Dago- traduzione degli estratti pubblicati dal ''Daily Mail'' del libro di Roberto Canessa e Pablo Vierci, I Had To Survive: How A Plane Crash In The Andes Inspired My Calling To Save Lives, edito dalla casa editrice Constable.
Guardo
fuori dal finestrino dell'aereo, e qualcosa non va. Eravamo sicuramente
troppo bassi. Le punte delle ali erano solo a pochi metri dalle
frastagliate cime innevate delle Ande. Che diamine stava facendo il
pilota?
roberto canessa
L'umore
a bordo era fantastico - tutti i miei vecchi compagni della squadra di
rugby riuniti per una partita in Cile. Stavamo ridendo e scherzando e
cantando come ragazzini. Ma le cose avevano preso improvvisamente una
piega terrificante.
Ho sentito l'aereo finire in una turbolenza. Poi un'altra. Il pilota cercava di tirarlo su e prendere quota.
Ma
anche con i motori a tutta spinta, non avevamo abbastanza potenza. Un
attimo dopo ci fu un suono orrendo. Era un'ala che si staccava dopo aver
colpito la cima della montagna. Subito dopo un botto devastante, il
suono del metallo che si accartoccia e una caduta in picchiata.
Sballottati
come in un uragano. Mi sentivo stordito e provavo fortissime vertigini e
mal di stomaco mentre il corpo dell'aereo toccava il lato innevato
della montagna e cominciava a correre giù come una slitta (avrei poi
scoperto che stavamo scivolando a 200 miglia orarie).
In
quel momento ho realizzato che stavo per morire. Mi sono aggrappato al
mio sedile così ferocemente che ho strappato via pezzi di tessuto con le
mie mani. Chinando la testa, ho aspettato il colpo finale che mi
avrebbe mandato all'altro mondo. Ma non è andata così.
Ci
siamo fermati in maniera violenta. Il mio posto, cui ero ancora legato
con la cintura di sicurezza, strappato via e schiacciato contro quello
di fronte - una reazione a catena che non si è fermata finché tutti i
posti non si erano accatastati contro la cabina di pilotaggio. Ma
respiravo ancora. Ero vivo!
Tutto
intorno a me l'aria era piena di gemiti e grida dei feriti, satura dei
miasmi del carburante. La fusoliera era aperta, lacerata su un lato, e
la sua sezione di coda non c'era più. Dove prima c'erano parti
dell'aereo, ora si vedevano solo montagne, e una bufera di neve sferzava
tutto quello che ci circondava.
Come
ombre dell'altro mondo, le teste e le mani cominciarono a muoversi.
Qualcuno dietro di me spostò il groviglio di sedili e metallo che mi
schiacciava. Mi voltai e vidi il mio vecchio amico Gustavo Zerbino -
come me, uno studente di medicina.
Mi guardò come per dire: 'Sei vivo, anche tu!' Senza dire una parola, ci siamo chiesti: 'E adesso? Da dove si comincia?'
Insieme
ci arrampicammo tra i rottami contorti e straziati dell'aereo. Molti
avevano perso la vita. Altri erano stati orribilmente mutilati e feriti.
Nella neve, ho pregato Dio affinché mi guidasse. L'istinto di darci da
fare prese il sopravvento, e ci spinse a fare le prime mosse. Non c'era
tempo per dubbi e domande. 'Questo è vivo... questo è morto', mormorava
Gustavo mentre ci spostavamo lungo il rottame.
Il
freddo era inimmaginabile. Dai 24 gradi durante il volo, ora erano 12
sotto zero. Abbiamo aperto i bagagli per prendere giacche e maglioni, e
t-shirt da usare come bende. Gustavo e io abbiamo curato i feriti,
sentito i battiti, consolato i sopravvissuti.
Dio,
sono esausto. Perché è così difficile respirare? L'aria era così
rarefatta che riuscivo a malapena a pensare. Per la prima volta mi sono
chiesto: 'Dove diavolo siamo? Come può un aereo, pieno di carburante,
colpire un crinale della montagna e non esplodere? '
In
quel momento, l'oscurità. In pochi minuti era calata la notte, buio
come la pece. Abbiamo usato un accendino per farci luce, temendo di dare
fuoco al carburante che permeava l'aria.
Le mie mani erano coperte di sangue dei morti e dei moribondi.
Distrutto,
mi sono rannicchiato in un angolo e ho cercato di riposare. Pensando
alla sfortuna di essere coinvolto in questo orrore inimmaginabile, ho
chiuso gli occhi e, per la prima volta dopo l'incidente, controllato
tutti i miei sensi.
