venerdì 29 agosto 2014

IN ALITALIA I PRIVILEGI VOLANO SEMPRE - AI DIPENDENTI IN MOBILITÀ ANDRÀ L’80% DELL’ULTIMO STIPENDIO PER 5 ANNI - AI COMUNI MORTALI TOCCA UN MASSIMO DI 1.100 EURO AL MESE PER DUE ANNI “L'Espresso” spulcia l’accordo e trova l’incredibile trattamento di favore. Un pilota potrà prendere fino a 6 mila euro per starsene a casa. I soldi escono dal Fondo speciale per il trasporto aereo, alimentato con la tassa di 3 euro versata da ogni passeggero in partenza. Tassa che potrebbe aumentare…

Da “l’Espresso

Piloti Alitalia Piloti Alitalia
Un normale lavoratore messo in mobilità può arrivare a percepire al massimo 1.100 euro al mese per due anni. Potrebbe andare molto meglio ai dipendenti dell'Alitalia che perderanno il posto in seguito all'accordo con Etihad. Per loro, secondo quanto ricostruisce “l'Espresso” in edicola venerdì, l'assegno di mobilità durerà cinque anni, con un importo pari all'80 per cento dello stipendio degli ultimi 12 mesi.

volo etihad atterra a fiumicino volo etihad atterra a fiumicino
Insomma, un pilota con una certa anzianità potrebbe arrivare ad incassare, senza lavorare, fino a 6 mila euro al mese per un intero lustro. È quanto concordato l'8 agosto da sindacati, compagnie aeree e gestori aeroportuali. Un'intesa per ora priva di valore legale, visto che manca la firma del governo.

Ma il fatto che l'incontro sia avvenuto nella sede del ministero del Lavoro indica che la benedizione dell'esecutivo c'è. Chi salderà il conto finale? Tecnicamente, il Fondo speciale per il trasporto aereo. In pratica, a pagare saranno tutti i viaggiatori, dato che il Fondo è alimentato quasi interamente dalla tassa di 3 euro versata da ogni passeggero in partenza da un aeroporto nazionale.
AEROPORTO ROMA FIUMICINO AEROPORTO ROMA FIUMICINO

E c'è pure la possibilità che la tassa aumenti in futuro. Secondo quanto promesso dal governo, dei 2.171 dipendenti dell'Alitalia dichiarati in esubero dopo l'accordo con Etihad, saranno circa 980 a finire in mobilità, mentre per gli altri si prospetta un ricollocamento in altre aziende o l'inizio di un contratto di solidarietà.

Se le cose andranno così, i 3 euro dovrebbero essere sufficienti per saldare il conto, altrimenti bisognerà aumentare le entrate del Fondo. Un'eventualità che sindacati e società del settore hanno già messo in preventivo. Nell'accordo, che “l'Espresso” ha potuto leggere, le parti si sono infatti impegnate ad ottenere dal governo l'incremento della tassa entro il 31 ottobre del 2015.

 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/alitalia-privilegi-volano-sempre-dipendenti-mobilit-andr-83581.htm

sabato 23 agosto 2014

Via Caetani, la cronaca del giorno che uccisero Aldo Moro Alle 12.30 del 9 maggio 1978 una telefonata al professor Tritto annuncia che il corpo del presidente della Dc si trova dentro una Renault 4 rossa Pubblicato il 9 maggio 2014 da Fabrizio Colarieti in Misteri italiani // Nessun commento

L’agenzia Ansa batte la notizia alle 13.59 del 9 maggio 1978. E’ un lancio molto scarno, solo cinque righe: Un cadavere in una macchina è stato trovato in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure. Sul posto si sono recati il questore di Roma e il capo della Digos Spinella. Al momento non si hanno altri particolari. Ma il lancio, quello cambierà il corso della storia d’Italia, arriva 5 minuti dopo, alle 14.04: L’on. Moro sarebbe la persona trovata morta all’angolo di via delle Botteghe Oscure con via Caetani. Lo ha riferito un funzionario della Digos.
Sono passati 55 giorni dall’eccidio di Fani e dal sequestro del presidente della Democrazia cristiana. Il corpo di Aldo Moro, crivellato di colpi, con il viso coperto da una giacca blu e il resto da un plaid, viene trovato nel vano posteriore di una Renault 4 rossa targata Roma N57686. L’auto è parcheggiata in via Michelangelo Caetani, a due passi dalla sede del Pci di via delle Botteghe Oscure e a poca distanza da quella Dc di piazza del Gesù.
Ad avvisare la polizia, che il corpo di Moro è proprio lì, è una telefonata al professor Franco Tritto, un docente universitario che conosce bene Moro. La chiamata viene registrata alle 12.30 perché l’utenza di Tritto, come quelle di molti conoscenti del presidente della Dc, è sotto controllo. Dall’altro capo dell’apparecchio c’è un uomo che si presenta come il dottor Niccolai, ma in realtà è il brigatista Valerio Morucci che chiama da una cabina telefonica della stazione Termini: lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani, che è la seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure.
Alle 14.23  una nota del Viminale conferma che il cadavere ritrovato nei pressi di via delle Botteghe Oscure è quello di Moro: Alle 13.30 le forze di polizia hanno ritrovato il corpo esanime dell’on. Moro in un’autovettura parcheggiata in via Caetani. Pochi minuti dopo il ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, raggiunge via Caetani insieme al sottosegretario Lettieri e all’on. Darida.
Alle 15.48 padre Damiano, sacerdote della chiesa del Gesù, anch’egli conoscente di Moro, impartisce l’assoluzione e la salma di Moro viene caricata su un’ambulanza dei Vigili del fuoco. Dalle 16.23 l’Ansa diffonde ulteriori particolari: l’on. Moro è  stato ucciso con diversi colpi d’arma da fuoco. Sul petto ci sono i segni di non meno di quattro ferite. Fra la camicia bianca e la giacca blu sono stati trovati fazzoletti intrisi di sangue all’altezza delle ferite. Nei risvolti dei pantaloni c’è una notevole quantità di sabbia. La Renault è stata lasciata in via Michelangelo Caetani presumibilmente fra le 7.40 e le 8.10 di stamani. I funzionari della Digos hanno accertato che la Renault sulla quale è stato trovato il corpo di Moro è stata rubata il 2 marzo. E’ stato precisato che la sabbia trovata nei risvolti dei pantaloni è molto chiara e che infilati nei calzini sono stati trovati alcuni “forasacchi”, piccole spighe di erba di campo che si impigliano facilmente nei vestiti.
A scattare la prima foto che mostra il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault 4, l’immagine che farà il giro del mondo e che ancora oggi racconta la drammaticità di quegli eventi, fu Rolando Fava, fotografo e giornalista dell’Ansa, scomparso nel 2010. Quella foto, aveva raccontato Fava in occasione del trentennale, era lo scatto più importante della sua vita.
Il fotografo ricorda che, alle 13 di quel martedì 9 maggio, c’era un traffico eccezionale in piazza Venezia, che lo aveva spinto a informarsi su che cosa stesse succedendo. Aveva saputo che era stata segnalata, in via Caetani, la presenza di un’auto che conteneva una bomba. «La strada era stata subito chiusa da entrambi i lati – raccontava Fava all’Ansa – in realtà, c’era già stata la rivendicazione delle Br e a Via Caetani sono arrivati Cossiga, Colombo, Gonella».
«Mi ha subito colpito il silenzio irreale. Ma io – prosegue il fotografo nel suo racconto – non avevo alcuna idea che potesse trattarsi di Moro, quando sono entrato in Palazzo Caetani (e ho potuto farlo solo passando da una entrata secondaria che conoscevo, sul retro) e ho chiesto al portiere il favore di affacciarmi da una finestrella un metro per un metro del suo appartamento, al piano rialzato. Da lì ho scattato le immagini degli artificieri che aprivano prima il cofano anteriore, poi il portabagagli. Solo allora qualcuno ha levato la coperta e ho visto Aldo Moro in quella posizione un po’ innaturale, credevo ancora che fosse drogato, che dormisse, ma è stato per poco, subito la strada si è riempita del dolore di tutti»

 http://www.lettera35.it/aldo-moro-via-caetani-9-maggio-1978/

Maria Fida Moro: «senza una verità gli italiani non avranno pace» La figlia di Aldo Moro commenta l'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta che dovrà fare luce sui misteri del sequestro Pubblicato il 30 maggio 2014 da redazione in Misteri italiani // Nessun commento

«Sono contenta. Spero solo che non vadano a tesi precostituite ma si aprano a 360 gradi. Non c’è una sola verità. In Italia c’è una certa tendenza a prendere come buone solo le versioni dei brigatisti, una verità di comodo». E’ quanto ha detto, nel corso di un’intervista rilasciata a Checkpoint di Tgcom24, Maria Fida Moro, commentando l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’assassinio di suo padre.
«All’ex poliziotto, Enrico Rossi, capitò – ha aggiunto la figlia di Aldo Moro – una indagine, già archiviata, di una certa onda blu cavalcata da un numero imprecisato di uomini il giorno del rapimento di mio padre e dell’uccisione della scorta. In tutto questo tempo in cui lui non ha parlato, io non ho mai creduto che si trattasse di brigatisti, non in base a prove giuridiche ma in base a percezioni. Un centauro brigatista non mi corrispondeva».
«Questo ex ispettore dell’antiterrorismo – prosegue Maria Fida Moro – mi ha cercato perché voleva assolutamente lasciare a me e proprio a me e solo a me l’incarico di portare avanti questa ricerca di verità. Lui voleva raccontare questa verità, ben sapendo che era pericolosa per lui e per me. Infatti, ho detto che se muoio in un incidente un po’ strano nessuno deve crederci».
«E’ vero che il caso Moro è fatto di miliardi di particelle casuali impazzite che vanno nel cosmo, ma c’è anche un po’ di buon senso e poi c’è la coscienza. Gli italiani non avranno pace se non si riappropriano di questa verità. Se non facciamo i conti con questa storia – ha concluso – perdiamo la convivenza civile nello Stato».

 http://www.lettera35.it/maria-fida-moro-commissione-parlamentare-inchiesta/

Le “profezie” dimenticate di Elio Ciolini Il 4 marzo del 1992 Elio Ciolini, condannato per il depistaggio sulla strage di Bologna, invia al giudice istruttore Grassi un appunto che si rivela preciso e profetico Pubblicato il 20 agosto 2014 da Enrico Ruffino in Misteri italiani // Nessun commento

