il centro dell'azione legale intrapresa in questi mesi da Angelo Rizzoli.
La società infatti in questo modo è cotta e finisce in amministrazione controllata e Angelo in galera per bancarotta fraudolenta, con la sua quota della Rizzoli (il 50,2%) sequestrata dai custodi giudiziari. Il teorema è semplice: Rizzoli ha occultato i quattrini che l'Ambrosiano ha versato in azienda dopo l'aumento di capitale. Falso, come dimostra una recente sentenza della Cassazione: quei miliardi non arrivarono mai sui conti Rizzoli, ma sui depositi esteri di BLU. Angelo ritorna libero nel 1984: la Rizzoli ha recuperato vigore ma è troppo tardi.
Il 4 ottobre del 1984 Angelo è di fatto obbligato a vendere la sua quota e dunque il Corriere della Sera a un gruppo di investitori che comprende la Fiat, Mediobanca, Montedison, l'industriale Arvedi e la finanziaria Mittel di Bazoli, per il prezzo scontato di 9 miliardi di lire. Facendo un conto un po' grossolano gli Agnelli avevano venduto nel 1974 un terzo del solo Corriere della Sera a una cifra tre volte superiore a quanto valesse dieci anni dopo l'intero gruppo Rizzoli.
Evidentemente il prezzo di vendita del gruppo nel 1984 era più che da saldo. Pier Domenico Gallo, all'epoca direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, nel bel libro Intesa San Paolo, si duole di questa vendita. «Conveniva, dal nostro punto di vista, convertire i debiti che Rizzoli aveva con il Banco in azioni... mi ero convinto che la Rizzoli potesse costituire un grande valore potenziale per Nba e per i suoi azionisti». Non gli fu permesso. In realtà le direttive del Cicr non permettevano alle banche di avere la proprietà di un quotidiano.
Regole che però valevano a corrente alternata: qualcuno si era dimenticato del Mattino in mano al Banco di Napoli. Senza considerare come queste stesse norme non furono evocate per la clamorosa presenza di Mediobanca nella cordata che poi sfilò il Corriere ai Rizzoli. Ma la verità è che evidentemente c'erano altri progetti.
Gallo si stupisce inoltre: «È abbastanza singolare pensare come in quel momento nessun gruppo imprenditoriale italiano, a parte la cordata Fiat-Mediobanca, capisse la bontà dell'affare facendo un'offerta formale alternativa». Entriamo in Rizzoli per disinfestarla, dirà l'avvocato Agnelli, a conclusione dell'affare. «Io - confida onestamente Gallo - e tutti quelli che avevano lavorato alla ripartenza della casa editrice negli ultimi due anni, consapevoli del grande affare fatto da Torino, fummo sconcertati e disturbati».
Un senso di sconcerto e di disturbo che oggi deve sentire a maggior ragione Angelone, Angelo jr, il figlio di Andrea, il nipote del grande Cummenda, solo a ripensare alla storia di questo clamoroso scippo.
[08-02-2010]
by dagospia
SEMPRE PIÙ CARO È QUELL’ERMO COLLE - NEL 2010 IL QUIRINALE SPENDERÀ 228 MLN €: CIRCA 60 MLN IN PIÙ RISPETTO A 10 ANNI FA – E QUEST’ANNO SONO PREVISTI CONCORSI PER INGAGGIARE NUOVO PERSONALE (NON NE BASTANO 1879) – IN FRANCIA SI SPENDONO SOLO 112 MLN PER 1000 PERSONE E IN UK 60 MLN CON 310 DIPENDENTI…
Andrea Scaglia per "Libero"
Ed eccoci qui, signore e signori, a presentare e commentare come ogni anno i numeri relativi alle spese direttamente o indirettamente legate al nostro primo cittadino per antonomasia, che poi è il presidente della Repubblica (più che altro nel senso d'istituzione, ovviamente). Un appuntamento fisso, che mai manca di strappare una smorfia d'istintivo e anche un po' populista fastidio. Intendiamoci, sarà pur vero - come sottolinea esultante la nota diffusa dal Quirinale - che il bilancio di previsione per il 2010 è in calo rispetto a quello degli ultimi anni, -3,5 milioni di euro se confrontato con il 2008, - 4,7 paragonandolo al 2007. E che anche il personale è diminuito.
montalcini al quirinale - Copyright Pizzi
E che, insomma, Napolitano e il suo entourage cercano di tener fede al progetto di riduzione dei costi, che peraltro negli anni avevano raggiunto livelli ingiustificabili e insopportabili. In ogni caso, sapere che la nota spese per il 2010 è stata impostata «sulla base di una richiesta di dotazione a carico del bilancio dello Stato pari a 228 milioni di euro», ecco, lascia comunque sbigottiti. Soprattutto considerando che nel 2000, il "carissimo Quirinale" - così era intitolato un servizio dell'Espresso dell'epoca - spendeva 264 miliardi di lire.
NAPOLITANO
Riconvertiti in euro, fanno 136 milioni 344mila e rotti. Poi bisogna però considerare l'inflazione, e allora l'equivalente attuale di quei 264 miliardi diventa 163 milioni e 272mila euro. Significa che in dieci anni il conto complessivo è comunque salito di quasi 65 milioni, euro più euro meno.
napolitano
CARRIERE DI CONCETTO
Si diceva del personale. Nella sua "nota di bilancio", il segretario generale del Quirinale Donato Marra spiega che sono 976, i "civili" impiegati al Colle e che evidentemente si dividono il lavoro fra Roma e le altre due sedi della presidenza della Repubblica, Castelporziano e Villa Rosebery di Napoli. Di questi 976 funzionari, 879 sono inquadrati come personale "di ruolo", mentre ci sono poi altre 97 persone fra personale "comandato" - cioè distaccato da altri enti - e a contratto.
Per quanto riguarda gli assunti, vengono fornite anche le specifiche: 74 appartenenti alla carriera direttiva, 109 alla carriera di concetto, 213 alla carriera esecutiva, 483 alla carriera ausiliaria. Come detto - e certo lasciando perdere la scontata ironia sulla carriera di concetto - viene rimarcato che, rispetto al dicembre 2006, la dotazione è diminuita di 108 unità. E va bene. Ma trattasi comunque di un migliaio di persone. Scusate se sembran troppe. E sembran troppe anche e soprattutto considerando che, a queste, va sommato il personale specificamente incaricato della sicurezza.
