domenica 8 marzo 2015

Bernardo Provenzano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Bernardo Provenzano, detto da taluni Binnu u' Tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici), e da altri Zu Binnu (Zio Binnu) e il ragioniere[1] (Corleone, 31 gennaio 1933[2]), è un criminale italiano, membro di Cosa nostra e considerato il capo dell'organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto.
Arrestato l'11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, Provenzano era ricercato dal 10 settembre 1963[3], con una latitanza record di 43 anni. In precedenza era già stato condannato in contumacia a 3 ergastoli ed aveva altri procedimenti penali in corso.

Indice

Biografia

Primi anni

Nato a Corleone da una famiglia di agricoltori, terzo di sette figli[4], venne ben presto mandato a lavorare nei campi come bracciante agricolo insieme al padre, abbandonando la scuola (non finì la seconda elementare). Fu in questo periodo che Provenzano iniziò una serie di attività illegali, specialmente il furto di bestiame e generi alimentari, e si legò al mafioso Luciano Liggio, che lo affiliò alla cosca mafiosa locale. Nel 1954 Provenzano venne chiamato per il servizio militare ma venne dichiarato "non idoneo" e quindi riformato[5]. Secondo le indagini dell'epoca dei Carabinieri di Corleone, in quel periodo Provenzano iniziò ad occuparsi di macellazione clandestina di bestiame rubato nei terreni della società armentizia di contrada "Piano di Scala" a Corleone insieme a Liggio e alla sua banda[6]. Il 6 settembre 1958 Provenzano partecipò ad un conflitto a fuoco contro i mafiosi avversari Marco Marino, Giovanni Marino e Pietro Maiuri, in cui rimase ferito alla testa ed arrestato dai Carabinieri, che lo denunciarono anche per furto di bestiame e formaggio, macellazione clandestina ed associazione per delinquere[5][6].
Il 10 settembre 1963 i Carabinieri di Corleone denunciarono Provenzano per l'omicidio del mafioso Francesco Paolo Streva (ex sodale di Michele Navarra) ma anche per associazione per delinquere e porto abusivo di armi[5]: Provenzano si rese allora irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza[7]. Nel 1969 Provenzano venne assolto in contumacia per insufficienza di prove nel processo svoltosi a Bari per gli omicidi avvenuti a Corleone a partire dal 1958[6].
Secondo le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, Provenzano partecipò alla cosiddetta «strage di viale Lazio» (10 dicembre 1969), che doveva punire il boss Michele Cavataio: durante il conflitto a fuoco, Provenzano rimase ferito alla mano ma riuscì lo stesso a sparare con la sua Beretta MAB 38; Cavataio rimase a terra ferito e Provenzano gli spaccò il cranio con il calcio della Beretta, finendolo a colpi di pistola[8][9][10]. Sempre secondo Calderone, Provenzano «era soprannominato "u' viddanu" ed anche "u' tratturi". È stato soprannominato "u' tratturi" da mio fratello con riferimento alle sue capacità omicide e con particolare riferimento alla strage di via Lazio, nel senso che egli tratturava tutto e da dove passava lui "non cresceva più l'erba"»[11].
Secondo i collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, nel 1974 Riina e Provenzano divennero i reggenti della Famiglia di Corleone dopo l'arresto di Liggio, ricevendo anche l'incarico di reggere il relativo "mandamento"[12][11].
Nel marzo 1978 Giuseppe Di Cristina, capo della Famiglia di Riesi, si mise in contatto con i Carabinieri e dichiarò che «Riina Salvatore e Provenzano Bernardo, soprannominati per la loro ferocia "le belve", sono gli elementi più pericolosi di cui dispone Luciano Leggio. Essi, responsabili ciascuno di non meno di quaranta omicidi, sono stati gli assassini del vice pretore onorario di Prizzi» ed erano anche responsabili «su commissione dello stesso Leggio, dell'assassinio del tenente colonnello Giuseppe Russo»[11]; in particolare, Di Cristina dichiarò che Provenzano «era stato notato in Bagheria a bordo di un'autovettura Mercedes color bianco chiaro alla cui guida si trovava il figlio minore di Brusca Bernardo da San Giuseppe Jato»[11].