Ci sono pezzi di storia spesso dimenticati. Soprattutto se intaccano i mille segreti delle stragi italiane. Ci sono, ad esempio, le parole di un faccendiere ambiguo, ben inserito nei centri di potere, uno che sa molto ma parla poco. Elio Ciolini, condannato per il depistaggio sulla strage di Bologna, agli inizi del 1992 si era spogliato dei panni del depistatore per assumere quelli del profeta. Così, in un momento di estrema bontà nei confronti dell’autorità giudiziaria, il 4 marzo 1992, decide di inviare un “appunto” all’allora giudice istruttore del tribunale di Bologna Grassi
Nuova strategia tensione in Italia – periodo: marzo-luglio 1992
Nel periodo marzo-luglio di quest’anno (1992 nda) avverranno fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone “comuni” in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale “omicidio” di esponente politico PSI, PCI, DC sequestro ed eventuale “omicidio” del futuro Presidente della Repubblica.
Tutto questo è stato deciso a Zagabria Yu – (settembre ’91) nel quadro di un “riordinamento politico” della destra europea e in Italia è inteso ad un nuovo ordine “generale” con i relativi vantaggi economico finanziari (già in corso) dei responsabili di questo nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti.
La “storia” si ripete dopo quasi quindici anni ci sarà un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti.
Ritornano come l’araba fenice.
Elio Ciolini, 4 marzo 1992
Le parole di Ciolini, lette oggi, suonano come una vera e propria profezia. Il 12 marzo 1992, puntuale come un orologio svizzero, avviene il primo “ eventuale omicidio di esponente Psi, Pci, DC”. A farne le spese è infatti l’eurodeputato Salvo Lima, ex sindaco di Palermo e “garante” degli interessi mafiosi con la politica. L’omicidio, avvenuto tra le strade della borgata marinara di mondello a Palermo, verrà inserito nella strategia (parola già di per sé estranea al linguaggio di cosa nostra) di attacco allo Stato perpetuata a seguito della conferma da parte della cassazione delle condanne inflitte dal maxiprocesso.
Ad assumersi la responsabilità materiale dell’omicidio, sarà un “picciotto” di cosa nostra che ritorna nelle trame di quegli anni terribili. Sarebbe infatti Francesco Onorato l’uomo che materialmente sparò al colonnello andreottiano in Sicilia. Lo stesso Onorato che, qualche anno prima, aveva strangolato su ordine di Salvatore Biondino l’aspirante agente del Sisde Emanuele Piazza.
Onorato – come sottolineano i giornalisti Biondo e Ranucci ( Il patto, Chiarelettere, 2013) – è un uomo alto e muscoloso. C’è un testimone dell’omicidio Lima che, però, ha sempre ribadito all’A.G. di aver visto sparare “un uomo di circa un metro e settanta di corporatura longilinea”. Una descrizione che nulla ha a che vedere con la fisicità dell’ex affiliato alla famiglia di San Lorenzo. Ancora una volta, l’ennesimo dubbio, persino sugli esecutori materiali, viene a galla.
Ma torniamo alla “profezie” di Ciolini. Il noto faccendiere, abile a giocare con le parole, vuole sottolineare che “la storia si ripete”. E per quale motivo? “Per conseguire i loro intenti falliti”. Se le parole di Ciolini non fossero risultate tremendamente vere, si potrebbe pensare ai deliri di un pazzo. Ma così non è. Il faccendiere è tremendamente preciso: indica il periodo, i metodi e persino gli attori da colpire. Parla di “eventuale omicidio di esponente politico Dc, Pci, Psi” ( Salvo Lima, 12 marzo 1992), “di esplosioni dinamitarde intese a colpire persone comuni in luoghi pubblici” (Strage di Capaci, 23 maggio 1992) nel “periodo marzo-luglio” ( l’ultima strage del 1992 sarà proprio a luglio, il 19, in Via D’Amelio a Palermo).
La meticolosità delle affermazioni di Ciolini non si sofferma a questo unico appunto. Dopo l’omicidio Lima, Ciolini, probabilmente per accreditarsi dinanzi al giudice, scrive un altro appunto che contiene particolari interessanti:
“Oggetto: RIF Lettera data 4-3-1992
“Egregio dottore,
“Non a caso la mia informazione sugli eventi di quanto in oggetto, per sfortuna, si è rivelata giusta.
“Alla riunione (Sissak) parlavano Inglese, ho fatto un poco di fatica a ricordare, e per questo solo oggi le scrivo. “Ora, ‘bisogna’ attendersi un’operazione terroristica diretta ai vertici PSI, a personaggi di rilievo…”
Facciamo attenzione all’ultima frase. Ciolini, questa volta, è ancora più preciso. Parla di “operazione terroristica”, lasciando intendere che l’eventuale strage ha un obiettivo preciso. Spiega, inoltre, che tale operazione è “diretta ai vertici PSI” ma precisa: “a personaggi di rilievo”. Quest’ultima precisazione è fondamentale, indica infatti che l’operazione terroristica sarà intesa, si, a colpire esponenti del PSI ma indirettamente, colpendo “personaggi di rilievo” che ruotano attorno a quel preciso partito politico.
Giovanni Falcone, dal 1991, infatti ruotava attorno all’entourage dal ministro della giustizia Claudio Martelli, del PSI, ricoprendo l’incarico di direttore generale dell’ufficio affari penali. E sarà proprio il giudice palermitano ad essere colpito il 23 maggio 1992 con un esplosione dinamitarda.
Ciolini è un fiume in piena con il giudice Grassi. All’indomani dell’omicidio Lima, riceve la visita dei carabinieri del ROS ai quali dice: “avete visto cos’è successo?”. E redige un nuovo appunto, sempre più circostanziato. Sembra giocarsi le proprie carte, Ciolini. Ogni nuovo appunto diventa sempre più denso di particolari. Così scrive nel terzo appunto:
“Strategia della tensione marzo-luglio 92
“Matrice masso-politico-Mafia =Siderno Group Montreal – Cosa Nostra-Catania-Roma (DC – ANDREOTTI) –ANDREOTTI-via-D’ACQUISTO-LIMA Sissan-
“Accordo futuro governo Croato (TUJDEMANN ) massone per – protezione laboratori Eroina – transito cocaina – cambio – Ristrutturazione economia croata e riconoscimento Repubblica Croata – Investimento previsto 1000 milioni $… (segue parte non leggibile)
“Sissan-
“Accordo fra gruppi estremisti per politica di destra in Europa commerciale – Austria-Germania-Francia-Italia-Spagna-Portogallo-Grecia …commercializzazione eroina-cocainavia (parola illeggibile) Sicilia-Yugoslavia (prov eroina Turchia)
“Commercializzazione – Sicilia Yugo –trasporto sottomarino Prov Urss (mini) pers croato -
“Protezione Dc via Mr D’ACQUISTO e LIMA – previsto futuro Presidenza ANDREOTTI-
“Dc domanda voti alla Cupola per nuove elezioni.
“Corrente Dc sinistra no d’accordo con voti Cupola.
“ANDREOTTI, secondo gli sviluppi della politica di sinistra e di destra, poco (incomprensibile) reticente.
“Si giustifica, LIMA, per pressione a Andreotti.
“È prevista anche, con l’accordo PSI, Repubblica Presidenziale ANDREOTTI.
“Cupole – Pressione a ANDREOTTI nuovi sviluppi, indirizzo politico, leghe ecc, mette la situazione della mafia, in Sicilia in difficoltà
“Strategia
“Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore a quello della mafia”.
Questa volta però il faccendiere mette in fila una serie di affermazioni redatte in maniera confusa e tal volta persino incomprensibile. Mette insieme retroscena politici precisi (“corrente dc no d’accordo con voto cupola”; “Andreotti reticente” probabilmente a ricevere questa volta i voti della cupola) e scenari che entreranno solo tanti anni dopo nelle inchieste (“Cupole – Pressione a Andreotti nuovi sviluppi, indirizzo politico, leghe ecc, mette la situazione della mafia, in Sicilia in difficoltà”) con affermazioni non chiare (“affinché non abbiano la volontà di farlo”. Cosa? Indagare?) e scenari che non risulteranno veri (“distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore a quello della mafia”. L’effetto sortito sarà proprio il contrario, infatti la strategia successiva di cosa nostra sarà volta proprio a sommergersi dopo la fin troppa visibilità del periodo stragista). Questo appunto, rispetto agli altri due, sembra meno preciso e vago. Qualcosa, forse, si stava muovendo? Ciolini parla anche di un traffico di eroina e cocaina tra la Sicilia e la Jugoslavia. E tra i possibili moventi dell’uccisione di Mauro Rostagno, oltre a quello delle armi, c’è anche il traffico di droga, del quale Rostagno forse era conoscenza.

 http://www.lettera35.it/elio-ciolini-appunti/

martedì 19 agosto 2014

L’Italia non è una repubblica, ma una corporation privata dal 1933. Illegali le tasse e l’ordinamento giuridico in vigore

