Un giorno del 1990 Vito Ciancimino decide di inviare a sé stesso una cartolina con 13 nomi. Sono tutti importanti personaggi dello Stato. Un solo nome risultò in seguito contraffatto, quello di De Gennaro. Secondo Ciancimino appartenevano al quarto livello, "alti esponenti delle istituzioni che compiono azioni al di fuori dei propri compiti istituzionali non per interessi personali o individuali ma per ragioni di ordine superiore". A chi rispondevano? Qual è stato il loro ruolo durante gli anni delle stragi? Esiste un livello superiore al di fuori dell'Italia che ha influenzato la politica italiana dal dopoguerra ad oggi? Che ha addirittura nominato i ministri? Rispondere a queste domande può essere molto pericoloso. Nel libro "Il Quarto Livello" Maurizio Torrealta fornisce alcune risposte.
Intervista a Maurizio Torrealta autore del libro: "Il Quarto Livello":
Una cartolina e 13 nomi eccellenti (espandi | comprimi)
Sono Maurizio Torrealta, giornalista di RAI News 24, ho scritto “Il quarto livello” partendo da quella cartolina postale che Vito Ciancimino aveva spedito a sé stesso elencando nel 1990 le 12 persone che, secondo lui, facevano parte di questo livello delle istituzioni che lavorava e copriva Cosa Nostra.
Il termine “quarto livello” è quello che ha utilizzato Vito Ciancimino per descrivere questo elenco,
quindi parto dall’analisi di queste persone che sono persone reali, che sono già entrate, alcune da tempo, alcune invece solo recentemente nella cronaca, ed è curioso il fatto che Vito Ciancimino abbia menzionato queste persone nel 1990. La cartolina postale spedita a sé stesso, serviva proprio a certificare la data, quindi lui nel 1990 dice: “Queste persone fanno parte del livello che, non per interesse personale, ma per interesse superiore, copre Cosa Nostra”. È molto interessante perché proprio nell’organigramma dell’organizzazione c’è qualcosa di sbagliato. Quando l’alto commissariato viene fatto da De Francesco che è sia Prefetto di Palermo, sia capo dell’alto commissariato, sia capo del Sisde, si capisce che c’è una contraddizione, perché se uno ha il compito di catturare i latitanti, contrastare Costa Nostra, invece poi dall’altro, come membro del Sisde, di trattare con loro, di conoscerli, di prendere informazioni, si capisce che c’è una contraddizione, non si può il pomeriggio cercare i latitanti e la sera andarli a incontrare. Ad esempio ci sono molti membri di questo elenco dell’alto commissariato, tra i quali Bruno Contrada, capo del Sisde in Sicilia e capo Gabinetto dell’alto commissariato, due ruoli in contraddizione, Bruno Contrada è stato arrestato, condannato al terzo livello di giudizio, quindi definitivo, ma viene da supporre che il problema non fosse Contrada, fosse il problema dell’intera struttura che aveva questa duplicità.
Massimo Ciancimino è un personaggio molto complesso è il figlio di un noto mafioso, dirò di più di mafioso, Vito Ciancimino era membro di Gladio, questo sta nei verbali che Massimo ha reso alla Procura, quindi è qualcosa di più complicato, in quel territorio grigio che è tra la politica, l’organizzazione mafiosa e l’organizzazione clandestina per progetti di altro genere. Inizialmente Gladio doveva difendere il nostro paese in caso di invasione da parte dei comunisti, da parte dell’Unione Sovietica, poi in realtà si è trasformata sempre di più in uno strumento di guerra psicologica. È un personaggio molto complesso, Vito, Massimo da una parte vorrebbe sdoganarsi da suo padre, dall’altro ne è legato a doppio filo, ne è legato dal punto di vista economico, perché ha ereditato gran parte di quei capitali prodotti con le attività illegali di Cosa Nostra che sono soldi di riciclaggio, quindi è stato accusato di riciclaggio e dà delle informazioni molto ricche su tutta l’attività di suo padre che sono state un po’ la sua salvaguardia, ma anche il suo vero rischio, non so quale gioco stia facendo. L’elenco che ha dato di queste 13 persone, una è De Gennaro, risulta essere falsificato il nome di De Gennaro, ma dalla Polizia scientifica risultano essere veri gli altri 12 nomi di questo elenco.
Mi occupo dell’elenco di queste persone che sono uomini delle istituzioni importanti e voglio vedere se può essere successo che non per motivi di interesse personale, abbiano commesso dei reati, in due casi si tratta di condanna in definitivo sia come dicevo prima per Bruno Contrada… Una volta il Generale Delfino, che è stato condannato in definitiva e degradato per avere intascato parte di un riscatto che doveva consegnare ai sequestratori, in realtà se lo è tenuto lui. Come è possibile che un generale dei Carabinieri di alto livello impegnato in moltissime operazioni faccia questo, probabilmente per dei motivi che non sono quelli dell’interesse personale, nonostante possa apparire questo, ma sono ipotesi ovviamente!
La guerra in Afghanistan finanziata con la droga (espandi | comprimi)
Le stragi hanno sempre funzionato in maniera efficace quando venivano attribuite a dei pericoli reali, le stragi fasciste, le stragi rosse, ormai le stragi hanno una connotazione così precisa, sono stragi fatte per spaventare il pubblico, gli elettori, spostarli a destra o verso il centro, sono stragi che hanno finalità di guerra psicologica, ormai è così diffusa la consapevolezza di questo che verrebbe da pensare che nessuno possa ricorrere a questi espedienti.
Invece sono degli strumenti molto utili, molto comodi, si trova sempre un pazzo che vuole creare disordine o una motivazione fasulla, un attentato fatto da islamici o chi altri per riuscire poi a creare quel clima di paura che può far scegliere un partito piuttosto che un altro, dare un segno piuttosto che un altro al governo o alla stessa forma della seconda Repubblica.
Io non lo so se il Vaticano faccia parte del quarto livello, che è una definizione che nasce da Vito Ciancimino. Lo IOR è stato identificato grazie alle dichiarazioni di pentiti e altri collaboratori, come la banca offshore di Cosa Nostra, poi quanto questa funzione fosse voluta, strumentale etc. deve essere tutto indagato, si può pensare che in un’operazione contro il comunismo, lo IOR abbia avuto la funzione di fare da collettore di flussi finanziari prodotti dall’attività di Cosa Nostra e servisse poi a sovvenzionare, a sostenere movimenti come Solidarnosc o altre attività. Ad esempio Mutolo ha raccontato che nel 1982 i soldi dei traffici di eroina venivano investiti nella Germania dell’Est, nel periodo in cui c’era ancora la cortina, ci dovevano essere dei canali e un’organizzazione molto forte e penso che poteva essere solo fatta con l’appoggio di un’organizzazione internazionale, non soltanto dall’attività imprenditoriale di Cosa Nostra.
C’è tutto un aspetto sulla funzione che Cosa Nostra ha avuto nel finanziamento di attività con finalità politiche che è tutta da scoprire, sicuramente fino al 1990 questa attività c’è stata da parte dello Ior, adesso so che si sono adeguati alla normativa europea, ma senza dubbio questo nel passato è avvenuto, è avvenuto con Calvi, è avvenuto con Sindona, è avvenuto in vari momenti, con Marcinkus per l’appunto, ed era funzionale a un progetto politico e viene da supporre che questo progetto fosse lo stesso che poi serviva a mediare, a evitare che le indagini su Cosa Nostra raggiungessero dei punti pericolosi e facessero scoprire tutta questa attività segreta che Cosa Nostra in qualche modo finanziava, questo è il sospetto.
Se mettiamo in fila gli eventi, nel 1979 viene invaso dai russi l’Afghanistan, viene organizzata una resistenza da parte dei talebani contro i russi, viene finanziata questa resistenza con il traffico dell’oppio e dunque con la raffinazione dell’eroina. Le grandi famiglie americane cominciano proprio negli anni ’80, a gestire questo traffico, I Gambino per primi, mai nella storia industriale del mondo c’è stato un incremento così rapido di capitali come negli anni ‘80, proprio attraverso il traffico dell’eroina. La famiglia Gambino è quella che ha finanziato Sindona nella sua attività di banchiere, ed è stata quella che gestiva questo tipo di traffici e così poi le altre famiglie, anche le famiglie siciliane palermitane, le raffinerie di Alcamo funzionavano all’interno di questo circuito. È prevedibile che ci sia stata, un’attività clandestina con finalità politiche che non dovevano essere scoperte e che il nostro stesso apparato di sicurezza italiano, non doveva più di tanto contrastare.
Il Sisdegate (espandi | comprimi)
Ci si domanda sempre chi comanda, se comanda Cosa Nostra o se comandano i politici, la mafia non agisce contro lo Stato, la mafia agisce sempre con lo Stato, con chi vince, con chi ha potere, è una forma di mediazione di interessi particolari che viene fatta con chi? Con il potere in tutti i sensi, garantisce il controllo sociale, garantisce talvolta anche pace sociale o garantisce che non ci sia la pace sociale se questi accordi non vengono mantenuti.
Nel libro prima segnalavo che emergevano in queste 12 persone delle cordate precise, una è quella dell’alto commissariato, del doppio ruolo che aveva l’alto commissariato, c’è una seconda cordata che emerge ed è quella del cosiddetto "SisdeGate". Il SisdeGate è uno strano caso scoppiato proprio nel 1993, l’anno peggiore, l’anno delle bombe, che oggi possiamo definire l’anno della trattativa, prima non eravamo a conoscenza della trattativa più dura tra Stato e Costa Nostra. In quell’anno vengono scoperti alcuni 007 del Sisde che avevano un ammontare piuttosto forte di capitali di dubbia provenienza, si trattava più o meno di 100 miliardi di lire di quei tempi e che in realtà non risultavano fossero parte dei cosiddetti fondi neri del Sisde. I fondi neri del Sisde sono dei fondi utilizzati senza rendicontazione per operazioni sporche di vario genere, all’inizio si chiamava lo scandalo dei fondi neri del Sisde perché hanno cercato di farli passare come fondi neri del Sisde, ma in realtà erano soldi che non avevano quella provenienza. È curioso che, in quel momento particolare i nostri servizi invece di essere impegnati nel rafforzamento dello Stato che era in grave difficoltà, fossero invece coinvolti in una lotta senza quartiere con altre correnti interne, tant’è che il famoso discorso del Presidente il Scalfaro: “Io non ci sto” fatto proprio il 4 novembre del 1993 era indirizzato a delle accuse che provenivano dagli 007 di allora, che lo accusavano di godere di fondi riservati ingiustificatamente.
Lo scandalo dei fondi neri del Sisde è un buco nero che nessuno vuole affrontare perché farebbe emergere delle complicità e delle finalità dei nostri servizi, indicibili. A cosa servivano quei 100 miliardi? Chi li avrebbe dovuti utilizzare? Per quali motivi? Da dove provenivano? Sono tutte domande che ancora non trovano risposta e credo che non sia un problema giudiziario perché i processi sui fondi neri ci sono stati, il problema è un problema politico e dovrebbe essere affrontato dall’unico organismo che può fare questo che è la Commissione parlamentare sulla mafia, sarebbe utile che si riscrivesse anche questa parte di storia del nostro paese che è ancora così misteriosa.
by beppegrillo.it
sabato 28 maggio 2011
Plaza de Catalunya
Questa sera a Wembley si terrà la finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United. Chiedo ai giocatori del Barca di dare la loro solidarietà ai ragazzi di Plaza de Catalunya manganelllati a sangue e colpiti da proiettili di gomma dagli agenti della polizia regionale Mozos d'Escuadra. Chiedo a Messi e a suoi compagni di squadra di giocare con il lutto al braccio. Sarebbero dei grandi gesti.
La piazza è stata sgombrata con la forza per motivi di "igiene pubblica", per evitare disordini con i tifosi che seguiranno dal maxi schermo la partita. Sono stati feriti 99 ragazzi e due sono stati arrestati. I giovani del Movimento 15 maggio, si erano rifiutati di abbandonare la "acampada", il presidio permanente. I loro banchetti sono stati distrutti, i computer sono stati sequestrati insieme a ogni materiale. Di fronte all'aggressione i ragazzi si sono sdraiati a terra al centro della piazza legandosi tra loro con braccia e gambe in un groviglio inestricabile. I poliziotti non riuscivano a sollevarli. Sembravano agnelli dentro un recinto invisibile circondati da aguzzini che sceglievano di volta in volta chi picchiare. Un colpo, due passi, un po' di sangue, un grido. Una corrida catalana con i manganelli al posto delle banderillas. Quelle mani alzate, quegli sguardi increduli sono sempre gli stessi da piazza Tienmanen ad oggi. Il potere non si fa processare sulle pubbliche piazze e il presidente Artur Mas del partito nazionalista di centro destra alla guida della Catalogna non fa eccezione. Quando i poliziotti vestiti come Darth Vader in Star Wars, inconoscibili dietro ai caschi, massacrano degli studenti colpevoli solo di protestare, allora bisogna risalire ai mandanti, ai politici. I poliziotti, in questi casi, sono solo degli esecutori mal pagati. Così come oggi colpiscono un ragazzo inerme, domani attaccherebbero a un palo un politico corrotto se ordinato da un nuovo governo. Obbediscono, di volta in volta, a chi detiene il potere e gli garantisce l'immunità. Il ruolo della Polizia va ripensato. Non deve essere consentito picchiare dei cittadini perché si veste una divisa. Se lo fai vai in galera per lesioni colpose e dopo si butta via la chiave.
I catalani si sono indignati alla vista dei ragazzi insanguinati e sono accorsi in massa in Plaza de Catalunya. Hanno ricostruito il presidio, rimesso gli striscioni e portato nuovi computer. E' un'onda che i vecchi regimi costruiti sui partiti e sulla delega elettorale in bianco non capiscono e cercano di fermare con la forza, ma è come opporsi a uno tsunami con le mani. Artur Mas i Gavarró stasera farà il tifo davanti alla televisione mentre un grande cartello rimarrà appeso in Plaza de Catalunya con la scritta "Ora siamo più forti".
by beppegrillo.it
La piazza è stata sgombrata con la forza per motivi di "igiene pubblica", per evitare disordini con i tifosi che seguiranno dal maxi schermo la partita. Sono stati feriti 99 ragazzi e due sono stati arrestati. I giovani del Movimento 15 maggio, si erano rifiutati di abbandonare la "acampada", il presidio permanente. I loro banchetti sono stati distrutti, i computer sono stati sequestrati insieme a ogni materiale. Di fronte all'aggressione i ragazzi si sono sdraiati a terra al centro della piazza legandosi tra loro con braccia e gambe in un groviglio inestricabile. I poliziotti non riuscivano a sollevarli. Sembravano agnelli dentro un recinto invisibile circondati da aguzzini che sceglievano di volta in volta chi picchiare. Un colpo, due passi, un po' di sangue, un grido. Una corrida catalana con i manganelli al posto delle banderillas. Quelle mani alzate, quegli sguardi increduli sono sempre gli stessi da piazza Tienmanen ad oggi. Il potere non si fa processare sulle pubbliche piazze e il presidente Artur Mas del partito nazionalista di centro destra alla guida della Catalogna non fa eccezione. Quando i poliziotti vestiti come Darth Vader in Star Wars, inconoscibili dietro ai caschi, massacrano degli studenti colpevoli solo di protestare, allora bisogna risalire ai mandanti, ai politici. I poliziotti, in questi casi, sono solo degli esecutori mal pagati. Così come oggi colpiscono un ragazzo inerme, domani attaccherebbero a un palo un politico corrotto se ordinato da un nuovo governo. Obbediscono, di volta in volta, a chi detiene il potere e gli garantisce l'immunità. Il ruolo della Polizia va ripensato. Non deve essere consentito picchiare dei cittadini perché si veste una divisa. Se lo fai vai in galera per lesioni colpose e dopo si butta via la chiave.
I catalani si sono indignati alla vista dei ragazzi insanguinati e sono accorsi in massa in Plaza de Catalunya. Hanno ricostruito il presidio, rimesso gli striscioni e portato nuovi computer. E' un'onda che i vecchi regimi costruiti sui partiti e sulla delega elettorale in bianco non capiscono e cercano di fermare con la forza, ma è come opporsi a uno tsunami con le mani. Artur Mas i Gavarró stasera farà il tifo davanti alla televisione mentre un grande cartello rimarrà appeso in Plaza de Catalunya con la scritta "Ora siamo più forti".
by beppegrillo.it
giovedì 26 maggio 2011
moratti e pisapia andate a fanculo vi interessano solo i soldi di milano non i milanesi
UN TESORO A MISURA DUOMO - SE NE PARLA POCO, SOMMERSI DALLE CARICATURE DI UNA CITTÀ RIDOTTA A "ZINGAROPOLI ISLAMICA", MA LA VERA PARTITA DI MILANO È L’ACCHIAPPO DI UNA TORTA DA TRE MILIARDI DI EURO PER CHI VINCE - PISAPIA È ANZITUTTO UN AVVOCATO DI GRIDO, LEGALE DI CARLO DE BENEDETTI, APPOGGIATO DA UNO STUOLO DI GENTE CHE CONTA NELLA FINANZA E NELLE PROFESSIONI, DA ALESSANDRO PROFUMO A MARCO VITALE A PIERO BASSETTI...
Marco Alfieri per "la Stampa"
LA CASSAFORTE DEL COMUNE DI MILANO
Diciassette società partecipate tra cui il 27,5% della multiutility A2A, l'84,6% di Sea, il gestore degli aeroporti di Linate e Malpensa, il 100% dell'azienda dei trasporti Atm e il 18,6% dell'autostrada Serravalle. Un piede importante in Fondazione Cariplo e un altro nella scatola di controllo di Expo 2015.
PISAPIA MORATTI DA CORRIERE.IT
Chi lunedì vincerà le elezioni a Milano tra Letizia Moratti e lo sfidante Giuliano Pisapia, si prende con la poltrona di palazzo Marino l'intero tesoretto del Comune imprenditore, un parco societario che vale 13 mila dipendenti (esclusa A2A) e 3 miliardi di fatturato (sempre esclusa A2A). Se ne parla poco, sommersi dalle caricature di una Milano «Zingaropoli islamica», come urla il centrodestra (se vince Pisapia), ma sarà il cuore del giorno dopo perché i «danee» sotto la Madonnina contano eccome.
PISAPIA
L'intreccio è sempre stato forte. Nel 1961 la prima esperienza politica di centrosinistra al governo cittadino, poi esportata a livello nazionale, nasce su una gigantesca partita economica e di potere: la municipalizzazione del gas che segnerà la fine della «destra elettrica» capeggiata dal capo della Edison, Giorgio Valerio. Il tramonto della borghesia del «Clubino» farà non a caso da antipasto alla nazionalizzazione dell'energia elettrica del 1963.
PISAPIA - MORATTI
Negli Anni 80 delle Giunte rosse Salvatore Ligresti è il costruttore per eccellenza della città - non senza scandali (le aree d'oro) sotto l'ala protettrice della Mediobanca di Enrico Cuccia. Negli Anni Novanta il Pigmalione dell'imprenditore Albertini che scala Palazzo Marino è nientemeno che Cesare Romiti, così come negli ultimi anni sono stati gli immobiliaristi a spadroneggiare per i quartieri, lasciando spesso cantieri vuoti e debiti con le protezioni e i soldi delle banche, tutte le banche.
SALVATORE LIGRESTI
Arrivando ovviamente ai Moratti, che vuol dire Marco Tronchetti Provera, ieri in Telecom, oggi in Pirelli. Lo stesso sfidante Giuliano Pisapia è anzitutto un avvocato di grido, legale di Carlo De Benedetti, appoggiato da uno stuolo di gente che conta nella finanza e nelle professioni, da Alessandro Profumo a Marco Vitale a Piero Bassetti.
CESARE ROMITI
Nel 2006, alla vigilia del voto cittadino, il dossier economico più caldo era come difendere l'italianità di Edison, controllata a metà dal colosso francese Edf e dalla milanese Aem. La politica mise in piedi (nel 2007) la fusione difensiva di Aem con i bresciani di Asm per pesare di più dentro il colosso ma il risultato è che dopo 5 anni Foro Bonaparte è sempre più francese, le due anime lombarde litigano sulla faglia LegaCielle, la nuova nata A2A è piena di debiti (3,7 miliardi) e negli ultimi 4 anni ha pagato dividendi a Palazzo Marino per 281 milioni attingendo anche alle riserve.
Sostenere altri pay out vicini al 90% degli utili affosserebbe azienda e investimenti. Cinque anni dopo, su questo ballottaggio elettorale pende invece la fuga di Lufthansa da Malpensa. I tedeschi dovevano diventare la nuova compagnia di riferimento dello scalo lombardo, tagliando la corda rischiano di desertificare un aeroporto che, nonostante le promesse di riscossa del centrodestra, viaggia con 5 milioni di passeggeri meno l'anno rispetto al 2007, quando c'era Alitalia.
CARLO DE BENEDETTI
Spiazzando la stessa Sea che in autunno andrà in borsa (palazzo Marino scenderà al 51%). Nel 2011, da bilancio previsionale del Comune, dovrebbe garantire 160 milioni di dividendi di cui 110 straordinari da quotazione. Ma che succede se si svalorizza l'Ipo per via della fuga dei tedeschi?
ALESSANDRO PROFUMO
Paradossalmente Letizia Moratti al primo turno è caduta anche sul suo terreno, quello manageriale. I report dei revisori del comune parlano di controllate e partecipate utilizzate come bancomat per salvare i conti del comune e tamponare il taglio dell'Ici e dei trasferimenti statali, dividendi straordinari a getto continuo e riserve societarie che calano di anno in anno.
MARCO VITALE
Secondo i calcoli del Sole24 Ore, dal 2006 al 2010 Palazzo Marino ha staccato cedole dalle principali società collegate (A2A, Sea e Atm) per 885 milioni. I suoi critici ricordano spesso la vicenda di Metroweb, l'azienda che gestisce i 263 mila chilometri di fibra ottica interrati nel sottosuolo milanese. Nel 2007 Aem, con l'avallo del sindaco, vende Metroweb allo sconosciuto fondo inglese Stirling Square. Il prezzo viene fissato a sconto del 70% (28 milioni) rispetto a quanto l'azienda elettrica aveva pagato 3 anni prima per diventarne azionista unico. Qualche mese fa il fondo inglese decide di rivendere Metroweb su una base d'asta di 250 milioni.
PIERO BASSETTI
E Pisapia? Resta abbottonato. Lascia correre la suggestione della holding di partecipazioni a guida Alessandro Profumo, fa filtrare parole di apprezzamento per il management Sea guidato da Giuseppe Bonomi e promette, nel caso toccasse a lui, di imprimere un indirizzo strategico al tesoretto comunale. Di certo, se vincesse, si troverebbe davanti una patata bollente...
by dagospia
Marco Alfieri per "la Stampa"
LA CASSAFORTE DEL COMUNE DI MILANO
Diciassette società partecipate tra cui il 27,5% della multiutility A2A, l'84,6% di Sea, il gestore degli aeroporti di Linate e Malpensa, il 100% dell'azienda dei trasporti Atm e il 18,6% dell'autostrada Serravalle. Un piede importante in Fondazione Cariplo e un altro nella scatola di controllo di Expo 2015.
PISAPIA MORATTI DA CORRIERE.IT
Chi lunedì vincerà le elezioni a Milano tra Letizia Moratti e lo sfidante Giuliano Pisapia, si prende con la poltrona di palazzo Marino l'intero tesoretto del Comune imprenditore, un parco societario che vale 13 mila dipendenti (esclusa A2A) e 3 miliardi di fatturato (sempre esclusa A2A). Se ne parla poco, sommersi dalle caricature di una Milano «Zingaropoli islamica», come urla il centrodestra (se vince Pisapia), ma sarà il cuore del giorno dopo perché i «danee» sotto la Madonnina contano eccome.
PISAPIA
L'intreccio è sempre stato forte. Nel 1961 la prima esperienza politica di centrosinistra al governo cittadino, poi esportata a livello nazionale, nasce su una gigantesca partita economica e di potere: la municipalizzazione del gas che segnerà la fine della «destra elettrica» capeggiata dal capo della Edison, Giorgio Valerio. Il tramonto della borghesia del «Clubino» farà non a caso da antipasto alla nazionalizzazione dell'energia elettrica del 1963.
PISAPIA - MORATTI
Negli Anni 80 delle Giunte rosse Salvatore Ligresti è il costruttore per eccellenza della città - non senza scandali (le aree d'oro) sotto l'ala protettrice della Mediobanca di Enrico Cuccia. Negli Anni Novanta il Pigmalione dell'imprenditore Albertini che scala Palazzo Marino è nientemeno che Cesare Romiti, così come negli ultimi anni sono stati gli immobiliaristi a spadroneggiare per i quartieri, lasciando spesso cantieri vuoti e debiti con le protezioni e i soldi delle banche, tutte le banche.
SALVATORE LIGRESTI
Arrivando ovviamente ai Moratti, che vuol dire Marco Tronchetti Provera, ieri in Telecom, oggi in Pirelli. Lo stesso sfidante Giuliano Pisapia è anzitutto un avvocato di grido, legale di Carlo De Benedetti, appoggiato da uno stuolo di gente che conta nella finanza e nelle professioni, da Alessandro Profumo a Marco Vitale a Piero Bassetti.