Ecco, qui si parla di altre 903 persone, fra militari e personale di Polizia. Compresi i 259 corazzieri, i mitici marcantoni da uno e novanta in su che vigilano sul palazzo e sul capo dello Stato. E comunque, anche qui è vero che nel corso del 2009 ne sono stati "tagliati" complessivamente una ventina, di addetti alla sicurezza. Ma resta il fatto che, sommando personale civile e militare, il Quirinale impiega complessivamente 1879 persone. Milleottocentosettantanove.
aud34 corazzieri
Cioè, dài, va bene che nei palazzi della presidenza della Repubblica ci sono da salvaguardare opere d'arte che son tesori dell'umanità e che anche la gestione amministrativa è diversamente impostata rispetto ad altre amministrazioni estere simili per grado e prestigio, e che insomma sarebbero impropri i confronti, concetto rimarcato ancora ieri dai funzionari quirinalizi.
Ma l'istintivo e un po' populista fastidio riappare comunque, nel ricordare che la presidenza francese spende 112,3 milioni di euro l'anno, impiegando 1.031 persone (359 per la sicurezza). E che la monarchia d'Inghilterra - che il bilancio annuale diffonde con ogni genere di specifica - di milioni ne spende una sessantina l'anno, con 310 dipendenti. Trattasi peraltro di paragoni già sentiti e strasentiti, ma fan sempre effetto. Anche perché la differenza resta paradossale.
DONATO MARRA
ORGANICO «SOFFERENTE»
E c'è sempre questa smorfia di fastidio populista che viene e va. Molto precisa è infatti la presidenza della Repubblica nel sottolineare ancora che «il personale complessivamente a disposizione dell'ammini - strazione si è ridotto rispetto al 31 dicembre 2006 di ben 302 unità». Ma l'espressione di compiacimento si trasforma in perplessa nell'ap - prendere, immediatamente dopo, che «il processo di riduzione del personale di ruolo non può proseguire indefinitamente», e che già oggi «i posti vacanti ammontano a 264», e che accidenti «iniziano a manifestarsi sofferenze in alcuni comparti».
E dunque, «si procederà nel corso del 2010 a un'attenta verifica dei fabbisogni, che verranno coperti attraverso un limitato e mirato programma di concorsi pubblici». Cioè: il Quirinale torna ad assumere. Regolarmente, con tutti i crismi e i concorsi e i controlli e quant'altro, ne siamo certi, ma comunque imbarca altre persone. Quasi duemila cristiani a disposizione, e si manifestano «sofferenze». Un'ultima cosa. Sempre dalla nota quirinalizia, s'apprende che «per la naturale dinamica dei pensionamenti » nel 2010 salirà la spesa per pagare le pensioni di chi al Quirinale ha lavorato in passato.
Si parla di 83 milioni di euro, che corrisponde al 35,1 per cento del bilancio complessivo. «Deve dunque rilevarsi - così scrivono i funzionari del Colle - che ben più di un terzo della spesa complessiva è assorbito dalla corresponsione di trattamenti pensionistici anche risalenti nel tempo». Giusto. Ma, a forza di assumere, tal problema non può che perpetuarsi. Con tanti saluti ai buoni propositi.
[08-02-2010]
by dagospia
Ed eccoci qui, signore e signori, a presentare e commentare come ogni anno i numeri relativi alle spese direttamente o indirettamente legate al nostro primo cittadino per antonomasia, che poi è il presidente della Repubblica (più che altro nel senso d'istituzione, ovviamente). Un appuntamento fisso, che mai manca di strappare una smorfia d'istintivo e anche un po' populista fastidio. Intendiamoci, sarà pur vero - come sottolinea esultante la nota diffusa dal Quirinale - che il bilancio di previsione per il 2010 è in calo rispetto a quello degli ultimi anni, -3,5 milioni di euro se confrontato con il 2008, - 4,7 paragonandolo al 2007. E che anche il personale è diminuito.
montalcini al quirinale - Copyright Pizzi
E che, insomma, Napolitano e il suo entourage cercano di tener fede al progetto di riduzione dei costi, che peraltro negli anni avevano raggiunto livelli ingiustificabili e insopportabili. In ogni caso, sapere che la nota spese per il 2010 è stata impostata «sulla base di una richiesta di dotazione a carico del bilancio dello Stato pari a 228 milioni di euro», ecco, lascia comunque sbigottiti. Soprattutto considerando che nel 2000, il "carissimo Quirinale" - così era intitolato un servizio dell'Espresso dell'epoca - spendeva 264 miliardi di lire.
NAPOLITANO
Riconvertiti in euro, fanno 136 milioni 344mila e rotti. Poi bisogna però considerare l'inflazione, e allora l'equivalente attuale di quei 264 miliardi diventa 163 milioni e 272mila euro. Significa che in dieci anni il conto complessivo è comunque salito di quasi 65 milioni, euro più euro meno.
napolitano
CARRIERE DI CONCETTO
Si diceva del personale. Nella sua "nota di bilancio", il segretario generale del Quirinale Donato Marra spiega che sono 976, i "civili" impiegati al Colle e che evidentemente si dividono il lavoro fra Roma e le altre due sedi della presidenza della Repubblica, Castelporziano e Villa Rosebery di Napoli. Di questi 976 funzionari, 879 sono inquadrati come personale "di ruolo", mentre ci sono poi altre 97 persone fra personale "comandato" - cioè distaccato da altri enti - e a contratto.
Per quanto riguarda gli assunti, vengono fornite anche le specifiche: 74 appartenenti alla carriera direttiva, 109 alla carriera di concetto, 213 alla carriera esecutiva, 483 alla carriera ausiliaria. Come detto - e certo lasciando perdere la scontata ironia sulla carriera di concetto - viene rimarcato che, rispetto al dicembre 2006, la dotazione è diminuita di 108 unità. E va bene. Ma trattasi comunque di un migliaio di persone. Scusate se sembran troppe. E sembran troppe anche e soprattutto considerando che, a queste, va sommato il personale specificamente incaricato della sicurezza.
Ecco, qui si parla di altre 903 persone, fra militari e personale di Polizia. Compresi i 259 corazzieri, i mitici marcantoni da uno e novanta in su che vigilano sul palazzo e sul capo dello Stato. E comunque, anche qui è vero che nel corso del 2009 ne sono stati "tagliati" complessivamente una ventina, di addetti alla sicurezza. Ma resta il fatto che, sommando personale civile e militare, il Quirinale impiega complessivamente 1879 persone. Milleottocentosettantanove.
aud34 corazzieri
Cioè, dài, va bene che nei palazzi della presidenza della Repubblica ci sono da salvaguardare opere d'arte che son tesori dell'umanità e che anche la gestione amministrativa è diversamente impostata rispetto ad altre amministrazioni estere simili per grado e prestigio, e che insomma sarebbero impropri i confronti, concetto rimarcato ancora ieri dai funzionari quirinalizi.
Ma l'istintivo e un po' populista fastidio riappare comunque, nel ricordare che la presidenza francese spende 112,3 milioni di euro l'anno, impiegando 1.031 persone (359 per la sicurezza). E che la monarchia d'Inghilterra - che il bilancio annuale diffonde con ogni genere di specifica - di milioni ne spende una sessantina l'anno, con 310 dipendenti. Trattasi peraltro di paragoni già sentiti e strasentiti, ma fan sempre effetto. Anche perché la differenza resta paradossale.