L’Italia non è una repubblica, ma una corporation privata dal 1933. Illegali le tasse e l’ordinamento giuridico in vigore.
Di Alessandro De Angelis -
Molti cittadini italiani pensano di far parte di una repubblica denominata Repubblica Italiana. In realtà, dal 1933, il nostro stato è diventato una corporation privata iscritta al S.E.C.:
As filed with the Securities and Exchange Commission on April 9, 2013 Registration Statement No. 333-152589
SECURITIES AND EXCHANGE COMMISSION
WASHINGTON, D.C. 20549
POST-EFFECTIVE AMENDMENT NO. 2 TO REGISTRATION STATEMENT
UNDER SCHEDULE B OF THE SECURITIES ACT OF 1933
Republic of Italy (Name of Registrant)
THE HONORABLE CLAUDIO BISOGNIERO
Italian Ambassador to the United States
3000 Whitehaven Street, N.W.
Washington, D.C. 20008
(Name and address of Authorized Agent of the Registrant in the United States)
It is requested that copies of notices and communications from the Securities and
Exchange Commission be sent to:
MICHAEL IMMORDINO
White & Case LLP
5 Old Broad Street
London EC2N 1DW
United Kingdom
Approximate date of commencement of proposed sale to the public: From time to time after this Registration Statement becomes effective.
The Debt Securities covered by this Registration Statement are to be offered on a delayed or continuous basis pursuant to Release Nos. 33-6240 and 33-6424 under the Securities Act of 1933.
Difatti il Dun & Bradstreet che è una Società Americana Leader nelle Informazioni dei Movimenti Creditizi Relativi a 220.000.000 di Aziende nel Mondo e Destinate al Marketing (B2B) Business-to-Business, dimostra che TUTTO l’Apparato Istituzionale Italiano è PRIVATO e quindi il Governo della Repubblica Italiana, Camera dei Deputati, Senato della Repubblica Italiana, Regioni anche Autonome, Tribunali, Procure e tutti gli apparati destinati alla tassazione del popolo sono da dichiararsi illegittimi ed anticostituzionali.
Sono altresì da ritenersi invalidate tutte le passate elezioni e quelle future, in quanto esse rappresentano la delega alle politiche sociali dei cittadini ad una corporation privata e non a parlamentari della Repubblica Italiana.
Ad ulteriore conferma di queste asserzioni è il fatto che l’U.E. non è stata eletta dal popolo, ma, nonostante questo, decide le politiche sociali degli stati europei, mentre il parlamento europeo non ha nessuna facoltà decisionale. Inoltre la B.C.E. che stampa l’euro addebitandolo al popolo invece di accreditarlo è una S.P.A. privata che decide come, dove e quando mettere in ginocchio le nazioni, essendosi appropriata della sovranità monetaria.
Prima degli accordi di Bretton Woods, le banche degli stati dovevano avere una quantità di oro nei loro forzieri pari al denaro che stampavano. Succedeva, però, che esse stampavano più denaro rispetto al controvalore in oro che possedevano. Perciò nel 1944 si decise che solamente il dollaro dovesse avere la controvertibilità in oro e le altre monete potessero essere scambiate con il dollaro che faceva da garante. Gli USA invece stamparono quasi 90 miliardi di dollari, creando un’inflazione globale, senza avere il controvalore in oro. Così, quando la Francia ed altri stati restituirono i dollari agli Usa chiedendo in cambio l’oro, costrinsero il presidente Nixon, il 15 agosto 1971, a far cadere la convertibilità del dollaro con l’oro, facendo sì che la moneta perdesse il suo effettivo valore. Il valore della moneta divenne cosi indotto dalla nostra volontà ad accettarlo come strumento di scambio per i beni e i servizi che le persone producono. Nel 1971, il nostro debito pubblico era di 16 miliardi e 145 milioni milioni di euro, ma quel debito, nella realtà, non esisteva, in quanto la Banca d’Italia era, come previsto dall’articolo 3 del suo statuto, un ente di diritto pubblico a maggioranza pubblica, cioè dello stato, che poteva stampare così la moneta a suo piacimento, ripagando in questo modo i debiti che contraeva. Nel 1981 il debito pubblico passò a 142 miliardi, ma lo stato aveva sempre un debito con se stesso e quindi poteva stampare moneta e ripagarlo in ogni momento, ed a maggio il Ministro del Tesoro Andreatta ed il governatore della Banca d’Italia Ciampi tolsero l’obbligo alla banca d’Italia di acquistare tutti i titoli di stato che venivano emessi e quindi di finanziare il debito pubblico, che passò così in soli dieci anni da 142 miliardi (dai 16 miliardi del 1971, perché lo stato finanziava la crescita attraverso l’emissione dei titoli) a ben 850 miliardi di debito – questa volta reale, in quanto contratto verso altri istituti bancari privati.
A questo punto avviene un altro tradimento verso il popolo e, in barba alla costituzione italiana, inizia la cessione ad enti privati delle quote di Banca d’Italia, che verrà forzatamente legalizzata grazie al tradimento dei politici, verificatosi nel 1992 con la legge 35/1992 dal Ministro del Tesoro Guido Carli, ex governatore della banca in questione (quando si dice il caso!).
Nel 1992, solo il 5% delle quote di Banca d’Italia era rimasto di proprietà dello stato, mentre il restante 95% era andato in mano a banche private che le avevano acquistate dai principali gruppi bancari, quali Comit, Credito Italiano e Banco di Roma, che ne garantivano la maggioranza pubblica. Gli acquirenti autorizzati a comprare i titoli di stato erano banche commerciali primarie ed istituzioni finanziarie private quali IMI, Monte dei Paschi, Unicredit, Goldman Sachs, Merryl Linch. Il gioco era fatto: in pochi anni il debito – ad oggi – ha toccato i 2100 miliardi di euro, grazie al tradimento dei politici che iniziarono in maniera concertata con i banchieri a svendere il patrimonio dello stato e dei cittadini a prezzi da saldo e, non contenti ancora, legalizzarono, con l’ennesimo tradimento verso il popolo, la privatizzazione della Banca d’Italia, grazie al governo Prodi che, il 16.12.2006, modificò lo statuto della banca all’articolo 3, facendo sì che essa non fosse più un ente di diritto pubblico, come dovrebbe essere in uno stato democratico. Ma non è finita qui, in quanto in una guerra ci deve essere un vincitore – cioè le famiglie al comando delle banche centrali – ed uno sconfitto – ovvero i popoli dell’Euro-zona sotto la dittatura dell’oligarchia bancaria della BCE (banca privata) e della Commissione Europea, che ha potere decisionale sulle politiche sociali degli stati, mentre il parlamento europeo ha solo quello consultivo. Caduta la controvertibilità in oro, il denaro doveva essere non più addebitato ai cittadini, ma accreditato, in quanto esso è la misura del valore dei beni e servizi che noi cittadini produciamo e non certo dei parassiti banchieri che ci prestano la moneta a debito e che ora decidono le politiche sociali degli stati grazie al collaborazionismo dei politici loro asserviti. Questa moneta creata dal nulla viene trasferita dalla BCE alle grandi banche commerciali private che poi le prestano agli stati ad altissimi interessi, generando un debito pubblico inesigibile perché frutto di una frode poi legalizzata.
Ora dal 2012 gli stati non potranno più decidere quanto spendere e in cosa grazie ai trattati del Fiscal Compact e del MES, o fondo salva stati, che è in realtà un istituto di speculazione finanziaria pronto a requisire gli ultimi beni patrimoniali del nostro già povero stato – beni demaniali e forestali e servizi locali di pubblico interesse.
Ora l’Unione Europea sforna l’ERF, European Redemption Fund, o per meglio dire il Fondo Europeo di Redenzione (o Riscatto). Il 13 giugno 2013 il Parlamento europeo ha approvato, con il voto su due risoluzioni, il regolamento per il rafforzamento della governance dell’U.E.
L’European redemption fund (Erf) farebbe confluire l’importo dei vari debiti pubblici degli Stati dell’Eurozona per la parte eccedente il 60% del PIL in un apposito fondo; l’Erf verrebbe garantito dagli Stati nazionali membri attraverso i loro asset pubblici e da almeno una percentuale di tasse riscosse a livello nazionale. Tale fondo, poi, emetterebbe bonds europei caratterizzati da una rigorosa scadenza di 20, massimo 25 anni. In questo lasso di tempo, tutti gli Stati aderenti avrebbero, inoltre, l’obbligo di assettare il proprio rapporto debito/PIL al 60%, altrimenti avranno la facoltà di acquisire per vendere tutti i nostri beni demaniali Colosseo compreso. Oltre a questo possiamo aspettarci licenziamenti, abbassamento degli stipendi e delle tredicesime e smantellamento dello stato sociale.
Quindi l’Italia non  è una Repubblica Libera e Pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone, nate sul suo Territorio. La Costituzione Italiana dice: “Art. 10 – L’ordinamento Giuridico Italiano si Conforma alle Norme del Diritto Internazionale Generalmente Riconosciute.”
Quello che è stato sottaciuto invece è che One People’s Public Trust, ha legalmente delegittimato tutte le Corporation, Banche e Stati e pignorato tutti i loro beni e valori. Dal 23 Gennaio 2013, i documenti legali dell’O.P.P.T sono legge con validità internazionale, perché incontestate secondo la regola del silenzio assenso di 28 giorni.
Tutte le Corporation Mondiali, Banche e Stati, sono ora fuorilegge e ogni azione illegittima, da loro compiuta, contro di noi, sono da considerarsi un abuso di potere di una società privata. Siamo legalmente liberi e tutti i rapporti contrattuali anche precedenti, sono nulli e riconsiderati di tipo privato e personale. La legge universale – Universal Law – è stata ripristinata. I politici sono stati dipendenti e dirigenti di corporation, ci hanno mentito e usato come schiavi e sfruttati da secoli, come bestiame. Votare significa continuare ad avvallare una corporation delegittimata che continua a muoversi come dittatura occultata senza che il popolo lo sappia. Per questo motivo mi asterrò da qualsiasi tipo di votazione finché non verrà ripristinata la Repubblica Italiana.
Tutti gli argomenti qui trattati sono approfonditi nel libro Gesù il Che Guevara dell’anno zero vol. II
Alessandro De Angelis
scrittore e ricercatore antropologo
 http://www.informarexresistere.fr/2014/05/06/litalia-non-e-una-repubblica-ma-una-corporation-privata-dal-1933-illegali-le-tasse-e-lordinamento-giuridico-in-vigore/

La marcia indietro di Pieczenik sul caso Moro: «istituzioni incompetenti» Il Corriere della Sera pubblica il resoconto dell'interrogatorio, avvenuto in Florida, dell'ex psichiatra ed esperto di sequestri americano Pubblicato il 17 luglio 2014 da Simona Zecchi in Misteri italiani // Nessun commento