CESARE ROMITI
Nel 2006, alla vigilia del voto cittadino, il dossier economico più caldo era come difendere l'italianità di Edison, controllata a metà dal colosso francese Edf e dalla milanese Aem. La politica mise in piedi (nel 2007) la fusione difensiva di Aem con i bresciani di Asm per pesare di più dentro il colosso ma il risultato è che dopo 5 anni Foro Bonaparte è sempre più francese, le due anime lombarde litigano sulla faglia LegaCielle, la nuova nata A2A è piena di debiti (3,7 miliardi) e negli ultimi 4 anni ha pagato dividendi a Palazzo Marino per 281 milioni attingendo anche alle riserve.
Sostenere altri pay out vicini al 90% degli utili affosserebbe azienda e investimenti. Cinque anni dopo, su questo ballottaggio elettorale pende invece la fuga di Lufthansa da Malpensa. I tedeschi dovevano diventare la nuova compagnia di riferimento dello scalo lombardo, tagliando la corda rischiano di desertificare un aeroporto che, nonostante le promesse di riscossa del centrodestra, viaggia con 5 milioni di passeggeri meno l'anno rispetto al 2007, quando c'era Alitalia.
CARLO DE BENEDETTI
Spiazzando la stessa Sea che in autunno andrà in borsa (palazzo Marino scenderà al 51%). Nel 2011, da bilancio previsionale del Comune, dovrebbe garantire 160 milioni di dividendi di cui 110 straordinari da quotazione. Ma che succede se si svalorizza l'Ipo per via della fuga dei tedeschi?
ALESSANDRO PROFUMO
Paradossalmente Letizia Moratti al primo turno è caduta anche sul suo terreno, quello manageriale. I report dei revisori del comune parlano di controllate e partecipate utilizzate come bancomat per salvare i conti del comune e tamponare il taglio dell'Ici e dei trasferimenti statali, dividendi straordinari a getto continuo e riserve societarie che calano di anno in anno.
MARCO VITALE
Secondo i calcoli del Sole24 Ore, dal 2006 al 2010 Palazzo Marino ha staccato cedole dalle principali società collegate (A2A, Sea e Atm) per 885 milioni. I suoi critici ricordano spesso la vicenda di Metroweb, l'azienda che gestisce i 263 mila chilometri di fibra ottica interrati nel sottosuolo milanese. Nel 2007 Aem, con l'avallo del sindaco, vende Metroweb allo sconosciuto fondo inglese Stirling Square. Il prezzo viene fissato a sconto del 70% (28 milioni) rispetto a quanto l'azienda elettrica aveva pagato 3 anni prima per diventarne azionista unico. Qualche mese fa il fondo inglese decide di rivendere Metroweb su una base d'asta di 250 milioni.
PIERO BASSETTI
E Pisapia? Resta abbottonato. Lascia correre la suggestione della holding di partecipazioni a guida Alessandro Profumo, fa filtrare parole di apprezzamento per il management Sea guidato da Giuseppe Bonomi e promette, nel caso toccasse a lui, di imprimere un indirizzo strategico al tesoretto comunale. Di certo, se vincesse, si troverebbe davanti una patata bollente...
by dagospia
mercoledì 25 maggio 2011
DAGO SUI PENULTIMI GIORNI DI POMPEI - “BERLUSCONI ORA È SENZA BENZINA. E A SINISTRA C’È SOLO UN POLLAIO DI LEADER IMMAGINARI - PISAPIA HA VINTO PERCHÉ BERSANI NON HA MAI MESSO PIEDE A MILANO - UN RUOLO ISTITUZIONALE, COME LA PRESIDENZA DEL GOVERNO, OBBLIGA A UN’ETICA LONTANA DALLA COTICA - FINCHÉ NON AVEVA SFOGGIATO MIRE PRESIDENZIALI CHE URTAVANO CON QUELLE DEL NANO DELL’ELISEO, DSK POTEVA SODOMIZZARE ANCHE LE GALLINE"....
Arturo Celletti per "A", in edicola domani
«Ormai Berlusconi non cammina; si trascina, arranca. La benzina è finita".
Roberto D'Agostino si ferma qualche istante per buttare un occhio sull'iPhone che gli "regala" l'ennesimo sms prima di chiudere quel ragionamento con un consiglio al Cavaliere di Arcore. «Sarebbe davvero geniale se vincesse il ballottaggio e annunciasse la sua uscita di scena. Basterebbero quattro parole "Signore e signori, grazie di tutto e a presto"».
ROBERTO DAGOSTINO
Non ci crede nemmeno lei.
«Il vero problema di tutti noi è sapere quando arriva il momento di uscire di scena, ma sono tutti malati di visibilità. hanno paura di non esistere senza la luce rossa della telecamera. Hai visto Vittorio Sgarbi?».
Il programma sospeso per gli ascolti bassi?
«Bassi? Ha fatto l'otto per cento sulla prima rete... Poco più del monoscopio. Ma è quello che Sgarbone si meritava con un programma tutto dedicato alla propria "ego-latrina". L'io nel tombino della vanità, parapapà. Non puoi sparare il tuo ego per due ore davanti al pubblico. Magari una piccola dose sì, ma due ore...».
Un altro ceffone al povero Vittorio; con il primo gli diede lei è andato avanti anni.
«La gente mi fermava: "Bravo, bravo, in quella mano c'ero anche io"».
BERLUSCONI E LETIZIA MORATTI
Torniamo al flop televisivo: Sgarbi doveva capire?
«Lui. E anche la Moratti. Fare il sindaco è complicato; è così difficile accontentare i cittadini, soddisfare le loro attese, rispondere alle loro aspettative. Soprattutto rispettare le promesse elettorali. Meglio un solo mandato e via».
Siamo sul Lungotevere. L'attico dell'inventore di Dagospia, il sito di gossip e retroscena politici più cliccato d'Italia, sfoggia jeans strappati, camiciona a quadri e stivali da midnight cowboy. La casa è bella e colorata. C'è un flipper, un juke box, e c'è un giardinetto dove tra i sette nani scorgiamo le maschere di Walter Veltroni che sorride e Berlusconi che ride.
Berlusconi arrancherà pure, ma è sempre lì.
«Perché a sinistra non ce n'è uno credibile; c'è solo un pollaio di leader immaginari».
E allora Milano?
«Uno scherzo televisivo ha cambiato la storia. In un attimo 50 mila voti si sono spostati dalla Moratti a Pisapia».
VITTORIO SGARBI FLOP - NONLEGGERLO
Un attimo?
«Già, nell'attimo in cui Letizia attaccava Giuliano nel faccia a faccia su Sky. Un errore imperdonabile: chi ha consigliato il sindaco dovrebbe essere preso a pedate. In un secondo la Moratti si trasfigura in Santanchè e Pisapia nel borghese illuminato alla Moratti. Quel cambio di ruoli ha stravolto un verdetto annunciato».
Tutto qui?
«No. Un'altra cosa: chi è in vantaggio non si concede all'avversario. Pisapia l'ha capito e ora che è avanti dice no a Moratti: "Non mi vado a dare in pasto...". Berlusconi non si è mai concesso ai rivali».
Cosa pensa delle preferenze personali del premier dimezzate?
«Un venditore di tappeti come lui avrebbe dovuto capire: il prodotto-volto va aggiornato. Per eccitare l'acquirente ci vogliono la novità. Come per lo yogurt: oggi dai la versione light, domani alla fragola... L'italiano si stanca in fretta e il restyling va fatto».
BERSANI
Altre cose?
«Da "commendator Brambilla" non ha mai accettato che la politica è fatta di mediazioni, quote di potere, rispetto per i partner. Pensa di poter comprare tutto. Il consenso gli ha cotonato il cervello; non capisce che nemmeno Milano lo vuole più».
Che c'entra Milano?
«Il Cavaliere ha fatto precipitare la capitale della moda, dell'architettura, del design nel bunga bunga. Milano era un centro europeo luminoso. Valeva Parigi, negli anni Settanta/Ottanta. La Milano di Berlusconi si interessa solo di ragazze e di affari».
Dagospia severo censore?
«Severo? Ma non scherziamo. Per dirla come quelli che hanno studiato, ci vorrebbe un premier che sia un "civil servant", un servitore civile. Non un servitore delle serve. Allora mi stupisco io se qualcuno si stupisce delle preferenze dimezzate: un ruolo istituzionale, come la presidenza del governo, obbliga a un'etica lontana dalla cotica».
Berlusconi un handicap per la Moratti? E Bersani?
«Pisapia ha vinto perché Bersani non ha mai messo piede a Milano per spingere la sua candidatura. È così: la sua assenza è stata il miglior supporto politico per il candidato della sinistra di Vendola».
PISAPIA CON LA TORTA DI COMPLEANNO
Anche il leader del Pd senza forza propulsiva?
«Il volto di Bersani è "ottuso": non comunica, non è moderno, non intercetta l'immaginario collettivo».
Renzi intercetta?
«Andiamo avanti; Renzi non sa nemmeno quale merendina vuole».
Provo con Chiamparino.
«Basta, sono di un altro secolo, abusivi della politica, morti viventi. D'Alema, Veltroni, Finocchiaro: stanno lì da trent'anni e la gente è stanca».
Un nome che tira?
«Conosco Nicola Zingaretti: bravo, può fare il sindaco di Roma. Ma anche giocarsi la partita per la leadership. Magari ci sono anche altri che sono giusti e che poi puntualmente vengonoo schiacciati dai vecchi tromboni».
NICOLA ZINGARETTI
Bossi fa parte dei vecchi tromboni?
«Bossi è ormai una immaginetta del folclore padano. È Maroni il vero leader; oltre a lui solo Tremonti può avere ambizioni».
Maroni?
«È concreto. E ha anche un fortissimo rapporto con Letta. Certo oggi anche il buon Gianni non brilla più: la caduta di Geronzi, quella di Bertolaso: tanti botti l'hanno sbiadito».
Montezemolo brilla?
«No, lui aspetta la "Grande Chiamata", sia da sinistra sia da destra, ma aspetta invano. Te li vedi De Magistris, Di Pietro, Vendola e Bersani che tutti insieme in ginocchio chiamano Luchino? Più facile che arrivi da quello che resta di Berlusconi».
Prodi torna?
«Io su di lui presidente della Repubblica punterei. Certo, dopo essere stato fatto fuori dal fuoco amico del centrosinistra, non si espone più. Anche lui vuole essere chiamato. Anche lui sa che lì, appena ti affacci, questi prendono la mira».
MASSIMO DALEMA WALTER VELTRONI
D'Agostino è senza pietà. Ma questa è la sua forza e quella del suo sito. Le battute si accavallano ai giudizi.
Fabio Fazio?
«Le sue trasmissioni sono il primo marchettificio "alto". Gigi Marzullo rispetto a lui è un gigante».
C'è la cronaca, la politica e poi ci sono i grandi fatti. Uno è la storia di Strauss-Kahn, l'uomo che è passato dalla guida del fondo monetario al carcere e di cui ora parla il mondo.
Che ha pensato?
«Che il sesso è il peggior nemico del potere. Ma non c'è un complotto, semmai il complotto viene fuori dopo il fattaccio».
UMBERTO BOSSI
L'hotel Sofitel vero?
«Strauss-Kahn aveva già "colpito" in passato e aveva sempre messo tutto a tacere. Ma questa volta il Fondo monetario internazionale e Sarkozy, ognuno per le sue ragioni, hanno deciso di farlo saltare in aria. Gli Stati Uniti, da quando c'è Strauss-Kahn al vertice dell'Fmi, non hanno mai toccato palla e avevano una gran voglia di fargliela pagare. Vedi la passerella con le manette. Dall'altra, finché non aveva sfoggiato mire presidenziali che urtavano con quelle del nano dell'Eliseo, DSK poteva sodomizzare anche le galline».
CESARE GERONZI GIANNI LETTA
La notizia italiana sembra l'exploit di Beppe Grillo.
« In tutte le elezioni c'è sempre un partito che ti salva la coscienza quando davvero non sai chi votare. Ieri, quando facevano schifo tutti, votavi radicale, era Pannella la via di fuga. Oggi c'è Grillo».
Dago, se la chiamasse Letizia Moratti e le chiedesse un consiglio?
«Le direi: chiama Formigoni e invitalo a sedersi al tavolo. Poi offri una bella fetta di torta dell'Expo alla Compagnia delle Opere. La politica è mediare, ma Letizia è incapace di fare politica. Lei è una padrona che paga le sue rigidità».
ROMANO PRODI
Si spieghi.
«Sull'Expo ha preteso di fare il bello e il cattivo tempo. Ha spinto in cantina Formigoni e ora Comunione e Liberazione le ha ricambiato la cortesia. Andreotti era un maestro: lui la fetta di torta per i rivali l'aveva sempre pronta. Lui conosceva bene le regole democristiane: perché escludere, quando puoi aggiungere? Gli esclusi poi si coalizzano e ti fanno fuori. La banca di Roma, cara al divino Giulio, finanziava i giornali di destra al pari dell'Unità e del Manifesto».
by dagospia
«Ormai Berlusconi non cammina; si trascina, arranca. La benzina è finita".
Roberto D'Agostino si ferma qualche istante per buttare un occhio sull'iPhone che gli "regala" l'ennesimo sms prima di chiudere quel ragionamento con un consiglio al Cavaliere di Arcore. «Sarebbe davvero geniale se vincesse il ballottaggio e annunciasse la sua uscita di scena. Basterebbero quattro parole "Signore e signori, grazie di tutto e a presto"».
ROBERTO DAGOSTINO
Non ci crede nemmeno lei.
«Il vero problema di tutti noi è sapere quando arriva il momento di uscire di scena, ma sono tutti malati di visibilità. hanno paura di non esistere senza la luce rossa della telecamera. Hai visto Vittorio Sgarbi?».
Il programma sospeso per gli ascolti bassi?
«Bassi? Ha fatto l'otto per cento sulla prima rete... Poco più del monoscopio. Ma è quello che Sgarbone si meritava con un programma tutto dedicato alla propria "ego-latrina". L'io nel tombino della vanità, parapapà. Non puoi sparare il tuo ego per due ore davanti al pubblico. Magari una piccola dose sì, ma due ore...».
Un altro ceffone al povero Vittorio; con il primo gli diede lei è andato avanti anni.
«La gente mi fermava: "Bravo, bravo, in quella mano c'ero anche io"».
BERLUSCONI E LETIZIA MORATTI
Torniamo al flop televisivo: Sgarbi doveva capire?
«Lui. E anche la Moratti. Fare il sindaco è complicato; è così difficile accontentare i cittadini, soddisfare le loro attese, rispondere alle loro aspettative. Soprattutto rispettare le promesse elettorali. Meglio un solo mandato e via».
Siamo sul Lungotevere. L'attico dell'inventore di Dagospia, il sito di gossip e retroscena politici più cliccato d'Italia, sfoggia jeans strappati, camiciona a quadri e stivali da midnight cowboy. La casa è bella e colorata. C'è un flipper, un juke box, e c'è un giardinetto dove tra i sette nani scorgiamo le maschere di Walter Veltroni che sorride e Berlusconi che ride.
Berlusconi arrancherà pure, ma è sempre lì.
«Perché a sinistra non ce n'è uno credibile; c'è solo un pollaio di leader immaginari».
E allora Milano?
«Uno scherzo televisivo ha cambiato la storia. In un attimo 50 mila voti si sono spostati dalla Moratti a Pisapia».
VITTORIO SGARBI FLOP - NONLEGGERLO
Un attimo?
«Già, nell'attimo in cui Letizia attaccava Giuliano nel faccia a faccia su Sky. Un errore imperdonabile: chi ha consigliato il sindaco dovrebbe essere preso a pedate. In un secondo la Moratti si trasfigura in Santanchè e Pisapia nel borghese illuminato alla Moratti. Quel cambio di ruoli ha stravolto un verdetto annunciato».
Tutto qui?
«No. Un'altra cosa: chi è in vantaggio non si concede all'avversario. Pisapia l'ha capito e ora che è avanti dice no a Moratti: "Non mi vado a dare in pasto...". Berlusconi non si è mai concesso ai rivali».
Cosa pensa delle preferenze personali del premier dimezzate?
«Un venditore di tappeti come lui avrebbe dovuto capire: il prodotto-volto va aggiornato. Per eccitare l'acquirente ci vogliono la novità. Come per lo yogurt: oggi dai la versione light, domani alla fragola... L'italiano si stanca in fretta e il restyling va fatto».
BERSANI
Altre cose?
«Da "commendator Brambilla" non ha mai accettato che la politica è fatta di mediazioni, quote di potere, rispetto per i partner. Pensa di poter comprare tutto. Il consenso gli ha cotonato il cervello; non capisce che nemmeno Milano lo vuole più».
Che c'entra Milano?
«Il Cavaliere ha fatto precipitare la capitale della moda, dell'architettura, del design nel bunga bunga. Milano era un centro europeo luminoso. Valeva Parigi, negli anni Settanta/Ottanta. La Milano di Berlusconi si interessa solo di ragazze e di affari».
Dagospia severo censore?
«Severo? Ma non scherziamo. Per dirla come quelli che hanno studiato, ci vorrebbe un premier che sia un "civil servant", un servitore civile. Non un servitore delle serve. Allora mi stupisco io se qualcuno si stupisce delle preferenze dimezzate: un ruolo istituzionale, come la presidenza del governo, obbliga a un'etica lontana dalla cotica».
Berlusconi un handicap per la Moratti? E Bersani?
«Pisapia ha vinto perché Bersani non ha mai messo piede a Milano per spingere la sua candidatura. È così: la sua assenza è stata il miglior supporto politico per il candidato della sinistra di Vendola».
PISAPIA CON LA TORTA DI COMPLEANNO
Anche il leader del Pd senza forza propulsiva?
«Il volto di Bersani è "ottuso": non comunica, non è moderno, non intercetta l'immaginario collettivo».
Renzi intercetta?
«Andiamo avanti; Renzi non sa nemmeno quale merendina vuole».
Provo con Chiamparino.
«Basta, sono di un altro secolo, abusivi della politica, morti viventi. D'Alema, Veltroni, Finocchiaro: stanno lì da trent'anni e la gente è stanca».
Un nome che tira?
«Conosco Nicola Zingaretti: bravo, può fare il sindaco di Roma. Ma anche giocarsi la partita per la leadership. Magari ci sono anche altri che sono giusti e che poi puntualmente vengonoo schiacciati dai vecchi tromboni».
NICOLA ZINGARETTI
Bossi fa parte dei vecchi tromboni?
«Bossi è ormai una immaginetta del folclore padano. È Maroni il vero leader; oltre a lui solo Tremonti può avere ambizioni».
Maroni?
«È concreto. E ha anche un fortissimo rapporto con Letta. Certo oggi anche il buon Gianni non brilla più: la caduta di Geronzi, quella di Bertolaso: tanti botti l'hanno sbiadito».
Montezemolo brilla?
«No, lui aspetta la "Grande Chiamata", sia da sinistra sia da destra, ma aspetta invano. Te li vedi De Magistris, Di Pietro, Vendola e Bersani che tutti insieme in ginocchio chiamano Luchino? Più facile che arrivi da quello che resta di Berlusconi».
Prodi torna?
«Io su di lui presidente della Repubblica punterei. Certo, dopo essere stato fatto fuori dal fuoco amico del centrosinistra, non si espone più. Anche lui vuole essere chiamato. Anche lui sa che lì, appena ti affacci, questi prendono la mira».
MASSIMO DALEMA WALTER VELTRONI
D'Agostino è senza pietà. Ma questa è la sua forza e quella del suo sito. Le battute si accavallano ai giudizi.
Fabio Fazio?
«Le sue trasmissioni sono il primo marchettificio "alto". Gigi Marzullo rispetto a lui è un gigante».
C'è la cronaca, la politica e poi ci sono i grandi fatti. Uno è la storia di Strauss-Kahn, l'uomo che è passato dalla guida del fondo monetario al carcere e di cui ora parla il mondo.
Che ha pensato?
«Che il sesso è il peggior nemico del potere. Ma non c'è un complotto, semmai il complotto viene fuori dopo il fattaccio».
UMBERTO BOSSI
L'hotel Sofitel vero?
«Strauss-Kahn aveva già "colpito" in passato e aveva sempre messo tutto a tacere. Ma questa volta il Fondo monetario internazionale e Sarkozy, ognuno per le sue ragioni, hanno deciso di farlo saltare in aria. Gli Stati Uniti, da quando c'è Strauss-Kahn al vertice dell'Fmi, non hanno mai toccato palla e avevano una gran voglia di fargliela pagare. Vedi la passerella con le manette. Dall'altra, finché non aveva sfoggiato mire presidenziali che urtavano con quelle del nano dell'Eliseo, DSK poteva sodomizzare anche le galline».
CESARE GERONZI GIANNI LETTA
La notizia italiana sembra l'exploit di Beppe Grillo.
« In tutte le elezioni c'è sempre un partito che ti salva la coscienza quando davvero non sai chi votare. Ieri, quando facevano schifo tutti, votavi radicale, era Pannella la via di fuga. Oggi c'è Grillo».
Dago, se la chiamasse Letizia Moratti e le chiedesse un consiglio?
«Le direi: chiama Formigoni e invitalo a sedersi al tavolo. Poi offri una bella fetta di torta dell'Expo alla Compagnia delle Opere. La politica è mediare, ma Letizia è incapace di fare politica. Lei è una padrona che paga le sue rigidità».
ROMANO PRODI
Si spieghi.
«Sull'Expo ha preteso di fare il bello e il cattivo tempo. Ha spinto in cantina Formigoni e ora Comunione e Liberazione le ha ricambiato la cortesia. Andreotti era un maestro: lui la fetta di torta per i rivali l'aveva sempre pronta. Lui conosceva bene le regole democristiane: perché escludere, quando puoi aggiungere? Gli esclusi poi si coalizzano e ti fanno fuori. La banca di Roma, cara al divino Giulio, finanziava i giornali di destra al pari dell'Unità e del Manifesto».
by dagospia
EVASORI O MAZZIATI? - DOPO GLI INCAZZATISSIMI TARTASSATI SARDI, LA GUERRA AD EQUITALIA SBARCA IN CONTINENTE - IL MONDO DELLE PICCOLE IMPRESE, DEI COMMERCIANTI E DELLE PARTITE IVA GNAFA’ PIÙ A PAGARE MORE E SANZIONI E PERSINO IL SINDACO DALEMIANO DI BARI SI LAMENTA: “IL FISCO STA DISTRUGGENDO L’IMPRESA AL SUD” - LA DOMANDA AL GRAN CAPO DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE BEFERA È LA STESSA: “PERCHÉ MASSACRATE I PICCOLI MA NON FATE NULLA SUI GRANDI PATRIMONI OCCULTATI?” (DA AGNELLI IN GIÙ)
Christian Benna per "Affari & Finanza" de "la Repubblica"
ATTILIO BEFERA
Tutti alla guerra contro Equitalia: agricoltori, pastori, piccole imprese e commercianti. E ora pure qualche amministrazione pubblica e partiti politici. Il fronte delle proteste contro l'agenzia di riscossione, società privata partecipata dall'Erario e dall'Inps, si allarga a macchia d'olio.
Dopo il giorno della "rabbia" dei diecimila tartassati sardi, il popolo delle partite Iva e degli artigiani che il 15 maggio ha paralizzato Cagliari, delle manifestazioni a Torino e Milano, con il coinvolgimento di Futuro e Liberà che ha lanciato l'Equitalia Day, a Bari è sceso in campo perfino il sindaco Michele Emiliano. Il primo cittadino del capoluogo pugliese ha deciso di sospendere la convenzione che lega il comune all'agenzia, perché «Equitalia sarebbe diventato un «luogo di prevaricazione» che «sta distruggendo l'impresa al sud».
E con l'aria che tira, visto che dal primo luglio entrerà in vigore la norma sugli accertamenti esecutivi che impone una sensibile accelerazione della riscossione, i focolai di rivolta potrebbe estendersi ancora.
GIULIO TREMONTI
Dati alla mano, Federcontribuenti parla di oltre 1.200 aziende fallite o entrate in stato di crisi in Italia nel biennio marzo 2008 - marzo 2010, «che equivale a oltre 7.000 dipendenti che hanno perso il posto di lavoro, a causa della riscossione coatta dei tributi e delle imposte operata dai concessionari di Equitalia Spa, attraverso il blocco dei pagamenti dei crediti che le aziende vantavano dalla Pubblica Amministrazione, e il conseguente pignoramento presso terzi». E non è tutto.
Le vittime della stretta del fisco continuano a crescere. Un milione seicentomila preavvisi di fermo e 577mila fermi effettuati. Quattrocentocinquantamila ipoteche iscritte dal 2007 al 2010 ed ancora in vita, escluse quindi quelle per cui è avvenuta la cancellazione, 135mila nuove ipoteche solo lo scorso anno. Insomma, il "successo" di Equitalia, che ha migliorato l'incasso arrivato quest'anno a quasi 9 miliardi, il 15% rispetto al 2009, anche se l'evasione nazionale ammonta a circa 120 miliardi, sarebbe tutto merito di mezzi sempre più duri a danno delle piccole attività.
MICHELE EMILIANO - SINDACO BARI
Per Claudio Carpentieri, responsabile dell'ufficio fiscale di Cna «le imprese devono tornare ad essere considerate come una grande risorsa del Paese, una risorsa da proteggere e da aiutare. Non vanno viste come tanti potenziali evasori. Alle imprese servono risposte concrete ed immediate. Il tempo dell'attesa e dell'interlocuzione è finito. Il sistema degli accertamenti fiscali deve essere modificato alla radice».