Ai vertici di Cosa Nostra

Secondo le indagini dell'epoca dei Carabinieri di Partinico, Provenzano trascorreva la sua latitanza prevalentemente nella zona di Bagheria ed effettuava ingenti investimenti in società immobiliari attraverso prestanome per riciclare il denaro sporco; sempre secondo le indagini, le società immobiliari restarono in intensi rapporti economici con la ICRE, una fabbrica di metalli di proprietà di Leonardo Greco (indicato dal collaboratore di giustizia Totuccio Contorno come il capo della Famiglia di Bagheria)[11].
Nel 1981 Provenzano e Riina scatenarono la cosiddetta «seconda guerra di mafia», con cui eliminarono i boss rivali ed insediarono una nuova "Commissione", composta soltanto da capimandamento a loro fedeli[13][11]; durante le riunioni della "Commissione", Provenzano partecipò alle decisioni e all'organizzazione di numerosi omicidi come esponente influente del "mandamento" di Corleone[13][14] e protesse più volte con l'intimidazione la carriera politica di Vito Ciancimino, principale referente politico dei Corleonesi[15][16]: infatti negli anni successivi il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè dichiarerà che Riina e Provenzano «non si alzavano da una riunione se non quando erano d’accordo»[13].
Nel 1993, dopo l'arresto di Riina, Provenzano fu il paciere tra la fazione favorevole alla continuazione degli attentati dinamitardi contro lo Stato (Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano) e l'altra contraria (Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, Matteo Motisi, Benedetto Spera, Antonino Giuffrè, Pietro Aglieri)[17]: secondo il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, Provenzano riuscì a porre la condizione che gli attentati avvenissero fuori dalla Sicilia, in "continente", mentre l'altro collaboratore Salvatore Cancemi dichiarò che, durante un incontro, lo stesso Provenzano gli disse che "tutto andava avanti" riguardo alla realizzazione degli attentati dinamitardi a Roma, Firenze e Milano, che provocarono numerose vittime e danni al patrimonio artistico italiano[17][18].
Nel 1993 i giornali danno notizia dell'indagine della Procura di Palermo nei confronti di Giulio Andreotti, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Andreotti verrà rinviato a giudizio, ma ne uscirà completamente scagionato da ogni accusa nel 2004 con la sentenza definitiva della Cassazione che lo assolverà pienamente.
Dopo gli arresti di Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Vito Vitale, Provenzano avviò la cosiddetta "strategia della sommersione" perché mirava a rendere Cosa Nostra invisibile dopo gli attentati del 1992-93, limitando al massimo gli omicidi e le azioni eclatanti per non destare troppo l’attenzione delle autorità al fine di tornare a sviluppare gli affari leciti ed illeciti: tale strategia venne decisa nel corso di alcuni incontri a cui parteciparono lo stesso Provenzano insieme ai boss Benedetto Spera, Nino Giuffrè, Tommaso Cannella e il geometra Pino Lipari, il quale non era ritualmente “punciutu” ma poteva partecipare agli incontri perché era il prestanome più fidato di Provenzano[13].

Indagini sulla latitanza e i mancati arresti

Il 22 luglio 1993 Salvatore Cancemi, reggente del "mandamento" di Porta Nuova, si consegnò spontanemente ai Carabinieri e decise di collaborare con la giustizia, dichiarando che la mattina successiva avrebbe dovuto incontrarsi con il latitante Pietro Aglieri (capo del "mandamento" di Santa Maria di Gesù), per poi raggiungere Provenzano in una località segreta, offrendosi di aiutarli ad organizzare una trappola; l'informazione però venne considerata non veritiera dai Carabinieri, i quali erano convinti che Provenzano fosse morto poiché dopo un decennio la moglie e i figli erano tornati a vivere e a lavorare a Corleone, decidendo quindi di non sfruttare l'occasione[11].
Nel 1995 il boss Luigi Ilardo (reggente mafioso della provincia di Caltanissetta) divenne confidente del colonnello Michele Riccio del ROS e gli rivelò che avrebbe incontrato Provenzano in un casolare nei pressi di Mezzojuso; Riccio allertò il colonnello Mario Mori ma non gli furono forniti uomini e mezzi adeguati per intervenire, i quali non riuscirono a localizzare con esattezza il casolare indicato da Ilardo. Successivamente, nel 1996 Ilardo venne ucciso poco dopo aver iniziato la sua collaborazione con la giustizia[19]. Riccio accusò Mori e i suoi superiori di aver trattato la faccenda con superficialità, dando inizio a varie inchieste giudiziarie che ancora non hanno chiarito la vicenda[19].
Nel novembre 1998 gli agenti del ROS dei Carabinieri condussero l'indagine denominata "Grande Oriente", che era partita dalle confidenze rese da Ilardo e portò all'arresto di 47 persone, accusate di attività illecite e di aver favorito la latitanza di Provenzano; tra gli arrestati figurarono anche Simone Castello e l'imprenditore bagherese Vincenzo Giammanco, accusato di essere prestanome di Provenzano nella gestione dell'impresa edile "Italcostruzioni SpA"[20][21][22].
Nel novembre 2003 venne arrestato l'imprenditore Michele Aiello, accusato di essere il prestanome di fiducia di Provenzano[23]: infatti, secondo il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, Provenzano aveva investito denaro sporco nella clinica Villa Santa Teresa, centro oncologico all’avanguardia a Bagheria di proprietà di Aiello[24][25][26]. Per queste ragioni, nel 2011 Aiello verrà condannato in via definitiva a quindici anni e mezzo di carcere per associazione di tipo mafioso, corruzione ed accesso abusivo alla rete informatica della Procura[27][28].
Nel gennaio 2005 la DDA di Palermo coordinò l'indagine "Grande mandamento", condotta dagli agenti del Servizio Centrale Operativo e del ROS dei Carabinieri, che portò all'arresto di 46 persone nella provincia di Palermo, accusate di aver favorito la latitanza di Provenzano e di aver gestito il recapito dei pizzini destinati al latitante[29]; l'indagine rivelò anche che nel 2003 alcuni mafiosi di Villabate avevano aiutato Provenzano a farsi ricoverare in una clinica di Marsiglia per un'operazione chirurgica alla prostata, fornendogli documenti falsi per il viaggio e il ricovero[30]. Uno degli arrestati, Mario Cusimano (ex imprenditore di Villabate), iniziò a collaborare con la giustizia e rivelò agli inquirenti che la carta d'identità usata da Provenzano per andare a Marsiglia era stata timbrata da Francesco Campanella, ex presidente del consiglio comunale di Villabate[31]: nel settembre 2005 anche Campanella iniziò a collaborare con la giustizia e confermò di essere stato lui a timbrare il documento[32][33].
Nel 2006 si verificò un tentativo di depistaggio: il 31 marzo 2006 (11 giorni prima dell'arresto) il legale del boss latitante annunciò la morte del suo assistito[34], subito smentita dalla DIA di Palermo[7].