Secondo quanto riferisce il Corriere della Sera, l’interrogatorio del pm Luca Palamara - titolare del filone d’inchiesta riguardante il presunto ruolo che gli Stati Uniti avrebbero avuto nel caso Moro - all’ex consigliere americano di Francesco Cossiga, Steve Pieczenik, avvenuto in Florida a maggio, avrebbe fatto emergere la totale marcia indietro rispetto alle passate e costanti dichiarazioni dell’ ex psichiatra ed esperto di sequestri americano.
Dichiarazioni avvenute fino allo scorso 2 giugno, quando Pieczenik aveva confermato al giornalista investigativo Alex Jones la sua partecipazione e la conseguente influenza del suo ruolo sull’epilogo finale del sequestro Moro. Dichiarazioni sciorinate meglio in un libro di anni fa con il giornalista francese Emmanuel Amara dal titolo inequivocabile Abbiamo ucciso Moro.
A leggere la sintesi dell’interrogatorio riportata sul Corriere, sembra di trovarsi di fronte a un quadro ben preciso: da una parte, la conferma che la decisione cosiddetta della fermezza del governo fosse giusta: «se cedi l’intero sistema cade a pezzi», stigmatizza Pieczenik durante l’interrogatorio; dall’altra, l’assoluto diniego sul ruolo che lo Stato avrebbe avuto. Palamara, infatti, avrebbe domandato se è vero che lo Stato italiano lasciò morire il presidente Dc e Pieczenik risponde: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo Moro (…) Tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti».
Dunque, cinque processi e quattro Commissioni parlamentari d’inchiesta, inclusa quella che si appresta ad avviare i lavori, con tante novità recentemente emerse e dipanate in diversi filoni aperti dalla magistratura, sarebbero stati una perdita di tempo, perché il presidente della Dc non si salvò per sola incompetenza delle istituzioni. Pieczenik sostiene, inoltre, di essersi limitato a leggere i comunicati delle Brigate Rosse, aver constatato che il governo italiano non era in grado di fare nulla e di essere ripartito. Valutazioni che sarebbero emerse durante la sua segretissima e protettissima presenza a Roma vissuta, dichiara Pieczenik, in stato di terrore e con una pistola, affidatagli da Cossiga, nella cintola.
A onor del vero, un particolare riferito dell’interrogatorio ed emerso sul Corriere, contrasta totalmente rispetto a quanto dichiarato in precedenza da Pieczenik, riguardo l’obiettivo dietro la sua funzione specifica: «Costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro», avrebbe dichiarato a Palamara l’esperto di sequestri americano. Quando invece da sempre l’ex consigliere di Cossiga aveva dichiarato: «I brigatisti non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola. Avrebbero potuto venirne fuori facilmente, ma erano stati ingannati. Ormai non potevano fare altro che uccidere Moro». Due scopi e due finalità opposte: da una parte, opporsi alle trattative tout court fino al rilascio dello statista; dall’altra, quella da lui sempre riferita, seppur ambiguamente, quella di evitare che fosse rilasciato.
La sintesi dell’interrogatorio è tuttavia troppo breve e scevra di ulteriori dettagli per capire cosa avrebbe contestato il pm Palamara a Pieczenik e cosa questi avrebbe avuto da dire a sua “discolpa”, rispetto a quanto già dichiarato e pubblicato, disinformazione a parte. Troppo poco anche rispetto alle novità appunto emerse che riguarderebbero invece il ruolo dello Stato, linea della fermezza sempre a parte. In attesa che si aprano i lavori della Commissione d’inchiesta, fortemente voluta e ottenuta dal vice presidente dei deputati del Partito democratico, Gero Grassi, aspettiamo anche di vedere l’effetto che avranno le nuove dichiarazioni sull’inchiesta in corso.
«Le avevamo già sentite le parole dell’esperto Usa Steve Pieczenick, ripetute, finalmente, davanti a una magistrato italiano: “Non dovevamo salvare Moro ma stabilizzare il vostro Paese”. Pieczenick conferma che dietro al caso Moro ci fu un vero e proprio golpe». Afferma Grassi commentando l’artico del Corriere della Sera. «Sono così tanti i fatti non spiegati – aggiunge il vice presidente dei deputati del Pd – che abbiamo voluto dotarci di uno strumento per una nuova inchiesta perché l’Italia ha bisogno della verità su un delitto politico che ha deviato il corso degli eventi nel nostro paese. Siamo in attesa che tutti i gruppi parlamentari indichino ai presidenti Boldrini e Grasso i nomi dei propri componenti: occorre fare presto, in modo che la Commissione possa diventare operativa»
 http://www.lettera35.it/interrogatorio-pieczenik-caso-moro-istituzioni-incompetenti/

Caso Moro, i documenti americani confermano l’incriminazione di Pieczenik La corte della Florida si appella al trattato di mutua assistenza esistente fra Italia e Stati Uniti per procedere all'interrogatorio dell’ex consigliere di Cossiga Pubblicato il 9 giugno 2014 da Simona Zecchi in Misteri italiani // Nessun commento

Steve Pieczenik, l’ex analista dell’antiterrorismo Usa coinvolto nell’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro, ha pubblicato sul suo sito i documenti che confermano l’incriminazione, di cui Lettera35 ha riferito nei giorni scorsi, formulata nei suoi confronti dalla giustizia americana, dopo la rogatoria che la magistratura italiana ha promosso per sentirlo in qualità di testimone.
Dai toni e dalle parole usati nell’intervista rilasciata ad Alex Jones il 2 giugno, traspariva la contrarietà di Pieczenik verso Obama e la sua attuale politica estera, ponendo a confronto questa con l’ordine da lui eseguito, proveniente dall’allora amministrazione Carter, come inviato per risolvere il caso Moro. Con la sua tardiva ammissione del 2008 al giornalista francese Emmanuel Amara, nel libro Abbiamo ucciso Aldo Moro, Pieczenik affermò di essere stato parte dell’omicidio, rivelando, così, una notizia di reato. E proprio quanto contenuto nel libro avrebbe spinto il pm della Procura di Roma Luca Palamara, titolare di un filone d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dello statista democristiano, ad avviare degli accertamenti e a recarsi negli Stati Uniti per sentire Pieczenik.
La pubblicazione dei documenti sembra essere in linea con l’atteggiamento dell’indagato. Ciò non toglie che questi, identificati da un numero d’ufficio (case No. 14-21380-MC-Altonaga) e provvisti di note a penna presumibilmente dello stesso Pieczenik, siano autentici. I documenti pubblicati sono in tutto due: il primo [leggi], datato 17 aprile 2014, proviene direttamente dal giudice distrettuale della Florida, Cecilia Altonaga, ed ha per oggetto la “Richiesta della Repubblica italiana (il termine Repubblica manca per un refuso ma è presente nel secondo documento con lo stesso oggetto di comunicazione, ndr) rispondente al trattato fra gli Stati Unti d’America e la Repubblica italiana in materia di mutua assistenza su questioni criminali riguardanti Aldo Moro”. Il secondo [leggi], datato 22 aprile 2014, proviene dal dirigente della procura della Florida Brian K. Frazier, che intima a Piecznik di comparire nel suo ufficio il 27 maggio.
La dicitura presente nell’oggetto della prima richiesta, quella proveniente dal giudice distrettuale, non ha una precisa sintassi perché deriva chiaramente da un formato standard: “in the Matter of unknown” (ossia relativamente a… sconosciuto), al quale viene poi aggiunto tra parentesi il nome di Aldo Moro. Nella richiesta del procuratore distrettuale Frazier invece l’oggetto è più esplicito e si riferisce propriamente al caso Moro.
Il primo documento è di fatto l’autorizzazione a procedere e la nomina di Brian Frazier ad emettere il mandato di comparizione nei confronti di Pieczenik, chiamato a fornire testimonianza in merito a presunte violazioni criminali riguardanti il caso Moro, come prevede il patto di mutua assistenza in materia criminale fra Stati Uniti e Italia. La comunicazione che Frazier invia a Pieczenik si conclude con l’ammonimento a non negare la sua disponibilità a testimoniare, cosa che comporterebbe conseguenze penali.
Certo la richiesta della procura italiana appare rivolta solo ad individuare ulteriori notizie di reato provenienti da Pieczenik. Per questo anche la giustizia americana si dimostra cauta e utilizza il termine “presunte” (alleged) nella definizione delle accuse formulate. Tuttavia è davvero possibile che la magistratura italiana continui a definire Pieczenik un semplice testimone dei fatti?

 http://www.lettera35.it/moro-documenti-incriminazione-piecznik/

Caso Moro, Pieczenik interrogato in qualità di testimone dalla magistratura italiana L'ambiguo "negoziatore" ha rivelato di essere stato accusato dalle autorità Usa di complicità nell'omicidio ma la Procura di Roma l'ha sentito solo in qualità di testimone Pubblicato il 6 giugno 2014 da Simona Zecchi in Misteri italiani // Nessun commento

La notizia riferita ieri da lettera35, riguardo la presunta incriminazione dell’ex analista del Dipartimento di Stato americano, Steve Pieczenik, coinvolto nel caso Moro, comincia ad avere i dettagli in chiaro e i toni della conferma. Ieri sera l’agenzia Ansa, dopo la pubblicazione del nostro articolo, ha battuto la notizia che la Procura di Roma ha interrogato, nel corso di una rogatoria, l’esperto americano che fu chiamato dall’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga, a “gestire la crisi” nei 55 giorni di prigionia del presidente Moro.
Secondo quanto ha riferito l’Ansa il pm romano, Luca Palamara, titolare di un filone dell’inchiesta sulla morte dell’allora presidente della Dc, si è recato negli Stati Uniti e ha sentito Pieczenik come “testimone”. L’atto istruttorio – spiega l’agenzia – si è tenuto attraverso una rogatoria internazionale, promossa dal ministero della Giustizia italiano, e l’ex consulente continuerebbe a rivestire la veste di testimone.
Il 2 giugno era stato lo stesso psichiatra ed esperto di terrorismo, in un’intervista rilasciata al giornalista investigativo Alex Jones, a riferire che l’amministrazione Obama, attraverso una richiesta ufficiale del Dipartimento di Giustizia firmata dal giudice distrettuale della Florida Cecilia Altonaga, l’ha accusato di complicità nell’omicidio di Aldo Moro e per essersi rifiutato di negoziare il rilascio dei terroristi.
In merito a quanto sta emergendo, intanto, è lecito un primo distinguo, così come il dubbio che da esso deriva. L’ex consulente di Francesco Cossiga, nel 2008 insieme al francese Emmanuel Amara, scrisse un libro Abbiamo ucciso Aldo Moro (Cooper edizioni) in cui di fatto già rivelava una notizia di reato che fino ad oggi, nonostante un’inchiesta aperta e chiusa nel mezzo, non aveva suscitato nessuna curiosità o stimolo ad approfondire l’attività investigativa.
Il “negoziatore” Pieczenick arriva a Roma nel marzo 1978 su mandato dell’amministrazione Carter per dare una mano a Cossiga alle prese con il sequestro Moro. Prende una stanza all’Excelsior e comincia lo studio dell’avversario. Così racconta Pieczenik, poi però svela quale è stata la decisione che optò per la “condanna” a morte dello statista rifiutandosi di negoziare con le Brigate Rosse e avallando, se non gestendo, la posizione del governo.
Il “negoziatore” mancato sostiene, da sempre, di aver avuto un ruolo con le autorità italiane per attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell’Italia». «Mi aspettavo che le Br – scriveva Pieczenik nel suo libro – si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo e che lo liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro».
Dunque se diamo per buone le parole da lui scritte, questo suo ruolo non colliderebbe affatto con le recenti rivelazioni dell’ex ispettore Enrico Rossi, il cui filone avocato dal procuratore generale della Corte d’Appello di Roma Luigi Ciampoli, vedrebbe il coinvolgimento dei Servizi segreti.
Il dubbio che sorge sulla sottolineatura da parte della magistratura sul ruolo puramente testimoniale, come riferito dall’agenzia Ansa, sta nel fatto che contrariamente le dichiarazioni di Piecznick al giornalista americano Alex Jones, riportate come esclusiva sul sito infowars.com, sono di tutt’altro tenore e significato: «I was brought in on criminal charges», cioè sono stato incriminato, «at the behest of the Italian prosecutor», dunque su richiesta ufficiale del pubblico ministero italiano. Non si tratta di interpretazione linguistica ma di traduzione letterale dei termini che specificano i fatti. Dunque, bisogna capire dove sta la verità tra questi due fuochi.
E’ possibile, certo, che sia lo stesso Pieczenik a millantare il fatto, tuttavia sembra difficile credere che un sospettato o un semplice testimone dia per primo la notizia di essere incriminato e quindi si faccia reo-confesso senza che ci sia del vero. Proprio per sottolineare le sue aspre critiche verso l’amministrazione Obama, certo, per la gestione della politica estera, come racconta nel corso dell’intervista a Jones, dopo l’imbarazzante caso dell’ultimo prigioniero di guerra liberato Bowe Bergdahl. Inoltre, date le precise parole di Pieczenik, non è cosa possibile che l’incriminazione avvenga da parte di un’amministrazione americana, direttamente, senza un atto di rogatoria da altro paese.
Il riserbo sulla questione da parte di Piazzale Clodio è ovviamente assoluto. Dobbiamo attendere, dunque, che si faccia chiarezza e che non si mescolino le carte.