Rete Imprese Italia, l'associazione che riunisce i piccoli, Cna, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani, sta correndo ai ripari. E si è rivolta direttamente al direttore dell'agenzia delle entrate, Attilio Befera per chiedere un rapporto tra contribuente ed erario ben più equilibrato di quello attuale. Le imprese denunciano una sproporzione tra l'entità del tributo in mora e la sanzione, "sulla quale vengono applicati gli interessi".
In altre parole, secondo l'associazione, gli interessi di mora, attualmente previsti nella misura del 5,7%, non dovrebbero essere applicati sulla parte del debito riferibile alle sanzioni. Sul banco degli imputati anche l'aggio di riscossione, che è stabilito nella misura del 9%, per tutto il territorio nazionale ed è attribuito al contribuente.
EQUITALIA_SARDEGNA
Inoltre Rete Imprese Italia «ritiene necessario incrementare il numero di rate, in cui è possibile suddividere il debito tributario emergente dalle cartelle esattoriali ora fissato in 72 rate mensili». Altrimenti, con questo sistema di riscossione, per molte imprese non resterà che abbassare le saracinesche.
«La tensione è sempre più alta, ma non mancano i margini di intesa - dice Mario Busoni, direttore di Confesercenti - Perché siamo tutti d'accordo nel sanzionare l'evasione fiscale e nel far rispettare i debiti che il contribuente ha con l'erario, ma l'atteggiamento vessatorio che si sta verificando contro i piccoli è del tutto fuori luogo. Spesso i ritardi di pagamento sono dovuti a situazioni di crisi oggettive, non certo alla voglia di fare i furbetti».
Lo dimostra indirettamente la stessa Equitalia, che ha concesso sino ad oggi 1,145 milioni di rateizzazioni, per una cifra complessiva di 15 miliardi, indice della crescente difficoltà delle famiglie a fare fronte al debito con lo stato, in tempi rapidi e con pagamenti unici.
La carica dei piccoli ha sortito qualche effetto.
LOGO EQUITALIA
Intanto Befera ha preso carta e penna per rivolgersi ai suoi agenti invitando a moderare i modi di riscossione: «Continuo a ricevere segnalazioni nelle quali si denunciano modi di agire che mi spingono adesso a rivolgermi direttamente a tutti voi per richiamare ognuno alle proprie responsabilità e ribadire ancora una volta che la nostra azione di controllo può rivelarsi realmente efficace solo se è corretta».
Un primo passo importante per Claudio Carpentieri di Cna che tuttavia invita l'Erario a intervenire meglio «sui grandi patrimoni occultati attraverso escamotage finanziari e allo stesso consentire alle imprese sane di pagare senza contraccolpi». Perché «un'impresa che muore per impossibilità di pagare il fisco, è un danno per tutti: per chi ci lavora, per l'Erario che comunque non recupera nulla, per il Paese che vede spegnersi un focolaio di ricchezza».
by dagospia
ATTILIO BEFERA
Tutti alla guerra contro Equitalia: agricoltori, pastori, piccole imprese e commercianti. E ora pure qualche amministrazione pubblica e partiti politici. Il fronte delle proteste contro l'agenzia di riscossione, società privata partecipata dall'Erario e dall'Inps, si allarga a macchia d'olio.
Dopo il giorno della "rabbia" dei diecimila tartassati sardi, il popolo delle partite Iva e degli artigiani che il 15 maggio ha paralizzato Cagliari, delle manifestazioni a Torino e Milano, con il coinvolgimento di Futuro e Liberà che ha lanciato l'Equitalia Day, a Bari è sceso in campo perfino il sindaco Michele Emiliano. Il primo cittadino del capoluogo pugliese ha deciso di sospendere la convenzione che lega il comune all'agenzia, perché «Equitalia sarebbe diventato un «luogo di prevaricazione» che «sta distruggendo l'impresa al sud».
E con l'aria che tira, visto che dal primo luglio entrerà in vigore la norma sugli accertamenti esecutivi che impone una sensibile accelerazione della riscossione, i focolai di rivolta potrebbe estendersi ancora.
GIULIO TREMONTI
Dati alla mano, Federcontribuenti parla di oltre 1.200 aziende fallite o entrate in stato di crisi in Italia nel biennio marzo 2008 - marzo 2010, «che equivale a oltre 7.000 dipendenti che hanno perso il posto di lavoro, a causa della riscossione coatta dei tributi e delle imposte operata dai concessionari di Equitalia Spa, attraverso il blocco dei pagamenti dei crediti che le aziende vantavano dalla Pubblica Amministrazione, e il conseguente pignoramento presso terzi». E non è tutto.
Le vittime della stretta del fisco continuano a crescere. Un milione seicentomila preavvisi di fermo e 577mila fermi effettuati. Quattrocentocinquantamila ipoteche iscritte dal 2007 al 2010 ed ancora in vita, escluse quindi quelle per cui è avvenuta la cancellazione, 135mila nuove ipoteche solo lo scorso anno. Insomma, il "successo" di Equitalia, che ha migliorato l'incasso arrivato quest'anno a quasi 9 miliardi, il 15% rispetto al 2009, anche se l'evasione nazionale ammonta a circa 120 miliardi, sarebbe tutto merito di mezzi sempre più duri a danno delle piccole attività.
MICHELE EMILIANO - SINDACO BARI
Per Claudio Carpentieri, responsabile dell'ufficio fiscale di Cna «le imprese devono tornare ad essere considerate come una grande risorsa del Paese, una risorsa da proteggere e da aiutare. Non vanno viste come tanti potenziali evasori. Alle imprese servono risposte concrete ed immediate. Il tempo dell'attesa e dell'interlocuzione è finito. Il sistema degli accertamenti fiscali deve essere modificato alla radice».
Rete Imprese Italia, l'associazione che riunisce i piccoli, Cna, Confartigianato, Confesercenti, Casartigiani, sta correndo ai ripari. E si è rivolta direttamente al direttore dell'agenzia delle entrate, Attilio Befera per chiedere un rapporto tra contribuente ed erario ben più equilibrato di quello attuale. Le imprese denunciano una sproporzione tra l'entità del tributo in mora e la sanzione, "sulla quale vengono applicati gli interessi".
In altre parole, secondo l'associazione, gli interessi di mora, attualmente previsti nella misura del 5,7%, non dovrebbero essere applicati sulla parte del debito riferibile alle sanzioni. Sul banco degli imputati anche l'aggio di riscossione, che è stabilito nella misura del 9%, per tutto il territorio nazionale ed è attribuito al contribuente.
EQUITALIA_SARDEGNA
Inoltre Rete Imprese Italia «ritiene necessario incrementare il numero di rate, in cui è possibile suddividere il debito tributario emergente dalle cartelle esattoriali ora fissato in 72 rate mensili». Altrimenti, con questo sistema di riscossione, per molte imprese non resterà che abbassare le saracinesche.
«La tensione è sempre più alta, ma non mancano i margini di intesa - dice Mario Busoni, direttore di Confesercenti - Perché siamo tutti d'accordo nel sanzionare l'evasione fiscale e nel far rispettare i debiti che il contribuente ha con l'erario, ma l'atteggiamento vessatorio che si sta verificando contro i piccoli è del tutto fuori luogo. Spesso i ritardi di pagamento sono dovuti a situazioni di crisi oggettive, non certo alla voglia di fare i furbetti».
Lo dimostra indirettamente la stessa Equitalia, che ha concesso sino ad oggi 1,145 milioni di rateizzazioni, per una cifra complessiva di 15 miliardi, indice della crescente difficoltà delle famiglie a fare fronte al debito con lo stato, in tempi rapidi e con pagamenti unici.
La carica dei piccoli ha sortito qualche effetto.
LOGO EQUITALIA
Intanto Befera ha preso carta e penna per rivolgersi ai suoi agenti invitando a moderare i modi di riscossione: «Continuo a ricevere segnalazioni nelle quali si denunciano modi di agire che mi spingono adesso a rivolgermi direttamente a tutti voi per richiamare ognuno alle proprie responsabilità e ribadire ancora una volta che la nostra azione di controllo può rivelarsi realmente efficace solo se è corretta».
Un primo passo importante per Claudio Carpentieri di Cna che tuttavia invita l'Erario a intervenire meglio «sui grandi patrimoni occultati attraverso escamotage finanziari e allo stesso consentire alle imprese sane di pagare senza contraccolpi». Perché «un'impresa che muore per impossibilità di pagare il fisco, è un danno per tutti: per chi ci lavora, per l'Erario che comunque non recupera nulla, per il Paese che vede spegnersi un focolaio di ricchezza».
by dagospia
non fidatevi delle bolle di internet
ECCO COSA PENSA DI LINKEDIN JACK DONAGHY, IL TOP MANAGER INTERPRETATO DA ALEC BALDWIN IN "30 ROCK"
Dalla puntata del 24 marzo su NBC - http://youtu.be/dnCbRMBfBW0
LINKEDIN
Dagoreport: Jack Donaghy, che nel telefilm è l'amministratore delegato di NBC, parla di un suo vecchio rivale, un top manager caduto in disgrazia. "L'ho rintracciato: ora vive a Brooklyn, ed è su LinkedIn...a questo punto farebbe prima a essere morto!" (he's on LinkedIn, he might as well be dead).
Quello che nessuno vuole ammettere, soprattutto nel piccolo mondo italico, è che creare un profilo su LinkedIn è considerato - dai veri manager - alla stregua di un annuncio su Porta Portese o Secondamano. Anche tra i dirigenti di medio livello, o tra i professionisti (avvocati, commercialisti), chi cerca di cambiare lavoro o di prendere contatto con le aziende si affida ai cacciatori di teste. Al massimo, LinkedIn è usato (con scarso successo) dai venti-trentenni che cercano lavoro e che vogliono rendere pubblico il loro cv, ovvero un target non esattamente redditizio per gli inserzionisti...
Oltre un certo livello di carriera, essere su LinkedIn è considerato da sfigati. O, se anche ci si è registrati, si smette di aggiornare il profilo o di accettare contatti. Anche perché, se si è raggiunta una posizione importante all'interno dell'azienda, i contatti saranno persone che vogliono chiederti un lavoro.
REID HOFFMAN
LinkedIn, tra le aziende del web 2.0 che intendono quotarsi nel prossimo futuro, è la più debole (perfino di Zynga, una mini-software house che fa videogiochi per cellulari e social network). Proprio per questo si è affrettata a sbarcare in borsa: ha sfruttato l'effetto attesa/sorpresa. Se fosse arrivata dopo Facebook e Twitter, nessuno se ne sarebbe accorto.
2 - LINKEDIN, FINISCE LA FESTA RIBASSISTI GIÀ IN AZIONE...
Marco Valsania per "Il Sole 24 Ore"
E al terzo giorno Linkedin scivolò. Il social network per professionisti è stato scosso ieri dai dubbi sulla sua valutazione e, soprattutto, dallo spettro dello short selling, le ondate di scommesse al ribasso che dalle prossime ore potrebbero mettere alla prova la sua tenuta. A Wall Street in un segno della tensione, il titolo ha bruciato il 10% in mattinata anche se poi si è fermato a 88,3 dollari, in calo del 5,15% dai 93 di venerdì.
Il raddoppio del prezzo di collocamento - 45 dollari - fin dal primo giorno di contrattazioni di giovedì ha sicuramente generato realizzi di profitto. Adottando i parametri di Linkedin la Exxon Mobil dovrebbe avere una market cap da ventimila miliardi di dollari e marchi hi-tech d'assalto quali Google diventano value stock, a buon mercato. Ma c'è qualcosa di più nel nervosismo su Linkedin. «Vedo le raccomandazioni short moltiplicarsi di giorno in giorno - spiega Tim Murphy di youDevise e Trade Idea Monitor, piattaforma che gestisce l'85% delle "idee" short e long inviate elettronicamente dai broker ai clienti - Riguardano i prossimi 15-20 giorni e indicano in gran parte che la valutazione della società, anche per chi la considera solida, è troppo elevata. Il prezzo target indicato, nel breve periodo, è di 60 dollari, quindi prevedo che le pressioni sul titolo continuino».
A mobilitarsi sono fondi e investitori che fanno delle scommesse sugli scivoloni di titoli che considerano sopravvalutati la loro ragion d'essere. Da oggi, ricorda Murphy, svaniranno le restrizioni normative sullo short selling dopo il collocamento, legate al settlement dei titoli. E sarà possibile far leva sul meccanismo essenziale per queste scommesse: cercare sul mercato azioni da prendere a prestito per venderle, con la prospettiva di ricomprarle in seguito a prezzo inferiore e restituirle.
Entro fine settimana, inoltre, gli investitori potranno far leva su un altro strumento per dar sfogo a aspettative ribassiste: le opzioni sul titolo. Con le put options, che dovrebbero scattare dal 26 maggio, verrà effettuata la stessa scommessa "negativa" attraverso l'impegno a vendere in futuro un titolo a prezzo prefissato, generando guadagni qualora la quotazione di mercato sia inferiore al prezzo stabilito e al premio pagato per l'opzione.
REID HOFFMAN ALLA QUOTAZIONE A WALL ST
A creare però ancor più tensone sugli scambi ci sono i rischi delle stesse strategie short. La scommessa ribassista sul titolo è tutt'altro che facile e sicura. Il limitato numero di titoli collocati, 7,84 milioni, complica la possibilità di prenderli a prestito. Chi vi riuscisse potrebbe essere costretto a pagare premi molto - forse troppo - elevati per aggiudicarseli, rendendo il guagagno ostaggio di cali davvero precipitosi delle quotazioni. Qualcuno ha così battezzato le scommesse ribassiste su Linkedin alla stregua di un gioco pericoloso. O meglio di una «trappola per orsi», adottando l'immagine-simbolo dei ribassi in Borsa. Il pericolo più eclatante è il paradosso dello «short squeeze»: la possibilità che un titolo con scarso flottante salga tanto da obbligare persino gli «orsi» a comprare per coprire le scommesse negative. Una spirale, cioè, che farebbe semmai gonfiare il titolo.
Se il timore d'una bolla - per i riflessi sugli sbarchi in borsa di un'intera nuova generazione di società Internet - spaventa molti osservatori, la paura di queste trappole consiglia prudenza anche ai pessimisti. Joe Donahue, gestore di hedge, ha detto al Wall Street Journal che intende andare short su Linkedin e probabilmente lo farà attraverso le opzioni. Ha tuttavia precisato che si muoverà con operazioni di piccole dimensioni proprio per non restare scottato.
Gli interrogativi sulle prospettive di Linkedin sono anche di più ampio respiro. «Credo che società come Linkedin sopravviveranno, lo spazio Internet ha oggi modelli di business più solidi del passato, ma i rischi sono innegabili, come pure la speculazione», dice Paul Edelstein, strategist di Decision Economics. Volatilità e dubbi sono il verbo anche di molti analisti finanziari. Rick Summer di Morningstar considera l'incertezza sull'azienda «alta», sufficiente a scrivere nel primo rapporto su Linkedin di comunque «considerare la vendita» dei titoli sopra quota 45,90.
LINKEDIN
Per gli investitori, oltre alle perpessità sulla corsa di bilanci pure in crescita e sui multipli della valutazione, si staglia all'orizzonte l'ipotesi di diluizioni del titolo: i dipendenti di Linkedin sono in possesso di 18 milioni di opzioni sui titoli, a un prezzo medio di esercizio di sette dollari. A quotazioni simili alle attuali, oltretutto, farebbero volare la valutazione della società a dieci miliardi, un incremento del 17 per cento. Non basta: dipendenti e investitori della prima ora potranno cominciare a vendere azioni pre-ipo fra sei mesi, alla fine del periodo di lock-up: il rischio è che, a quotazioni elevate, possa avere il sopravvento il desiderio di incassare, con vendite che potrebbero condannare agli incubi chi ha pagato prezzi da sogno per Linkedin.
3 - BOLLA-LINKEDIN: 1.000 ANNI DI UTILE PER IL COSTO DI UN TITOLO...
Vittorio Carlini per "Il Sole 24 Ore"
Tra più di un millennio Linkedin ci sarà ancora? La domanda sembra folle. Eppure, ha una sua giustificazione. Da new economy, ovviamente. Guardando al rapporto tra il prezzo e gli utili del social network fresco di quotazione, si inciampa infatti in numeri che hanno dell'incredibile: a seconda di come vengono stimati i profitti si passa da un P/e (price/earning) di 976 a uno addirittura di 1.200. Numeri virtuali, da fantascienza. Anche perché, da un punto di vista temporale, il price/earning indica quanti esercizi, a parità di profitti, sarebbero necessari per ripagare quel determinato prezzo in Borsa. Per l'appunto, più di un millennio. Quindi, perché il meccanismo funzioni, la società dovrà essere ancora presente e in piena forma nel quarto millennio.
Al di là del calcolo, il multiplo indica con una certa sicurezza la presenza di una bolla sul titolo. Di questo, peraltro, sembra convinto lo stesso mercato: molti broker hanno aumentato le raccomandazioni di vendita allo scoperto, scommettendo sul ribasso. Anche fino a 60 dollari.
LINKEDIN
Quotazioni che entrano in orbita con multipli "virtuali" da capogiro. D'altro canto «this is the new internet, baby». Dopo il boom nel primo giorno di quotazione (+109%), le prime indicazioni sui ratio di Linkedin hanno il sapore dell'incredile.
Secondo il terminale Bloomberg, per esempio, che indica una capitalizzazione di 8,126 miliardi di dollari, il P/e del social network è indicato addirittura oltre 1.200. Il numero è impressionante: il prezzo diviso l'utile per azione, infatti, può essere interpretato anche da un punto di vista temporale. Cioè, ipotizzando profitti stabili, indica quanti esercizi sarebbero necessari per ripagare quel determinato prezzo. Secondo il calcolo di Bloomberg oltre 1.200. In parole povere, dovrebbe scorrere un millennio e più: altro che visione corta di Borsa...
Ciò detto, in simili casi, vanno sempre analizzati due aspetti. Da un lato, l'andamento del titolo: se questo, dopo essere entrato in orbita, come appare probabile scenderà, giocoforza anche il P/e sarà spinto all'ingiù.
Dall'altro, bisogna capire bene come viene stimato l'utile per azione: banale dire infatti che, a seconda dei metodi di calcolo, i profitti previsti possono scendere o salire. E più si abbassa la previsione sugli utili (il denominatore della frazione) più il P/e cresce. Così, analizzando i dati forniti da Reuters il fatidico "numerino" diminuisce, un po'. A fronte della medesima capitalizzazione 8,126 miliardi di dollari, e annualizzando gli utili netti del primo trimestre 2011 (2,08 milioni), il price earning che salta fuori è poco sopra 976. La riduzione degli esercizi "necessari", per ripagare il prezzo, cala più di 200 anni. Tuttavia, il numero che rimane ha sempre dell'incredibile. Insomma, agli attuali prezzi, il P/e di Linkedin segnala una chiara bolla.
Ma non sono solo i multipli in stile bubble-dotcom del 2000 a far discutere. È ancora polemica, infatti, tra le banche collocatrici (JpMorgan, Bank of America Merrill Lynch, Morgan Stanley), il mercato e gli stessi fondatori del social network professionale. Gli istituti di credito sono accusati di aver sottovalutato la società (il prezzo dell'Ipo è stato di 45 dollari) e di aver quotato giovedì scorso un numero troppo esiguo di azioni (il 9% del capitale). Un mix di condizioni che ha fatto balzare il titolo, riempiendo sì le tasche ai clienti istituzionali dei collocatori, ma di fatto non facendo salire sul razzo della quotazione il fondatore di Linkedin Reid Hoffman e gran parte del mercato. Quello stesso mercato che si interroga sulla finalità di simili operazioni. L'Ipo, in teoria, dovrebbe servire a raccogliere capitali per far crescere l'azienda e non solo per ingrossare il portafoglio di istituzionali o delle fee bancarie.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
4 - CHI È IL FONDATORE DI LINKEDIN, REID HOFFMAN...
Angelo Aquaro per "Affari e Finanza - la Repubblica"
Con quel faccione alla Michael Moore, pacioso solo all'apparenza, Mr. Linkedin spostò tutto il suo peso sul palco dell'ultimo South By Southwest, la convention di Austin che ogni anno propone il meglio del futuribile tra scienza e finanza, e sbottò con l'autorità riconosciuta dalla sua autorevolezza: "Ma di che cosa stiamo parlando?". La platea di giovani creativi e aspiranti milionari si zittì. "Per tutti gli anni 50 e 70 ci hanno riempito la testa di macchine volanti, di robot, di computer che avrebbero espanso i confini della nostra mente...". Pausa. Spasmodico silenzio.
Ripresa. "Ci siamo ritrovati invece con i cartoons dei Pronipoti. E nulla di quello che avevano previsto s'è avverato". Grande, grandissimo, immenso: in un nome e cognome soli, Reid Hoffman. Non sono passati neppure due mesi dall'exploit di Austin che il ciccione più famoso della Silicon Valley s'è già espanso lui sì dai confini autorevoli ma angusti del suo profilo di guru di Internet per entrare in quelli infinitamente più comodi del primo neomiliardario della nuovissima bolla hitech.
Intendiamoci: sono dieci anni che il buon Reid bazzica l'ambiente e il suo portafoglio era già tra i più alti della new economy. Ma da giovedì 19 maggio una data che è già entrata nella leggenda, e gli storici della finanza diranno se nel bene o nel male l'uomo che fondò Linkedin, la Facebook del business, è entrato ufficialmente nell'ambitissima classifica dei miliardari di Forbes: i 400 che reggono le magnifiche sorti e progressive dell'economia mondiale.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
Altro che Pronipoti. Altro che i cartoni animati di Hanna & Barbera. Il signor Hoffman l'aveva dichiarato bello forte laggiù tra i cowboys di Austin: "Il futuro si sta avverando molto prima di quanto pensassimo. Ed è molto più strano di quanto lo immaginassimo. Non robot ma dati. Informazione. Informazioni....". Mai previsione fu più azzeccata. Con le informazioni raccolte nella megarubrica di Linkedin 100 milioni di iscritti, una crescita dell'87 per cento in un anno, il più grande database dove le imprese di tutto il mondo pescano le informazioni su manager & Ceo il fondatore e presidente del social forum del business è entrato trionfalmente a Wall Street.
Mettendo a segno la prima grande Ipo della Silicon Valley dieci anni dopo il boom che portò però anche al crollo. Un successo a dire poco straordinario. Le azioni che all'inizio del mese erano state valutate intorno ai 30 dollari sono state scambiate oltre i 100. Una ipervalutazione che supera il 300 per cento. Una performance spettacolare che ha fatto balzare una compagnia da 15 milioni di dollari di ricavi e che due anni fa non raggiungeva il valore di mezzo miliardo alla stratosferica cifra di 10 miliardi. Un successo senza precedenti che dimostra l'incredibile appetito che gli investitori hanno per i nuovi protagonisti dell'hitech: le compagnie che hanno fatto del prefisso "social" la ragione del loro business.
L'appetito per la verità è l'unica cosa che da sempre non manca al buon Reid. Provate a chiedere ai camerieri di Hobee. Il ristorantino è a metà strada tra la casa di Palo Alto e l'ufficio di Mountain View. E qui il miliardario più fresco del mondo si ferma ogni mattina nel tragitto di 12 minuti col suo Suv per tuffarsi sul prelibatissimo Santa Cruz Scramble: uova, salsa piccante e cuori di carciofo. D'altronde una botta di proteine ci vuole se ti sei buttato giù dal letto alle 6.30 e un quarto d'ora dopo sei già in preghiera davanti all'unico dio che hai sempre adorato: il computer per controllare l'email. Perché questa in fondo è la vita che da anni conduce il professor Hoffman. Non c'è nulla del glamour di Wall Street. Ma neppure nulla delle follie posthippy della Silicon Valley.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
Prendete appunto la sua creatura: Linkedin. La sede è lì proprio a due isolati dal GooglePlex di Mountain View: ma nei suoi uffici non c'è nulla del caos incredibilmente ordinato che fa girare la macchina di Larry Page & Sergej Brin. Tutta un'altra cultura. Nel senso vero del termine.
In questo mondo di ingegneri e squali finanziari il curriculum di Reid Hoffman svetta come una contraddizione in termini. Già dal luogo di nascita: Stanford, California. La patria dell'Università che ha sfornato più intellettuali che genietti della vicina Silicon Valley. E infatti la carriera di Reid, classe 1967, sembrava diretta verso tutt'altre fortune. Che a dire il vero il papà famoso avvocato non è che guardasse di buon occhio.
Che cosa te nei fai, all'alba degli anni 90, nella California che scoppia di hitech, di una laurea in filosofia? Con la tesi in "sistemi simbolici", poi: tutti si affrettano a fare montagne di dollari sui computer e tu ti permetti di discettarci su? Per non parlare di quell'altra idea pazza e perseguita di andarsi a specializzare a Oxford: in quell'Europa che mica per niente si continua a chiamare Vecchia.
Ma Reid doveva dimostrarsi uomo dal multiforme ingegno: anche per il suo papà che pure l'ha sempre assecondato lasciandogli comunque aperta, nel caso, la porta principale del suo ufficio legale. Non ce n'è stato bisogno. E stato lo stesso ragazzone a mandare alle ortiche i suoi piani. La vecchia confessione a "Director Magazine" suona ancora oggi come un'altra profezia. "Sì, appena uscito da Stanford volevo avviarmi a una carriera di professore e pubblico intellettuale.