L'arresto

Bernardo Provenzano al momento dell'arresto nel 2006.
Le indagini che portarono all'arresto di Provenzano si incentrarono sull'intercettazione dei famosi pizzini, i biglietti con cui comunicava con la compagna ed i figli, il cognato Carmelo Gariffo e con il resto del clan. Dopo l'intercettazione di questi pizzini e alcuni pacchi contenenti la spesa e la biancheria, movimentati da alcuni staffettisti di fiducia del boss[35], i poliziotti della Squadra mobile di Palermo e gli agenti della Sco riuscirono a identificare il luogo in cui si rifugiava Provenzano[3][36].
Individuato il casolare, gli agenti monitorarono il luogo per dieci giorni attraverso microspie ed intercettazioni ambientali, per avere la certezza che all'interno vi fosse proprio Provenzano.
L'11 aprile 2006 le forze dell'ordine decisero di eseguire il blitz e l'arresto, a cui Provenzano reagì senza opporre la minima resistenza, limitandosi a chiedere che gli venisse fornito l'occorrente per le iniezioni che doveva effettuare in seguito all'operazione alla prostata[37]. Il boss confermò la propria identità complimentandosi e stringendo la mano agli uomini della scorta e venne scortato alla questura di Palermo.
Il questore di Palermo successivamente confermò che per giungere alla cattura le autorità non si avvalsero né di pentiti né di confidenti[3].
Il casolare (il proprietario del quale venne arrestato) in cui viveva il boss era arredato in maniera spartana, con il letto, un cucinino, il frigo e un bagno, oltre che una stufa per il freddo e la macchina da scrivere con cui compilava i pizzini[37].

Carcere

Dopo il blitz viene portato alla questura di Palermo e poi al supercarcere di Terni, sottoposto al regime carcerario del 41bis. Dopo un anno di carcere a Terni, viene trasferito al carcere di Novara a seguito di alcuni malumori degli agenti di Polizia Penitenziaria che si occupavano della sua detenzione[38].
Dal carcere di Novara, il boss ha più volte tentato di comunicare con l'esterno in codice[39][40]. Il ministero della Giustizia ha deciso di aggravare il carcere duro per Provenzano, applicandogli il regime di 14 bis in aggiunta al 41 bis dell'ordinamento penitenziario, che prevede l'isolamento in una cella in cui sono vietate la televisione e la radio portatile[39].
Il 19 marzo 2011 viene confermata la notizia di un cancro alla vescica.
Inoltre, sempre lo stesso giorno, è stato dichiarato che il boss di Cosa Nostra verrà trasferito dal Carcere di Novara al Carcere di Parma. Nel carcere di Parma il 9 maggio 2012 il boss tenta il suicidio infilando la testa in una busta di plastica con l'obiettivo di soffocarsi ma il tutto viene sventato da un poliziotto penitenziario[41]. Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio Pubblico manda in onda un video che ritrae Bernando Provenzano nel carcere di Parma durante un incontro con la moglie e il figlio datato 15 dicembre 2012; l'ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a prendere in mano la cornetta del citofono per parlare con il figlio. Durante il colloquio Provenzano non riesce neanche a spiegare con chiarezza al figlio l'origine di un'evidente ferita alla testa, prima dichiara di essere stato vittima di percosse, e successivamente di essere caduto accidentalmente[42]. Il 26 luglio 2013 la procura di Palermo dà l'ok per la revoca del 41 Bis a Bernardo Provenzano. Il motivo è da imputare a condizioni mediche[43].