 http://www.lettera35.it/caso-moro-pieczenik-interrogato-dalla-magistratura-italiana/

Sequestro Moro, Obama mette sotto inchiesta Steve Pieczenik L'ex analista dell'antiterrorismo sarebbe stato incriminato dalla giustizia americana per essersi rifiutato di negoziare con le Brigate rosse

In un’intervista al giornalista investigativo Alex Jones, andata in onda il 2 giugno scorso, Steve Pieczenik, l’analista dell’antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano coinvolto nel caso Moro, ha dichiarato che meno di una settimana fa l’amministrazione Obama, attraverso una richiesta ufficiale del Dipartimento di Giustizia firmata dal giudice distrettuale della Florida Cecilia Altonaga, l’ha accusato di complicità nell’omicidio del presidente della Dc, Aldo Moro, e per essersi rifiutato di negoziare il rilascio dei terroristi.
Pieczenik, secondo quanto riporta il sito Infowars, gestito dallo stesso Jones, afferma di essere stato incriminato «per aver concretamente seguito la nostra politica di non negoziazione con le Brigate Rosse». «Trentacinque anni dopo il Dipartimento di Stato e il Dipartimento di Giustizia come ordinato da Obama – ha aggiunto l’ex analista americano – mi hanno chiesto di comparire davanti alla corte in seguito di una richiesta ufficiale del procuratore italiano con l’aggiunta condizione che sarò indagato con rinvio a giudizio se non rivelerò ciò che ho fatto per salvare l’Italia ed essermi rifiutato di negoziare con i terroristi».
A quanto riferisce Infowars a sollecitare un intervento del Dipartimento di giustizia nei confronti dell’ambiguo analista sarebbe stata la magistratura italiana, ma al momento questa ipotesi non trova conferme ufficiali. Pieczenik, psichiatra, specialista in gestioni di crisi ed esperto di terrorismo, secondo quanto rivelò lui stesso in un libro-intervista, durante i 55 giorni del sequestro Moro collaborò gomito a gomito con l’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga.
Fu lui “l’esperto americano” che indirizzò e gestì l’azione di contrasto dello Stato alle Brigate rosse e la sua presenza al Viminale durante il sequestro da molti fu interpretata come una sorta di ”controllo” Usa sulla vicenda che coinvolgeva un Paese all’epoca decisivo negli equilibri Est-Ovest.
Pieczenik nel suo libro rivendicava la scelta di aver finto di intavolare una trattativa con le Br quando invece «era stato deciso che la vita dello statista era il prezzo da pagare». «La mia ricetta per deviare la decisione delle Br era di gestire – spiegava lui stesso – un rapporto di forza crescente e di illusione di negoziazione. Per ottenere i nostri risultati avevo preso psicologicamente la gestione di tutti i Comitati (del Viminale, ndr) dicendo a tutti che ero l’unico che non aveva tradito Moro per il semplice fatto di non averlo mai conosciuto».
Lo psichiatra rivelò anche di aver pianificato l’operazione del Lago della Duchessa, e del falso comunicato n. 7 che annunciava la morte di Moro. «I brigatisti non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola. Avrebbero potuto venirne fuori facilmente, ma erano stati ingannati. Ormai non potevano fare altro che uccidere Moro».
«Si tratta di un fatto positivo. Se la notizia dell’incriminazione di Pieczenik sarà confermata evidentemente ci sono elementi di novità che a noi sfuggono», commenta a lettera35 il vice presidente dei deputati del Pd, Gero Grassi, promotore della Commissione d’inchiesta sul sequestro Moro di prossima istituzione. «Tutto questo – ha aggiunto l’esponente democratico – dimostra che è necessario fare piena luce su questa brutta pagina della nostra storia, e in questo dovrà contribuire anche la Commissione parlamentare d’inchiesta».

 http://www.lettera35.it/moro-obama-steve-pieczenik/

«In via Fani non c’erano solo le Brigate Rosse» Parla in un'intervista esclusiva al settimanale Oggi l'ex brigatista Raffaele Fiore che prese parte al sequestro Moro

«C’erano persone che non conoscevo. Che non dipendevano da noi. Che erano altri a gestire». In un’intervista esclusiva al settimanale Oggi l’ex brigatista rosso Raffaele Fiore, che il 16 marzo 1978 prese parte al rapimento del presidente della Dc Aldo Moro, ricostruisce così quanto avvenne in via Fani avvalorando il sospetto che non furono solo le Brigate Rosse a gestire il caso Moro.
«Anche rispetto alla presenza sul luogo dell’agguato di una moto Honda con due persone a bordo: né io né gli altri compagni sappiamo nulla della moto, abbiamo avuto modo di parlarne e di riflettere», ha aggiunto il brigatista. «Non so se c’era, né chi erano i due a bordo. Non facevano parte del commando dell’organizzazione».
Fiore, condannato all’ergastolo e dal 1997 in libertà condizionata, nell’intervista, soppesando le parole, afferma anche che da parte delle Br non ci fu «un uso strumentale di altre forze», ma, tuttavia, «si era creata una situazione per cui facendo qualcosa rischiavi, pur non volendo, di essere “utile” ad altri».
Sulla possibilità che Moro venisse salvato, Fiore ha poi aggiunto: «C’erano i presupposti per arrivare a una conclusione, e noi abbiamo fatto diversi tentativi per uscire da quella campagna in modo meno cruento. C’era la volontà di liberare Moro e lo abbiamo fatto capire in tutti i modi. Se loro autonomamente avessero messo fuori, non il gruppo che avevamo chiesto, ma solo due compagni detenuti nonostante le loro gravi condizioni di salute, ci avrebbero spiazzato. Noi siamo stati costretti a quella soluzione finale». L’intervista contiene anche un passaggio molto criptico: «Volevamo solo il rilascio dei nostri compagni, poi abbiamo capito che non sarebbe stato facile portare avanti la battaglia. Che erano entrate troppe forze in campo».
Per il vice presidente dei deputati del Pd, Gero Grassi, tra i promotori della Commissione d’inchiesta sul caso Moro appena varata dal Parlamento, l’intervista a Raffaele Fiore «è l’ennesima conferma che nel caso Moro sono entrati soggetti terzi rispetto alle Brigate Rosse, proprio come ha sempre detto uno dei fondatori delle Br, Alberto Franceschini».
Grassi ricorda, inoltre, che molti osservatori hanno sempre sostenuto «che i fatti dimostrano che la verità raccontata delle Br non è completa e che la presenza a via Fani del colonnello Guglielmi non può essere stata una semplice casualità». La verità del caso Moro, ha concluso l’esponente democratico: «sta affiorando, il nostro compito è quello di contribuire in questa direzione».
Anche Enrico Rossi, l’ex funzionario della Digos di Torino che ha svelato all’Ansa la storia della inchiesta “interrotta” sulla presenza della moto Honda in via Fani, ha commentato le parole di Fiore. «Mi rivolgo a coloro che sanno – ha detto l’ex investigatore -, e non sono pochi, a Torino e non, e gli chiedo un atto di coraggio. Raccontate quello che sapete sulla vicenda della Honda in via Fani: dire la verità vi renderà più coraggiosi».
«Dopo quella intervista – ha aggiunto Rossi – ho subito gravi denigrazioni sia a livello personale che professionale. Politici di vari schieramenti, da destra a sinistra hanno detto che bisognava “tapparmi la bocca” perché ammorbavo l’aria e che il mio scopo era di intorbidire le acque in cui si dibattono reduci degli apparati di sicurezza dello Stato, in perenne conflitto tra loro. Ora ha parlato un brigatista, né pentito né dissociato come Fiore, che si trovava in via Fani la mattina del 16 marzo 1978. Rientra anche lui in un disegno occulto finalizzato a disinformare e depistare, mescolando vero e falso, per spostare l’attenzione sui servizi segreti nostrani o, più semplicemente, il signor nessuno, l’ex Ispettore della Rossi ha soltanto detto la verità in merito ad un’indagine inspiegabilmente sottovalutata?».
Fonti della Procura generale di Roma hanno annunciato che l’intervista di Fiore sarà acquisita dal procuratore generale, Luigi Ciampoli, che dall’aprile scorso ha avocato l’inchiesta, al momento senza indagati, svolta dalla Procura di Roma e derivata dalle dichiarazioni dell’ex ispettore Rossi. L’iniziativa della Procura generale potrebbe rappresentare un passo preliminare in vista di una convocazione di Fiore.

 http://www.lettera35.it/moro-via-fani-brigate-rosse/

domenica 17 agosto 2014

DOPO GRECIA E SPAGNA, ARRIVERA’ ANCHE PER L’ITALIA IL GIORNO DELLA “CESSIONE DI SOVRANITÀ” - ALTRO CHE ART.18, AL MACERO ANDRÀ L’INTERO STATUTO DEI LAVORATORI A FAVORE DI UNA PIENA LIBERALIZZAZIONE DEL MERCATO DEL LAVORO, COMPRESO IL LICENZIAMENTO SENZA GIUSTA CAUSA All’Italia verrà richiesto di fare riforme “vere”, che incidono nella carne, che fanno discutere e smuovono le acque davvero, com’è avvenuto in Grecia e in Spagna. Quel po’ di comprensione sui parametri di Maastricht e sul Fiscal compact non sarà un pasto gratis… -

Francesco Bonazzi per Dagospia

Il vento di Città della Pieve comincia a spirare e non è quello che ci ha raccontato Renzie. Più passano i giorni dall’incontro nel borgo umbro tra Mario Draghi e il nostro premier e più appare chiaro che quando il presidente della Bce parlava di “cessione di sovranità” per fare le riforme non era una semplice ipotesi accademica.