Ma mica per finire a citare Kant. Volevo davvero concentrarmi nella lettura della società e aiutare la gente a chiedersi: chi siamo? Dove stiamo andando come individui e come società? Poi ho capito che gli accademici scrivono libri che alla fine vengono letti da 50 o 60 persone in tutto. E io volevo molto più impatto".
Alla faccia: anzi al faccione. Convertito sulla via della Silicon Valley il ragazzone di Stanford ne infila una dopo l'altra. I suoi sistemi simbolici si trasformano in un sistema molto concretamente ancorato negli affari. Si reinventa come product manager per megacompagnie chiamate Apple e Fujtsu: come dire lo yin e lo yang della filosofia d'impresa. E poi trasforma la lezione appresa in esperienza individuale, mettendosi in proprio.
L'idea che gli rimbalza in testa in fondo è però sempre quella filosoficamente appresa a Stanford: cogliere l'anima appunto sociale del web. Per sfruttarla a fini commerciali, s'intende. Oggi Hoffman discetta sulle tre età della rete. La prima Internet dove ciascuno era un'isola dalla quale lanciava messaggi in codice agli altri naufraghi sulle isole di tutto il mondo. Poi l'età 2.0 in cui ci si ritrova tutti straordinariamente connessi. E infine la terza età in cui a trionfare sono appunto i dati: le informazioni scambiate che fanno ricchezza tantopiù se aggregate in collettori sociali come Linkedin.
Sulla ricchezza non c'è ombra di dubbio. Il giochetto dell'ipo ha portato l'altro giorno nelle tasche del suo presidente Hoffman ha lasciato la poltrona di Ceo all'ex Yahoo Jeff Weiner qualcosa come 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Naturalmente la via del successo non è solo lastricata di buone intenzioni. Bisognava davvero prenderla con filosofia come forse solo Hoffman era attrezzato a fare nel perseguire l'idea di un social forum del business come Linkedin.
LINKED IN
Non è un caso che mentre in tanti, oggi, sottolineano il rischiobolla legato al superxploit di Wall Street, è toccato proprio a un ex collega di Reid, cioè Joseph Grundfest, professore di business alla Stanford Law School, ricordare che al signorone ci sono voluti dieci anni per costruire la sua creatura. Che Linkedin, nata nel 2003, non è insomma una startup apri e fuggi tipo Pets.com o tutte quelle altre compagnie che adesso già bramano di seguirne l'esempio sperando in affari milionari. Che lo stesso Hoffman è passato prima per la creazione di una società chiamata PayPal e poi negli anni ha piantato le sue azioncine nel fior fiore delle aziende promessa della Silicon Valley: da Facebook a Zynga a Flickr a Digg.
Che in tutto il mondo dell'hitech c'è solo un altro signore che può vantare la fama di "angel investor" superiore alla sua: e cioè l'inventore di Netscape <-> quel Marc Andreessen che questo mese ha fatto bingo con le sue azioni alle stelle dopo l'acquisto di Skype da parte del gigante Microsoft.
E adesso? Adesso l'uomo che ha smascherato le finte promesse dei Pronipoti non ha nessuna intenzione di fermarsi qua. Anzi. Altro che robot. Lui è convinto che la sua rete possa ancora espandersi all'infinito: come in un film di fantascienza. Perché sempre più gente - dice - "vivrà su Facebook: ma lavorerà su Internet". E arrivederci cartoons...
by dagospia
Dalla puntata del 24 marzo su NBC - http://youtu.be/dnCbRMBfBW0
Dagoreport: Jack Donaghy, che nel telefilm è l'amministratore delegato di NBC, parla di un suo vecchio rivale, un top manager caduto in disgrazia. "L'ho rintracciato: ora vive a Brooklyn, ed è su LinkedIn...a questo punto farebbe prima a essere morto!" (he's on LinkedIn, he might as well be dead).
Quello che nessuno vuole ammettere, soprattutto nel piccolo mondo italico, è che creare un profilo su LinkedIn è considerato - dai veri manager - alla stregua di un annuncio su Porta Portese o Secondamano. Anche tra i dirigenti di medio livello, o tra i professionisti (avvocati, commercialisti), chi cerca di cambiare lavoro o di prendere contatto con le aziende si affida ai cacciatori di teste. Al massimo, LinkedIn è usato (con scarso successo) dai venti-trentenni che cercano lavoro e che vogliono rendere pubblico il loro cv, ovvero un target non esattamente redditizio per gli inserzionisti...
Oltre un certo livello di carriera, essere su LinkedIn è considerato da sfigati. O, se anche ci si è registrati, si smette di aggiornare il profilo o di accettare contatti. Anche perché, se si è raggiunta una posizione importante all'interno dell'azienda, i contatti saranno persone che vogliono chiederti un lavoro.
REID HOFFMAN
LinkedIn, tra le aziende del web 2.0 che intendono quotarsi nel prossimo futuro, è la più debole (perfino di Zynga, una mini-software house che fa videogiochi per cellulari e social network). Proprio per questo si è affrettata a sbarcare in borsa: ha sfruttato l'effetto attesa/sorpresa. Se fosse arrivata dopo Facebook e Twitter, nessuno se ne sarebbe accorto.
2 - LINKEDIN, FINISCE LA FESTA RIBASSISTI GIÀ IN AZIONE...
Marco Valsania per "Il Sole 24 Ore"
E al terzo giorno Linkedin scivolò. Il social network per professionisti è stato scosso ieri dai dubbi sulla sua valutazione e, soprattutto, dallo spettro dello short selling, le ondate di scommesse al ribasso che dalle prossime ore potrebbero mettere alla prova la sua tenuta. A Wall Street in un segno della tensione, il titolo ha bruciato il 10% in mattinata anche se poi si è fermato a 88,3 dollari, in calo del 5,15% dai 93 di venerdì.
Il raddoppio del prezzo di collocamento - 45 dollari - fin dal primo giorno di contrattazioni di giovedì ha sicuramente generato realizzi di profitto. Adottando i parametri di Linkedin la Exxon Mobil dovrebbe avere una market cap da ventimila miliardi di dollari e marchi hi-tech d'assalto quali Google diventano value stock, a buon mercato. Ma c'è qualcosa di più nel nervosismo su Linkedin. «Vedo le raccomandazioni short moltiplicarsi di giorno in giorno - spiega Tim Murphy di youDevise e Trade Idea Monitor, piattaforma che gestisce l'85% delle "idee" short e long inviate elettronicamente dai broker ai clienti - Riguardano i prossimi 15-20 giorni e indicano in gran parte che la valutazione della società, anche per chi la considera solida, è troppo elevata. Il prezzo target indicato, nel breve periodo, è di 60 dollari, quindi prevedo che le pressioni sul titolo continuino».
A mobilitarsi sono fondi e investitori che fanno delle scommesse sugli scivoloni di titoli che considerano sopravvalutati la loro ragion d'essere. Da oggi, ricorda Murphy, svaniranno le restrizioni normative sullo short selling dopo il collocamento, legate al settlement dei titoli. E sarà possibile far leva sul meccanismo essenziale per queste scommesse: cercare sul mercato azioni da prendere a prestito per venderle, con la prospettiva di ricomprarle in seguito a prezzo inferiore e restituirle.
Entro fine settimana, inoltre, gli investitori potranno far leva su un altro strumento per dar sfogo a aspettative ribassiste: le opzioni sul titolo. Con le put options, che dovrebbero scattare dal 26 maggio, verrà effettuata la stessa scommessa "negativa" attraverso l'impegno a vendere in futuro un titolo a prezzo prefissato, generando guadagni qualora la quotazione di mercato sia inferiore al prezzo stabilito e al premio pagato per l'opzione.
REID HOFFMAN ALLA QUOTAZIONE A WALL ST
A creare però ancor più tensone sugli scambi ci sono i rischi delle stesse strategie short. La scommessa ribassista sul titolo è tutt'altro che facile e sicura. Il limitato numero di titoli collocati, 7,84 milioni, complica la possibilità di prenderli a prestito. Chi vi riuscisse potrebbe essere costretto a pagare premi molto - forse troppo - elevati per aggiudicarseli, rendendo il guagagno ostaggio di cali davvero precipitosi delle quotazioni. Qualcuno ha così battezzato le scommesse ribassiste su Linkedin alla stregua di un gioco pericoloso. O meglio di una «trappola per orsi», adottando l'immagine-simbolo dei ribassi in Borsa. Il pericolo più eclatante è il paradosso dello «short squeeze»: la possibilità che un titolo con scarso flottante salga tanto da obbligare persino gli «orsi» a comprare per coprire le scommesse negative. Una spirale, cioè, che farebbe semmai gonfiare il titolo.
Se il timore d'una bolla - per i riflessi sugli sbarchi in borsa di un'intera nuova generazione di società Internet - spaventa molti osservatori, la paura di queste trappole consiglia prudenza anche ai pessimisti. Joe Donahue, gestore di hedge, ha detto al Wall Street Journal che intende andare short su Linkedin e probabilmente lo farà attraverso le opzioni. Ha tuttavia precisato che si muoverà con operazioni di piccole dimensioni proprio per non restare scottato.
Gli interrogativi sulle prospettive di Linkedin sono anche di più ampio respiro. «Credo che società come Linkedin sopravviveranno, lo spazio Internet ha oggi modelli di business più solidi del passato, ma i rischi sono innegabili, come pure la speculazione», dice Paul Edelstein, strategist di Decision Economics. Volatilità e dubbi sono il verbo anche di molti analisti finanziari. Rick Summer di Morningstar considera l'incertezza sull'azienda «alta», sufficiente a scrivere nel primo rapporto su Linkedin di comunque «considerare la vendita» dei titoli sopra quota 45,90.
Per gli investitori, oltre alle perpessità sulla corsa di bilanci pure in crescita e sui multipli della valutazione, si staglia all'orizzonte l'ipotesi di diluizioni del titolo: i dipendenti di Linkedin sono in possesso di 18 milioni di opzioni sui titoli, a un prezzo medio di esercizio di sette dollari. A quotazioni simili alle attuali, oltretutto, farebbero volare la valutazione della società a dieci miliardi, un incremento del 17 per cento. Non basta: dipendenti e investitori della prima ora potranno cominciare a vendere azioni pre-ipo fra sei mesi, alla fine del periodo di lock-up: il rischio è che, a quotazioni elevate, possa avere il sopravvento il desiderio di incassare, con vendite che potrebbero condannare agli incubi chi ha pagato prezzi da sogno per Linkedin.
3 - BOLLA-LINKEDIN: 1.000 ANNI DI UTILE PER IL COSTO DI UN TITOLO...
Vittorio Carlini per "Il Sole 24 Ore"
Tra più di un millennio Linkedin ci sarà ancora? La domanda sembra folle. Eppure, ha una sua giustificazione. Da new economy, ovviamente. Guardando al rapporto tra il prezzo e gli utili del social network fresco di quotazione, si inciampa infatti in numeri che hanno dell'incredibile: a seconda di come vengono stimati i profitti si passa da un P/e (price/earning) di 976 a uno addirittura di 1.200. Numeri virtuali, da fantascienza. Anche perché, da un punto di vista temporale, il price/earning indica quanti esercizi, a parità di profitti, sarebbero necessari per ripagare quel determinato prezzo in Borsa. Per l'appunto, più di un millennio. Quindi, perché il meccanismo funzioni, la società dovrà essere ancora presente e in piena forma nel quarto millennio.
Al di là del calcolo, il multiplo indica con una certa sicurezza la presenza di una bolla sul titolo. Di questo, peraltro, sembra convinto lo stesso mercato: molti broker hanno aumentato le raccomandazioni di vendita allo scoperto, scommettendo sul ribasso. Anche fino a 60 dollari.
Quotazioni che entrano in orbita con multipli "virtuali" da capogiro. D'altro canto «this is the new internet, baby». Dopo il boom nel primo giorno di quotazione (+109%), le prime indicazioni sui ratio di Linkedin hanno il sapore dell'incredile.
Secondo il terminale Bloomberg, per esempio, che indica una capitalizzazione di 8,126 miliardi di dollari, il P/e del social network è indicato addirittura oltre 1.200. Il numero è impressionante: il prezzo diviso l'utile per azione, infatti, può essere interpretato anche da un punto di vista temporale. Cioè, ipotizzando profitti stabili, indica quanti esercizi sarebbero necessari per ripagare quel determinato prezzo. Secondo il calcolo di Bloomberg oltre 1.200. In parole povere, dovrebbe scorrere un millennio e più: altro che visione corta di Borsa...
Ciò detto, in simili casi, vanno sempre analizzati due aspetti. Da un lato, l'andamento del titolo: se questo, dopo essere entrato in orbita, come appare probabile scenderà, giocoforza anche il P/e sarà spinto all'ingiù.
Dall'altro, bisogna capire bene come viene stimato l'utile per azione: banale dire infatti che, a seconda dei metodi di calcolo, i profitti previsti possono scendere o salire. E più si abbassa la previsione sugli utili (il denominatore della frazione) più il P/e cresce. Così, analizzando i dati forniti da Reuters il fatidico "numerino" diminuisce, un po'. A fronte della medesima capitalizzazione 8,126 miliardi di dollari, e annualizzando gli utili netti del primo trimestre 2011 (2,08 milioni), il price earning che salta fuori è poco sopra 976. La riduzione degli esercizi "necessari", per ripagare il prezzo, cala più di 200 anni. Tuttavia, il numero che rimane ha sempre dell'incredibile. Insomma, agli attuali prezzi, il P/e di Linkedin segnala una chiara bolla.
Ma non sono solo i multipli in stile bubble-dotcom del 2000 a far discutere. È ancora polemica, infatti, tra le banche collocatrici (JpMorgan, Bank of America Merrill Lynch, Morgan Stanley), il mercato e gli stessi fondatori del social network professionale. Gli istituti di credito sono accusati di aver sottovalutato la società (il prezzo dell'Ipo è stato di 45 dollari) e di aver quotato giovedì scorso un numero troppo esiguo di azioni (il 9% del capitale). Un mix di condizioni che ha fatto balzare il titolo, riempiendo sì le tasche ai clienti istituzionali dei collocatori, ma di fatto non facendo salire sul razzo della quotazione il fondatore di Linkedin Reid Hoffman e gran parte del mercato. Quello stesso mercato che si interroga sulla finalità di simili operazioni. L'Ipo, in teoria, dovrebbe servire a raccogliere capitali per far crescere l'azienda e non solo per ingrossare il portafoglio di istituzionali o delle fee bancarie.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
4 - CHI È IL FONDATORE DI LINKEDIN, REID HOFFMAN...
Angelo Aquaro per "Affari e Finanza - la Repubblica"
Con quel faccione alla Michael Moore, pacioso solo all'apparenza, Mr. Linkedin spostò tutto il suo peso sul palco dell'ultimo South By Southwest, la convention di Austin che ogni anno propone il meglio del futuribile tra scienza e finanza, e sbottò con l'autorità riconosciuta dalla sua autorevolezza: "Ma di che cosa stiamo parlando?". La platea di giovani creativi e aspiranti milionari si zittì. "Per tutti gli anni 50 e 70 ci hanno riempito la testa di macchine volanti, di robot, di computer che avrebbero espanso i confini della nostra mente...". Pausa. Spasmodico silenzio.
Ripresa. "Ci siamo ritrovati invece con i cartoons dei Pronipoti. E nulla di quello che avevano previsto s'è avverato". Grande, grandissimo, immenso: in un nome e cognome soli, Reid Hoffman. Non sono passati neppure due mesi dall'exploit di Austin che il ciccione più famoso della Silicon Valley s'è già espanso lui sì dai confini autorevoli ma angusti del suo profilo di guru di Internet per entrare in quelli infinitamente più comodi del primo neomiliardario della nuovissima bolla hitech.
Intendiamoci: sono dieci anni che il buon Reid bazzica l'ambiente e il suo portafoglio era già tra i più alti della new economy. Ma da giovedì 19 maggio una data che è già entrata nella leggenda, e gli storici della finanza diranno se nel bene o nel male l'uomo che fondò Linkedin, la Facebook del business, è entrato ufficialmente nell'ambitissima classifica dei miliardari di Forbes: i 400 che reggono le magnifiche sorti e progressive dell'economia mondiale.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
Altro che Pronipoti. Altro che i cartoni animati di Hanna & Barbera. Il signor Hoffman l'aveva dichiarato bello forte laggiù tra i cowboys di Austin: "Il futuro si sta avverando molto prima di quanto pensassimo. Ed è molto più strano di quanto lo immaginassimo. Non robot ma dati. Informazione. Informazioni....". Mai previsione fu più azzeccata. Con le informazioni raccolte nella megarubrica di Linkedin 100 milioni di iscritti, una crescita dell'87 per cento in un anno, il più grande database dove le imprese di tutto il mondo pescano le informazioni su manager & Ceo il fondatore e presidente del social forum del business è entrato trionfalmente a Wall Street.
Mettendo a segno la prima grande Ipo della Silicon Valley dieci anni dopo il boom che portò però anche al crollo. Un successo a dire poco straordinario. Le azioni che all'inizio del mese erano state valutate intorno ai 30 dollari sono state scambiate oltre i 100. Una ipervalutazione che supera il 300 per cento. Una performance spettacolare che ha fatto balzare una compagnia da 15 milioni di dollari di ricavi e che due anni fa non raggiungeva il valore di mezzo miliardo alla stratosferica cifra di 10 miliardi. Un successo senza precedenti che dimostra l'incredibile appetito che gli investitori hanno per i nuovi protagonisti dell'hitech: le compagnie che hanno fatto del prefisso "social" la ragione del loro business.
L'appetito per la verità è l'unica cosa che da sempre non manca al buon Reid. Provate a chiedere ai camerieri di Hobee. Il ristorantino è a metà strada tra la casa di Palo Alto e l'ufficio di Mountain View. E qui il miliardario più fresco del mondo si ferma ogni mattina nel tragitto di 12 minuti col suo Suv per tuffarsi sul prelibatissimo Santa Cruz Scramble: uova, salsa piccante e cuori di carciofo. D'altronde una botta di proteine ci vuole se ti sei buttato giù dal letto alle 6.30 e un quarto d'ora dopo sei già in preghiera davanti all'unico dio che hai sempre adorato: il computer per controllare l'email. Perché questa in fondo è la vita che da anni conduce il professor Hoffman. Non c'è nulla del glamour di Wall Street. Ma neppure nulla delle follie posthippy della Silicon Valley.
LINKEDIN SI QUOTA IN BORSA
Prendete appunto la sua creatura: Linkedin. La sede è lì proprio a due isolati dal GooglePlex di Mountain View: ma nei suoi uffici non c'è nulla del caos incredibilmente ordinato che fa girare la macchina di Larry Page & Sergej Brin. Tutta un'altra cultura. Nel senso vero del termine.
In questo mondo di ingegneri e squali finanziari il curriculum di Reid Hoffman svetta come una contraddizione in termini. Già dal luogo di nascita: Stanford, California. La patria dell'Università che ha sfornato più intellettuali che genietti della vicina Silicon Valley. E infatti la carriera di Reid, classe 1967, sembrava diretta verso tutt'altre fortune. Che a dire il vero il papà famoso avvocato non è che guardasse di buon occhio.
Che cosa te nei fai, all'alba degli anni 90, nella California che scoppia di hitech, di una laurea in filosofia? Con la tesi in "sistemi simbolici", poi: tutti si affrettano a fare montagne di dollari sui computer e tu ti permetti di discettarci su? Per non parlare di quell'altra idea pazza e perseguita di andarsi a specializzare a Oxford: in quell'Europa che mica per niente si continua a chiamare Vecchia.
Ma Reid doveva dimostrarsi uomo dal multiforme ingegno: anche per il suo papà che pure l'ha sempre assecondato lasciandogli comunque aperta, nel caso, la porta principale del suo ufficio legale. Non ce n'è stato bisogno. E stato lo stesso ragazzone a mandare alle ortiche i suoi piani. La vecchia confessione a "Director Magazine" suona ancora oggi come un'altra profezia. "Sì, appena uscito da Stanford volevo avviarmi a una carriera di professore e pubblico intellettuale.
Ma mica per finire a citare Kant. Volevo davvero concentrarmi nella lettura della società e aiutare la gente a chiedersi: chi siamo? Dove stiamo andando come individui e come società? Poi ho capito che gli accademici scrivono libri che alla fine vengono letti da 50 o 60 persone in tutto. E io volevo molto più impatto".
Alla faccia: anzi al faccione. Convertito sulla via della Silicon Valley il ragazzone di Stanford ne infila una dopo l'altra. I suoi sistemi simbolici si trasformano in un sistema molto concretamente ancorato negli affari. Si reinventa come product manager per megacompagnie chiamate Apple e Fujtsu: come dire lo yin e lo yang della filosofia d'impresa. E poi trasforma la lezione appresa in esperienza individuale, mettendosi in proprio.
L'idea che gli rimbalza in testa in fondo è però sempre quella filosoficamente appresa a Stanford: cogliere l'anima appunto sociale del web. Per sfruttarla a fini commerciali, s'intende. Oggi Hoffman discetta sulle tre età della rete. La prima Internet dove ciascuno era un'isola dalla quale lanciava messaggi in codice agli altri naufraghi sulle isole di tutto il mondo. Poi l'età 2.0 in cui ci si ritrova tutti straordinariamente connessi. E infine la terza età in cui a trionfare sono appunto i dati: le informazioni scambiate che fanno ricchezza tantopiù se aggregate in collettori sociali come Linkedin.
Sulla ricchezza non c'è ombra di dubbio. Il giochetto dell'ipo ha portato l'altro giorno nelle tasche del suo presidente Hoffman ha lasciato la poltrona di Ceo all'ex Yahoo Jeff Weiner qualcosa come 1 miliardo e 800 milioni di dollari. Naturalmente la via del successo non è solo lastricata di buone intenzioni. Bisognava davvero prenderla con filosofia come forse solo Hoffman era attrezzato a fare nel perseguire l'idea di un social forum del business come Linkedin.
LINKED IN
Non è un caso che mentre in tanti, oggi, sottolineano il rischiobolla legato al superxploit di Wall Street, è toccato proprio a un ex collega di Reid, cioè Joseph Grundfest, professore di business alla Stanford Law School, ricordare che al signorone ci sono voluti dieci anni per costruire la sua creatura. Che Linkedin, nata nel 2003, non è insomma una startup apri e fuggi tipo Pets.com o tutte quelle altre compagnie che adesso già bramano di seguirne l'esempio sperando in affari milionari. Che lo stesso Hoffman è passato prima per la creazione di una società chiamata PayPal e poi negli anni ha piantato le sue azioncine nel fior fiore delle aziende promessa della Silicon Valley: da Facebook a Zynga a Flickr a Digg.
Che in tutto il mondo dell'hitech c'è solo un altro signore che può vantare la fama di "angel investor" superiore alla sua: e cioè l'inventore di Netscape <-> quel Marc Andreessen che questo mese ha fatto bingo con le sue azioni alle stelle dopo l'acquisto di Skype da parte del gigante Microsoft.
E adesso? Adesso l'uomo che ha smascherato le finte promesse dei Pronipoti non ha nessuna intenzione di fermarsi qua. Anzi. Altro che robot. Lui è convinto che la sua rete possa ancora espandersi all'infinito: come in un film di fantascienza. Perché sempre più gente - dice - "vivrà su Facebook: ma lavorerà su Internet". E arrivederci cartoons...
by dagospia
venerdì 20 maggio 2011
TUTTI GLI UOMINI DELLO ZIO TOM - CHI SONO, CHI NON SONO, CHI SI CREDONO DI ESSERE, RICHARD D’AMORE, JAMES PALLOTTA E MICHAEL RUANE, I TRE AMERICANI CHE ACCOMPAGNANO DI BENEDETTO ALLA CONQUISTA DELLA ROMA - MA UNICREDIT SAPEVA CHE IL NEOPRESIDENTE GIALLOROSSO FA IL LOBBISTA CON EX AGENTI DELLA CIA? IL SUO SPORT PREFERITO È COMPRARE AZIENDE MEDIO-PICCOLE A POCO E VENDERLE BENE. E LA SQUADRA DEI SENSI SE L’È PORTATA A CASA PER UN PIATTO DI LENTICCHIE…
Gianfrancesco Turano per "l'Espresso"
DIBENEDETTO-GMT/ROSS
Obiettivo 3 giugno. A campionato finito, Thomas Di Benedetto conta di festeggiare il suo sessantaduesimo compleanno in Italia da nuovo padrone dell'As Roma. Sarà il primo proprietario straniero di un club italiano di serie A e non sarà solo. Con lui, a parità di investimento, ci saranno Richard D'Amore, James Pallotta e Michael Ruane. Avranno il 60 per cento. Il 40 per ora resta di Unicredit, arbitro, guardalinee e quarto uomo nell'ultimo match della famiglia Sensi, distrutta nel patrimonio da 18 anni di grandeur calcistica.
Tom, Rich, Jim e Mike, ossia tre italiani e un irlandese cresciuti nell'area metropolitana di Boston, Massachusetts, conoscono il basket, il baseball e il football americano. Non conoscono il calcio e il calcio non conosce loro. Per questo e per l'amore italico verso la trama, i mesi di trattativa per comprare i giallorossi sono diventati un thriller dove non si capiva chi fosse l'assassino. Nel senso che risultava oscuro da dove arrivassero e chi fossero Di Benedetto e i suoi sfuggevoli compari di oltreoceano.