Muovendo
i miei stanchi muscoli e sentendo il mio corpo rispondere a tutti i
comandi del mio cervello, ho cambiato idea. Ero, per un miracolo,
completamente illeso. Nessuno sulla terra era più fortunato di me. E, di
questo, sono ancora grato ogni giorno.
(...)
Il
giorno di quell'incidente fatidico - venerdì 13 ottobre 1972 - ero uno
studente al secondo anno di medicina all'università di Montevideo,
Uruguay. Ero un fanatico del rugby e il fidanzato della bella figlia di
un medico, Lauri Surraco.
Fino
a quel momento, i miei amici e io avevamo vissuto in un universo
privilegiato e prevedibile - studiavamo per diventare avvocati,
ingegneri, architetti.
1972 il disastro aereo sulle ande 3
La
nostra squadra di rugby - composta dagli ex alunni del nostro liceo -
il Christian Brothers College - aveva affittato il turboelica da 45
posti per trasportare noi, le nostre famiglie e i tifosi ad una partita a
Santiago del Cile. Eravamo giovani, sani e felici.
Ma in una frazione di secondo tutti i nostri sogni furono fatti a pezzi. Eravamo stati gettati in un limbo spaventoso.
Quella
prima notte sembrò durare per sempre. Mi sono svegliato pensando che
fossi nel mezzo di un incubo, solo per scoprire che era tutto vero.
Quel
che era sopravvissuto della fusoliera giaceva su un fianco nella neve,
con otto finestrini rivolti al cielo e cinque premuti contro il ghiaccio
sottostante. Cavi e fili pendevano dal soffitto.
Fuori
era un vasto anfiteatro di spazio aperto. L'Argentina, secondo i miei
calcoli, si trovava a est, mentre un enorme muro impenetrabile di
montagne ci accerchiava sul lato occidentale. Diverse persone non sono
sopravvissute alla notte, tra cui il co-pilota. Il mio amico Nando
Parrado, che il giorno prima avevamo dato per morto, giaceva in un coma
profondo. Dodici tra passeggeri e membri dell'equipaggio erano rimasti
uccisi al momento dell'impatto.
Ma
nonostante il nostro dolore e shock, non ci siamo lasciati sopraffare.
Pur non avendo alcun contatto radio o telefonico, eravamo convinti che i
soccorsi sarebbero arrivati presto.
Le
autorità cilene sapevano, prima che l'aereo perdesse ogni contatto, che
ci trovavamo ai piedi del loro Paese, a 100 miglia dalla nostra
destinazione. E l'altimetro dell'aereo segnava 7mila piedi (2,100 metri,
ma abbiamo poi scoperto che si trattava di un dato sbagliato: l'ago era
andato in tilt nello schianto e la nostra altitudine era di gran lunga
superiore).
Abbiamo
radunato tutto il cibo che c'era a bordo. Anche se era molto poco,
abbiamo razionato in parti uguali, e condiviso i vestiti che erano nei
bagagli.
1972 il disastro aereo sulle ande 1
Il
peggio è passato, ci siamo detti. Non dobbiamo farci prendere dal
panico. Dobbiamo rimanere forti per quelli che sono feriti gravemente.
Abbiamo
formato un'enorme croce in mezzo alla neve con le valigie vuote, e con i
piedi abbiamo tracciato un SOS che potesse essere visibile dal cielo.
Eppure, non è apparso nessun aereo. Al calar della notte, ci siamo
trascinati di nuovo dentro la fusoliera.
La
mattina dopo abbiamo sentito un jet volare alto sopra le nostre teste,
seguito da un aereo ad elica più piccola. Eravamo sicuri di aver visto
il primo aereo fare una strana manovra con un'ala, come a voler
segnalare di averci visto. Ci siamo messi a saltare e a gridare, e
abbiamo pianto dalla gioia.
Ma
i soccorsi non sono arrivati quel giorno né quello dopo, né dopo
ancora. Mentivamo a noi stessi: ''Non è un salvataggio facile'', ci
dicevamo; avranno bisogno di elicotteri. E 'solo una questione di
tempo'.
In alto, sopra di noi, vedevamo la rotta degli aerei commerciali, pezzi di un mondo che andava avanti senza di noi.
Col passare dei giorni, la cabina distrutta smise di essere il relitto di un aereo e diventò un rifugio.
Delle
45 persone a bordo, 12 erano morte nello schianto e altre sei nei
giorni successivi. Eravamo rimasti in 27, rannicchiati all'interno della
cabina. Ma non eravamo più di questo mondo. Eravamo diventati creature
di un altro pianeta.