E la prima risposta di Pittibimbo, “decidiamo noi”, era l’ultima spacconata di una fase ormai conclusa in cui si poteva pensare di aggiustare i conti giocando con la fisarmonica della “spending review”.

renzi zappa renzi zappa
Dopo l’uscita degli ultimi dati Istat è diventato chiaro che l’Italia non solo non riuscirà a mantenere gli impegni sulla riduzione del debito, ma che faticherà anche a mantenere il rapporto deficit/pil nei limiti del 3%. E man mano che ci si avvicina al vertice europeo di fine mese si fa strada l’ipotesi dello scambio politico tra riforme e rigore sui conti pubblici.
DRAGHI cazzia RENZI web DRAGHI cazzia RENZI web

In sostanza, i paesi più in difficoltà, guidati da Italia e Francia, s’impegnerebbero ad adottare le riforme considerate prioritarie dall’Europa in cambio di uno sconto sul pareggio di bilancio e sul contenimento dei deficit per il 2015.

Siamo di fronte a quella “cessione di sovranità” di cui parlava Draghi e che a questo punto c’è motivo di ritenere sia stata spiegata nei minimi particolari a Renzie nel faccia a faccia di Città della Pieve.

FINANCIAL TIMES SU RENZI FINANCIAL TIMES SU RENZI
Già, ma quali sono queste riforme “prioritarie” per l’Europa? In Italia è sempre più chiaro che si tratta della riforma del lavoro, già fatta con un certo successo dalla Spagna, che infatti ha ripreso a correre. Su questa, gira più di un’illusione. La più vistosa è che basterà togliere l’articolo 18 per i nuovi assunti per tre anni, salvando al contempo il divieto di licenziamento senza giusta causa per tutti gli altri.

DRAGHI RENZI DRAGHI RENZI
Le riforme che rischiamo di farci chiedere dall’Europa sono un po’ più corpose e vanno oltre una semplice moratoria. L’articolo 18 rischia nel suo complesso ed è tutto lo Statuto dei lavoratori del Settanta a essere in discussione, con una piena liberalizzazione del mercato del lavoro. Non è un caso che Renzie, tentando di schivare la polemica sul singolo articolo 18, abbia detto che è tutto lo Statuto a dover essere messo sotto esame.

maria rosaria rossi maria elena boschi matteo renzi maria rosaria rossi maria elena boschi matteo renzi
Da ora in poi, con il vento di Città della Pieve che soffia sulle riforme, comprese quella fiscale e della giustizia civile, a Renzie e al suo governo non sarà più consentito di balbettare e chi pensa di potersi trastullare in autunno con la sola riforma elettorale sbaglia di grosso.

RENZI SELFIE CON GLI SCOUT RENZI SELFIE CON GLI SCOUT
Sbaglierebbe di grosso anche chi, entrando in una nuova era di “scambi di sovranità” con Bruxelles, pensasse che l’Italia questa volta possa limitarsi a fare il compitino con un po’ di tagli qua e là e promettendo riforme poi da attuare con comode leggi delega quando si trova tempo. All’Italia verrà richiesto di fare riforme “vere”, che incidono nella carne, che fanno discutere e smuovono le acque davvero, com’è avvenuto in Grecia e in Spagna. Quel po’ di comprensione sui parametri di Maastricht e sul Fiscal compact non sarà un pasto gratis.
 http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/dopo-grecia-spagna-arrivera-anche-italia-giorno-cessione-82920.htm

giovedì 14 agosto 2014

La strage di Ustica e gli imbarazzanti silenzi dell’Aeronautica L'aviazione militare italiana continua a tacere sul disastro del Dc9 Itavia mentre la Francia ha deciso di collaborare alle indagini Pubblicato il 27 giugno 2014 da Fabrizio Colarieti in Misteri italiani // Nessun commento

Chissà ai piani alti dello Stato maggiore dell’Aeronautica militare come avranno preso la notizia che qualcuno, Oltralpe, trentaquattro anni dopo la notte di Ustica, ha deciso di iniziare a scrivere una nuova pagina di questa brutta storia. La verità è ancora lontana, è vero. E lo è anche perché i francesi non è detto che stavolta faranno sul serio. Potrebbero dire e non dire, o, nella peggiore delle ipotesi, potrebbero raccontare qualcosa che, pur aggiungendo nuovi tasselli a questo rompicapo, non porterà da nessuna parte, anzi.
I familiari delle vittime hanno ragioni da vendere quando affermano che in questa storia, per fare davvero un passo in avanti, serve il pugno duro del governo e della diplomazia internazionale. La magistratura è arrivata fin dove poteva arrivare: a Parigi. Le rogatorie hanno fatto capire ai francesi che in Italia c’è ancora qualcuno che vuole la verità. Oltre deve andare il governo, perché senza l’avallo della politica difficilmente una dozzina di militari francesi, quelli che la Procura di Roma ha già sentito in qualità di testimoni, riusciranno a condurci verso il punto di svolta.
Il punto da non perdere di vista, tuttavia, è anche un altro. E il governo, in questo caso, potrebbe giocare un ruolo decisivo non solo desecretando veline che nella migliore delle ipotesi confermeranno quello che già sappiamo. Perché quella notte, oltre i francesi, gli americani, i libici e la Nato, ebbe un ruolo – e non di certo secondario – anche la nostra Aeronautica. Lo ha ripetuto, per tre volte consecutive, la Cassazione, in sede civile, tornando a ricordare che qualunque cosa sia accaduta nel cielo di Ustica le nostre istituzioni avevano il dovere di proteggere quel volo, e questo non avvenne.
Ai piani alti dello Stato maggiore dell’Ami ancora oggi si fa fatica a trovare una divisa disposta a parlare di Ustica. Perché Ustica, là dentro, ha lasciato una cicatrice indelebile. Ha piegato le ali all’aquila che capeggia sul palazzo di via dell’Università. Ha sporcato decine di carriere e ne ha decise altre. Ma c’erano anche loro quella notte. In volo e a terra davanti ai radar di diverse stazioni che videro cosa stava accadendo attorno al Dc9 Itavia.
Non una parola. Non un commento. I vertici dell’Aeronautica, quelli di oggi, restano in silenzio, come sempre, come quelli di ieri. Dicono che la nuova generazione di ufficiali, quelli che negli anni Ottanta sognavano di entrare nell’Arma azzurra o vi erano appena entrati, la pensino diversamente dai loro predecessori. Ci sono ufficiali di alto rango che considerano Ustica un incidente di percorso, come le vittime che si perdono in guerra. Altri sono offesi e insofferenti verso quell’atteggiamento di chiusura e negazione che ha sempre contraddistinto i vertici della nostra aviazione militare.
Sperare in un cambio di rotta è difficile, ma la politica, per esempio, potrebbe sollecitare l’attuale Capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, il generale Pasquale Preziosa, ad aprire i cassetti dei suoi archivi e a collaborare con la magistratura. Sarebbe una mossa coraggiosa e opportuna. Non cancellerebbe le omissioni, le manipolazioni documentali, i depistaggi e i silenzi narrati nelle pagine di Ustica, ma permetterebbero di scrivere la parola fine. Il generale Preziosa è un pilota, si è arruolato nel 1971 e nove anni dopo era già ai comandi degli F-104, gli stessi caccia che la notte di Ustica ebbero un ruolo in uno dei punti chiave di questa vicenda, i cieli della Toscana.
Dunque chi sa parli, e lo faccia presto perché se il vento è davvero cambiato c’è il rischio che i pesanti sospetti, che non hanno mai abbandonato l’Aeronautica, tornino a velare l’immagine di un corpo che è cambiato, ma non abbastanza da permettersi ancora il lusso di voltare le spalle a chi non ha mai smesso di credere che un giorno qualcuno risponderà alla più elementare delle domande: perché?

 http://www.lettera35.it/strage-ustica-aeronautica/

I poteri occulti nel “ventre molle” del Mediterraneo In libreria la nuova edizione de "L'Anello della Repubblica" l'inchiesta della giornalista Stefania Limiti sul "noto servizio" Pubblicato il 11 luglio 2014 da Stefania Limiti in Misteri italiani // 1 Commento