DIBENEDETTO-GMT/ROSS
Scetticismo e attesa messianica, i due poli dello spirito romano, si sono scontrati dal novembre dell'anno scorso, quando i bostoniani hanno fatto la prima offerta non vincolante per il club giallorosso. Nel momento in cui Di Benedetto è sbarcato a Fiumicino il 28 marzo 2011, la rassegna stampa su di lui comprendeva una vasta galleria di ritratti. Per lo più, il businessman di origini campane veniva considerato un bluff, uno sconosciuto nella sua stessa città, un poveraccio che viaggia in economica. In romanesco, un sòla.
Proviamo a spostarci a Washington, la capitale. Al numero 1401 di K street, a circa 500 metri di distanza dalla Casa Bianca c'è la sede di una società che si chiama Jefferson, Waterman International (Jwi). Di Benedetto è il chairman, ossia il presidente non operativo del consiglio di amministrazione. La società viene definita come "una ditta che fornisce al governo federale rappresentanza e consulenza sia politica sia strategica a governi stranieri e multinazionali".
GMT-DIBENEDETTO IN AUTO VERSO LA RIUNIONE CON UNICREDIT
Il fondatore Charles Waterman ha lavorato per decenni ai massimi livelli della Cia. È stato vicepresidente del National Intelligence Council e capo delle operazioni di spionaggio statunitense in posti come il Kuwait, l'Arabia Saudita, l'Egitto, il Libano e la Giordania. Tutti gli altri rappresentanti di Jefferson Waterman vengono dai ranghi delle forze armate o dai servizi dell'intelligence americana.
BORRIELLO FOTO GMT
Tutti, salvo Di Benedetto. Ma è piuttosto difficile che una lobbying firm di questo livello abbia preso come presidente un figlio di paisà italiani, soltanto perché passava di là e perché non ama parlare con i giornalisti. L'elenco dei clienti di Jefferson Waterman è, per certi aspetti, inquietante.
Com'è d'uso fra i colossi del lobbying nati nell'era Bush all'incrocio fra interessi pubblici e privati, la società di Washington rappresenta gli interessi di Alassane Ouattara, presidente della Costa d'Avorio, ed ha avuto fra i clienti l'Alleanza per il nuovo Kosovo, partito fondato da Beghjet Pacolli, una decina di Stati (Algeria, Croazia, Corea del Sud, Rwanda, Ghana, Bulgaria, Nicaragua, Romania, Giamaica), l'organizzazione per il commercio estero giapponese, la banca internazionale dell'Azerbaijan, la fondazione Veterani di guerra del Vietnam e aziende come Gec Marconi, Chevron, Cisco e Bae systems. Negli anni Novanta non è mancata qualche scelta controversa, come quando Jwi ha rappresentato gli interessi della dittatura birmana.
TOTTI ROMA JPEG
Bisogna dire che l'ambiente è nettamente conservatore e le simpatie dello stesso Di Benedetto vanno al partito repubblicano, come è tradizione nella comunità italo-americana di Boston. La dimensione di Jwi, e la rete di amicizie ad alto livello in zona Capitol Hill, sembra essere del tutto sfuggita. Soprattutto agli uomini di Unicredit.
Nel corso della trattativa con la banca, Di Benedetto ha più volte confessato ai suoi uomini un certo disagio nell'essere trattato dall'alto in basso. E non tanto dai giornali italiani, che lui non legge, quanto dai dirigenti della banca venditrice, impegnati a togliere dal fuoco la castagna del club giallorosso e sottoposti a pressing asfissiante dalla stampa italiana, dalle radio romane e dalla tifoseria.
ROSELLA SENSI
Forse l'apparenza inganna e il sogno americano è fuori luogo in zona stadio Olimpico, ma per arrivare così vicino alla Casa Bianca, Di Benedetto ha dovuto lavorare duro. Figlio di una famiglia umile, con un padre sbarcato in America a 16 anni e, a quanto si racconta, calciatore di buon livello nelle leghe del soccer locale, il futuro presidente della Roma si è laureato al Trinity College di Hartford (Connecticut) nel 1971 ed è riuscito a entrare nella Pi Gamma Mu, una di quelle consorterie universitarie simili a una loggia massonica su base locale. Le foto dell'epoca mostrano lo studente, già non troppo atletico, in canottiera da basket e con l'armamentario protettivo per il football americano.
PAOLO FIORENTINO
Due anni dopo, nel 1973, ha conquistato il master in Business Administration a Wharton, uno degli Mba più prestigiosi. A studiare insieme al giovane italo-americano c'era Michael Ruane, l'irlandese democratico che, a quarant'anni di distanza, è di gran lunga il più ricco della cordata As Roma, con un patrimonio stimato in diversi miliardi di dollari.
Dopo l'Mba, Di Benedetto ha lavorato in alcune case di investimenti (Allen & co, Salomon Brothers, Morgan Stanley). Nel 1983, in pieno furore economico reaganiano, ha fondato il Big (Boston international group), attivo nel settore delle fusioni e acquisizioni. Al Big si sono aggiunte, negli anni successivi, partecipazioni in società immobiliari, finanziarie e di software. Una delle principali è la Alexander's, un'immobiliare gestita dal Vornado Realty, uno dei trust specializzati in real estate più grandi degli Stati Uniti.
JAMES PALLOTTA
Cattolico devoto, Di Benedetto ha regalato milioni di dollari alla chiesa locale, inclusa una casa di riposo per sacerdoti nella zona di Cape Cod, ed è rimasto molto legato al cardinale Bernard Francis Law, arcivescovo metropolita di Boston dal 1984 al 2002, quando è stato travolto dallo scandalo dei preti pedofili. Law, che oggi è reggente della basilica romana di Santa Maria Maggiore, è una delle prime persone che Di Benedetto è andato a trovare durante il suo viaggio di marzo nella capitale.
L'idea di cercare valore nelle aziende medio-piccole per comprarle a poco o nulla e venderle bene è sempre stata la guida di Di Benedetto. Sarà così anche alla Roma, che il businessman italo-americano si è portato a casa per un piatto di lenticchie. Ma i giallorossi non sono il suo primo investimento sportivo.
Nel 2002, c'è stata l'acquisizione dei Boston Red Sox per 700 milioni di dollari in cordata con i partner della Nesv (oggi Fenway Sports Group). Le calze rosse, ex squadra di Babe Ruth, erano una nobile decaduta del baseball. Non vincevano da 86 anni e affogavano nei debiti. I nuovi proprietari sono stati bravi e fortunati. Dopo appena due anni, nel 2004 i Red Sox hanno vinto le World Series della Major League Baseball.
Lo stesso gruppo di azionisti, guidato da John Henry, si è trovato durante la stagione calcistica 2010-2011 a considerare due proposte di acquisto di squadre indebitate. Una era il Liverpool, l'altra era la Roma. Fenway Sports si è orientata sul club inglese. Di Benedetto, pur essendo diventato socio di minoranza dei Reds di Liverpool, ha deciso di insistere con i giallorossi.
RICHARD D'AMORE (A SINISTRA)
Ruane è stato contattato in quanto amico di studi. Non è solo il più ricco. È anche il più riluttante ad apparire. Dato il lavoro che fa, Ruane tutto vuole meno che essere associato a una società sportiva. Men che meno al calcio europeo, noto nel mondo come una macchina per produrre perdite e debiti. I clienti potrebbero allarmarsi e il TA Associates Realty di Ruane non gestisce soltanto ricchezze private ma anche, com'è tipico degli Usa, fondi pensionistici pubblici. Fra questi, quello dello Stato del Massachusetts. In altre parole, bisogna che l'investimento di Ruane nel calcio sia tenuto ben distinto dalle sue attività principali.
Non ha questo problema James Pallotta. Il più giovane dei quattro (53 anni) ha partecipato nel 2002 all'acquisto dei Boston Celtics (National basketball association) con un quota di 20 milioni di dollari sui 360 milioni di investimento complessivo. Anche qui la squadra era in declino dopo gli anni trionfali di Larry Bird. Per tornare a conquistare l'anello di campioni c'è voluto un po' di più di quanto ci abbia messo Di Benedetto nel baseball. Il titolo Nba è arrivato nel 2007-2008.
ATTERRA A ROMA TOM DIBENEDETTO MEZZELANI GMT
Di origini calabro-pugliesi, Pallotta vive con gli hedge fund. Dunque, pericolosamente. Nel 2004, al massimo della bolla speculativa, gestiva un fondo dal nome simbolico, il Raptor Global, garantiva ai suoi partner ritorni sugli investimenti nell'ordine del 20 per cento all'anno e incamerava uno stipendiuccio di 194 milioni di dollari. Quattro anni dopo, con la crisi finanziaria, il Raptor Global è saltato. Non che Pallotta sia finito sul lastrico. Previdente, si era comprato una villa di 22 stanze su un'area di 27 acri a Weston, nei sobborghi chic di Boston. Nel 2009 il finanziere è tornato in attività negli hedge fund con il Raptor Evolution, accreditato di una massa gestita di 11-12 miliardi di dollari.
ATTERRA A ROMA TOM DIBENEDETTO MEZZELANI GMT
D'Amore è il quarto moschettiere della cordata. Ha 56 anni e un Mba a Harvard seguito da esperienze in Hambro International e Artur Young. Dal 1994 si è messo in proprio con la North Bridge Venture Partners che amministra oltre 3 miliardi di dollari. Ha interessi nell'hi-tech (Veeco instruments e Solectron) e nell'industria medica con la Phase Forward del gruppo Oracle di Larry Ellison. Anche D'Amore, figlio di un sarto, viene da una famiglia di lavoratori che hanno investito nell'educazione dei figli. La sorella, Patricia D'Amore, è una scienziata molto nota nel campo dell'oftalmologia.
La squadra dei proprietari della Roma è questa. Potrebbe cambiare nel giro dei prossimi mesi, se Unicredit cederà parte del suo 40 per cento a soci italiani. In ogni caso, sembra certo che Di Benedetto sarà il manager esecutivo e che gli altri avranno più che altro il ruolo di soci finanziatori. Se riusciranno o falliranno, è presto per dire. Di certo, sono partiti col piede giusto visto che hanno comprato a poco. Ma, altrettanto di sicuro, arrivano in un pianeta sconosciuto e ostile dove ben pochi sono riusciti a guadagnare. A partire dagli yankees che hanno investito nella Premier League inglese. In Italia non sarà più facile.
by dagospia
DIBENEDETTO-GMT/ROSS
Obiettivo 3 giugno. A campionato finito, Thomas Di Benedetto conta di festeggiare il suo sessantaduesimo compleanno in Italia da nuovo padrone dell'As Roma. Sarà il primo proprietario straniero di un club italiano di serie A e non sarà solo. Con lui, a parità di investimento, ci saranno Richard D'Amore, James Pallotta e Michael Ruane. Avranno il 60 per cento. Il 40 per ora resta di Unicredit, arbitro, guardalinee e quarto uomo nell'ultimo match della famiglia Sensi, distrutta nel patrimonio da 18 anni di grandeur calcistica.
Tom, Rich, Jim e Mike, ossia tre italiani e un irlandese cresciuti nell'area metropolitana di Boston, Massachusetts, conoscono il basket, il baseball e il football americano. Non conoscono il calcio e il calcio non conosce loro. Per questo e per l'amore italico verso la trama, i mesi di trattativa per comprare i giallorossi sono diventati un thriller dove non si capiva chi fosse l'assassino. Nel senso che risultava oscuro da dove arrivassero e chi fossero Di Benedetto e i suoi sfuggevoli compari di oltreoceano.
DIBENEDETTO-GMT/ROSS
Scetticismo e attesa messianica, i due poli dello spirito romano, si sono scontrati dal novembre dell'anno scorso, quando i bostoniani hanno fatto la prima offerta non vincolante per il club giallorosso. Nel momento in cui Di Benedetto è sbarcato a Fiumicino il 28 marzo 2011, la rassegna stampa su di lui comprendeva una vasta galleria di ritratti. Per lo più, il businessman di origini campane veniva considerato un bluff, uno sconosciuto nella sua stessa città, un poveraccio che viaggia in economica. In romanesco, un sòla.
Proviamo a spostarci a Washington, la capitale. Al numero 1401 di K street, a circa 500 metri di distanza dalla Casa Bianca c'è la sede di una società che si chiama Jefferson, Waterman International (Jwi). Di Benedetto è il chairman, ossia il presidente non operativo del consiglio di amministrazione. La società viene definita come "una ditta che fornisce al governo federale rappresentanza e consulenza sia politica sia strategica a governi stranieri e multinazionali".
GMT-DIBENEDETTO IN AUTO VERSO LA RIUNIONE CON UNICREDIT
Il fondatore Charles Waterman ha lavorato per decenni ai massimi livelli della Cia. È stato vicepresidente del National Intelligence Council e capo delle operazioni di spionaggio statunitense in posti come il Kuwait, l'Arabia Saudita, l'Egitto, il Libano e la Giordania. Tutti gli altri rappresentanti di Jefferson Waterman vengono dai ranghi delle forze armate o dai servizi dell'intelligence americana.
BORRIELLO FOTO GMT
Tutti, salvo Di Benedetto. Ma è piuttosto difficile che una lobbying firm di questo livello abbia preso come presidente un figlio di paisà italiani, soltanto perché passava di là e perché non ama parlare con i giornalisti. L'elenco dei clienti di Jefferson Waterman è, per certi aspetti, inquietante.
Com'è d'uso fra i colossi del lobbying nati nell'era Bush all'incrocio fra interessi pubblici e privati, la società di Washington rappresenta gli interessi di Alassane Ouattara, presidente della Costa d'Avorio, ed ha avuto fra i clienti l'Alleanza per il nuovo Kosovo, partito fondato da Beghjet Pacolli, una decina di Stati (Algeria, Croazia, Corea del Sud, Rwanda, Ghana, Bulgaria, Nicaragua, Romania, Giamaica), l'organizzazione per il commercio estero giapponese, la banca internazionale dell'Azerbaijan, la fondazione Veterani di guerra del Vietnam e aziende come Gec Marconi, Chevron, Cisco e Bae systems. Negli anni Novanta non è mancata qualche scelta controversa, come quando Jwi ha rappresentato gli interessi della dittatura birmana.
TOTTI ROMA JPEG
Bisogna dire che l'ambiente è nettamente conservatore e le simpatie dello stesso Di Benedetto vanno al partito repubblicano, come è tradizione nella comunità italo-americana di Boston. La dimensione di Jwi, e la rete di amicizie ad alto livello in zona Capitol Hill, sembra essere del tutto sfuggita. Soprattutto agli uomini di Unicredit.
Nel corso della trattativa con la banca, Di Benedetto ha più volte confessato ai suoi uomini un certo disagio nell'essere trattato dall'alto in basso. E non tanto dai giornali italiani, che lui non legge, quanto dai dirigenti della banca venditrice, impegnati a togliere dal fuoco la castagna del club giallorosso e sottoposti a pressing asfissiante dalla stampa italiana, dalle radio romane e dalla tifoseria.
ROSELLA SENSI
Forse l'apparenza inganna e il sogno americano è fuori luogo in zona stadio Olimpico, ma per arrivare così vicino alla Casa Bianca, Di Benedetto ha dovuto lavorare duro. Figlio di una famiglia umile, con un padre sbarcato in America a 16 anni e, a quanto si racconta, calciatore di buon livello nelle leghe del soccer locale, il futuro presidente della Roma si è laureato al Trinity College di Hartford (Connecticut) nel 1971 ed è riuscito a entrare nella Pi Gamma Mu, una di quelle consorterie universitarie simili a una loggia massonica su base locale. Le foto dell'epoca mostrano lo studente, già non troppo atletico, in canottiera da basket e con l'armamentario protettivo per il football americano.
PAOLO FIORENTINO
Due anni dopo, nel 1973, ha conquistato il master in Business Administration a Wharton, uno degli Mba più prestigiosi. A studiare insieme al giovane italo-americano c'era Michael Ruane, l'irlandese democratico che, a quarant'anni di distanza, è di gran lunga il più ricco della cordata As Roma, con un patrimonio stimato in diversi miliardi di dollari.
Dopo l'Mba, Di Benedetto ha lavorato in alcune case di investimenti (Allen & co, Salomon Brothers, Morgan Stanley). Nel 1983, in pieno furore economico reaganiano, ha fondato il Big (Boston international group), attivo nel settore delle fusioni e acquisizioni. Al Big si sono aggiunte, negli anni successivi, partecipazioni in società immobiliari, finanziarie e di software. Una delle principali è la Alexander's, un'immobiliare gestita dal Vornado Realty, uno dei trust specializzati in real estate più grandi degli Stati Uniti.
JAMES PALLOTTA
Cattolico devoto, Di Benedetto ha regalato milioni di dollari alla chiesa locale, inclusa una casa di riposo per sacerdoti nella zona di Cape Cod, ed è rimasto molto legato al cardinale Bernard Francis Law, arcivescovo metropolita di Boston dal 1984 al 2002, quando è stato travolto dallo scandalo dei preti pedofili. Law, che oggi è reggente della basilica romana di Santa Maria Maggiore, è una delle prime persone che Di Benedetto è andato a trovare durante il suo viaggio di marzo nella capitale.
L'idea di cercare valore nelle aziende medio-piccole per comprarle a poco o nulla e venderle bene è sempre stata la guida di Di Benedetto. Sarà così anche alla Roma, che il businessman italo-americano si è portato a casa per un piatto di lenticchie. Ma i giallorossi non sono il suo primo investimento sportivo.
Nel 2002, c'è stata l'acquisizione dei Boston Red Sox per 700 milioni di dollari in cordata con i partner della Nesv (oggi Fenway Sports Group). Le calze rosse, ex squadra di Babe Ruth, erano una nobile decaduta del baseball. Non vincevano da 86 anni e affogavano nei debiti. I nuovi proprietari sono stati bravi e fortunati. Dopo appena due anni, nel 2004 i Red Sox hanno vinto le World Series della Major League Baseball.
Lo stesso gruppo di azionisti, guidato da John Henry, si è trovato durante la stagione calcistica 2010-2011 a considerare due proposte di acquisto di squadre indebitate. Una era il Liverpool, l'altra era la Roma. Fenway Sports si è orientata sul club inglese. Di Benedetto, pur essendo diventato socio di minoranza dei Reds di Liverpool, ha deciso di insistere con i giallorossi.
RICHARD D'AMORE (A SINISTRA)
Ruane è stato contattato in quanto amico di studi. Non è solo il più ricco. È anche il più riluttante ad apparire. Dato il lavoro che fa, Ruane tutto vuole meno che essere associato a una società sportiva. Men che meno al calcio europeo, noto nel mondo come una macchina per produrre perdite e debiti. I clienti potrebbero allarmarsi e il TA Associates Realty di Ruane non gestisce soltanto ricchezze private ma anche, com'è tipico degli Usa, fondi pensionistici pubblici. Fra questi, quello dello Stato del Massachusetts. In altre parole, bisogna che l'investimento di Ruane nel calcio sia tenuto ben distinto dalle sue attività principali.
Non ha questo problema James Pallotta. Il più giovane dei quattro (53 anni) ha partecipato nel 2002 all'acquisto dei Boston Celtics (National basketball association) con un quota di 20 milioni di dollari sui 360 milioni di investimento complessivo. Anche qui la squadra era in declino dopo gli anni trionfali di Larry Bird. Per tornare a conquistare l'anello di campioni c'è voluto un po' di più di quanto ci abbia messo Di Benedetto nel baseball. Il titolo Nba è arrivato nel 2007-2008.
ATTERRA A ROMA TOM DIBENEDETTO MEZZELANI GMT
Di origini calabro-pugliesi, Pallotta vive con gli hedge fund. Dunque, pericolosamente. Nel 2004, al massimo della bolla speculativa, gestiva un fondo dal nome simbolico, il Raptor Global, garantiva ai suoi partner ritorni sugli investimenti nell'ordine del 20 per cento all'anno e incamerava uno stipendiuccio di 194 milioni di dollari. Quattro anni dopo, con la crisi finanziaria, il Raptor Global è saltato. Non che Pallotta sia finito sul lastrico. Previdente, si era comprato una villa di 22 stanze su un'area di 27 acri a Weston, nei sobborghi chic di Boston. Nel 2009 il finanziere è tornato in attività negli hedge fund con il Raptor Evolution, accreditato di una massa gestita di 11-12 miliardi di dollari.
ATTERRA A ROMA TOM DIBENEDETTO MEZZELANI GMT
D'Amore è il quarto moschettiere della cordata. Ha 56 anni e un Mba a Harvard seguito da esperienze in Hambro International e Artur Young. Dal 1994 si è messo in proprio con la North Bridge Venture Partners che amministra oltre 3 miliardi di dollari. Ha interessi nell'hi-tech (Veeco instruments e Solectron) e nell'industria medica con la Phase Forward del gruppo Oracle di Larry Ellison. Anche D'Amore, figlio di un sarto, viene da una famiglia di lavoratori che hanno investito nell'educazione dei figli. La sorella, Patricia D'Amore, è una scienziata molto nota nel campo dell'oftalmologia.
La squadra dei proprietari della Roma è questa. Potrebbe cambiare nel giro dei prossimi mesi, se Unicredit cederà parte del suo 40 per cento a soci italiani. In ogni caso, sembra certo che Di Benedetto sarà il manager esecutivo e che gli altri avranno più che altro il ruolo di soci finanziatori. Se riusciranno o falliranno, è presto per dire. Di certo, sono partiti col piede giusto visto che hanno comprato a poco. Ma, altrettanto di sicuro, arrivano in un pianeta sconosciuto e ostile dove ben pochi sono riusciti a guadagnare. A partire dagli yankees che hanno investito nella Premier League inglese. In Italia non sarà più facile.
by dagospia
COME INCASTRAI GELLI - GHERARDO COLOMBO RICORDA: “TURONE E IO ERAVAMO GIUDICI ISTRUTTORI DELL´OMICIDIO AMBROSOLI E IL "FINTO RAPIMENTO" DI SINDONA. IN QUELL´INCHIESTA EMERGEVANO MOLTEPLICI COLLEGAMENTI TRA IL FINANZIERE SICILIANO E GELLI. DECIDEMMO DI PERQUISIRE L´ABITAZIONE DI GELLI. AVEVAMO CHIESTO AGLI UFFICIALI DELLA GUARDIA DI FINANZA INCARICATI DELLE PERQUISIZIONI DI NON AVVERTIRE NEMMENO I LORO SUPERIORI" - L’INCONTRO CON FORLANI...
Leopoldo Fabiani per "la Repubblica"
GELLI GETCONTENT ASP JPEG
«Non pensavamo certo di trovare una cosa del genere. Con quella lista davanti agli occhi fu immediata la sensazione che quel materiale fosse esplosivo». Gherardo Colombo, con il suo collega Giuliano Turone, è il magistrato che ha scoperto, nel marzo del 1981, due mesi prima che il governo decidesse di renderle pubbliche, le liste degli appartenenti alla P2.
Colombo da quattro anni è uscito dalla magistratura e si dedica a un lavoro di sensibilizzazione dei giovani, particolarmente nelle scuole, ai temi della legalità e del rispetto delle regole, qualcosa che si può chiamare una "pedagogia costituzionale". A trent´anni di distanza il ricordo di quei giorni è ancora molto vivo, percorso dalle emozioni della scoperta e da episodi quasi grotteschi.
LICIO GELLI X
Dottor Colombo, come siete arrivati alle carte di Gelli?
«Giuliano Turone e io eravamo giudici istruttori delle indagini che riguardavano l´omicidio Ambrosoli e il cosiddetto "finto rapimento" di Sindona. In quell´inchiesta emergevano molteplici collegamenti tra il finanziere siciliano e Gelli. Decidemmo di perquisire l´abitazione di Gelli, l´azienda Giole, e l´Hotel Excelsior di Roma, dove il venerabile dà appuntamento a tutti i suoi interlocutori».
Dove erano le liste?
«Avevamo chiesto agli ufficiali della Guardia di Finanza incaricati delle perquisizioni di non avvertire nemmeno i loro superiori. A un certo punto quella mattina del 17 marzo da Castiglion Fibocchi, dove si trova la Giole, arriva una serie frenetica di telefonate. Il colonnello Bianchi ci avverte che ha trovato materiale importantissimo, con i nomi degli appartenenti alla loggia P2. Noi siamo impazienti, per vedere il tutto dobbiamo aspettare la mattina dopo».
GELLI
E cosa pensate quando lo avete in mano?
«È subito evidente che siamo davanti a qualcosa di inimmaginabile. Negli elenchi ci sono i nomi di ministri in carica, dei vertici dei servizi di sicurezza, parlamentari, prefetti, questori, alti ufficiali delle forze armate, imprenditori, giornalisti, editori. I capi della Guardia di Finanza protagonisti dello scandalo dei petroli, ufficiali dei servizi responsabili dei depistaggi sulle stragi. Anche magistrati.
C´è anche il nome di un generale argentino che fa parte della giunta golpista responsabile dei "desaparecidos". È una cosa enorme. Decidiamo due cose: evitare qualunque fuga di notizie e mettere al sicuro i documenti. Li fotocopiamo e li nascondiamo nel fascicolo di un´indagine che un nostro collega sta conducendo su tutt´altra questione. Poi cerchiamo il presidente della Repubblica. Ma Pertini è in viaggio di Stato in Sudamerica. Allora prendiamo appuntamento con il presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani».
GHERARDO COLOMBO
E cosa accade?
