martedì 9 febbraio 2010

CHI VINCE IN SICILIA (O IN CAMPANIA, TRA LE REGIONI PIÙ POPOLOSE) HA IN MANO IL PAESE – MA SE VINCE LA DC, L’UDC, BERLUSCONI (O I SOCIALISTI DI MARTELLI) È “PATTO CON LA MAFIA”. QUANDO VINSE LEOLUCA ORLANDO FU RINASCITA DEMOCRATICA - A PALERMO O A NAPOLI LA REGOLA È UNA E UNA SOLA: O TI ACCORDI CON COSA NOSTRA O SONO CAZZI VOSTRI, TERZA VIA NON ESISTE ( PERCHÉ LO STATO NON HA CITTADINANZA IN QUELLE REGIONI)

Attilio Bolzoni per "la Repubblica"
CIANCIMINO JR

Covi e tesori potrebbero raccontare la Palermo di ieri e l'Italia di oggi. Ma covi e tesori non parlano.E non parlano alti ufficiali in divisa nera. A volte non parlano neanche carte lasciate ammuffire negli armadi di qualche Tribunale. Ci resta solo lui: ci resta solo Massimo Ciancimino che fa parlare un morto.
Suo padre.
Massimo Ciancimino

Sui soldi sporchi arrivati da Palermo per costruire la Milano 2 di Berlusconi. Sui latitanti mai presi. Sulla nascita di quel nuovo partito- Forza Italia- voluto da una trattativa fra mafia e Stato durante le stragi siciliane. Vicende di confine. Di scambio e di ricatto. Perché dice tutto questo soltanto ora?, si chiedono tutti.

Perché chiama in causa il presidente del Consiglio? Perché sono arrivate soltanto ora e così in ritardo le verità di Massimo Ciancimino? La risposta è semplice nella sua banalità: nessuno gli aveva mai chiesto niente prima.
Mai, mai una volta.
Berlusconi il 25 gennaio al San Raffaele di Milano - Senza capelli

Anzi, stando a quello che sostiene il più piccolo dei cinque figli di don Vito, alcuni personaggi (un ufficiale dei Ros, un agente segreto chiamato «Carlo» o «signor Franco» e un misterioso «capitano»), gli avevano assicurato che nessuno lo avrebbe mai «disturbato» su queste faccende né a Palermo né altrove in Italia.
Le cose sono andate diversamente. E lui a domanda, adesso risponde. Sempre. Quanto ci sia di vero o di verosimile in quello che dice, è un altro discorso.

E' tutto scombinato l' affaire Ciancimino, visto al presente e visto al passato. Scombinato ai tempi del padre e scombinato ai tempi del figlio. Generazione dopo generazione loro tengono sempre banco. Il verbo di Palermo da cinquant'anni è sempre sulla bocca di un Ciancimino.
Dell Utri in Aula - Depone Spatuzza - Da Repubblica 9

Cominciamo dall'inizio che poi è anche la fine: il 19 novembre del 2002. Anche se non spiega tutto, questa data già spiega tanto: è il giorno che muore Vito Ciancimino ed è pure il giorno che suo figlio Massimo viene indagato per il riciclaggio dei soldi di suo padre. Per i tre o quattro decenni precedenti mai un'indagine patrimoniale (se si esclude un tentativo di Falcone naufragato fra gli «aggiustamenti» di consulenti e di giudici buoni amici di don Vito) sull'impero costruito da un ex sindaco che era alla guida di un partito cosca trasversale dominante a Palermo.
vito e massimo ciancimino

Mai un solo accertamento fiscale, un'ispezione bancaria. Vito Ciancimino era uno degli uomini più ricchi della Sicilia e, quando se n'è andato- «per cause naturali», rassicurava un'agenzia di stampa quel giorno - risultava nullatenente. Quel 19 novembre del 2002, Massimo è scivolato per la prima volta in un'inchiesta giudiziaria. Tutti a Palermo erano stati ciechi e muti e sordi. Naturalmente, magistrati dell'antimafia compresi.
Provenzano Mafia

C'è un'altra data da ricordare: la primavera del 1993. E' in quei mesi che Ciancimino - padre - comincia a parlare con i procuratori di Palermo, nel carcere dove era rinchiuso. A dire più o meno, difendendosi, quello che oggi sta ripetendo il figlio per le storie di Palermo dagli Anni Sessanta agli Anni Ottanta. Su cadaveri eccellenti. Su appalti. Su Giulio Andreotti. E' tutto in un memoriale che molti considerarono «spazzatura».
Toto Riina

Vito Ciancimino, una quindicina di anni fa quando cominciò a rivelare i suoi segreti, fu trattato come un depistatore. Il suo pensiero adesso sono diventate le «rivelazioni» del figlio. Con l'aggiunta - non secondaria per la verità - dei patti per la cattura pilotata di Totò Riina il 15 gennaio del 1993, della mancata cattura di Bernardo Provenzano, del ruolo di «mediatore» che prese Marcello Dell'Utri al posto di suo padre. E' il Ciancimino parte seconda, che però viene sempre dalla prima: la fonte è sempre don Vito. Il morto.
GENERALE MORI

Perché parla soltanto ora Massimo Ciancimino? Perché se non avesse rilasciato un'intervista a «Panorama» nel dicembre del 2007 - sugli incontri di suo padre con Bernardo Provenzano, sulle trattative con i carabinieri dei Reparti speciali a cavallo delle stragi Falcone e Borsellino, sul famigerato papello ricevuto da Totò Riina - non avrebbe parlato mai. Poi, i procuratori di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo l'hanno invitato a «spiegare». E da quel momento - era il giugno del 2008 - non si è fermato più. Un testimone un po' particolare ma sempre un testimone. Seguito, minacciato, invitato a «stare zitto» da misteriosi personaggi che una volta erano in intimità con suo padre, Massimo Ciancimino riempie verbali e inonda l'aula bunker dell'Ucciardone con i suoi racconti.