(...)
Le
tempeste sulle Ande ci tenevano intrappolati nella fusoliera. La nostra
squadra di rugby era diventata una famiglia, ci prendevamo cura l'un
l'altro incondizionatamente e imparavamo a mettere insieme le nostre
idee migliori.
Il
nostro obiettivo comune era quello di sopravvivere - ma quello che ci
mancava era il cibo. Avevamo da tempo esaurito le magre provviste
trovate a bordo, e non c'era vegetazione o animali intorno a noi. Dopo
pochi giorni abbiamo cominciato a sentire che i nostri corpi stavano
consumandosi da soli. In poco tempo saremmo diventati troppo deboli per
sopravvivere agli effetti del digiuno.
Sapevamo la risposta, ma il solo pensiero era tremendo.
I
corpi dei nostri amici e compagni di squadra, preservati dalla neve e
dal ghiaccio, contenevano vitali proteine che ci avrebbero permesso di
sopravvivere. Ma come avremmo potuto farlo?
Per
molto tempo ci siamo lacerati. Sono uscito fuori nella neve e ho
pregato Dio affinché mi guidasse. Senza il Suo consenso, mi sarei
sentito di violare la memoria dei miei amici, che avrei rubato le loro
anime.
Ci
chiedevamo se stavamo diventando pazzi anche solo a pensare una cosa del
genere. Ci eravamo trasformati in selvaggi? O era questa l'unica cosa
sensata da fare? In realtà, stavamo solo spingendo i limiti della nostra
paura.
Javier
Methol, che con i suoi 35 anni era il più grande del gruppo, ci disse
che anche lui aveva pregato per avere un aiuto dall'alto. Secondo lui,
Dio gli aveva detto di pensare alla Santa Comunione. Javier recitò i
versi del Nuovo Testamento: 'Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue ha la vita eterna. Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio
corpo '.
Speravamo
che un miracolo si verificasse in tempo per evitare quello che ci
sembrava una trasgressione orribile. Mai il passare del tempo aveva
avuto delle conseguenze così raccapriccianti.
Ma
la vera fame è atroce, istintiva, primordiale, e Dio era testimone del
lamento delle mie viscere. Man mano che passavano i giorni, una risposta
razionale emerse per calmare i miei timori e darmi una sorta di pace
interiore.
Mi sono
tornate in mente le parole che molti di noi - me compreso - avevano
detto ad alta voce subito dopo l'incidente: se fossimo morti, gli altri
avrebbero dovuto usare i nostri corpi per sopravvivere.
Per
me era un onore dire che se il mio cuore avesse smesso di battere, le
mie braccia e le gambe e muscoli avrebbero potuto contribuire alla
nostra missione comune, che era quella di tornare a casa, vivi.
E
oggi che sono un medico, non posso che associare l'evento - usare un
corpo morto per continuare a vivere - con qualcosa che sarebbe stato
realizzato in tutto il mondo nei decenni successivi: il trapianto di
organi e tessuti.
Siamo
stati noi a rompere il tabù. Ma il mondo lo avrebbe rotto insieme a noi
negli anni a venire, e ciò che una volta era impensabile, è diventato
un nuovo modo di onorare i morti.
A
poco a poco, ognuno di noi è arrivato alla medesima conclusione. E
quando lo abbiamo fatto, è stato irreversibile. E' stato il nostro addio
all'innocenza.
Non saremo mai più stati gli stessi.
Non
dimenticherò mai la prima incisione, nove giorni dopo l'incidente, ogni
uomo solo con la sua coscienza, lassù tra quelle montagne infinite, in
una giornata più fredda e grigia di qualsiasi altra.
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Quattro
di noi - Gustavo, Fito Strauch, il mio caro amico Daniel Maspons e io -
con una lametta o scheggia di vetro in mano, abbiamo tagliato via i
vestiti a un corpo, senza neanche riuscire a guardarne il volto. Abbiamo
steso le strisce sottili di carne congelata su un pezzo di lamiera.
Ciascuno ha consumato il suo pezzo nel momento in cui se l'è sentita.
Il
giorno dopo, il 23 ottobre, abbiamo sentito sulla nostra piccola radio a
transistor che dopo più di 100 tentativi di trovarci, le ricerche erano
state sospese.
L'anticipazione del libro - la valanga, i nuovi morti, il ritrovamento della coda, i soccorsi, continua qui:
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/vera-incredibile-storia-roberto-canessa-sopravvissuti-119007.htm
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