Entrare nelle vicende del servizio segreto clandestino chiamato Anello è un po’ come spingersi in una delle tante stanze di uno «Stato parallelo». Come vedrà il lettore paziente, la fatica va fatta non solo perché permette di attraversare una buona parte della storia d’Italia, ma anche perché è un racconto sul livello occulto del potere che, ancorché sconosciuto per definizione, non è affatto qualcosa di indefinibile e impenetrabile.
Lo storico Angelo Ventura, come ricordo in Doppio livello, propone di individuare i requisiti essenziali del concetto di poteri occulti per non «cadere nel paradosso e dilatar[n]e il concetto sino a privarlo di significato reale e quindi di efficacia» e individua i seguenti caratteri costituenti: «Il segreto, che copre in tutto o in parte i membri, le azioni e talvolta gli stessi fini e addirittura l’esistenza dell’organizzazione; la funzione di contropotere, in quanto perseguono autonomamente fini propri di potere, diversi o contrari rispetto al potere legittimo; il carattere illegale delle attività e, per lo più, della stessa esistenza dell’organizzazione occulta».
Dopo la definizione, Ventura individua i principali poteri occulti operanti nel nostro paese almeno nell’ultimo ventennio, attivi in una dimensione internazionale e caratterizzati da un complesso intreccio di rapporti, pur conservando la loro autonomia: i servizi segreti nazionali, o settori di essi, quando assumono il carattere di corpi separati sottratti al controllo del governo politico, e quelli stranieri, che operano nel nostro territorio con metodi illegali e senza l’autorizzazione del governo italiano; le organizzazioni eversive clandestine, rosse e nere; la loggia massonica P2 e le altre logge segrete; la grande criminalità organizzata, definita anche «strutturata».
Questi sono i soggetti che incontriamo nel racconto dell’Anello e in quello di tutti gli altri organismi e personaggi della guerra sotterranea che ha trovato il suo luogo più naturale nel paese chiave del Mediterraneo, «ventre molle» dell’Alleanza atlantica. I misfatti dell’Anello rientrano a pieno titolo nella storia non ufficiale del nostro paese. Contrariamente a quello che si possa immaginare, di questo organismo noi sappiamo già molto o, almeno abbastanza, rispetto ad altri organismi (ai quali accenna Paolo Cucchiarelli nella sua efficace e lucida postfazione); per esempio, si pensi ai Nuclei di difesa dello Stato di cui sappiamo ben poco.
Dell’Anello – altrimenti conosciuto, sulla base dei documenti esistenti, anche come «noto servizio», nome usato tra gli addetti ai lavori per evitare una sua esplicita e inopportuna identificazione – come si vedrà sappiamo varie cose (nomi, zone territoriali d’influenza, tipo di attività, mezzi a disposizione) anche se non possiamo illuderci di stabilire una gerarchia tra i vari servizi e le agenzie. D’altra parte, non sappiamo se in futuro ne verranno scoperti altri: non si tratta di una ipotesi spericolata, visto che la guerra non convenzionale che è stata esportata in Italia per controllare e orientare l’evoluzione della nostra democrazia si è servita soprattutto di strutture occulte alle quali va aggiunto a pieno titolo, per esempio, il movimento politico Ordine Nuovo.
L’esistenza di segreti è connaturata al potere e non è di per sé espressione di una sua deviazione dai fini legittimi e dichiarati. Così la dialettica tra azioni pubbliche e quelle «coperte» non necessariamente produce zone «affrancate» da ogni possibilità di controllo democratico, come, invece, è successo in Italia. Nel nostro paese i poteri espressione dello Stato democratico-formale ed effettivamente operanti in questa funzione in tutte le sue manifestazioni hanno gestito da una certa distanza poteri illegittimi che hanno fatto parte anch’essi, in definitiva, della nostra Costituzione materiale – definizione che si può adattare perfettamente anche a un solo uomo: Giulio Andreotti, il politico più di altri vicino agli ambienti dell’Anello, uno dei suoi «utilizzatori finali», oseremmo dire.
A riguardo è verosimile quanto mi fu riferito da un uomo dell’Anello sul servizio scorte garantito al politico più longevo d’Italia soprattutto nei suoi spostamenti più riservati come quelli in terra siciliana: Andreotti avrebbe goduto di una agibilità completamente protetta dai resoconti ufficiali cui sono tenuti gli agenti delle scorte di Stato. La storia che leggerete nel mio libro ci introduce, dunque, nelle modalità operative dei poteri occulti i quali si dotano di strumenti invisibili e non rintracciabili.
Per esempio: nel 1977 per riconsegnare il nazista Herbert Kappler, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, alla Germania – una scelta che toglieva dignità al nostro paese e che non poteva essere sostenuta pubblicamente – il governo italiano appaltò l’operazione ad Adalberto Titta, il capo operativo dell’Anello, e ai suoi uomini. Chi mai, infatti, avrebbe potuto rintracciarli o, scoperti in fragrante con l’ostaggio in auto, collegarli al direttore ufficiale del servizio (Mario Casardi) che pure in quel momento dirigeva questa particolare operazione di esfiltrazione Nella storia della strategia della tensione sono state determinanti le figure degli «irregolari», come gli agenti dell’Anello e tutti coloro che a vario titolo gli ruotavano intorno – un nome per tutti: il professor Giovanni Maria Pedroni, stimato e noto professionista milanese, segretamente anche medico dell’Anello.
L’ex ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani ammonì i membri della Commissione stragi dicendo di non soffermarsi sulle strutture ufficiali ma di cercare proprio tra gli irregolari. Nel suo libro di memorie Taviani scrive: «Nel periodo dello sfascio del Sifar e della confusione del Sid erano stati assunti come agenti di complemento parecchi confidenti, veri e propri “servizi paralleli” spesso equivocati con la Gladio mentre con essa non avevano nulla a che fare». L’ex ministro, che iniziava a essere loquace nell’ultima parte della sua vita, disse ai magistrati di Brescia che: «Il Sifar fu distrutto nel 1966 [...] l’Italia rimase scoperta in questo settore [...] il Sid nacque debole [...] il ministro Tanassi non aveva né competenza né prestigio [...]. Fu in questo clima che i gruppuscoli di estrema destra, che vivacchiavano agli inizi degli anni Sessanta, si gonfiarono sino a costituire una galassia distaccata ormai dal Msi [...]. In alcuni settore del Sid e dell’Arma di Milano e di Padova vi furono delle deviazioni ». Sempre nella stessa circostanza Taviani specificò che, sebbene nel 1958 come ministro della Difesa aveva dato direttive affinché in Gladio non fossero inseriti fascisti e comunisti, «poi ho avuto la sensazione che tra i miei successori ci sia stato un certo lasciar libertà agli organi militari senza addentrarvisi troppo».
Aldo Moro, secondo Pier Paolo Pasolini l’uomo «meno implicato» del sistema democristiano, sapeva dell’esistenza dell’Anello e chiamava «servizi paralleli gli uomini di completamento dei servizi segreti, quelli utilizzati dall’esterno come Guido Giannettini, Caradonna o Delle Chiaie». Moro non avrebbe mai immaginato che proprio alcuni di quegli irregolari sarebbero passati così tanto vicino a lui nel momento finale della sua esistenza. Gli uomini di Adalberto Titta, infatti, ficcarono il naso durante i cinquantacinque giorni nelle prigioni di Moro e il cappellano dell’Anello, padre Enrico Zucca, un francescano molto attivo anche nell’alta borghesia milanese, ebbe la possibilità di entrare in contatto con alcuni esponenti del mondo brigatista per avviare una trattativa che qualcuno più in alto decise poi di far fallire; incredibilmente il ruolo di padre Zucca è stato completamente inabissato da qualunque sede di analisi del caso Moro, tribunali, commissioni parlamenti e tant’altro.
Ma l’Anello non si sarebbe limitato a entrare in azione durante il caso Moro. A detta di una fonte interna alla struttura, già nel 1977 si sarebbe svolta a Bari, nella lussuosa villa di un politico, una riunione segretissima tra Titta, alcuni suoi fidati collaboratori e importanti funzionari dell’amministrazione statunitense e italiana: era settembre e il consesso si riunì all’incirca alle 9 di sera, protetto da guardie esperte messe a presidiare ogni angolo di quel luogo rimasto ignoto. L’oggetto dell’incontro era la supervisione della situazione italiana e, in particolare, delle mosse politiche di Aldo Moro, considerato non affidabile e pericoloso per la stabilità degli interessi statunitensi. Secondo la mia fonte quell’incontro dette il via all’operazione Moro che sarebbe avvenuta «secondo la solita strategia, cioè appena si sarebbe presentata la situazione favorevole».
Non ne sappiamo di più, purtroppo, ma è evidente che la faccenda, oltre a richiamare le modalità del Doppio livello (far fare ad altri le azioni destabilizzanti), confermerebbe la dimensione internazionale dei compiti svolti dall’Anello e la totale permeabilità dei nostri apparati di intelligence, regolari o non, all’influenza straniera, questione del resto comprovata da saggi di analisi e da numerose testimonianze (si pensi a quella del generale Maletti da Johannesburg). Stranamente, ma è una pura coincidenza territoriale, tra le diverse segnalazioni precedenti al rapimento di Aldo Moro, una arrivò proprio dalla zona pugliese. Il 16 febbraio Salvatore Senese, detenuto a Matera, disse di aver saputo che sarebbe avvenuto qualcosa al politico Dc: la «soffiata» arrivò al centro dei servizi di Bari, area dove Moro si recava spessissimo perché era il suo collegio elettorale, ma fu «congelata». La sede centrale del Sismi ne fu informata solo la mattina del 16 marzo 1978, il giorno del rapimento.
La guerra segreta all’Italia deve essere in gran parte ancora scritta. A meno che non ci accontentiamo della versione ufficiale che ci è stata data della Gladio: edulcorata e buonista. La faccenda è ben più complicata di quello che ci è stato fatto credere. Confida oggi lo storico Giuseppe De Lutiis che una sua fidatissima fonte dell’ambiente dell’intelligence gli raccontò che, in effetti, definire i termini dello sdoganamento ufficiale della Gladio non fu semplice e che «la compilazione della lista dei 622 gladiatori ufficiali non fu affatto facile. Attorno a un tavolo discussero per qualche giorno e qualche notte alcuni alti funzionari per decidere chi mettere “in chiaro” e chi tutelare. La mia fonte – continua De Lutiis – sapeva tutto ma non volle mai dirmi altro in merito alla reale consistenza del fenomeno Gladio. Certamente i nomi che si decise di tutelare furono tanti, forse persone insospettabili che mai potremo conoscere a meno di una loro stessa improbabile autodenuncia».
Mi illudo, riscrivendo a distanza di cinque anni questa premessa, che la storia dell’Anello sia ormai nota ai più. Per quasi mezzo secolo è stata totalmente oscura, poi sono caduti alcuni veli che ne garantivano una ferrea clandestinità, ma non perché alcuni protagonisti hanno scelto di parlare e di fare un po’ di pulizia tra le menzogne che hanno accompagnato la nascita e la vita della nostra Repubblica.
In definitiva questa storia, scoperta grazie alle intuizioni del giudice Guido Salvini e alla caparbietà di Massimo Giraudo, l’investigatore che più di altri l’ha ricostruita, conferma che le strutture occulte tutelano sempre se stesse, così come fanno gli uomini dello Stato che ne sono a conoscenza e che le usano. Nessuna gola profonda all’interno delle istituzioni ha mai alzato un dito per dire «io so»: e questo è davvero un cancro per un paese come il nostro, ancora alle prese con il proprio passato mentre intorno a noi tutto il mondo cambia rapidamente.
Testo tratto dalla nuova edizione del libro L’Anello della Repubblica di Stefania Limiti (Chiarelettere, 2014)