«Dopo ore di anticamera, a Palazzo Chigi ci accoglie il segretario di Forlani, prefetto Semprini, il cui nome è nella lista. Pensavamo che avesse il buon gusto di non venire proprio lui ad aprirci la porta, ci viene da ridere. Il presidente del Consiglio mostra di non sapere perché siamo lì. Glielo spieghiamo e per un paio di minuti non riesce ad articolare parola. Poi balbetta, cerca di minimizzare. Il minuetto è estenuante. Alla fine Forlani ci dice che studierà le carte personalmente e poi deciderà cosa fare».
SRG49 GHERARDO COLOMBO
Il presidente del Consiglio nominerà un comitato di saggi e il 20 maggio renderà pubbliche le liste. Lo scandalo sarà enorme e Forlani si dovrà dimettere. Intanto qual è il destino della vostra inchiesta?
«Pochi mesi dopo, a settembre, le indagini verranno trasferite a Roma. E alcuni filoni dell´inchiesta saranno archiviati. Per scoprire, ad esempio, il Conto Protezione di cui ha usufruito Bettino Craxi, abbiamo dovuto attendere il periodo di Mani Pulite. Alla fine dei processi ci saranno alcune condanne, ma la natura della P2 è riuscita a sfuggire, e intrecci, collusioni e complicità che sarebbero potute emergere allora sono rimasti sommersi».
TRV01 GHERARDO COLOMBO
A suo giudizio cosa è stata la Loggia di Licio Gelli?
«Rispondo con le parole del comitato dei saggi: "Un luogo di influenza e di potere occulto. Un´associazione occulta può diventare uno Stato nello Stato e questo non può essere consentito nell´ordine democratico". E con quelle della relazione di maggioranza della commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi. "Una operazione politica ispirata a una concezione del potere che tutto usa e a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere ma è al servizio di chi vi è sottoposto"».
Cosa è rimasto oggi della P2?
«Ci sono esponenti delle istituzioni il cui nome è stato trovato nelle liste degli appartenenti alla loggia. Ma la situazione è senz´altro diversa. Una volta che la segretezza è finita, l´associazione ha perso il suo scopo. Ora non si tratta più di svelare un potere occulto, e i cittadini, gli elettori, hanno gli elementi per giudicare e decidere. Il pallino è in mano a loro».
by dagospia
GELLI GETCONTENT ASP JPEG
«Non pensavamo certo di trovare una cosa del genere. Con quella lista davanti agli occhi fu immediata la sensazione che quel materiale fosse esplosivo». Gherardo Colombo, con il suo collega Giuliano Turone, è il magistrato che ha scoperto, nel marzo del 1981, due mesi prima che il governo decidesse di renderle pubbliche, le liste degli appartenenti alla P2.
Colombo da quattro anni è uscito dalla magistratura e si dedica a un lavoro di sensibilizzazione dei giovani, particolarmente nelle scuole, ai temi della legalità e del rispetto delle regole, qualcosa che si può chiamare una "pedagogia costituzionale". A trent´anni di distanza il ricordo di quei giorni è ancora molto vivo, percorso dalle emozioni della scoperta e da episodi quasi grotteschi.
LICIO GELLI X
Dottor Colombo, come siete arrivati alle carte di Gelli?
«Giuliano Turone e io eravamo giudici istruttori delle indagini che riguardavano l´omicidio Ambrosoli e il cosiddetto "finto rapimento" di Sindona. In quell´inchiesta emergevano molteplici collegamenti tra il finanziere siciliano e Gelli. Decidemmo di perquisire l´abitazione di Gelli, l´azienda Giole, e l´Hotel Excelsior di Roma, dove il venerabile dà appuntamento a tutti i suoi interlocutori».
Dove erano le liste?
«Avevamo chiesto agli ufficiali della Guardia di Finanza incaricati delle perquisizioni di non avvertire nemmeno i loro superiori. A un certo punto quella mattina del 17 marzo da Castiglion Fibocchi, dove si trova la Giole, arriva una serie frenetica di telefonate. Il colonnello Bianchi ci avverte che ha trovato materiale importantissimo, con i nomi degli appartenenti alla loggia P2. Noi siamo impazienti, per vedere il tutto dobbiamo aspettare la mattina dopo».
GELLI
E cosa pensate quando lo avete in mano?
«È subito evidente che siamo davanti a qualcosa di inimmaginabile. Negli elenchi ci sono i nomi di ministri in carica, dei vertici dei servizi di sicurezza, parlamentari, prefetti, questori, alti ufficiali delle forze armate, imprenditori, giornalisti, editori. I capi della Guardia di Finanza protagonisti dello scandalo dei petroli, ufficiali dei servizi responsabili dei depistaggi sulle stragi. Anche magistrati.
C´è anche il nome di un generale argentino che fa parte della giunta golpista responsabile dei "desaparecidos". È una cosa enorme. Decidiamo due cose: evitare qualunque fuga di notizie e mettere al sicuro i documenti. Li fotocopiamo e li nascondiamo nel fascicolo di un´indagine che un nostro collega sta conducendo su tutt´altra questione. Poi cerchiamo il presidente della Repubblica. Ma Pertini è in viaggio di Stato in Sudamerica. Allora prendiamo appuntamento con il presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani».
GHERARDO COLOMBO
E cosa accade?
«Dopo ore di anticamera, a Palazzo Chigi ci accoglie il segretario di Forlani, prefetto Semprini, il cui nome è nella lista. Pensavamo che avesse il buon gusto di non venire proprio lui ad aprirci la porta, ci viene da ridere. Il presidente del Consiglio mostra di non sapere perché siamo lì. Glielo spieghiamo e per un paio di minuti non riesce ad articolare parola. Poi balbetta, cerca di minimizzare. Il minuetto è estenuante. Alla fine Forlani ci dice che studierà le carte personalmente e poi deciderà cosa fare».
SRG49 GHERARDO COLOMBO
Il presidente del Consiglio nominerà un comitato di saggi e il 20 maggio renderà pubbliche le liste. Lo scandalo sarà enorme e Forlani si dovrà dimettere. Intanto qual è il destino della vostra inchiesta?
«Pochi mesi dopo, a settembre, le indagini verranno trasferite a Roma. E alcuni filoni dell´inchiesta saranno archiviati. Per scoprire, ad esempio, il Conto Protezione di cui ha usufruito Bettino Craxi, abbiamo dovuto attendere il periodo di Mani Pulite. Alla fine dei processi ci saranno alcune condanne, ma la natura della P2 è riuscita a sfuggire, e intrecci, collusioni e complicità che sarebbero potute emergere allora sono rimasti sommersi».
TRV01 GHERARDO COLOMBO
A suo giudizio cosa è stata la Loggia di Licio Gelli?
«Rispondo con le parole del comitato dei saggi: "Un luogo di influenza e di potere occulto. Un´associazione occulta può diventare uno Stato nello Stato e questo non può essere consentito nell´ordine democratico". E con quelle della relazione di maggioranza della commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi. "Una operazione politica ispirata a una concezione del potere che tutto usa e a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere ma è al servizio di chi vi è sottoposto"».
Cosa è rimasto oggi della P2?
«Ci sono esponenti delle istituzioni il cui nome è stato trovato nelle liste degli appartenenti alla loggia. Ma la situazione è senz´altro diversa. Una volta che la segretezza è finita, l´associazione ha perso il suo scopo. Ora non si tratta più di svelare un potere occulto, e i cittadini, gli elettori, hanno gli elementi per giudicare e decidere. Il pallino è in mano a loro».
by dagospia
Los Indignados y Beppe Grillo
Sono arrivato a Barcellona per la mia tournée e ho trovato piazza Catalunya piena di ragazzi che chiedevano un cambiamento radicale dell'attuale modello di (sotto) sviluppo e la partecipazione diretta alla democrazia. Ho sentito aria di casa. La rivoluzione dolce spagnola è nata a Puerta del Sol a Madrid e si è diffusa subito in tutta la Spagna, da Valencia a Siviglia a Santiago. I ragazzi sono chiamati "Los indignados", gli indignati, ma il loro nome è "Movimiento 15-M", dal 15 maggio, il giorno in cui è nata la protesta. Non si riconoscono in alcun partito. Non vi ricordano qualcosa?
Un giornale spagnolo ha fatto un raffronto tra il "Movimiento 15-M" e "El Movimiento 5 Estrellas" in Italia. Si sono sviluppati entrambi su Internet, sono formati in prevalenza dalle giovani generazioni che non vedono prospettive per il loro futuro, si chiamano Movimento tutti e hanno un 5 tutti e due nel nome ("Gimme five!"), vogliono una riforma del sistema elettorale, l'abolizione di leggi ingiuste, l'esclusione degli indagati dalle liste elettorali, il divieto di finanziamento ai partiti, rifiutano il monopolio della politica da parte dei due partiti maggiori, i loro Pdl e Pdmenoelle, che sono il Psoe e il Pp, sono contro l'ologarchia dei partiti e per una democrazia partecipata.
Domenica ci sono le elezioni amministrative in Spagna, ma giornali e televisioni parlano solo delle nuova rivoluzione spagnola. I politici sembrano diventati di colpo relitti del passato, statue di cera del museo di madame Tussaud.
La rivoluzione dal basso ha superato Gibilterra ed è arrivata in Spagna dai Paesi del Maghreb. In Islanda e in Italia sta facendo da tempo le prove generali e il contagio potrebbe espandersi in tutta Europa. Il 2011 potrebbe diventare come il 1848, quando le vecchie istituzioni vennero travolte e la "questione sociale" divenne parte della politica.. Può essere che in futuro questo periodo sia citato con frasi come "E' successo un duemilaundici!" come oggi si dice "E' successo un quarantotto!". Nel 1848 la rivoluzione avvenne, quasi istantaneamente, in tutta Europa, da Vienna a Berlino, da Budapest a Parigi. Gli storici definiscono il '48 un fenomeno di "sincronizzazione storica". Un momento in cui tutto cambia ovunque senza spiegazioni apparenti. Un mondo nuovo sta nascendo, l'indignazione è il suo carburante. Un indignado aveva un cartello ben visibile: "E' il sistema che è contro di noi, non noi contro il Sistema". Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
blog beppe grillo
Un giornale spagnolo ha fatto un raffronto tra il "Movimiento 15-M" e "El Movimiento 5 Estrellas" in Italia. Si sono sviluppati entrambi su Internet, sono formati in prevalenza dalle giovani generazioni che non vedono prospettive per il loro futuro, si chiamano Movimento tutti e hanno un 5 tutti e due nel nome ("Gimme five!"), vogliono una riforma del sistema elettorale, l'abolizione di leggi ingiuste, l'esclusione degli indagati dalle liste elettorali, il divieto di finanziamento ai partiti, rifiutano il monopolio della politica da parte dei due partiti maggiori, i loro Pdl e Pdmenoelle, che sono il Psoe e il Pp, sono contro l'ologarchia dei partiti e per una democrazia partecipata.
Domenica ci sono le elezioni amministrative in Spagna, ma giornali e televisioni parlano solo delle nuova rivoluzione spagnola. I politici sembrano diventati di colpo relitti del passato, statue di cera del museo di madame Tussaud.
La rivoluzione dal basso ha superato Gibilterra ed è arrivata in Spagna dai Paesi del Maghreb. In Islanda e in Italia sta facendo da tempo le prove generali e il contagio potrebbe espandersi in tutta Europa. Il 2011 potrebbe diventare come il 1848, quando le vecchie istituzioni vennero travolte e la "questione sociale" divenne parte della politica.. Può essere che in futuro questo periodo sia citato con frasi come "E' successo un duemilaundici!" come oggi si dice "E' successo un quarantotto!". Nel 1848 la rivoluzione avvenne, quasi istantaneamente, in tutta Europa, da Vienna a Berlino, da Budapest a Parigi. Gli storici definiscono il '48 un fenomeno di "sincronizzazione storica". Un momento in cui tutto cambia ovunque senza spiegazioni apparenti. Un mondo nuovo sta nascendo, l'indignazione è il suo carburante. Un indignado aveva un cartello ben visibile: "E' il sistema che è contro di noi, non noi contro il Sistema". Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
blog beppe grillo
mercoledì 18 maggio 2011
VADE RETRO ROGATORIA! SVIZZERA E LIECHTENSTEIN SBATTONO LA PORTA IN FACCIA AI MAGISTRATI DELLA PROCURA DI MILANO, METTENDO UNA PIETRA SOPRA L’INCHIESTA SUL TESORO (CIRCA 800 MILIONI DI EURO) PORTATO ALL’ESTERO DALL’AVVOCATO CONTESO DALLA FIGLIA MARGHERITA (CONTRO I “CUSTODI” MARON, GABETTI E GRANDE STEVENS) E SECONDO I PM FRUTTO DELL’APPROPRIAZIONE INDEBITA DI SOLDI DELLA FIAT - 2- UNO DEI GRANDI MISTERI IRRISOLTI (E CHE TALE DUNQUE SI AVVIA A RESTARE) NELLA STORIA DELL’EREDITÀ DI GIANNI AGNELLI È IL MAXI BONIFICO DA 109 MILIONI PARTITO DA UN CONTO DELLA MORGAN STANLEY DI ZURIGO VERSO UNO DEI CONTI DI MARGHERITA - 3- ALMENO ALL’AVV. GLI REVOCASSERO IL TITOLO DI SENATORE A VITA, VISTA LA BENEMERENZA ACCERTATA NELLO SCRUPOLOSO VERSAMENTO DELLE TASSE AL FISCO ITALIANO -
Luigi Ferrarella e Mario Gerevini per il "Corriere della Sera"
MARGHERITA AGNELLI
Svizzera e Liechtenstein chiudono le porte in faccia alla Procura di Milano sull'eredità di Gianni Agnelli. E il doppio no alla rogatoria internazionale, sollecitata nel dicembre 2009 dai pm, di fatto anticipa una pietra tombale sull'inchiesta che - si scopre ora dal diniego - aveva un indagato: Siegfried Maron (il commercialista svizzero amministratore di molte attività di famiglia), indiziato di riciclaggio di somme che la richiesta di rogatoria ipotizza frutto dell'appropriazione indebita di denari del mondo-Fiat e dei relativi soci da parte dello scomparso (nel 2003) Gianni Agnelli.
Una massa extrabilancio che la rogatoria prospetta sia stata dirottata su una serie di rapporti bancari riconducibili all'Avvocato o a suoi fiduciari presso la Morgan Stanley di Zurigo, fino ad ammontare nel 2002 a circa 800 milioni di euro.
Svizzera e Liechtenstein hanno però negato l'assistenza giudiziaria chiesta dalla Procura milanese per acquisire notizie su quei conti: le due autorità straniere, infatti, contestano ai magistrati italiani di non aver indicato con precisione i flussi di denaro che legittimerebbero la loro ipotesi accusatoria, e di aver invece azzardato una sorta di «fishing expedition» (letteralmente: spedizione di pesca), cioè di aver avanzato non tanto richieste di informazioni bancarie su un singolo individuo nei confronti dei quali si nutrano seri sospetti e si abbiano concreti indizi, ma una ricerca generalizzata e indiscriminata di informazioni, peraltro a sfondo di indiretta utilizzazione fiscale (il che è tabù procedurale a Berna come a Vaduz).
MARGHERITA E GIANNI AGNELLI
Uno dei grandi misteri irrisolti (e che tale dunque si avvia a restare) nella storia dell'eredità di Gianni Agnelli è il maxi bonifico da 109 milioni partito proprio da un conto della Morgan Stanley di Zurigo verso uno dei conti di Margherita, Agnelli de Pahlen, figlia dell'ex presidente Fiat. Era il 26 marzo 2004, un anno e due mesi dopo la morte dell'Avvocato e poco più di un mese dopo gli accordi di Ginevra tra Margherita e la madre Marella che sancirono la divisione dei cospicui beni di famiglia: Margherita ricevette complessivamente un patrimonio di oltre un miliardo di euro.
MARRONE GABETTI E GRANDE STEVENS
Dopo tre anni Margherita impugnò l'atto, avviando una causa civile nella presunzione di poter dimostrare che esistesse all'estero un patrimonio nascosto del padre; e che i custodi di quel patrimonio fossero i più stretti collaboratori dell'Avvocato, ovvero il manager Gianluigi Gabetti, l'avvocato Franzo Grande Stevens e il commercialista svizzero Siegfried Maron. A loro Margherita chiedeva, citandoli in Tribunale a Torino, il rendiconto del presunto tesoro nascosto, ritenendoli i gestori. Il Tribunale le ha dato torto su tutta la linea.
Ma nel frattempo l'Agenzia delle Entrate aveva avviato una inchiesta fiscale che poi ha portato a un accordo transattivo da 100 milioni con società della famiglia Agnelli e con le due eredi, cioè la moglie e la figlia dell'Avvocato.
Intanto a Milano la Procura, indagando sull'evasione fiscale di una parcella di un ex legale di Margherita, aveva messo le mani sul voluminoso materiale raccolto dagli investigatori privati pagati dalla figlia dell'Avvocato per trovare il presunto tesoro estero del padre. E i conti nelle banche svizzere e del Liechtenstein erano parte di questo dossier: Jp Morgan, Ubs, Lgt Bank, Bank Hofmann, Pictet, ecc.
MARGHERITA GIANNI AGNELLI LAP
Tra esse, anche Morgan Stanley, quella che spedì a Margherita l'assegno da 109 milioni «a conguaglio dell'eredità immobiliare». Ma quando la madre di John Elkann chiese formalmente attraverso i sui legali chi avesse disposto il bonifico, la risposta fu: «Il titolare del conto consiglia di non darvi ulteriori informazioni».
JOHN ELKANN E MARELLA AGNELLI
Dunque chi era in quel momento, oltre un anno dopo la morte dell'Avvocato, il titolare del conto? E da dove provenivano quei 109 milioni? Dietro il mistero potrebbe esserci anche una risposta banale. Ma non lo si potrà sapere perché Svizzera e Liechtenstein, nel rispetto delle loro leggi, hanno chiuso a chiave ogni possibilità di risalire il fiume di quei soldi.
by dagospia
MARGHERITA AGNELLI
Svizzera e Liechtenstein chiudono le porte in faccia alla Procura di Milano sull'eredità di Gianni Agnelli. E il doppio no alla rogatoria internazionale, sollecitata nel dicembre 2009 dai pm, di fatto anticipa una pietra tombale sull'inchiesta che - si scopre ora dal diniego - aveva un indagato: Siegfried Maron (il commercialista svizzero amministratore di molte attività di famiglia), indiziato di riciclaggio di somme che la richiesta di rogatoria ipotizza frutto dell'appropriazione indebita di denari del mondo-Fiat e dei relativi soci da parte dello scomparso (nel 2003) Gianni Agnelli.
Una massa extrabilancio che la rogatoria prospetta sia stata dirottata su una serie di rapporti bancari riconducibili all'Avvocato o a suoi fiduciari presso la Morgan Stanley di Zurigo, fino ad ammontare nel 2002 a circa 800 milioni di euro.
Svizzera e Liechtenstein hanno però negato l'assistenza giudiziaria chiesta dalla Procura milanese per acquisire notizie su quei conti: le due autorità straniere, infatti, contestano ai magistrati italiani di non aver indicato con precisione i flussi di denaro che legittimerebbero la loro ipotesi accusatoria, e di aver invece azzardato una sorta di «fishing expedition» (letteralmente: spedizione di pesca), cioè di aver avanzato non tanto richieste di informazioni bancarie su un singolo individuo nei confronti dei quali si nutrano seri sospetti e si abbiano concreti indizi, ma una ricerca generalizzata e indiscriminata di informazioni, peraltro a sfondo di indiretta utilizzazione fiscale (il che è tabù procedurale a Berna come a Vaduz).
MARGHERITA E GIANNI AGNELLI
Uno dei grandi misteri irrisolti (e che tale dunque si avvia a restare) nella storia dell'eredità di Gianni Agnelli è il maxi bonifico da 109 milioni partito proprio da un conto della Morgan Stanley di Zurigo verso uno dei conti di Margherita, Agnelli de Pahlen, figlia dell'ex presidente Fiat. Era il 26 marzo 2004, un anno e due mesi dopo la morte dell'Avvocato e poco più di un mese dopo gli accordi di Ginevra tra Margherita e la madre Marella che sancirono la divisione dei cospicui beni di famiglia: Margherita ricevette complessivamente un patrimonio di oltre un miliardo di euro.
MARRONE GABETTI E GRANDE STEVENS
Dopo tre anni Margherita impugnò l'atto, avviando una causa civile nella presunzione di poter dimostrare che esistesse all'estero un patrimonio nascosto del padre; e che i custodi di quel patrimonio fossero i più stretti collaboratori dell'Avvocato, ovvero il manager Gianluigi Gabetti, l'avvocato Franzo Grande Stevens e il commercialista svizzero Siegfried Maron. A loro Margherita chiedeva, citandoli in Tribunale a Torino, il rendiconto del presunto tesoro nascosto, ritenendoli i gestori. Il Tribunale le ha dato torto su tutta la linea.
Ma nel frattempo l'Agenzia delle Entrate aveva avviato una inchiesta fiscale che poi ha portato a un accordo transattivo da 100 milioni con società della famiglia Agnelli e con le due eredi, cioè la moglie e la figlia dell'Avvocato.
Intanto a Milano la Procura, indagando sull'evasione fiscale di una parcella di un ex legale di Margherita, aveva messo le mani sul voluminoso materiale raccolto dagli investigatori privati pagati dalla figlia dell'Avvocato per trovare il presunto tesoro estero del padre. E i conti nelle banche svizzere e del Liechtenstein erano parte di questo dossier: Jp Morgan, Ubs, Lgt Bank, Bank Hofmann, Pictet, ecc.
MARGHERITA GIANNI AGNELLI LAP
Tra esse, anche Morgan Stanley, quella che spedì a Margherita l'assegno da 109 milioni «a conguaglio dell'eredità immobiliare». Ma quando la madre di John Elkann chiese formalmente attraverso i sui legali chi avesse disposto il bonifico, la risposta fu: «Il titolare del conto consiglia di non darvi ulteriori informazioni».
JOHN ELKANN E MARELLA AGNELLI
Dunque chi era in quel momento, oltre un anno dopo la morte dell'Avvocato, il titolare del conto? E da dove provenivano quei 109 milioni? Dietro il mistero potrebbe esserci anche una risposta banale. Ma non lo si potrà sapere perché Svizzera e Liechtenstein, nel rispetto delle loro leggi, hanno chiuso a chiave ogni possibilità di risalire il fiume di quei soldi.
by dagospia
martedì 17 maggio 2011
A SUD DELLA RAGIONE: CHIAGNI, FOTTI, E BUTTA I SOLDI NEL CESSO - BASILICATA, CALABRIA, CAMPANIA, PUGLIA E SICILIA NON SPENDONO I FONDI MESSI A DISPOSIZIONE DALL’EUROPA: SU 43 MILIARDI €, USATI SOLO 4 (IL 9%)! - VANNO IMPIEGATI ENTRO IL 2013, OPPURE BRUXELLES SE LI RIPRENDE, E LI DÀ AI PAESI DELL’EST - NEANCHE AL NORD LA BUROCRAZIA RIESCE A FAR FRUTTARE GLI INCENTIVI: SPESO SOLO IL 19% DEI FONDI - GLI UNICI CHE SANNO COME INVESTIRE SONO QUELLI GIÀ RICCHI: BOLZANO, TRENTO E LA VALLE D’AOSTA…
Marco Sodano per "la Stampa"
RAFFAELE LOMBARDO
Il pane ci sarebbe, mancano i denti. L'Europa stanzia i fondi, l'Italia non li spende: i ritardi sono biblici al Sud, ma neppure il Nord sembra efficiente come vorrebbe la sua fama. L'ultima fotografia della situazione sul programma 2007-2013 è aggiornata al dicembre 2010. L'ha scattata la Ragioneria Generale dello Stato. Riceviamo da Bruxelles due tipi di fondi. Ci sono quelli dell'Obiettivo convergenza (nel senso che i fondi dovrebbero portarle a convergere verso la ricchezza media dell'Europa), destinati alle cinque regioni economicamente più in affanno: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
In queste cinque regioni la percentuale di spesa si ferma al 9,59%. Poi ci sono i fondi dell'Obiettivo competitività regionale e occupazioni, destinati allo sviluppo di tutte le regioni europee (comprendono tutte le altre), che si fermano invece al 18,8%. E la spesa resta al palo anche se si prendono in considerazione le somme impegnate (quelle cioé cui già corrispondono appalti, contratti o comunque impegni giuridicamente rilevanti, come si dice nel gergo della burocrazia).
GIUSEPPE SCOPELLITI - COPYRIGHT PIZZI
Le cinque regioni del Sud hanno impegnato il 18,81% delle risorse assegnate, le altre arrivano al 33%, un terzo del totale. L'unica nota positiva, segnala la Ragioneria, è l'accelerata: rispetto alla rilevazione dell'anno precedente, la capacità di spesa cresciuta nelle prime dell'1,8% e del 2% nelle seconde.
CALDORO STEFANO
I numeri assoluti fanno impressione. Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia avrebbero a disposizione 43 miliardi e ne hanno spesi poco più di quattro. Le altre regioni ne hanno spesi quasi tre a fronte di una disponibilità di circa 15 miliardi. L'accelerata imposta da ottobre 2010 in poi s'è fatta sentire: in quattro mesi le regioni del Sud sono riusciti a spendere 800 milioni, le altre circa 480. Merito, probabilmente, del dibattito sulla riattribuzione dei fondi: come se si fosse scatenata la paura che lo Stato dirottasse altrove quel denaro (ciò che naturalmente non si può fare).