Processo Trattativa Stato-Mafia

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Trattativa tra Stato italiano e Cosa nostra.
Il 24 luglio 2012 la Procura di Palermo, sotto Antonio Ingroia e in riferimento all'indagine sulla Trattativa Stato-Mafia, ha chiesto il rinvio a giudizio di Provenzano e altri 11 indagati accusati di concorso esterno in associazione di tipo mafioso e "violenza o minaccia a corpo politico dello Stato". Gli altri imputati sono i politici Calogero Mannino, Marcello Dell'Utri, gli ufficiali Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, i boss Giovanni Brusca, Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, il collaboratore di giustizia Massimo Ciancimino (anche "calunnia") e l'ex ministro Nicola Mancino ("falsa testimonianza").[44]

Le condanne

Nel 1995, nel processo per l'omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, Provenzano venne condannato in contumacia all'ergastolo insieme a Salvatore Riina, Michele Greco e Leoluca Bagarella; lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montana e Antonino Cassarà, venne pure condannato in contumacia all'ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Salvatore Riina, a cui seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un'ulteriore ergastolo in contumacia insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci[45]. Sempre nel 1995, nel processo per l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone, Provenzano venne condannato all'ergastolo in contumacia insieme a Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Francesco Madonia, Nenè Geraci e Francesco Spadaro[46].
Nel 1997, nel processo per la strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, Provenzano venne condannato all'ergastolo in contumacia insieme ai boss Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Nenè Geraci, Benedetto Spera, Nitto Santapaola, Salvatore Montalto, Giuseppe Graviano e Matteo Motisi[47]. Lo stesso anno, nel processo per l'omicidio del giudice Cesare Terranova, Provenzano ricevette un altro ergastolo in contumacia insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Nenè Geraci, Francesco Madonia e Salvatore Riina[48]. Nel 1999 Provenzano venne condannato all'ergastolo in contumacia nel processo contro i responsabili della strage di via D'Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina): insieme a lui vennero condannati alla stessa pena i boss Giuseppe "Piddu" Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Calò, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Nino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe Montalto, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico Ganci e Stefano Ganci[49].
Nel 2000 Provenzano subì una ulteriore condanna in contumacia all'ergastolo insieme a Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella e Salvatore Riina per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma[50][51]. Nel 2002 la Corte d'Assise di Caltanissetta condannò Provenzano in contumacia all'ergastolo per l'omicidio del giudice Rocco Chinnici insieme ai boss Salvatore Riina, Raffaele Ganci, Antonino Madonia, Salvatore Buscemi, Nenè Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore e Giuseppe Montalto, Stefano Ganci e Vincenzo Galatolo[52]. Nel 2009 Provenzano ricevette un altro ergastolo insieme a Salvatore Riina per la strage di viale Lazio[53].

Famiglia

Bernardo Provenzano è stato legato sentimentalmente a Saveria Benedetta Palazzolo, con la quale non si è mai sposato ma ha convissuto durante gran parte della latitanza[2]. Saveria Benedetta Palazzolo fece da prestanome a Provenzano in numerose società immobiliari e nel 1983 è riuscita a sfuggire ad un tentativo d'arresto della polizia, rendendosi irreperibile e condividendo la latitanza con il compagno[54].
La coppia ha avuto due figli:
  • Angelo Provenzano: nato il 5 settembre 1975
  • Francesco Paolo Provenzano: nato il 16 aprile 1982
La signora Palazzolo e i figli sono stati in latitanza fino al 1992. Nella primavera di quell'anno infatti, improvvisamente, fecero il loro ritorno a Corleone[55]. Il figlio Angelo è stato sotto inchiesta per mafia a partire dal 2000, ma l'inchiesta, terminata nel 2009, non ha portato a sviluppi giudiziari[56].
Il figlio Francesco Paolo, come del resto anche il fratello maggiore, non ha seguito le orme criminali del padre, ma si è laureato in "Lingue e culture moderne" nel 2005, a 23 anni,[57] ed ha ottenuto una borsa di studio dal ministero dell'istruzione

 http://it.wikipedia.org/wiki/Bernardo_Provenzano

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