Una delle ragioni per cui si tende a non parlar male dei defunti è forse
che pesa il paragone coi vivi. Con questo ha probabilmente a che fare
la gran fortuna del detto per cui la storia tende a ripetersi, la prima
volta come tragedia, la seconda come farsa (purtroppo non è sempre
così). Potrebbe anche in qualche modo spiegare perché, malgrado le molte
cose che apparentemente accomunano Ronald W. Reagan e George W. Bush,
comunque la si rigiri, ne esce molto peggio quest’ultimo.
Per un giudizio storico è presto. Ci vorranno almeno altri 50 anni, dice qualcuno.
Su Reagan, metà America e metà mondo continua a pensarla in modo opposto
all’altra metà. Ma intanto è curioso che su 415 storici americani cui
recentemente la History News Network della George Mason University
ha stato chiesto di dare un giudizio “professionale”
sull’amministrazione Bush, 338 la giudichino un fallimento e solo 77
come un successo (e per giunta pare che almeno 8 di questi 77 lo
dicessero con sarcasmo). Molti (il 70 per cento di coloro che danno un
giudizio negativo) ritengono Bush figlio il peggior presidente di tutta
la storia Usa, o per trovarne uno peggiore devono risalire a qualcuno
prima di Richard Nixon, a suo tempo la quintessenza del “malfattore” per
l’America liberal.
Anche gli storici sono di parte, faziosi, si dirà. Ma su Reagan almeno i
giudizi si dividono a metà. E anche coloro che erano più ferocemente
critici tendono a prenderlo molto più sul serio. Di destra,
ideologizzato, manicheo nella visione del mondo, gaffeur, barzellettaro,
retrò. Ma anche il “guerrafondaio” che, dopo aver dichiarato «Impero
del Male» il nemico, si guardò bene dal fargli la guerra e si mise
invece a trattare il disarmo con Mikhail Gorbaciov.
Uno di cui si disse che, da attore, recitava a copione, e che erano
altri a scrivergli il copione, preparargli i discorsi, organizzargli
meticolosamente il set. Si è detto che non ci fu forse presidente Usa
più manovrato dai suoi collaboratori, specie da quelli che avevano
imparato come attirare le sua attenzione, come convincerlo, indirizzarlo
in una direzione anziché un’altra, condizionarlo come un burattino, pur
lasciandogli la convinzione di essere lui il burattinaio. Tra questi
c’erano fanatici, portaborse, manigoldi e sicofanti. Ma al momento
giusto seppe anche licenziare i suoi Rumsfeld e Cheney e dare ascolto ai
suoi Powell.
Spostò il pendolo della politica economica mondiale in direzione opposta
a quella del New Deal di Roosevelt, e ancora se ne pagano le
conseguenze. Ma riuscì a dare all’America anche una sensazione di
ottimismo sul futuro che invece manca a quella di Bush. Fece leva sulla
destra religiosa ultrà per farsi eleggere, ma non si fece teologo
supremo. Aveva idee squadrate con l’accetta, ma le carte “di suo pugno”
hanno rivelato uno spessore che nemmeno i più accesi osannatori
dell’attuale amministrazione osano paragonare a quello di Bush. Fece
anche politica, non solo propaganda. E poi poteva contare sul sostegno
convinto di una maggioranza di elettori, non di una minoranza, come Bush
nel 2000.
Disse che, avendo fatto ben 53 film, sapeva bene come uscire di scena,
qualunque fosse la scena. Qualunque sia il giudizio, si può dargli atto
di aver interpretato genialmente il suo personaggio, trascinando il
pubblico come nessun altro prima o dopo di lui. Sia quelli per cui
recitava la parte dell’eroe, sia quelli per cui recitava la parte del
cattivo.
Non tutti se ne resero conto. L’Europa confuse genere di film. Credette
di assistere ad una commedia, con protagonista un guitto suonato. Risero
delle sue gaffes, delle sue ingenuità da parvenu della politica, di
quelli che apparivano come sintomi di senilità precoce. La sinistra gli
diede sprezzantemente del Rambo, del cowboy. Lo si vide come una
reincarnazione del Dottor Stranamore. Non ci accorgemmmo di quanto
l’America era affascinata dal suo ottimismo contagioso, aveva imparato
ad amarlo e rispettarlo - anche la parte d’America inorridita dalla sua
ascesa al potere - aveva scoperto in lui il più popolare e simpatico dei
propri presidenti. Che molti, già allora, ridevano non alle sue
figuracce, ma alle sue barzellette. Ma cosa ci trovavano gli americani
in uno così? Una volta qualcuno glie lo chiese brutalmente. «Vi
mettereste a ridere se vi dicessi che in me forse vedono uno qualunque
di loro?», rispose.
Come in tutte le grandi battute c’era un elemento artificioso, di
retorica, ma anche qualcosa di vero. Riuscì effettivamente a recitare
alla perfezione il ruolo dell’uomo qualunque, dell’americano medio.
Spesso meglio che quello dell’eroe e del comandante supremo. Forse
perché lo era davvero, sin dall’infanzia da figlio di un commerciante di
scarpe alcolizzato, in ambientazione da set di «Morte di un commesso
viaggiatore». O forse perché nessun pubblico al mondo, più di quello
americano, si immedesima in quello che viene proiettato sul grande o sul
piccolo schermo (basta essere stati anche solo una volta in un cinema
in Usa, a seguire la rumorosa reazione, spesso partecipazione, alla
vicenda, l’interazione tra film e spettatori; o aver osservato con un
minimo di attenzione come si muovono, camminano, mangiano, parlano,
muovono labbra e muscoli facciali: con posa, accento, ritmo e persino
calma ostentati, esattamente come nei film).
Era stato Lenin a dire che anche una cuoca deve poter dirigere lo Stato.
Fu Reagan a farlo davvero, recitando il ruolo del “cuoco”, del “vicino
di casa”, dell’uomo semplice in cui molti potevano in qualche modo
riconoscersi, che si trova per caso alla Casa Bianca.
Una delle storielle che più amava raccontare parla di due ragazzini che i
genitori portano dallo psichiatra. L’uno è pessimista nero, l’altro
iperottimista. Vorrebbero che il medico corregga gli estremi, tiri su il
morale del pessimista, renda l’ottimista più cosciente delle difficoltà
della vita. Lo psichiatra prova a rinchiudere il pessimista in una
stanza piena di magnifici giocattoli, l’ottimista in una stalla
maleodorante colma di sterco. Torna e trova il pessimista in lacrime:
non ha nemmeno toccato i giocattoli, per paura di romperli. L’ottimista
invece è allegro a spalare la merda. «Con tutto questo sterco, da
qualche parte ci deve pure essere un pony», gli spiega. Quell’ottimismo
finì per contagiare anche l’America di Clinton. La differenza è che
nell’America di Bush pare non esserci più materia da contagio di
ottimismo.
Siegmund Ginzberg
http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=5310
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