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La marcia indietro di Pieczenik sul caso Moro: «istituzioni incompetenti» Il Corriere della Sera pubblica il resoconto dell'interrogatorio, avvenuto in Florida, dell'ex psichiatra ed esperto di sequestri americano Pubblicato il 17 luglio 2014 da Simona Zecchi in Misteri italiani // Nessun commento

Secondo quanto riferisce il Corriere della Sera, l’interrogatorio del pm Luca Palamara - titolare del filone d’inchiesta riguardante il presunto ruolo che gli Stati Uniti avrebbero avuto nel caso Moro - all’ex consigliere americano di Francesco Cossiga, Steve Pieczenik, avvenuto in Florida a maggio, avrebbe fatto emergere la totale marcia indietro rispetto alle passate e costanti dichiarazioni dell’ ex psichiatra ed esperto di sequestri americano.
Dichiarazioni avvenute fino allo scorso 2 giugno, quando Pieczenik aveva confermato al giornalista investigativo Alex Jones la sua partecipazione e la conseguente influenza del suo ruolo sull’epilogo finale del sequestro Moro. Dichiarazioni sciorinate meglio in un libro di anni fa con il giornalista francese Emmanuel Amara dal titolo inequivocabile Abbiamo ucciso Moro.
A leggere la sintesi dell’interrogatorio riportata sul Corriere, sembra di trovarsi di fronte a un quadro ben preciso: da una parte, la conferma che la decisione cosiddetta della fermezza del governo fosse giusta: «se cedi l’intero sistema cade a pezzi», stigmatizza Pieczenik durante l’interrogatorio; dall’altra, l’assoluto diniego sul ruolo che lo Stato avrebbe avuto. Palamara, infatti, avrebbe domandato se è vero che lo Stato italiano lasciò morire il presidente Dc e Pieczenik risponde: «No, l’incompetenza dell’intero sistema ha permesso la morte di Aldo Moro (…) Tutte le istituzioni erano insufficienti e assenti».
Dunque, cinque processi e quattro Commissioni parlamentari d’inchiesta, inclusa quella che si appresta ad avviare i lavori, con tante novità recentemente emerse e dipanate in diversi filoni aperti dalla magistratura, sarebbero stati una perdita di tempo, perché il presidente della Dc non si salvò per sola incompetenza delle istituzioni. Pieczenik sostiene, inoltre, di essersi limitato a leggere i comunicati delle Brigate Rosse, aver constatato che il governo italiano non era in grado di fare nulla e di essere ripartito. Valutazioni che sarebbero emerse durante la sua segretissima e protettissima presenza a Roma vissuta, dichiara Pieczenik, in stato di terrore e con una pistola, affidatagli da Cossiga, nella cintola.
A onor del vero, un particolare riferito dell’interrogatorio ed emerso sul Corriere, contrasta totalmente rispetto a quanto dichiarato in precedenza da Pieczenik, riguardo l’obiettivo dietro la sua funzione specifica: «Costringere le Br a limitare le richieste in modo che avessero una sola cosa possibile da fare, rilasciare Moro», avrebbe dichiarato a Palamara l’esperto di sequestri americano. Quando invece da sempre l’ex consigliere di Cossiga aveva dichiarato: «I brigatisti non si aspettavano di trovarsi di fronte ad un altro terrorista che li utilizzava e li manipolava psicologicamente con lo scopo di prenderli in trappola. Avrebbero potuto venirne fuori facilmente, ma erano stati ingannati. Ormai non potevano fare altro che uccidere Moro». Due scopi e due finalità opposte: da una parte, opporsi alle trattative tout court fino al rilascio dello statista; dall’altra, quella da lui sempre riferita, seppur ambiguamente, quella di evitare che fosse rilasciato.
La sintesi dell’interrogatorio è tuttavia troppo breve e scevra di ulteriori dettagli per capire cosa avrebbe contestato il pm Palamara a Pieczenik e cosa questi avrebbe avuto da dire a sua “discolpa”, rispetto a quanto già dichiarato e pubblicato, disinformazione a parte. Troppo poco anche rispetto alle novità appunto emerse che riguarderebbero invece il ruolo dello Stato, linea della fermezza sempre a parte. In attesa che si aprano i lavori della Commissione d’inchiesta, fortemente voluta e ottenuta dal vice presidente dei deputati del Partito democratico, Gero Grassi, aspettiamo anche di vedere l’effetto che avranno le nuove dichiarazioni sull’inchiesta in corso.
«Le avevamo già sentite le parole dell’esperto Usa Steve Pieczenick, ripetute, finalmente, davanti a una magistrato italiano: “Non dovevamo salvare Moro ma stabilizzare il vostro Paese”. Pieczenick conferma che dietro al caso Moro ci fu un vero e proprio golpe». Afferma Grassi commentando l’artico del Corriere della Sera. «Sono così tanti i fatti non spiegati – aggiunge il vice presidente dei deputati del Pd – che abbiamo voluto dotarci di uno strumento per una nuova inchiesta perché l’Italia ha bisogno della verità su un delitto politico che ha deviato il corso degli eventi nel nostro paese. Siamo in attesa che tutti i gruppi parlamentari indichino ai presidenti Boldrini e Grasso i nomi dei propri componenti: occorre fare presto, in modo che la Commissione possa diventare operativa».
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Spie, Brigate Rosse e Aldo Moro, i misteri di Hyperion Gli ambigui legami della scuola di lingua fondata a Parigi nel 1976 tra terrorismo, spionaggio e sinistra extraparlamentare Pubblicato il 29 marzo 2014 da Daniele Scopigno in Misteri italiani // Nessun commento

Spie, Brigate rosse e misteri. Così come il suo significato astronomico, Hyperion (Iperione) era ritenuta una struttura satellite della sinistra extraparlamentare italiana in Francia. O almeno lo era in parte, perché la sua storia si intreccia con il caso Moro, ma anche con altri misteri, tanto da essere stata descritta come un centro di varie formazioni terroristiche nazionali (Br) e internazionali (Eta, Ira e Olp), se non una camera di compensazione dei servizi segreti di Est e Occidente per mantenere gli equilibri mondiali del dopo Yalta.
Formalmente Hyperion, precedente nome Agorà, è stata fondata a Parigi nel 1976 (al civico 27 di Quai de la Tournelle, nella foto oggi ndr) come scuola di lingua da Giulia Archer, convivente di Corrado Simioni, compagno di partito di Bettino Craxi nel movimento giovanile socialista e fondatore del Collettivo politico metropolitano (Cpm), gruppo progenitore delle Brigate rosse. Come scrive Giuseppe de Lutiis, in “Il Golpe di via Fani”,  i fondatori di Hyperion sono proprio Simioni, Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Innocente Salvoni e Francoise Tuscher, nipote dell’Abbé Pierre. L’Hyperion entra nel mirino della magistratura italiana già nel 1979, nell’inchiesta del giudice Pietro Calogero sui presunti collegamenti tra Autonomia operaia e il terrorismo. L’inchiesta Calogero sara però smontata da una pressante campagna di stampa.
Altre inchieste punteranno, invece, a ciò che ci sarebbe stato al di sopra dell’ex Agorà, ovvero il Superclan, una struttura ristrettissima nella quale si ipotizza ci fossero legami tra la sinistra exparlamentare e i servizi segreti Nato. Del resto Berio in una lettera avrebbe ammesso di essere un informatore del servizio segreto militare italiano, l’allora Sid. Insomma è il mondo del terrorismo di quegli anni, gli intrecci della eversione con i servizi, deviati o meno. Uno dei nomi usati dalla struttura era anche ”la Ditta” o ”le zie rosse”. Di questo Superclan avevano fatto parte Mario Moretti e Prospero Gallinari, due dei principali protagonisti del caso Moro, e Corrado Alunni, uno dei leader di Prima Linea.
L’ipotesi è che proprio in Francia ci fosse la base dei “cervelli” delle Br, manovrate dall’estero da una struttura che si pensa possa essere proprio Hyperion o il Superclan. E sul Corriere della Sera del 1979, il giornalista Antonio Ferrari scrive: “Mulinaris, Berio e Simioni sono vecchi amici di Renato Curcio (…). I nomi di Mulinaris e Simioni sono ricomparsi, seguendo la pista dell’istituto”. L’inchiesta italiana del giudice Rosario Priore, con l’ipotesi di aver costituito in Francia una banda armata operante su territorio estero, ricorda l’Ansa, finì però per confluire in quella veneziana del giudice Carlo Mastelloni, che aveva inquisito Simioni, Mulinaris e Berio per reati più gravi, tra cui un traffico di armi con le Brigate rosse e l’Olp. Tra gli imputati figuravano anche Abu Ayad, capo dei servizi di sicurezza di Al Fatah e alti ufficiali dei servizi segreti italiani, tra cui i generali Nino Lugaresi, Pasquale Notarnicola e Giulio Grassini. Il processo veneziano si concluse nel 1990 con un’assoluzione generale.
In un articolo del 2012, il sito internet di Le Monde si occupa di Hyperion e riporta questo: “Le analisi, che fino ad oggi sono ipotesi, di alti ufficiali dei Carabinieri (N. Bozzo), di giudici (R. Priore, P. Calogero), di un leader storico della Br (Franceschini), di inchieste parlamentari (G. Pellegrino), storici (G. Lutiis) e, in ultima analisi, di giornalisti investigativi (G. Fassanella, Paolo Cuchiarelli), incorporano Hyperion sotto la tutela degli accordi di Yalta”. “Questa scuola – scrive il giornale francese – è considerata come una camera di compensazione tra i servizi segreti”, anche se l’inchiesta su questa tesi, ripresa dalla magistratura francese, non portò a nulla.
Ed è stata anche la Commissione Stragi a ipotizzare che Hyperion potesse essere una struttura per operazioni contro i nemici di Yalta. Motivo per cui Moro, questo lo scenario, sarebbe finito nel mirino di determinate strutture. Un altro aspetto apre dubbi sull’ipotesi dell’intreccio Hyperion-Moro. La scuola aveva, infatti, un ufficio anche a Roma in via Nicotera 26 dal 1977. Secondo alcune ricostruzioni, nel palazzo avrebbero avuto sede società vicine ai servizi segreti, in particolare al Sismi. Gli uffici chiuderanno nel giugno del 1978, ovvero una esistenza breve nel pieno delle attività per il sequestro di Moro.

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