DONATO MARRA
ORGANICO «SOFFERENTE»
E c'è sempre questa smorfia di fastidio populista che viene e va. Molto precisa è infatti la presidenza della Repubblica nel sottolineare ancora che «il personale complessivamente a disposizione dell'ammini - strazione si è ridotto rispetto al 31 dicembre 2006 di ben 302 unità». Ma l'espressione di compiacimento si trasforma in perplessa nell'ap - prendere, immediatamente dopo, che «il processo di riduzione del personale di ruolo non può proseguire indefinitamente», e che già oggi «i posti vacanti ammontano a 264», e che accidenti «iniziano a manifestarsi sofferenze in alcuni comparti».
E dunque, «si procederà nel corso del 2010 a un'attenta verifica dei fabbisogni, che verranno coperti attraverso un limitato e mirato programma di concorsi pubblici». Cioè: il Quirinale torna ad assumere. Regolarmente, con tutti i crismi e i concorsi e i controlli e quant'altro, ne siamo certi, ma comunque imbarca altre persone. Quasi duemila cristiani a disposizione, e si manifestano «sofferenze». Un'ultima cosa. Sempre dalla nota quirinalizia, s'apprende che «per la naturale dinamica dei pensionamenti » nel 2010 salirà la spesa per pagare le pensioni di chi al Quirinale ha lavorato in passato.
Si parla di 83 milioni di euro, che corrisponde al 35,1 per cento del bilancio complessivo. «Deve dunque rilevarsi - così scrivono i funzionari del Colle - che ben più di un terzo della spesa complessiva è assorbito dalla corresponsione di trattamenti pensionistici anche risalenti nel tempo». Giusto. Ma, a forza di assumere, tal problema non può che perpetuarsi. Con tanti saluti ai buoni propositi.
[08-02-2010]
by dagospia
sabato 6 febbraio 2010
ALLEGRIA! PROIBITO PUBBLICARE LE FOTO DELLA TULLIANI CON L'EX LUCIANONE GAUCCI! - IN QUESTE ORE VARI BLOGGER SONO STATI RAGGIUNTI DA UNA MAIL DELL’AVVOCATO DI ELI - PUR NON ESSENDO ANCORA CONIUGATA SIGNORA FINI, IL PESO DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA (DEL SUO APPARTAMENTO) SI SENTE ED ECCOME: 'MENEFRIGO' FINI CHIEDE ED OTTIENE DAL GALANTE GARANTE DELLA PRIVACY UNA DECISIONE CHE HA DELL'INCREDIBILE - IL GARANTE, PUR RICONOSCENDO CHE SI TRATTA DI PERSONAGGI PUBBLICI E CHE PERTANTO LA DIFFUSIONE DELLE IMMAGINI È LECITA, INVOCA IL DIRITTO ALL'OBLIO DELLA TULLIANI (SIC!) E TROVA IL PUNTO DI BILANCIAMENTO TRA IL DIRITTO DI INFORMAZIONE E IL DIRITTO DI RISERVATEZZA NEL NON RENDERE PIÙ INDICIZZABILE LE FOTO IN QUESTIONE
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Federico Mello per Il fatto Quotidiano
1 - L'AVVOCATO CHIEDE AL BLOG DI RIMUOVERE LE IMMAGINI
Era stata una delle cause della quasi-rottura tra Silvio Berlusconi e Ginafranco Fini nel 2007: la messa in onda, da parte di Striscia la Notizia, di un vecchio video in cui la neo-compagna di Fini Elisabetta Tulliani passeggiava con il suo ex compagno Luciano Gaucci.
pizzi02 elisabetta tulliani luciano gaucci
Adesso si torna a parlare di quella vecchia relazione: vari blogger sono stati raggiunti da una mail dell'avvocato della Tulliani: "In forza del provvedimento del Garante per la Protezione dei dati personali - scrive il legale - Vi chiedo di voler provvedere a non rendere più indicizzabile attraverso i motori di ricerca, notizie ed immagini riguardanti la mia Assistita con riferimento alla sua trascorsa relazione sentimentale con il sig. Gaucci". Hanno cinque giorni di tempo.
pizzi06 gaucci tulliani FINI E TULLIANI AL MARE - CHI
2 - STUDIO LEGALE GIORDANO & PARTNERS
CONSULENZA ED ASSISTENZA LEGALE, COMMERCIALE E FINANZIARIA
Egregi Signori,
formo la presente a nome e per conto della mia cliente, sig.ra Elisabetta Tulliani, per comunicare quanto segue.
Con provvedimento in data 24.12.2009, l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, ha accolto il reclamo presentato dalla mia Assistita, la quale lamentava la circostanza che nella rete risultassero ancora facilmente reperibili - tramite i motori di ricerca - notizie ed immagini attinenti alle sue vicende personali / sentimentali risalenti nel tempo, con conseguente violazione della sua privacy.
Da una ricerca effettuata è emerso che è possibile risalire, grazie all'indicizzazione dei motori di ricerca, al Vostro sito sul quale appaiono le notizie /immagini, in questione .
In forza del provvedimento del Garante (che si unisce alla presente per Vostra opportuna conoscenza) - Vi chiedo di voler provvedere a non rendere più indicizzabile attraverso i motori di ricerca, notizie ed immagini riguardanti la mia Assistita con riferimento alla sua trascorsa relazione sentimentale con il sig. Gaucci.
Vogliate darmi cortese conferma di aver provveduto in tal senso, entro e non oltre il termine perentorio di cinque giorni dalla data di ricevimento della presente.
In difetto, Vi comunico che mi vedrò costretto a tutelare i legittimi interessi della mia Cliente nelle più opportune sedi.
Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani al SenatoFINI E TULLIANI AL MARE - CHI
Nel contempo, questa stessa è riferita in indirizzo per conoscenza anche agli Uffici competenti della Polizia Postale.
Per conto di questo Studio Legale, agisce il dott. Christian D'Inzeo ed il dott. Michele Parisi, che direttamente Vi rappresentano la esposta istanza anche con la finalità di supportarVi nell'attività tecnica di archiviazione dei dati riferita alla sig.ra Tulliani.