NIKI VENDOLA
E quella paura deve essersi scatenata soprattutto nelle regioni del Sud, visto che la Ragioneria sottolinea che è in queste che si è registrata l'impennata più significativa.
Scendendo nel dettaglio delle regioni, la maglia nera va alla Campania: su un contributo totale di un miliardo e 118 milioni ne ha pagati appena 26 (2,27%) e impegnati 74 (6,8%). Andamento lentissimo anche per la Sicilia: con una spesa pari al 3,7% e impegni per il 2,3. Su due miliardi di contributi sono stati usati meno di 130 milioni. Numeri che, dice la Ragioneria, mettono in evidenza «gravi difficoltà amministrative».
LUIS DURNWALDER
La dinamica della spesa è rimasta fiacca per tutto il 2010, registrando un timido miglioramento sul finire dell'anno. Al capo opposto della classifica le autonomie: la provincia di Trento e Bolzano e la Valle d'Aosta. La prima ha speso il 23% e impegnato il 59%, la seconda ha speso il 17 e impegnato il 35%, la Valle d'Aosta ha impegnato il 37% e speso il 28, primo posto assoluto.
In Europa il caso Italia non è passato inosservato. Nello scorso aprile ha inviato il commissario per le politiche regionali Johannes Hahn in tournée tra Sicilia, Puglia e Campania. «I fondi comunitari vanno spesi nei tempi stabiliti seguendo una strategia e non messi da parte pensando di poterli spendere tutti insieme, altrimenti si perdono», ha spiegato Hahn. Le tre regioni, da sole, rischiano di perdere 2 miliardi entro quest'anno, aveva chiosato il ministro dei rapporti regionali Raffaele Fitto, che accompagnava Hahn. Il tutto si è concluso con una serie di promesse e di impegni reicproci. Poi poco s'è mosso fino alla strigliata tremontiana di ieri: l'Italia aspetta che le crescano i denti.
by dagospia
RAFFAELE LOMBARDO
Il pane ci sarebbe, mancano i denti. L'Europa stanzia i fondi, l'Italia non li spende: i ritardi sono biblici al Sud, ma neppure il Nord sembra efficiente come vorrebbe la sua fama. L'ultima fotografia della situazione sul programma 2007-2013 è aggiornata al dicembre 2010. L'ha scattata la Ragioneria Generale dello Stato. Riceviamo da Bruxelles due tipi di fondi. Ci sono quelli dell'Obiettivo convergenza (nel senso che i fondi dovrebbero portarle a convergere verso la ricchezza media dell'Europa), destinati alle cinque regioni economicamente più in affanno: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
In queste cinque regioni la percentuale di spesa si ferma al 9,59%. Poi ci sono i fondi dell'Obiettivo competitività regionale e occupazioni, destinati allo sviluppo di tutte le regioni europee (comprendono tutte le altre), che si fermano invece al 18,8%. E la spesa resta al palo anche se si prendono in considerazione le somme impegnate (quelle cioé cui già corrispondono appalti, contratti o comunque impegni giuridicamente rilevanti, come si dice nel gergo della burocrazia).
GIUSEPPE SCOPELLITI - COPYRIGHT PIZZI
Le cinque regioni del Sud hanno impegnato il 18,81% delle risorse assegnate, le altre arrivano al 33%, un terzo del totale. L'unica nota positiva, segnala la Ragioneria, è l'accelerata: rispetto alla rilevazione dell'anno precedente, la capacità di spesa cresciuta nelle prime dell'1,8% e del 2% nelle seconde.
CALDORO STEFANO
I numeri assoluti fanno impressione. Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia avrebbero a disposizione 43 miliardi e ne hanno spesi poco più di quattro. Le altre regioni ne hanno spesi quasi tre a fronte di una disponibilità di circa 15 miliardi. L'accelerata imposta da ottobre 2010 in poi s'è fatta sentire: in quattro mesi le regioni del Sud sono riusciti a spendere 800 milioni, le altre circa 480. Merito, probabilmente, del dibattito sulla riattribuzione dei fondi: come se si fosse scatenata la paura che lo Stato dirottasse altrove quel denaro (ciò che naturalmente non si può fare).
NIKI VENDOLA
E quella paura deve essersi scatenata soprattutto nelle regioni del Sud, visto che la Ragioneria sottolinea che è in queste che si è registrata l'impennata più significativa.
Scendendo nel dettaglio delle regioni, la maglia nera va alla Campania: su un contributo totale di un miliardo e 118 milioni ne ha pagati appena 26 (2,27%) e impegnati 74 (6,8%). Andamento lentissimo anche per la Sicilia: con una spesa pari al 3,7% e impegni per il 2,3. Su due miliardi di contributi sono stati usati meno di 130 milioni. Numeri che, dice la Ragioneria, mettono in evidenza «gravi difficoltà amministrative».
LUIS DURNWALDER
La dinamica della spesa è rimasta fiacca per tutto il 2010, registrando un timido miglioramento sul finire dell'anno. Al capo opposto della classifica le autonomie: la provincia di Trento e Bolzano e la Valle d'Aosta. La prima ha speso il 23% e impegnato il 59%, la seconda ha speso il 17 e impegnato il 35%, la Valle d'Aosta ha impegnato il 37% e speso il 28, primo posto assoluto.
In Europa il caso Italia non è passato inosservato. Nello scorso aprile ha inviato il commissario per le politiche regionali Johannes Hahn in tournée tra Sicilia, Puglia e Campania. «I fondi comunitari vanno spesi nei tempi stabiliti seguendo una strategia e non messi da parte pensando di poterli spendere tutti insieme, altrimenti si perdono», ha spiegato Hahn. Le tre regioni, da sole, rischiano di perdere 2 miliardi entro quest'anno, aveva chiosato il ministro dei rapporti regionali Raffaele Fitto, che accompagnava Hahn. Il tutto si è concluso con una serie di promesse e di impegni reicproci. Poi poco s'è mosso fino alla strigliata tremontiana di ieri: l'Italia aspetta che le crescano i denti.
by dagospia
domenica 15 maggio 2011
MORATTI, COLTELLATE TRA COGNATE - MILLY, CANDIDATA PER PISAPIA, OFFRE AL “FATTO” PIOMBO FRESCO PER IMPALLINARE MESTIZIA - “È CONSIGLIATA DA UN APPARATO CHE USA IL METODO BOFFO” - “IL SUO PIANO URBANISTICO FA GLI INTERESSI DEGLI IMMOBILIARISTI E DEI FINANZIERI INVECE CHE QUELLO DEI CITTADINI” - SCUDISCIATA FINALE SULLA BAT-CASA DEL NIPOTINO GABRIELE: “ESISTONO REGOLE E VANNO RISPETTATE. SE NON LO SAPEVA LUI, AVREBBE DOVUTO CONOSCERLE ALMENO SUA MADRE”...
Beatrice Borromeo per "il Fatto quotidiano"
MILLY MORATTI
"Mia cognata Letizia è consigliata da un apparato che usa sistematicamente il metodo Boffo": per Milly Moratti l'accusa (falsa) di furto d'auto che il sindaco uscente di Milano ha mosso ieri contro il candidato di centrosinistra Giuliano Pisapia, nel faccia a faccia in onda su Sky, è "una furbizia inaccettabile". Sia perché "ha scelto l'ultimo minuto, quando sapeva che il suo avversario non poteva più replicare", sia perché "Pisapia è stato assolto in appello per non aver commesso il fatto".
Milly Moratti, lei è cognata del sindaco e candidata con Pisapia. Solo normali schermaglie da vigilia del voto?
Io ero presente negli studi di Sky, e ho assistito al momento in cui Letizia ha fatto quella che ritengo essere una cosa gravissima, di cui dovrà assumersi le responsabilità.
Ma c'è dietro una strategia politica o sua cognata ha semplicemente sbagliato?
Penso sia stata informata male, ma l'incuria non è una giustificazione. Letizia è in linea con il comportamento di Silvio Berlusconi. Cambia la realtà a suo piacere. C'è un golpe sull'informazione: un tempo si censurava, oggi si stravolge la verità con una scorrettezza che spesso, e soprattutto in questo caso, è lampante.
PISAPIA-CARELLI-MORATTI
Sarà un boomerang o getterà comunque ombre su Pisapia?
Siamo tutti stufi di queste bugie: sono convinta che la gente si indignerà e voterà di conseguenza.
Eppure proprio la Moratti - l'altra - aveva invocato un minimo di etica contro il proprio candidato Lassini, quello che sui muri paragonava i giudici alle Br.
Infatti l'incoerenza è pazzesca e non dovremmo rassegnarci a questa ipocrisia continua. Lassini è andato da uno pseudo- notaio promettendo che, se eletto, si sarebbe dimesso. Ma se l'è già rimangiato, affermando che il voto popolare conta più di tutto. E il sindaco ora tace.
Secondo il segretario Pd Bersani quello della Moratti è stato un atto di disperazione. É d'accordo?
Di certo è sintomo della sua fragilità. E dell'influenza che possono avere gli altri su di lei.
In un'intervista l'ha definita "ostaggio delle lobby e di Formigoni".
E lo ribadisco: basti guardare al suo piano urbanistico, che io chiamo "sregolatore", per capire che fa gli interessi degli immobiliaristi e dei finanzieri invece che quello dei cittadini.
A Milano si andrà al ballottaggio?
Intende se vinciamo subito? La scorsa volta Letizia è passata con il 51,9 per cento dei voti, e non c'erano ancora la crisi economica e il bunga bunga.
FRATELLI MORATTI
"Il Giornale" ieri l'ha attaccata scrivendo che lei usa l'Inter, la squadra di cui è presidente suo marito, per fare campagna elettorale.
Mi sorprendono: non sono candidato sindaco, eppure mi dedicano paginate. Penso sia dovuto al fatto che sono esplicita e quindi pericolosa. Do fastidio. Ma non ho ancora letto nulla: mi hanno riferito però che sono articoli conditi di volgarità.
Il ministro La Russa dice che lei è "ambigua" perché appare nella campagna abbonamenti dell'Inter.
Il fatto è che io sono tutto questo: direttore strategico dell'Inter, candidata per Pisapia, moglie di Massimo Moratti. E ne vado orgogliosa. In più non sopportavo che ci fossero tutti quei manifesti milanisti dopo lo scudetto, dato che noi abbiamo vinto il Mondiale per club.
LA BATCASA DI GABRIELE MORATTI
La Russa sostiene anche che le donne di sinistra siano brutte.
Mi offende molto. Noi siamo bellissime, anche perché siamo serene. Abbiamo la gioia che faceva belle le ragazze del ‘68. Il coraggio della fantasia.
Berlusconi ha anche un problema di olfatto, dice che puzzano.
Ma ci rendiamo conto? È una follia. Peccato che invece di essere un signore che parla al bar è il nostro premier.
GABRIELE MORATTI MEDIUM
Perché una donna come lei, della più alta borghesia milanese, sceglie di appoggiare un candidato vendoliano?
E non solo io: l'altro ieri mio marito Massimo, al teatro Smeraldo, dopo un duetto con Vecchioni ha fatto una dichiarazione pubblica a favore del cambiamento nell'amministrazione comunale.
LARUSSA FOTO GMT
Pure Massimo Moratti vota Pisapia?
Chi ha la fortuna di essere protagonista delle decisioni economiche di questo Paese ha tutto l'interesse nel cambiare le cose: l'immoralità di Berlusconi si riflette anche sulla gestione della crisi economica.
In campagna elettorale denuncerà lo scandalo dell'abuso edilizio di suo nipote Gabriele, con la bat-casa?
Io gli voglio un gran bene. Ma esistono regole, almeno finché il piano "sregolatore" della Moratti non entrerà in vigore. E vanno rispettate. Se non lo sapeva lui, avrebbe dovuto conoscerle almeno sua madre.
MILLY MORATTI
"Mia cognata Letizia è consigliata da un apparato che usa sistematicamente il metodo Boffo": per Milly Moratti l'accusa (falsa) di furto d'auto che il sindaco uscente di Milano ha mosso ieri contro il candidato di centrosinistra Giuliano Pisapia, nel faccia a faccia in onda su Sky, è "una furbizia inaccettabile". Sia perché "ha scelto l'ultimo minuto, quando sapeva che il suo avversario non poteva più replicare", sia perché "Pisapia è stato assolto in appello per non aver commesso il fatto".
Milly Moratti, lei è cognata del sindaco e candidata con Pisapia. Solo normali schermaglie da vigilia del voto?
Io ero presente negli studi di Sky, e ho assistito al momento in cui Letizia ha fatto quella che ritengo essere una cosa gravissima, di cui dovrà assumersi le responsabilità.
Ma c'è dietro una strategia politica o sua cognata ha semplicemente sbagliato?
Penso sia stata informata male, ma l'incuria non è una giustificazione. Letizia è in linea con il comportamento di Silvio Berlusconi. Cambia la realtà a suo piacere. C'è un golpe sull'informazione: un tempo si censurava, oggi si stravolge la verità con una scorrettezza che spesso, e soprattutto in questo caso, è lampante.
PISAPIA-CARELLI-MORATTI
Sarà un boomerang o getterà comunque ombre su Pisapia?
Siamo tutti stufi di queste bugie: sono convinta che la gente si indignerà e voterà di conseguenza.
Eppure proprio la Moratti - l'altra - aveva invocato un minimo di etica contro il proprio candidato Lassini, quello che sui muri paragonava i giudici alle Br.
Infatti l'incoerenza è pazzesca e non dovremmo rassegnarci a questa ipocrisia continua. Lassini è andato da uno pseudo- notaio promettendo che, se eletto, si sarebbe dimesso. Ma se l'è già rimangiato, affermando che il voto popolare conta più di tutto. E il sindaco ora tace.
Secondo il segretario Pd Bersani quello della Moratti è stato un atto di disperazione. É d'accordo?
Di certo è sintomo della sua fragilità. E dell'influenza che possono avere gli altri su di lei.
In un'intervista l'ha definita "ostaggio delle lobby e di Formigoni".
E lo ribadisco: basti guardare al suo piano urbanistico, che io chiamo "sregolatore", per capire che fa gli interessi degli immobiliaristi e dei finanzieri invece che quello dei cittadini.
A Milano si andrà al ballottaggio?
Intende se vinciamo subito? La scorsa volta Letizia è passata con il 51,9 per cento dei voti, e non c'erano ancora la crisi economica e il bunga bunga.
FRATELLI MORATTI
"Il Giornale" ieri l'ha attaccata scrivendo che lei usa l'Inter, la squadra di cui è presidente suo marito, per fare campagna elettorale.
Mi sorprendono: non sono candidato sindaco, eppure mi dedicano paginate. Penso sia dovuto al fatto che sono esplicita e quindi pericolosa. Do fastidio. Ma non ho ancora letto nulla: mi hanno riferito però che sono articoli conditi di volgarità.
Il ministro La Russa dice che lei è "ambigua" perché appare nella campagna abbonamenti dell'Inter.
Il fatto è che io sono tutto questo: direttore strategico dell'Inter, candidata per Pisapia, moglie di Massimo Moratti. E ne vado orgogliosa. In più non sopportavo che ci fossero tutti quei manifesti milanisti dopo lo scudetto, dato che noi abbiamo vinto il Mondiale per club.
LA BATCASA DI GABRIELE MORATTI
La Russa sostiene anche che le donne di sinistra siano brutte.
Mi offende molto. Noi siamo bellissime, anche perché siamo serene. Abbiamo la gioia che faceva belle le ragazze del ‘68. Il coraggio della fantasia.
Berlusconi ha anche un problema di olfatto, dice che puzzano.
Ma ci rendiamo conto? È una follia. Peccato che invece di essere un signore che parla al bar è il nostro premier.
GABRIELE MORATTI MEDIUM
Perché una donna come lei, della più alta borghesia milanese, sceglie di appoggiare un candidato vendoliano?
E non solo io: l'altro ieri mio marito Massimo, al teatro Smeraldo, dopo un duetto con Vecchioni ha fatto una dichiarazione pubblica a favore del cambiamento nell'amministrazione comunale.
LARUSSA FOTO GMT
Pure Massimo Moratti vota Pisapia?
Chi ha la fortuna di essere protagonista delle decisioni economiche di questo Paese ha tutto l'interesse nel cambiare le cose: l'immoralità di Berlusconi si riflette anche sulla gestione della crisi economica.
In campagna elettorale denuncerà lo scandalo dell'abuso edilizio di suo nipote Gabriele, con la bat-casa?
Io gli voglio un gran bene. Ma esistono regole, almeno finché il piano "sregolatore" della Moratti non entrerà in vigore. E vanno rispettate. Se non lo sapeva lui, avrebbe dovuto conoscerle almeno sua madre.
ALI AGCA NON ERA SOLO, E HO LE PROVE - ILARIO MARTELLA, IL GIUDICE CHE ISTRUÌ IL PROCESSO SULL’ATTENTATO A PAPA WOJTYLA È SICURO: “A SPARARE AL PONTEFICE, IL 13 MAGGIO DI 30 ANNI FA, FURONO IN DUE” -“C’È ANCHE LA FOTO DI UN GIOVANE DI SPALLE CHE IMPUGNA UNA PISTOLA E SI DÀ ALLA FUGA” - IL RAMMARICO PER LA SCELTA DEL VATICANO DI NON CONSEGNARE LA TERZA PALLOTTOLA E USARLA COME RELIQUIA - “LA PISTA PIÙ REALISTICA RESTA QUELLA BULGARA”…
Adnkronos - A sparare a papa Wojtyla in piazza San Pietro, il 13 maggio di trenta anni fa, furono in due. E' la convinzione di Ilario Martella, il giudice che istrui' il processo per l'attentato al papa polacco, secondo cui a sparare non fu il solo Alì Agca.
Quindici testimoni - racconta Martella all'Adnkronos - raccontarono che gli spari in piazza San Pietro furono tre. E' accertato che dalla pistola di Agca partirono solo due colpi. Sette testimoni dissero di avere udito soltanto due spari. Credo ai quindici e dico che non c'e' dubbio che gli spari furono tre".
1 ATTENTATO GIO PAOLOII
Due colpi partirono dalla pistola di Ali Agca e ferirono Giovanni Paolo II all'addome e alla mano. Il terzo? "Agca dichiarò inizialmente di aver agito da solo, nella piazza gremita di fedeli, ma tutto fa ritenere che vi fosse un complice che si dileguò tra la folla", spiega Martella che alla tesi ha dedicato anche il volume "13 maggio 1981: tre spari contro il Papa" (edito da Ponte alle Grazie).
ALI AGCA
C'è un ulteriore elemento che rende forte della convinzione l'allora giudice istruttore del processo all'attentato a Giovanni Paolo II. Una fotografia scattata da un giornalista americano che il 13 maggio 1981 si trovava in piazza San Pietro nel momento dell'attentato. "La fotografia, di cui siamo in possesso, - spiega Ilario Martella - ritrae un giovane di spalle che impugna una pistola e si dà alla fuga dopo gli spari. Anche questo mi sembra un elemento di non poco conto".
ILARIO MARTELLA
Alla fine del primo processo, nel luglio dello stesso anno, Agca venne condannato all'ergastolo ma tanti interrogativi rimasero aperti. Nel mese di novembre ebbe inizio una delle inchieste più difficili e oscure. A condurla fu appunto il giudice istruttore Ilario Martella che riferisce le sue convinzioni: "Si trattò di un complotto internazionale per assassinare un Pontefice scomodo per gli equilibri già precari d'Europa".
Un importante corpo del reato, poi, si rammarica ancora il magistrato a distanza di tanto tempo, e' dato dalla pallottola che fini' nella papamobile: "Purtroppo - dice il magistrato - ci venne tolta, utilizzata come reliquia e inviata a Fatima (si tratta della pallottola che venne incastonata nella corona posta sulla testa della Madonna). Quando si venne a sapere di questa pallottola, l'inchiesta era chiusa. Disponendone, avrei potuto ricostruire esattamente la dinamica degli spari". A modo di vedere del magistrato, la pista "piu' realistica resta quella bulgara. Sul fatto che si sia trattato di un complotto, nessuno ha piu' dubbi".
by dagospia
Quindici testimoni - racconta Martella all'Adnkronos - raccontarono che gli spari in piazza San Pietro furono tre. E' accertato che dalla pistola di Agca partirono solo due colpi. Sette testimoni dissero di avere udito soltanto due spari. Credo ai quindici e dico che non c'e' dubbio che gli spari furono tre".
1 ATTENTATO GIO PAOLOII
Due colpi partirono dalla pistola di Ali Agca e ferirono Giovanni Paolo II all'addome e alla mano. Il terzo? "Agca dichiarò inizialmente di aver agito da solo, nella piazza gremita di fedeli, ma tutto fa ritenere che vi fosse un complice che si dileguò tra la folla", spiega Martella che alla tesi ha dedicato anche il volume "13 maggio 1981: tre spari contro il Papa" (edito da Ponte alle Grazie).
ALI AGCA
C'è un ulteriore elemento che rende forte della convinzione l'allora giudice istruttore del processo all'attentato a Giovanni Paolo II. Una fotografia scattata da un giornalista americano che il 13 maggio 1981 si trovava in piazza San Pietro nel momento dell'attentato. "La fotografia, di cui siamo in possesso, - spiega Ilario Martella - ritrae un giovane di spalle che impugna una pistola e si dà alla fuga dopo gli spari. Anche questo mi sembra un elemento di non poco conto".
ILARIO MARTELLA
Alla fine del primo processo, nel luglio dello stesso anno, Agca venne condannato all'ergastolo ma tanti interrogativi rimasero aperti. Nel mese di novembre ebbe inizio una delle inchieste più difficili e oscure. A condurla fu appunto il giudice istruttore Ilario Martella che riferisce le sue convinzioni: "Si trattò di un complotto internazionale per assassinare un Pontefice scomodo per gli equilibri già precari d'Europa".
Un importante corpo del reato, poi, si rammarica ancora il magistrato a distanza di tanto tempo, e' dato dalla pallottola che fini' nella papamobile: "Purtroppo - dice il magistrato - ci venne tolta, utilizzata come reliquia e inviata a Fatima (si tratta della pallottola che venne incastonata nella corona posta sulla testa della Madonna). Quando si venne a sapere di questa pallottola, l'inchiesta era chiusa. Disponendone, avrei potuto ricostruire esattamente la dinamica degli spari". A modo di vedere del magistrato, la pista "piu' realistica resta quella bulgara. Sul fatto che si sia trattato di un complotto, nessuno ha piu' dubbi".
by dagospia
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE IL LATTICINO - NELLA NOTTE DEL 21 MARZO, LACTALIS SOFFIÒ LE QUOTE PARMALAT A BANCA INTESA SUL FILO DI LANA, OFFRENDO 750 MLN € AI FONDI DI INVESTIMENTO - SECONDO I PM, IL MANAGER DI INTESA FABIO CANÈ AVREBBE RIVELATO IL PREZZO CHE LA BANCA STAVA PER OFFRIRE ALLA MOGLIE PATRIZIA MICUCCI, CONSULENTE DEI FRANCESI - È IL PRIMO CASO IN CUI IL “PILLOW TALK”, LE CONFIDENZE FRA PARTNER, SONO AL CENTRO DI UN’INDAGINE PER INSIDER TRADING E AGGIOTAGGIO - CHISSÀ COME INFLUIRÀ NELLA VICENDA IL FATTO (MAI SMENTITO) CHE INTESA AVEVA ORIGINARIAMENTE LAVORATO COME ADVISOR DI LACTALIS?...
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE PARMALAT...
Vittorio Malagutti e Antonella Mascali per "il Fatto quotidiano"
CANE_FABIO
Perquisizioni a raffica e quattro indagati per aggiotaggio e insider trading. Fa un salto di qualità l'inchiesta della Procura di Milano sulla scalata a Parmalat e al centro dell'indagine ci sono due banchieri, Fabio Canè di Banca Intesa e Patrizia Micucci di Société Générale, marito e moglie. Il primo impegnato, almeno in teoria, per creare una cordata italiana che ostacolasse l'attacco dei francesi di Lactalis, avrebbe passato informazioni riservate alla consorte, che invece lavorava per il fronte opposto.
Risultato: nella notte del 21 marzo il gruppo transalpino è riuscito a battere Intesa proprio sul filo di lana aggiudicandosi con un'offerta da quasi 750 milioni il 15,23 per cento di Parmalat messo in vendita dai fondi d'investimento Mackenzie, Skagen e Zenit. Grazie a quell'operazione Lactalis ha così raggiunto il 29 per cento di Parmalat mettendo a segno un colpo decisivo nella battaglia per il controllo del gruppo di Collecchio.
PATRIZIA MICUCCI
Canè adesso è indagato per insider trading, cioè l'abuso di informazioni riservate, mentre la moglie è sospettata di aggiotaggio, ovvero la divulgazione di "notizie false, esagerate o tendenziose" in grado di influenzare il prezzo di un titolo. Il manager di Intesa, stretto collaboratore del direttore generale Gaetano Miccichè, "ha fornito informazioni - si legge nel decreto di perquisizione - non in possesso del pubblico la cui rivelazione al di fuori della sua funzione ha influito in modo determinante sull'esito dell'operazione".