Un'altra coincidenza molto palermitana: il covo di Bernardo Provenzano e il tesoro di Vito Ciancimino. Il primo l'hanno trovato dopo quarantatré anni di latitanza, il secondo l'hanno cominciato a cercare subito dopo.
Antonio Ingroia

Sembravano due indagini separate nel 2006, oggi è la stessa indagine e la stessa storia. Covo e tesoro, un unico incastro. Potere militare e potere economico di Cosa Nostra. Della mancata cattura di Provenzano, il piccolo Ciancimino ha riferito probabilmente tutto ciò che sapeva («Il padrino corleonese aveva immunità su tutto il territorio nazionale»), sul tesoro di famiglia probabilmente non dirà mai niente. Non è che a Palermo, in questi mesi, sta accadendo qualcosa che ci sfugge?

2 - L'OLTRAGGIO IMPUNITO...
Paolo Granzotto per "Il Giornale"

A essere scandalose non sono le parole di Massimo Ciancimino, lo scandalo risiede nel fatto che quelle parole gliele si facciano pronunciare nel corso di un procedimento giudiziario che nulla ha a che vedere con Berlusconi, Dell'Utri o Forza Italia. Scandaloso è che non si sia fatto tacere il «dichiarante», incriminandolo per oltraggio alla giustizia e all'intelligenza dei componenti la Corte.
LEOLUCA ORLANDO - Copyright Pizzi

Nell'aula bunker del carcere dell'Ucciardone si stanno giudicando il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra per la mancata cattura, nell'ottobre del '95, del boss mafioso Bernardo Provenzano.

Cosa c'entra, dunque, la fondazione di Forza Italia? E come fa una Corte a non respingere per evidente assurdità, per palese farneticazione la «rivelazione» che Forza Italia fu il frutto della trattativa tra lo Stato e la mafia? Lo Stato rappresentato da chi, dal primo ministro Ciampi? Dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro?

Traendo dal cilindro i suoi conigli - cose dette o fatte dal padre; copie se non addirittura bozze di papelli e pizzini; una lettera scritta da Provenzano ma elaborata dal padre Vito e alla quale manca il destinatario, che però il «dichiarante» assicura fosse destinata a Marcello Dell'Utri e «per conoscenza» - per conoscenza! - a Silvio Berlusconi; memorie relative al disastro di Ustica; figure di ambigui agenti dei servizi segreti - Massimo Ciancimino non fa mistero di voler dar corpo all'immagine di un Silvio Berlusconi mafioso a tutto tondo.

Ciò che gli è lecito fare, salvo poi doverne pagare le inevitabili conseguenze penali. Ma non in un'aula dove si dibatte sulle accuse mosse a Mori e a Obinu, non in un'aula dove la ricerca della verità è indirizzata alla presunta collusione dei due imputati con Cosa Nostra, non alle origini di Forza Italia.

È lecito chiedersi perché ciò sia stato consentito a Massimo Ciancimino, non un pentito, un collaboratore di giustizia, non un teste, ma un «dichiarante», figura dai contorni non ben definiti e proprio per questo circoscritti di volta in volta, secondo l'interesse e la disposizione d'animo.
0gus29 claudio martelli

È poi doveroso chiedersi perché la Corte, una volta ascoltate le sorprendenti rivelazioni di Ciancimino non ne abbia subito fatto notare la palese contraddizione con quelle che il «dichiarante» giusto l'estate scorsa: «Io a Silvio Berlusconi mafioso non ci credo. Né papà mi ha mai detto qualcosa al riguardo. Glielo chiesi tre o quattro volte, e rispose sempre allo stesso modo: "È fuori da tutto". Per certo so che Berlusconi era piuttosto una vittima della mafia. Forse qualcuno intorno a lui, magari del suo più stretto entourage, può aver avuto contatti con Cosa Nostra millantando amicizie e mandati del Cavaliere, muovendosi in suo nome e per suo conto, senza che Berlusconi lo sapesse. Papà aveva solo delle perplessità su alcuni personaggi...».

È noto che la magistratura - e ciò va a suo onore - non lascia nulla al caso. Ma riempie faldoni su faldoni di atti, documenti, informative, copie conformi, carte bollate, verbali eccetera su ogni soggetto implicato nella causa in corso (e anche non in corso, se è per questo). Possibile che mancasse quell'intervista rilasciata da Massimo Ciancimino? Non lo crediamo ragionevole: non si prende in mano un «dichiarante», non gli si offre la platea di un'aula giudiziaria affollata di cronisti senza prima passarlo ai raggi X.

Non resta quindi da pensare o a un governo alla carlona dei pentiti e dei «dichiaranti», e allora si fa impellente una legge che ne regoli la gestione. O a una precisa volontà di cogliere l'occasione per coinvolgere in un processo di mafia il presidente del Consiglio. E farlo apparire, ancorché per bocca di un Ciancimino poco credibile perché pronto a cambiare opinione e verità, mafioso anch'esso. Tertium non datur.



[09-02-2010]
by dagospia

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