Certo di una Vostra fattiva collaborazione, con l'occasione, invio cordiali saluti
Avv. Michele Giordano
[06-02-2010]
mntctro08 fini tullianitrtprsrl30 gianfranco fini elisabetta tullianifini tulliani 4 5 CHI2008NV2000 fini tulliani mare erezione2fini tulliani 2 3 CHI2008cmplalmnn32 fini tullianicmplalmnn04 fini tullianiisrlrm31 tulliani fini fiamma nirensteinFINI E TULLIANI IN CINTA - CHI.Fini e Tullianirep05 gianfranco fini tulliani subrep03 gianfranco fini tulliani sub
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by dagospia
Federico Mello per Il fatto Quotidiano
1 - L'AVVOCATO CHIEDE AL BLOG DI RIMUOVERE LE IMMAGINI
Era stata una delle cause della quasi-rottura tra Silvio Berlusconi e Ginafranco Fini nel 2007: la messa in onda, da parte di Striscia la Notizia, di un vecchio video in cui la neo-compagna di Fini Elisabetta Tulliani passeggiava con il suo ex compagno Luciano Gaucci.
pizzi02 elisabetta tulliani luciano gaucci
Adesso si torna a parlare di quella vecchia relazione: vari blogger sono stati raggiunti da una mail dell'avvocato della Tulliani: "In forza del provvedimento del Garante per la Protezione dei dati personali - scrive il legale - Vi chiedo di voler provvedere a non rendere più indicizzabile attraverso i motori di ricerca, notizie ed immagini riguardanti la mia Assistita con riferimento alla sua trascorsa relazione sentimentale con il sig. Gaucci". Hanno cinque giorni di tempo.
pizzi06 gaucci tulliani FINI E TULLIANI AL MARE - CHI
2 - STUDIO LEGALE GIORDANO & PARTNERS
CONSULENZA ED ASSISTENZA LEGALE, COMMERCIALE E FINANZIARIA
Egregi Signori,
formo la presente a nome e per conto della mia cliente, sig.ra Elisabetta Tulliani, per comunicare quanto segue.
Con provvedimento in data 24.12.2009, l'Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, ha accolto il reclamo presentato dalla mia Assistita, la quale lamentava la circostanza che nella rete risultassero ancora facilmente reperibili - tramite i motori di ricerca - notizie ed immagini attinenti alle sue vicende personali / sentimentali risalenti nel tempo, con conseguente violazione della sua privacy.
Da una ricerca effettuata è emerso che è possibile risalire, grazie all'indicizzazione dei motori di ricerca, al Vostro sito sul quale appaiono le notizie /immagini, in questione .
In forza del provvedimento del Garante (che si unisce alla presente per Vostra opportuna conoscenza) - Vi chiedo di voler provvedere a non rendere più indicizzabile attraverso i motori di ricerca, notizie ed immagini riguardanti la mia Assistita con riferimento alla sua trascorsa relazione sentimentale con il sig. Gaucci.
Vogliate darmi cortese conferma di aver provveduto in tal senso, entro e non oltre il termine perentorio di cinque giorni dalla data di ricevimento della presente.
In difetto, Vi comunico che mi vedrò costretto a tutelare i legittimi interessi della mia Cliente nelle più opportune sedi.
Gianfranco Fini ed Elisabetta Tulliani al SenatoFINI E TULLIANI AL MARE - CHI
Nel contempo, questa stessa è riferita in indirizzo per conoscenza anche agli Uffici competenti della Polizia Postale.
Per conto di questo Studio Legale, agisce il dott. Christian D'Inzeo ed il dott. Michele Parisi, che direttamente Vi rappresentano la esposta istanza anche con la finalità di supportarVi nell'attività tecnica di archiviazione dei dati riferita alla sig.ra Tulliani.
Certo di una Vostra fattiva collaborazione, con l'occasione, invio cordiali saluti
Avv. Michele Giordano
[06-02-2010]
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"IO LA FIAT LA CONOSCEVO BENE" - MARCO BENEDETTO RICORDA: "I rapporti tra Stato e Fiat sono sempre stati complessi I democristiani erano convinti, sbagliando, che Agnelli fosse il vero proprietario dell’Espresso, attraverso Caracciolo - la marcia dei 40.000 - fu un’azione voluta da Ghidella, con Annibaldi e Callieri, poi il merito se lo prese Romiti - - LA FIAT Non è più un mito"....
Marco Ferrante per "Il Riformista"
Mario Pirani e Marco Benedetto - Copyright Pizzi
Dice Marco Benedetto, già amministratore delegato della Stampa e del gruppo l'Espresso, il quale nelle sue molte vite è stato anche capo ufficio stampa della Fiat dal 1976 al 1981 che non sa se l'iniziativa di Sergio Marchionne disposto a dire no agli incentivi segnerà una svolta epocale:
«Ma nella storia della Fiat non è la prima volta che il gruppo torinese si tiri fuori da una situazione difficile senza aiuti. È già successo nel 1980 con la marcia dei 40.000». Benedetto era un uno degli uomini della prima linea Fiat di quel momento, «fu un'azione voluta da Ghidella, con Annibaldi e Callieri, poi il merito se lo prese Romiti».
Marco Benedetto
I rapporti tra Stato e Fiat sono sempre stati complessi. «E' vero - dice che il fatto che la Fiat abbia superato l'attacco dei giapponesi negli anni Settanta e Ottanta fu dovuto a norme protezioniste, che peraltro costarono alla Fiat una perdita di capacità concorrenziale. Ma il modo in cui lo Stato si occupava della Fiat era schizofrenico, disordinato, e anche punitivo.
y can31 carlo callieri
La Fiat era ricca e monopolista e l'auto era un settore da spremere. Il bollo come nuovo macinato, secondo Nicola Tufarelli, capo dell'auto prima di Ghidella. Era un rapporto conflittuale. A un certo punto, con l'inflazione molto alta, il governo bloccò il prezzo di vendita delle auto per un paio d'anni. C'era di mezzo un po' di politica. I democristiani erano convinti, sbagliando, che Agnelli fosse il vero proprietario dell'Espresso, attraverso Caracciolo».
npra37 monica annibaldi filippo del drago
Se Benedetto dicesse queste cose in un'assemblea di piccoli imprenditori del nord-est, non sarebbe accolto con pacche sulle spalle. Benedetto osserva: «Infatti io non sono in un'assemblea del nord est, e comunque farei notare che persino la marcia dei quarantamila che cambiò la storia delle relazioni industriali - cioè la cornice in cui si organizza un sistema economico, fu ostacolata dal ministro del lavoro democristiano, Franco Foschi, il quale stava dalla parte del sindacato».
UNA QUASI BOTTA DI SONNO PER CESARIONE ROMITI agnelli gianni7
Al momento in cui trascriviamo la conversazione il giornale telematico di Benedetto, Blitzquotidiano, non dà molto credito alla storia della fine degli incentivi, terza notizia di economia. La sua opinione e che per adesso «è solo un rapporto dialettico, negoziale, il governo ce l'ha con la Fiat perché la Fiat bulleggia. D'altro canto la questione Termini Imerese da cui è nata la discussione sugli incentivi è cominciata non ora, ma un anno fa con l'operazione Chrysler. Era chiaro che sarebe andata a finire così, ma il governo non c'era, non ha seguito la crisi del settore auto con la stessa attenzione per gli stabilimenti nazionali della Merkel o di Sarkozy».
Come le sembra la relazione tra la Fiat e l'Italia? «Meno penetrante di com'era vent'anni fa. Non è più un mito. Quando venni a Roma per la campagna elettorale di Umberto Agnelli la gente pensava che la Fiat fosse la luna».
[05-02-2010]
by dagospia
Mario Pirani e Marco Benedetto - Copyright Pizzi
Dice Marco Benedetto, già amministratore delegato della Stampa e del gruppo l'Espresso, il quale nelle sue molte vite è stato anche capo ufficio stampa della Fiat dal 1976 al 1981 che non sa se l'iniziativa di Sergio Marchionne disposto a dire no agli incentivi segnerà una svolta epocale:
«Ma nella storia della Fiat non è la prima volta che il gruppo torinese si tiri fuori da una situazione difficile senza aiuti. È già successo nel 1980 con la marcia dei 40.000». Benedetto era un uno degli uomini della prima linea Fiat di quel momento, «fu un'azione voluta da Ghidella, con Annibaldi e Callieri, poi il merito se lo prese Romiti».
Marco Benedetto
I rapporti tra Stato e Fiat sono sempre stati complessi. «E' vero - dice che il fatto che la Fiat abbia superato l'attacco dei giapponesi negli anni Settanta e Ottanta fu dovuto a norme protezioniste, che peraltro costarono alla Fiat una perdita di capacità concorrenziale. Ma il modo in cui lo Stato si occupava della Fiat era schizofrenico, disordinato, e anche punitivo.
y can31 carlo callieri
La Fiat era ricca e monopolista e l'auto era un settore da spremere. Il bollo come nuovo macinato, secondo Nicola Tufarelli, capo dell'auto prima di Ghidella. Era un rapporto conflittuale. A un certo punto, con l'inflazione molto alta, il governo bloccò il prezzo di vendita delle auto per un paio d'anni. C'era di mezzo un po' di politica. I democristiani erano convinti, sbagliando, che Agnelli fosse il vero proprietario dell'Espresso, attraverso Caracciolo».
npra37 monica annibaldi filippo del drago
Se Benedetto dicesse queste cose in un'assemblea di piccoli imprenditori del nord-est, non sarebbe accolto con pacche sulle spalle. Benedetto osserva: «Infatti io non sono in un'assemblea del nord est, e comunque farei notare che persino la marcia dei quarantamila che cambiò la storia delle relazioni industriali - cioè la cornice in cui si organizza un sistema economico, fu ostacolata dal ministro del lavoro democristiano, Franco Foschi, il quale stava dalla parte del sindacato».
UNA QUASI BOTTA DI SONNO PER CESARIONE ROMITI agnelli gianni7
Al momento in cui trascriviamo la conversazione il giornale telematico di Benedetto, Blitzquotidiano, non dà molto credito alla storia della fine degli incentivi, terza notizia di economia. La sua opinione e che per adesso «è solo un rapporto dialettico, negoziale, il governo ce l'ha con la Fiat perché la Fiat bulleggia. D'altro canto la questione Termini Imerese da cui è nata la discussione sugli incentivi è cominciata non ora, ma un anno fa con l'operazione Chrysler. Era chiaro che sarebe andata a finire così, ma il governo non c'era, non ha seguito la crisi del settore auto con la stessa attenzione per gli stabilimenti nazionali della Merkel o di Sarkozy».
Come le sembra la relazione tra la Fiat e l'Italia? «Meno penetrante di com'era vent'anni fa. Non è più un mito. Quando venni a Roma per la campagna elettorale di Umberto Agnelli la gente pensava che la Fiat fosse la luna».
[05-02-2010]
by dagospia
DI PIETRO E IL SUO DOPPIO – L’EX SINDACO DI MILANO E COGNATO DI CRAXI PAOLO PILLITTERI RICORDA IL TONINO DELLA MILANO DA BERE: "faceva l'amicone in un gruppo di persone per infiltrarsi, frequentandoli in cene conviviali, in salotti, a casa sua ecc. Dopodichè cominciava a prender le "misure per qualcuno" – “TROPPE VOLTE HA DATO L'IMPRESSIONE DI COMPORTARSI COME UN AGENTE - E' COME UN ROBOT TELEGUIDATO. MA ANCHE I ROBOT, QUANDO NON SERVONO PIÙ, FINISCONO NELLE DISCARICHE”…
Paolo Pillitteri per "l'Opinione", in edicola domani
PILLITTERI
La famosa fotografia in prima pagina sul "Corrierone" non è la semplice istantanea di una cena conviviale: è un racconto, una narrazione, una storia che, da sola, illumina la vicenda che va sotto il nome di "Mani pulite", la falsa rivoluzione incarnata dall'eroico Pm (delle manette).
Costui ha sempre avuto intorno a sé, sull'abbrivio dell'inchiesta che si giovava di un impressionante fuoco di sbarramento mediatico giudiziario a proprio favore, un doppio alone: dell'eroe chiamato a fare pulizia e del personaggio ambiguo e doppiogiochista con tendenze ai giochi sporchi e con dietro qualche burattinaio.
Per questo la fotografia del "Corriere" parla da sola e racconta il doppio Di Pietro, il Pm amico degli agenti segreti italiani e americani in una comunità d'intenti, al di là della cena, che manifesta una comune professione da nascondere.
dipietro contrada
Troppe volte il Pm ha dato più che l'impressione, la certezza di comportarsi come un agente, non della Ps, ma di qualche Servizio Segreto sia nei suoi viaggi all'estero, sia nelle sue frequentazioni, sia nel fare "bassi" servizi per qualcuno sotto il sole dei Tropici sia nei diversi comportamenti in quella che "dopo" chiamò sprezzantemente Milano da bere, ma che "prima" amava frequentare, ne conosceva la piacevole way of life con tanto di fringe benefits, ne praticava i vizi e le virtù.
Tecnicamente: faceva l'amicone in un gruppo di persone per infiltrarsi, frequentandoli in cene conviviali, in salotti, a casa sua ecc. Dopodichè cominciava a prender le "misure per qualcuno", un lavoro che comprendeva la richiesta di favori, di case, di introduzioni, di segnalazioni e promozioni di amici importanti nel settore dei Servizi Segreti (erano il suo debole) che, talvolta, avevano come contropartita delle problematiche connesse all'ambito giudiziario.
La sua disponibilità esprimeva una spergiurata lealtà che menti un po' più raffinate avrebbero catalogato sotto la voce: falsi d'autori, e del resto, l'agente infiltrato sorprende e colpisce proprio quelli che ha fatto diventare amici in virtù di un'arte affabulatoria funzionale a scambi vicendevoli ma anche a tradimenti repentini, trasformando gli amici in vittime, quando accorgersene è troppo tardi.
Craxi
Diventato l'eroe manettifero col coro assordante dei mozzorecchi, proclamava di non guardare in faccia a nessuno perchè applicava la legge. Mentiva: perchè alcuni furono dannati da lui, altri salvati. Per questo fallì "Mani pulite". Quanto alla legge, aveva certamente il potere di applicarla, ma arbitrariamente, il che terrorizzava tutti, compresi certi giudici.
Ciò che emerge oggi, anche al di fuori del perimetro della fotografia, è una puntuale conferma della sua natura per così dire doppia, a parte il fatto che molte delle cose che si dicono oggi erano state dette molti, molti anni fa quando, però, venivano silenziate dal superomismo di questo funzionario dello stato, diventato il paravento dietro cui annientare un'intera classe dirigente per regalare il paese ai Poteri Forti antipolitici che se lo sono mangiato a pezzi e a bocconi.
DIPIETRO GIOVANE
Ciò che sta venendo alla luce, conferma una costante del suo comportamento: fare del male agli amici, abbandonarli nel momento del bisogno, lasciandoli al lor destino. Era lo stesso comportamento tenuto quindici anni prima, contro alcuni suoi amici personali, imprenditori, costruttori, funzionari dello stato da lui traditi e finiti, grazie al suo contributo determinante, in rovina se non alla morte.
E oggi? Beh, non è un caso la sua rottura con l'amico e sodale Elio Veltri (per ragioni di fondi) e quella con l'avvocato Di Domenico, l'amico del cuore col quale scrisse lo statuto dell'Italia dei valori, ma finendo espulso da questa strana associazione triproprietaria che accumula un catasto a gestione privatissima coi fondi pubblici.
9be 16 elio veltri
Agente doppio, o triplo, infiltrato, burattino? I dubbi sono pochi. E le sue reazioni di queste ore ne tradiscono il nervosismo perché si tenta di puntare i riflettori (finalmente) sulla zona grigia in cui è cresciuto e si è mosso. Non avremo da lui nessuna ammissione, nessun pentimento, soprattutto, nessun sentimento, che è tipico degli spioni al servizio di questo o di quello.
Né avrà grane dai suoi giudici, essendo ormai evidente l'appartenenza alla dimensioni dei grandi misteri del nostro tempo, come quelli imperscrutabili di Fatima, l'essersela cavata in una sessantina di procedimenti penali, come scrive l'ottimo Facci, e in una quasi ventina, come ha ammesso lui, contro Di Domenico.
Infine, chi fa quella sua professione borderline non ha tempo per i sentimenti, non ha reazioni umane, non è strutturato per ammettere la propria natura "doppia", non può dire chi è. E' come un robot teleguidato. Anche i robot, quando non servono più, finiscono nelle discariche.
[04-02-2010]
by dagospia
PILLITTERI
La famosa fotografia in prima pagina sul "Corrierone" non è la semplice istantanea di una cena conviviale: è un racconto, una narrazione, una storia che, da sola, illumina la vicenda che va sotto il nome di "Mani pulite", la falsa rivoluzione incarnata dall'eroico Pm (delle manette).
Costui ha sempre avuto intorno a sé, sull'abbrivio dell'inchiesta che si giovava di un impressionante fuoco di sbarramento mediatico giudiziario a proprio favore, un doppio alone: dell'eroe chiamato a fare pulizia e del personaggio ambiguo e doppiogiochista con tendenze ai giochi sporchi e con dietro qualche burattinaio.
Per questo la fotografia del "Corriere" parla da sola e racconta il doppio Di Pietro, il Pm amico degli agenti segreti italiani e americani in una comunità d'intenti, al di là della cena, che manifesta una comune professione da nascondere.
dipietro contrada
Troppe volte il Pm ha dato più che l'impressione, la certezza di comportarsi come un agente, non della Ps, ma di qualche Servizio Segreto sia nei suoi viaggi all'estero, sia nelle sue frequentazioni, sia nel fare "bassi" servizi per qualcuno sotto il sole dei Tropici sia nei diversi comportamenti in quella che "dopo" chiamò sprezzantemente Milano da bere, ma che "prima" amava frequentare, ne conosceva la piacevole way of life con tanto di fringe benefits, ne praticava i vizi e le virtù.
Tecnicamente: faceva l'amicone in un gruppo di persone per infiltrarsi, frequentandoli in cene conviviali, in salotti, a casa sua ecc. Dopodichè cominciava a prender le "misure per qualcuno", un lavoro che comprendeva la richiesta di favori, di case, di introduzioni, di segnalazioni e promozioni di amici importanti nel settore dei Servizi Segreti (erano il suo debole) che, talvolta, avevano come contropartita delle problematiche connesse all'ambito giudiziario.
La sua disponibilità esprimeva una spergiurata lealtà che menti un po' più raffinate avrebbero catalogato sotto la voce: falsi d'autori, e del resto, l'agente infiltrato sorprende e colpisce proprio quelli che ha fatto diventare amici in virtù di un'arte affabulatoria funzionale a scambi vicendevoli ma anche a tradimenti repentini, trasformando gli amici in vittime, quando accorgersene è troppo tardi.
Craxi
Diventato l'eroe manettifero col coro assordante dei mozzorecchi, proclamava di non guardare in faccia a nessuno perchè applicava la legge. Mentiva: perchè alcuni furono dannati da lui, altri salvati. Per questo fallì "Mani pulite". Quanto alla legge, aveva certamente il potere di applicarla, ma arbitrariamente, il che terrorizzava tutti, compresi certi giudici.
Ciò che emerge oggi, anche al di fuori del perimetro della fotografia, è una puntuale conferma della sua natura per così dire doppia, a parte il fatto che molte delle cose che si dicono oggi erano state dette molti, molti anni fa quando, però, venivano silenziate dal superomismo di questo funzionario dello stato, diventato il paravento dietro cui annientare un'intera classe dirigente per regalare il paese ai Poteri Forti antipolitici che se lo sono mangiato a pezzi e a bocconi.
DIPIETRO GIOVANE
Ciò che sta venendo alla luce, conferma una costante del suo comportamento: fare del male agli amici, abbandonarli nel momento del bisogno, lasciandoli al lor destino. Era lo stesso comportamento tenuto quindici anni prima, contro alcuni suoi amici personali, imprenditori, costruttori, funzionari dello stato da lui traditi e finiti, grazie al suo contributo determinante, in rovina se non alla morte.
E oggi? Beh, non è un caso la sua rottura con l'amico e sodale Elio Veltri (per ragioni di fondi) e quella con l'avvocato Di Domenico, l'amico del cuore col quale scrisse lo statuto dell'Italia dei valori, ma finendo espulso da questa strana associazione triproprietaria che accumula un catasto a gestione privatissima coi fondi pubblici.
9be 16 elio veltri
Agente doppio, o triplo, infiltrato, burattino? I dubbi sono pochi. E le sue reazioni di queste ore ne tradiscono il nervosismo perché si tenta di puntare i riflettori (finalmente) sulla zona grigia in cui è cresciuto e si è mosso. Non avremo da lui nessuna ammissione, nessun pentimento, soprattutto, nessun sentimento, che è tipico degli spioni al servizio di questo o di quello.
Né avrà grane dai suoi giudici, essendo ormai evidente l'appartenenza alla dimensioni dei grandi misteri del nostro tempo, come quelli imperscrutabili di Fatima, l'essersela cavata in una sessantina di procedimenti penali, come scrive l'ottimo Facci, e in una quasi ventina, come ha ammesso lui, contro Di Domenico.
Infine, chi fa quella sua professione borderline non ha tempo per i sentimenti, non ha reazioni umane, non è strutturato per ammettere la propria natura "doppia", non può dire chi è. E' come un robot teleguidato. Anche i robot, quando non servono più, finiscono nelle discariche.
[04-02-2010]
by dagospia
storico fascista renzo de felice
Renzo De Felice
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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Renzo De Felice (a destra) con l'editore Vito Laterza.
Renzo De Felice (Rieti, 8 aprile 1929 – Roma, 25 maggio 1996) è stato uno storico italiano, considerato a livello internazionale il massimo esperto del fascismo,[1] allo studio del quale si dedicò sin dal 1960 e fino all'anno della sua morte.
Indice
[nascondi]
* 1 La vita e la carriera accademica
* 2 Gli studi
* 3 La polemica sul Revisionismo
* 4 Le opere
* 5 Note
* 6 Bibliografia
* 7 Altri progetti
* 8 Collegamenti esterni
La vita e la carriera accademica [modifica]
Laureatosi nel 1955-1956 con Federico Chabod, ottenne nello stesso anno una borsa di studio presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce e diretto dallo stesso Chabod.
Iscritto al PCI, nel 1956 fu tra i firmatari del celebre Manifesto dei 101, sottoscritto da intellettuali dissenzienti verso l'appoggio dato dal partito all'invasione sovietica dell'Ungheria. Insieme a molti dei firmatari del manifesto, De Felice lasciò il PCI per iscriversi al Partito Socialista Italiano.
Ottenuto l'incarico di professore ordinario presso l'Università di Salerno dal 1968 al 1971, De Felice fondò nel 1970 la rivista Storia Contemporanea edita da Il Mulino. Nel 1972 si trasferì presso l'Università La Sapienza di Roma, ove insegnò Storia dei partiti politici alla facoltà di Lettere e poi, dal 1979, presso quella di Scienze politiche; infine, nel 1986, passò a occupare la cattedra di Storia contemporanea.
Ha fatto parte del consiglio editoriale del Journal of Contemporary History.
Gli studi [modifica]
I suoi studi, indirizzati inizialmente verso la storia moderna, si concentrarono poi su quella contemporanea (gli ebrei sotto il fascismo) e, da tale filone, scaturì l'interesse che contraddistinse più marcatamente la sua carriera di storico e che lo propose spesso all'attenzione del grande pubblico: la storia della dittatura fascista.
L'interpretazione che De Felice dà del fascismo si articola su tre temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la distinzione fra il "fascismo movimento" e il "fascismo regime", la realizzazione di un consenso determinante a garantire stabilità e successo al regime fascista.
Al di là degli elogi e delle critiche, l'interpretazione che De Felice offre del fascismo e della dittatura mussoliniana ha comunque il merito di aver suscitato una nuova stagione di studi e riflessioni sul fascismo.
La polemica sul Revisionismo [modifica]
Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la storiografia e la cultura italiane erano divise da barriere ancora molto rigide e lo storico venne accusato da sinistra di giustificare il fascismo.
D'altra parte, le sue ricerche, poi riconosciute da buona parte degli accademici come generalmente serie e scrupolosamente documentate, furono spesso piegate (con evidenti forzature delle tesi defeliciane) dai seguaci delle teorie revisionistiche al fine di negare le responsabilità storiche del fascismo. Il mondo antifascista reagì accomunando spesso i teorici del revisionismo con il loro presunto ispiratore, il quale reagì, da una parte ribadendo le sue tesi in libri discussi ma sempre di tono "scientifico", dall'altra, soprattutto negli articoli che pubblicò su Il Giornale, o in alcune interviste rilasciate a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, utilizzando il mezzo giornalistico per aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti.
Le opere [modifica]
* 1960 - Note e ricerche sugli "illuminati" e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)
* 1960 - La vendita dei beni nazionali nella Repubblica Romana. 1798-1799
* 1961 - Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, ISBN 8806132571
* 1964 - Mussolini il rivoluzionario (1883-1920)
* 1965 - Italia giacobina
* 1966 - Mussolini il fascista I La conquista del potere 1921-1925 ISBN 8806139916
* 1969 - Mussolini il fascista II L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929 ISBN 8806139924
* 1969 - Le interpretazioni del fascismo, Laterza, ISBN 8842045950
* 1970 - Il Fascismo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici
* 1974 - Mussolini il duce I Gli anni del consenso 1929-1936 ISBN 8806139967
* 1975 - Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Laterza, ISBN 8842053716
* 1978 - Ebrei in un paese arabo: gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970)
* 1980 - (con Mariano Ambri) - I falsi fascismi. Ungheria, Jugoslavia, Romania (1919-1945)
* 1981 - Mussolini il duce II Lo Stato totalitario 1936-1940 ISBN 8806139975
* 1983 - Mussolini e Hitler. I rapporti segreti (1922-1933)
* 1985 - Intellettuali di fronte al fascismo
* 1990 - Mussolini l'alleato I L'Italia in guerra 1940-1943 1. Dalla guerra "breve" alla guerra lunga ISBN 8806140310
* 1990 - Mussolini l'alleato I L'Italia in guerra 1940-1943 2. Crisi e agonia del regime ISBN 8806140329
* 1990 - Il triennio giacobino in Italia (1796-1799)
* 1991 - Bibliografia orientativa del fascismo
* 1995 - Rosso e nero, Baldini & Castoldi, ISBN 888089675X
* 1997 - Mussolini l'alleato II La guerra civile 1943-1945 ISBN 8806149962
* 2004 - Storia del Fascismo 4 vol. - Luce Libero ISSN: 1591 - 0423
Note [modifica]
1. ^ Goglia, op. cit., p. 128.
Bibliografia [modifica]
* Giovanni Aliberti; Giuseppe Parlato, Renzo De Felice. Il lavoro dello storico tra ricerca e didattica, Milano, LED Edizioni Universitarie, 1999. ISBN 8879161121
* Giuseppe D'Angelo, Renzo De Felice. Bibliografia 1953-2002, Salerno, Edizioni del Paguro, 2002. ISBN 888724832X
* Emilio Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003. ISBN 8842069280
* Luigi Goglia; Renato Moro; Fiorenza Fiorentino, Renzo De Felice. Studi e testimonianze , Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. ISBN 8887114811 URL consultato il 3-1-2010.
* Paolo Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, Le Lettere, 2001. ISBN 887166602X
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Renzo De Felice (a destra) con l'editore Vito Laterza.
Renzo De Felice (Rieti, 8 aprile 1929 – Roma, 25 maggio 1996) è stato uno storico italiano, considerato a livello internazionale il massimo esperto del fascismo,[1] allo studio del quale si dedicò sin dal 1960 e fino all'anno della sua morte.
Indice
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* 1 La vita e la carriera accademica
* 2 Gli studi
* 3 La polemica sul Revisionismo
* 4 Le opere
* 5 Note
* 6 Bibliografia
* 7 Altri progetti
* 8 Collegamenti esterni
La vita e la carriera accademica [modifica]
Laureatosi nel 1955-1956 con Federico Chabod, ottenne nello stesso anno una borsa di studio presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, fondato da Benedetto Croce e diretto dallo stesso Chabod.
Iscritto al PCI, nel 1956 fu tra i firmatari del celebre Manifesto dei 101, sottoscritto da intellettuali dissenzienti verso l'appoggio dato dal partito all'invasione sovietica dell'Ungheria. Insieme a molti dei firmatari del manifesto, De Felice lasciò il PCI per iscriversi al Partito Socialista Italiano.
Ottenuto l'incarico di professore ordinario presso l'Università di Salerno dal 1968 al 1971, De Felice fondò nel 1970 la rivista Storia Contemporanea edita da Il Mulino. Nel 1972 si trasferì presso l'Università La Sapienza di Roma, ove insegnò Storia dei partiti politici alla facoltà di Lettere e poi, dal 1979, presso quella di Scienze politiche; infine, nel 1986, passò a occupare la cattedra di Storia contemporanea.
Ha fatto parte del consiglio editoriale del Journal of Contemporary History.
Gli studi [modifica]
I suoi studi, indirizzati inizialmente verso la storia moderna, si concentrarono poi su quella contemporanea (gli ebrei sotto il fascismo) e, da tale filone, scaturì l'interesse che contraddistinse più marcatamente la sua carriera di storico e che lo propose spesso all'attenzione del grande pubblico: la storia della dittatura fascista.
L'interpretazione che De Felice dà del fascismo si articola su tre temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la distinzione fra il "fascismo movimento" e il "fascismo regime", la realizzazione di un consenso determinante a garantire stabilità e successo al regime fascista.
Al di là degli elogi e delle critiche, l'interpretazione che De Felice offre del fascismo e della dittatura mussoliniana ha comunque il merito di aver suscitato una nuova stagione di studi e riflessioni sul fascismo.
La polemica sul Revisionismo [modifica]
Quando De Felice pubblicò il primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la storiografia e la cultura italiane erano divise da barriere ancora molto rigide e lo storico venne accusato da sinistra di giustificare il fascismo.
D'altra parte, le sue ricerche, poi riconosciute da buona parte degli accademici come generalmente serie e scrupolosamente documentate, furono spesso piegate (con evidenti forzature delle tesi defeliciane) dai seguaci delle teorie revisionistiche al fine di negare le responsabilità storiche del fascismo. Il mondo antifascista reagì accomunando spesso i teorici del revisionismo con il loro presunto ispiratore, il quale reagì, da una parte ribadendo le sue tesi in libri discussi ma sempre di tono "scientifico", dall'altra, soprattutto negli articoli che pubblicò su Il Giornale, o in alcune interviste rilasciate a Giuliano Ferrara, sul Corriere della Sera, utilizzando il mezzo giornalistico per aprire il dibattito sul fascismo a un pubblico non di soli specialisti.
Le opere [modifica]
* 1960 - Note e ricerche sugli "illuminati" e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)
* 1960 - La vendita dei beni nazionali nella Repubblica Romana. 1798-1799
* 1961 - Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, ISBN 8806132571
* 1964 - Mussolini il rivoluzionario (1883-1920)
* 1965 - Italia giacobina
* 1966 - Mussolini il fascista I La conquista del potere 1921-1925 ISBN 8806139916
* 1969 - Mussolini il fascista II L'organizzazione dello Stato fascista 1925-1929 ISBN 8806139924
* 1969 - Le interpretazioni del fascismo, Laterza, ISBN 8842045950
* 1970 - Il Fascismo: le interpretazioni dei contemporanei e degli storici
* 1974 - Mussolini il duce I Gli anni del consenso 1929-1936 ISBN 8806139967
* 1975 - Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Laterza, ISBN 8842053716
* 1978 - Ebrei in un paese arabo: gli ebrei nella Libia contemporanea tra colonialismo, nazionalismo arabo e sionismo (1835-1970)
* 1980 - (con Mariano Ambri) - I falsi fascismi. Ungheria, Jugoslavia, Romania (1919-1945)
* 1981 - Mussolini il duce II Lo Stato totalitario 1936-1940 ISBN 8806139975
* 1983 - Mussolini e Hitler. I rapporti segreti (1922-1933)
* 1985 - Intellettuali di fronte al fascismo
* 1990 - Mussolini l'alleato I L'Italia in guerra 1940-1943 1. Dalla guerra "breve" alla guerra lunga ISBN 8806140310
* 1990 - Mussolini l'alleato I L'Italia in guerra 1940-1943 2. Crisi e agonia del regime ISBN 8806140329
* 1990 - Il triennio giacobino in Italia (1796-1799)
* 1991 - Bibliografia orientativa del fascismo
* 1995 - Rosso e nero, Baldini & Castoldi, ISBN 888089675X
* 1997 - Mussolini l'alleato II La guerra civile 1943-1945 ISBN 8806149962
* 2004 - Storia del Fascismo 4 vol. - Luce Libero ISSN: 1591 - 0423
Note [modifica]
1. ^ Goglia, op. cit., p. 128.
Bibliografia [modifica]
* Giovanni Aliberti; Giuseppe Parlato, Renzo De Felice. Il lavoro dello storico tra ricerca e didattica, Milano, LED Edizioni Universitarie, 1999. ISBN 8879161121
* Giuseppe D'Angelo, Renzo De Felice. Bibliografia 1953-2002, Salerno, Edizioni del Paguro, 2002. ISBN 888724832X
* Emilio Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Roma-Bari, Laterza, 2003. ISBN 8842069280
* Luigi Goglia; Renato Moro; Fiorenza Fiorentino, Renzo De Felice. Studi e testimonianze , Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002. ISBN 8887114811 URL consultato il 3-1-2010.
* Paolo Simoncelli, Renzo De Felice. La formazione intellettuale, Firenze, Le Lettere, 2001. ISBN 887166602X
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