Secondo la Procura le informazioni in merito al prezzo "che avrebbe offerto Intesa San Paolo sono state comunicate a Patrizia Micucci". È la prima volta che un caso di "pillow talking" (chiacchiere sul cuscino) finisce al centro di un'inchiesta giudiziaria nel mondo della finanza, anche se nelle settimane scorse da più parti era stata notata la singolare posizione della coppia Canè-Micucci, marito e moglie impegnati su fronti opposti.
EMMANUEL BESNIER
Entrambi hanno alle spalle brillanti carriere. In particolare Micucci, 51 anni, ha lavorato fino al 2007 alla banca americana Lehman (fallita nel 2008), partecipando a operazioni di grande rilievo come la scalata a Telecom di Roberto Colaninno e soci. Dopo una parentesi nel fondo Investindustrial è quindi approdata nel 2010 a SocGen. Nel mirino del'indagine affidata al sostituto procuratore Eugenio Fusco sono finiti altri due professionisti: il banchiere di lungo corso Carlo Salvatori, numero uno di Lazard in Italia impegnato come consulente di Lactalis, e Massimo Rossi, un manager candidato dai tre fondi come amministratore delegato di Parmalat al posto di Enrico Bondi.
La svolta giudiziaria arriva proprio alla vigilia di due appuntamenti decisivi in quella che ormai sta diventando la saga infinita del latte di Collecchio. Per oggi è infatti prevista la riunione del consiglio di amministrazione del gruppo emiliano che dovrà dare la propria valutazione sul prezzo (2,6 euro per azione) proposto dai francesi di Lactalis nell'Opa annunciata due settimane fa. Ed è atteso a giorni, forse già domani, anche il verdetto della Consob sul prospetto informativo depositato dal gruppo transalpino in vista dell'offerta pubblica in Borsa.
ENRICO BONDI
Ieri però a mettere a rumore il mondo finanziario è stata l'operazione condotta dal Nucleo valutario della Guardia di Finanza che ha perquisito le sedi di sei banche e società coinvolte a vario titolo nella vicenda Parmalat. Oltre a SocGen, Intesa e Lazard gli investigatori hanno bussato alla porta anche di Crédit Agricole, un'altra banca di riferimento di Lactalis, e di due società di pubbliche relazioni: Image Building ingaggiata dai francesi, e Brunswick, al servizio dei fondi d'investimento.
L'indagine è comunque solo ai primi passi e potrebbe riservare nuove clamorose sorprese. Al centro delle verifiche, su cui da settimane è impegnata anche la Consob, ci sono innanzitutto gli scambi in Borsa sul titolo Parmalat che dai 2 euro circa di metà gennaio è arrivato in marzo a sfiorare i 2,6 euro. Nel frattempo è successo di tutto.
Prima l'attacco dei fondi che hanno rastrellato sul mercato il 15 per cento dell'azienda di Collecchio.
CORRADO PASSERA
Gli stessi fondi che hanno dapprima presentato una lista di candidati per il rinnovo del consiglio di amministrazione di Parmalat. E poi hanno messo in vendita le loro quote dichiarando che avrebbero privilegiato un eventuale acquirente italiano. Intanto anche Intesa si dava un gran da fare.
La banca ha intavolato trattative con Lactalis per un'operazione congiunta, salvo cambiare rotta quando da Roma la coppia Giulio Tremonti - Gianni Letta ha messo in chiaro che sarebbe stata preferibile una soluzione italiana.
E così, nel nome dell'italianità, la banca guidata da Corrado Passera è arrivata molto vicina a chiudere l'accordo con i tre fondi per la loro quota. Allo sprint però l'ha spuntata Lactalis. Tutto in una notte. Salvo rischi di insider e aggiotaggi vari.
GIOVANNI BAZOLI
2 - PARMALAT RESTERÀ IN BORSA - GRANAROLO È FUORI CORDATA...
Da Dagospia del 22 aprile 2011:
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/articolo-24933.htm
Estratto dell'articolo di Antonella Olivieri per "Il Sole 24 Ore" del 21 aprile 2011
Prima che Lactalis iniziasse a rastrellare azioni sul mercato, c'erano stati contatti con Intesa-Sanpaolo, che avrebbe avuto il ruolo di advisor e finanziatore, per mettere a punto insieme un'offerta per Parmalat.
LACTALIS
Si era arrivati a stendere bozze contrattuali, tant'è che Lactalis aveva svelato alla controparte i suoi bilanci (che non sono pubblici) e il suo piano industriale. Poi, a sparigliare le carte, sarebbe intervenuta una telefonata del segretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che avrebbe comunicato all'ad di Intesa, Corrado Passera, la contrarietà del Governo a consegnare all'estero un altro marchio del made in Italy. Ed è cambiato il film.
by dagospia
Vittorio Malagutti e Antonella Mascali per "il Fatto quotidiano"
CANE_FABIO
Perquisizioni a raffica e quattro indagati per aggiotaggio e insider trading. Fa un salto di qualità l'inchiesta della Procura di Milano sulla scalata a Parmalat e al centro dell'indagine ci sono due banchieri, Fabio Canè di Banca Intesa e Patrizia Micucci di Société Générale, marito e moglie. Il primo impegnato, almeno in teoria, per creare una cordata italiana che ostacolasse l'attacco dei francesi di Lactalis, avrebbe passato informazioni riservate alla consorte, che invece lavorava per il fronte opposto.
Risultato: nella notte del 21 marzo il gruppo transalpino è riuscito a battere Intesa proprio sul filo di lana aggiudicandosi con un'offerta da quasi 750 milioni il 15,23 per cento di Parmalat messo in vendita dai fondi d'investimento Mackenzie, Skagen e Zenit. Grazie a quell'operazione Lactalis ha così raggiunto il 29 per cento di Parmalat mettendo a segno un colpo decisivo nella battaglia per il controllo del gruppo di Collecchio.
PATRIZIA MICUCCI
Canè adesso è indagato per insider trading, cioè l'abuso di informazioni riservate, mentre la moglie è sospettata di aggiotaggio, ovvero la divulgazione di "notizie false, esagerate o tendenziose" in grado di influenzare il prezzo di un titolo. Il manager di Intesa, stretto collaboratore del direttore generale Gaetano Miccichè, "ha fornito informazioni - si legge nel decreto di perquisizione - non in possesso del pubblico la cui rivelazione al di fuori della sua funzione ha influito in modo determinante sull'esito dell'operazione".
Secondo la Procura le informazioni in merito al prezzo "che avrebbe offerto Intesa San Paolo sono state comunicate a Patrizia Micucci". È la prima volta che un caso di "pillow talking" (chiacchiere sul cuscino) finisce al centro di un'inchiesta giudiziaria nel mondo della finanza, anche se nelle settimane scorse da più parti era stata notata la singolare posizione della coppia Canè-Micucci, marito e moglie impegnati su fronti opposti.
EMMANUEL BESNIER
Entrambi hanno alle spalle brillanti carriere. In particolare Micucci, 51 anni, ha lavorato fino al 2007 alla banca americana Lehman (fallita nel 2008), partecipando a operazioni di grande rilievo come la scalata a Telecom di Roberto Colaninno e soci. Dopo una parentesi nel fondo Investindustrial è quindi approdata nel 2010 a SocGen. Nel mirino del'indagine affidata al sostituto procuratore Eugenio Fusco sono finiti altri due professionisti: il banchiere di lungo corso Carlo Salvatori, numero uno di Lazard in Italia impegnato come consulente di Lactalis, e Massimo Rossi, un manager candidato dai tre fondi come amministratore delegato di Parmalat al posto di Enrico Bondi.
La svolta giudiziaria arriva proprio alla vigilia di due appuntamenti decisivi in quella che ormai sta diventando la saga infinita del latte di Collecchio. Per oggi è infatti prevista la riunione del consiglio di amministrazione del gruppo emiliano che dovrà dare la propria valutazione sul prezzo (2,6 euro per azione) proposto dai francesi di Lactalis nell'Opa annunciata due settimane fa. Ed è atteso a giorni, forse già domani, anche il verdetto della Consob sul prospetto informativo depositato dal gruppo transalpino in vista dell'offerta pubblica in Borsa.
ENRICO BONDI
Ieri però a mettere a rumore il mondo finanziario è stata l'operazione condotta dal Nucleo valutario della Guardia di Finanza che ha perquisito le sedi di sei banche e società coinvolte a vario titolo nella vicenda Parmalat. Oltre a SocGen, Intesa e Lazard gli investigatori hanno bussato alla porta anche di Crédit Agricole, un'altra banca di riferimento di Lactalis, e di due società di pubbliche relazioni: Image Building ingaggiata dai francesi, e Brunswick, al servizio dei fondi d'investimento.
L'indagine è comunque solo ai primi passi e potrebbe riservare nuove clamorose sorprese. Al centro delle verifiche, su cui da settimane è impegnata anche la Consob, ci sono innanzitutto gli scambi in Borsa sul titolo Parmalat che dai 2 euro circa di metà gennaio è arrivato in marzo a sfiorare i 2,6 euro. Nel frattempo è successo di tutto.
Prima l'attacco dei fondi che hanno rastrellato sul mercato il 15 per cento dell'azienda di Collecchio.
CORRADO PASSERA
Gli stessi fondi che hanno dapprima presentato una lista di candidati per il rinnovo del consiglio di amministrazione di Parmalat. E poi hanno messo in vendita le loro quote dichiarando che avrebbero privilegiato un eventuale acquirente italiano. Intanto anche Intesa si dava un gran da fare.
La banca ha intavolato trattative con Lactalis per un'operazione congiunta, salvo cambiare rotta quando da Roma la coppia Giulio Tremonti - Gianni Letta ha messo in chiaro che sarebbe stata preferibile una soluzione italiana.
E così, nel nome dell'italianità, la banca guidata da Corrado Passera è arrivata molto vicina a chiudere l'accordo con i tre fondi per la loro quota. Allo sprint però l'ha spuntata Lactalis. Tutto in una notte. Salvo rischi di insider e aggiotaggi vari.
GIOVANNI BAZOLI
2 - PARMALAT RESTERÀ IN BORSA - GRANAROLO È FUORI CORDATA...
Da Dagospia del 22 aprile 2011:
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/articolo-24933.htm
Estratto dell'articolo di Antonella Olivieri per "Il Sole 24 Ore" del 21 aprile 2011
Prima che Lactalis iniziasse a rastrellare azioni sul mercato, c'erano stati contatti con Intesa-Sanpaolo, che avrebbe avuto il ruolo di advisor e finanziatore, per mettere a punto insieme un'offerta per Parmalat.
LACTALIS
Si era arrivati a stendere bozze contrattuali, tant'è che Lactalis aveva svelato alla controparte i suoi bilanci (che non sono pubblici) e il suo piano industriale. Poi, a sparigliare le carte, sarebbe intervenuta una telefonata del segretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, che avrebbe comunicato all'ad di Intesa, Corrado Passera, la contrarietà del Governo a consegnare all'estero un altro marchio del made in Italy. Ed è cambiato il film.
by dagospia
DOPO-MARCEGAGLIA! LA LOBBYCONTINUA MONTEZEMOLO-DELLA VALLE-ABETE LANCIA SUL "CORRIERE", ATTRAVERSO LO SFRENATO BOMBASSEI, LA CANDIDATURA DI GIANFELICE ROCCA (AURELIO REGINA NON SFONDA AL NORD E PUÒ ANDARE BENE COME VICE) - 2- DOPO-DRAGHI! BERLUSCONI LA DARÀ VINTA A TREMONTI (VITTORIO GRILLI) O ASCOLTERÀ IL SUGGERIMENTO DI GERONZI (SACCOMANNI)? DOPO L’ESITO DEL VOTO, LO SAPREMO - 3- DOPO-PONZELLINI! GIORNI CONTATI ALLA BPM: SAVIOTTI BRIGA PER AVERE AL SUO POSTO IL SUO ANTICO COMPAGNO DEL FONDO EQUINOX, IL MITOLOGICO SALVATORE MANCUSO - 4- DOPO-GUARGUAGLINI! GIUSEPPE ORSI VOLA NEGLI STATI UNITI PER ACCREDITARSI ALLA CASA BIANCA E MAGARI VENDERE QUALCHE ELICOTTERO (TOCI, NUOVO ASSISTENTE) -
DOPO-MARCEGAGLIA: LA LOBBYCONTINUA MONTEZEMOLO-DELLA VALLE-ABETE LANCIA SUL "CORRIERE", ATTRAVERSO IL FIDO BOMBASSEI, GIANFELICE ROCCA (AURELIO REGINA NON SFONDA AL NORD E PUÒ ANDARE BENE COME VICE)
Chi lunedì sera a Roma ha avuto occasione di passare nel Villaggio Vip degli Internazionali di tennis è rimasto colpito dal fitto colloquio tra Luigino Abete e Aurelio Regina, l'inquieto presidente degli Industriali romani.
Al loro tavolo erano sedute tre signore molto carine che non hanno avuto il coraggio di interrompere la serrata conversazione che il banchiere e l'imprenditore stavano facendo all'indomani dell'Assise di Bergamo di Confindustria. Mentre Luigino sudava per colpa dei potenti riflettori che illuminavano le scritte della BNL (sponsor del tennis), Regina che ormai gli amici chiamano "Gattobaleno", aveva l'aria mesta e preoccupata.
GIANFELICE ROCCA
È probabile che a intristire l'imprenditore del Sigaro Toscano sia stato il messaggio con il quale Abete ha comunicato che la partita per la presidenza di Confindustria è già stata risolta. Sembra infatti che dopo il modesto intervento di sei minuti di Regina all'Assise di Bergamo, i big degli imprenditori si siano convinti che l'uomo non ha la statura per raccogliere l'eredità della Marcegaglia, soprattutto al nord.
BOMBASSEI
La conferma arriva oggi in maniera clamorosa da Alberto Bombassei, l'industriale vicentino della Brembo che a Bergamo ha fatto gli onori di casa e ha raccolto un referendum quasi unanime sul nome di Gianfelice Rocca, l'imprenditore che nell'organigramma di viale dell'Astronomia occupa la carica di vicepresidente per l'Education.
L'annuncio di Bombassei, che all'età di 71 anni si trova senza eredi in grado di mandare avanti la sua azienda dei freni, è un'autoesclusione dalla rosa dei candidati nella quale fino a poche settimane fa si ritrovava insieme a Giorgio Squinzi e al povero Regina. A questo punto la strada sembra spianata per Rocca, un milanese laureato in fisica che insieme alla sua famiglia è riuscito a costruire la Techint, il maggior produttore d'acciaio dell'America Latina e uno dei primi 30 al mondo.
MONTEZEMOLO DELLAVALLE
"Ci vuole sangue nuovo - dice Bombassei nell'intervista al "Corriere della Sera" - e Rocca è un galantuomo che rappresenta una storia imprenditoriale familiare di assoluta eccellenza, ha l'età giusta (63 anni), è saggio, conosce bene il sistema confindustriale e il lavoro di squadra".
Anche la sua designazione sembra frutto di un lavoro di squadra nel quale convergono oltre alla stima raccolta in salotti importanti come la Commissione Trilateral e l'Aspen Institute, anche i consensi degli elettori forti del Nord-Est. Nessuno ha mai dubitato che la partita di Confindustria si giochi in quell'area geoeconomica che è sempre stata determinante nelle scelte confindustriali, e l'Associazione degli imprenditori ha bisogno che dopo la ferita di Marpionne arrivi il leader di un mondo manifatturiero che guida una multinazionale italiana. In questo modo nessuno potrà dire che la Marcegaglia passerà la mano a una delle tante aziende pubbliche o straniere che negli ultimi tempi hanno guadagnato grande spazio dentro Confindustria.
DRAGHI
L'unico che non sembra aver capito nulla di questi movimenti è Gattobaleno-Regina che fino a sabato scorso si illudeva di avere dalla sua la lobbycontinua di Montezemolo, Dieguito Della Valle e Luigino Abete. A tradire le sue aspirazioni sono stati anche loro, i tre compagni di merenda convinti di poter pilotare il galantuomo Rocca, ed è toccato a Luigino spiegare a Gattobaleno che dovrà rimanere a bordo campo per almeno cinque anni accontentandosi di fare il numero 2.
ANGELA MERKEL
2 - DOPO-DRAGHI: BERLUSCONI DARÀ RETTA AL CANDIDATO DI TREMONTI (VITTORIO GRILLI) O ASCOLTERÀ IL SUGGERIMENTO DI DI GERONZI (SACCOMANNI)?
Dopo le dichiarazioni della massaia di Berlino Angela Merkel in favore di Draghi, si sentono già i primi squilli di tromba suonati da chi vorrebbe attribuirsi il merito della nomina.
Mentre alcuni osservatori come l'economista Mario Deaglio si sforzano di capire la mole dei problemi che il Governatore dovrà affrontare dal 1° novembre a Francoforte, altri come ad esempio Massimo Giannini su "Repubblica" si tolgono il cappello di fronte al "miracolo dovuto al buon lavoro fatto da Giulio Tremonti, l'unico ministro che al di là dei suoi clamorosi limiti nella gestione della politica economica interna, gode di una qualche fiducia sulla scena europea".
DA SINISTRA CARLO BALDOCCI GIULIO TREMONTI E VITTORIO GRILLI
Forse sarebbe il caso di ricordare allo smemorando giornalista le parole che Giulietto pronunciò al convegno di Cernobbio di settembre: "dire che bisogna fare come la Germania è superficiale, è roba da bambini". Il giorno prima Draghi aveva indicato nel modello tedesco la strategia per ritrovare la strada dell'Italia, e l'aveva fatto con lungimiranza ignorando la definizione che in un altro momento Tremonti aveva dato dei banchieri centrali come "topi a guardia del formaggio".
Adesso diventa un gioco facile esaltare le virtù del 64enne romano che fin da quando studiava al liceo Massimo di Roma era il primo a consegnare i compiti e li passava ai compagni di classe Montezemolo e Abete. Se dio vuole la designazione di quest'uomo metterà la parola fine alla fastidiosa dialettica tra via Nazionale e via XX Settembre, una polemica mai sopita che ha visto il Governatore e il ministro esprimere visioni diverse, viaggiare su aerei separati e dormire in alberghi differenti quando dovevano raggiungere Washington.
BINI SMAGHI
E oggi, proprio dall'America, arriva la benedizione del "Wall Street Journal" che assicura in questo modo i lettori: Draghi non sarà influenzato dalle istanze italiane perché secondo i colleghi della BCE lo scorso mese è stato uno dei maggiori fautori del rialzo dei tassi anche se l'Italia era uno dei paesi a pagarne le conseguenze maggiori.
Nella torre di acciaio e di vetro di Francoforte Draghi potrà dimenticare le polemiche miserande e invece di perdere tempo dietro gli sgomitamenti di Corradino Passera e di Ponzellini dovrà affrontare i dossier caldi che si chiamano inflazione, Grecia, Irlanda e Portogallo.
MARIO MONTI
Ai piani alti di via Nazionale i suoi collaboratori esultano per il successo del "tedesco" super Mario e si chiedono chi sarà il successore. E qui si riapre l'ultimo capitolo dell'annoso braccio di ferro tra il Governatore uscente e il governo tremolante. Nella storia della Banca d'Italia solo due governatori, Einaudi e Draghi, non sono stati espressi dalla casta di via Nazionale, ma tutti sanno che Giulietto Tremonti farà fuoco e fiamme pur di piazzare il pallido Vittorio Grilli. Poi c'è qualcuno che aggiunge i nomi del mediceo Lorenzo Bini Smaghi e di Mario Monti, l'altro superMario che muore dalla voglia di ritornare nel gotha della finanza.
CESARE GERONZI
Sarà una battaglia durissima che dipenderà molto dall'esito delle prossime amministrative. Se il Cavaliere uscirà indenne nonostante gli incidenti di percorso organizzati scientificamente dal tandem Santanchè-Sallusti, sarà lui a sciogliere il dilemma. Alle spalle avrà un suggeritore un po' ammaccato come Cesarone Geronzi che alla Banca d'Italia ha trascorso decenni e in maniera improvvida è stato indicato addirittura come futuro ministro del Tesoro. Non bisogna dimenticare infatti che il Leone ferito di Marino è stato determinante nel 2006 per portare Draghi a via Nazionale, e molti ricordano che in segno di gratitudine il neo-Governatore arrivò a piedi e senza cappotto negli uffici di Capitalia per ringraziare il grande elettore.
FABRIZIO SACCOMANNI
Il copione potrebbe ripetersi e allora Giulietto dovrebbe accontentarsi di aver messo Vegas alla Consob e lasciare il passo a Fabrizio Saccomanni, l'attuale direttore generale di Bankitalia.
3 - GIORNI CONTATI PER PONZELLINI ALLA BPM: SAVIOTTI VUOLE AL SUO POSTO IL SUO VECCHIO COMPAGNO DEL FONDO EQUINOX, IL MITOLOGICO SALVATORE MANCUSO
Oggi è un'altra giornata di passione per Massimo Ponzellini, il massiccio banchiere bolognese che non vede l'ora di tagliare la corda dalla Banca Popolare di Milano.
LINGUA BIFORCUTA MASSIMO PONZELLINI
Ormai gli scontri con i sindacati che dentro quell'Istituto hanno voce in capitolo sono arrivati a rendere plausibile l'ipotesi che l'ex-assistente di Prodi tagli la corda in tempi rapidi. Dopo aver sostituito il direttore generale Fiorenzo Dalu con Enzo Chiesa, il povero (si fa per dire) Ponzellini sta cercando di arrivare all'Assemblea del 25 giugno con il consenso intorno all'aumento di capitale e al progetto di Banca Unica che dovrebbe riunire le diverse casse e banchette dentro la Popolare.
Secondo il quotidiano "MF" l'aumento di capitale da 1,2 miliardi, più volte invocato dalla Banca d'Italia, potrebbe essere sottoscritto anche da Matteuccio Arpe che con Banca Profilo rileverebbe una quota intorno al 2%, mettendo così un piedino che fa pensare a una sua scalata al posto di Ponzellini.
PIER FRANCESCO SAVIOTTI
In realtà a Dagospia risulta che al posto del massiccio bolognese stia per arrivare, per la gioia Pierfrancesco Saviotti, amministratore delegato del Banco Popolare, un furbo siciliano dai capelli grigi, dotato di grande charme e noto negli ambienti della finanza: Salvatore Mancuso, l'uomo che nel 2000 ha fondato il fondo Equinox (con Saviotti) in Lussemburgo, e negli anni successivi ha messo i piedi dentro Capitalia fino a diventare nel maggio 2007 presidente del Banco di Sicilia. Poi è entrato in contrasto violento con Alessandro Profumo ed è uscito da Unicredit nel 2008 lasciando il posto all'industriale di Siracusa, Ivan Lo Bello.
SALVATORE MANCUSO
Oltre ad aver ricoperto la carica di vicepresidente di Alitalia, Mancuso, nato nel '49 a Sant'Agata di Militello, ha alimentato le cronache per il suo fastoso matrimonio festeggiato con enormi banchetti a Parigi, Milano e in Sicilia, e per una presunta love story con l'attrice Valeria Marini. Nessuno dubita della sua capacità manovriera che ha ereditato dal padre, notabile socialista nel suo paese d'origine e impiegato alla Cassa di Risparmio di Messina.
GIUSEPPE ORSI
A Ponzellini l'ipotesi di andarsene dalla banca dove prima di lui il democristiano Roberto Mazzotta ha lasciato le penne, non dispiace affatto tanto più che la Lega sembra aver allentato i freni della passione nei suoi confronti.
4 - ORSI SULLE ORME DI GUARGUAGLINI: VOLA NEGLI STATI UNITI PER ACCREDITARSI ALLA CASA BIANCA E MAGARI VENDERE QUALCHE ELICOTTERO (NUOVO ASSISTENTE, ALESSANDRO TOCI)
Avviso ai naviganti: "Si avvisano i signori naviganti che il nuovo amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, è in partenza per l'America.
GUARGUAGLINI VOLA VOLA FOTO MEZZELANI GMT
L'obiettivo del manager è di presentarsi nella nuova veste negli ambienti dove si stanno giocando le grandi partite della difesa e degli elicotteri per la Casa Bianca. Nel frattempo da piazza Monte Grappa trapela la notizia che Orsi avrebbe preso come suo assistente Alessandro Toci, un manager amicissimo di Mastella che ha fatto parte dello staff di Aberto Lina, l'uomo che nel 1996 è stato alla guida di Finmeccanica".
Chi lunedì sera a Roma ha avuto occasione di passare nel Villaggio Vip degli Internazionali di tennis è rimasto colpito dal fitto colloquio tra Luigino Abete e Aurelio Regina, l'inquieto presidente degli Industriali romani.
Al loro tavolo erano sedute tre signore molto carine che non hanno avuto il coraggio di interrompere la serrata conversazione che il banchiere e l'imprenditore stavano facendo all'indomani dell'Assise di Bergamo di Confindustria. Mentre Luigino sudava per colpa dei potenti riflettori che illuminavano le scritte della BNL (sponsor del tennis), Regina che ormai gli amici chiamano "Gattobaleno", aveva l'aria mesta e preoccupata.
GIANFELICE ROCCA
È probabile che a intristire l'imprenditore del Sigaro Toscano sia stato il messaggio con il quale Abete ha comunicato che la partita per la presidenza di Confindustria è già stata risolta. Sembra infatti che dopo il modesto intervento di sei minuti di Regina all'Assise di Bergamo, i big degli imprenditori si siano convinti che l'uomo non ha la statura per raccogliere l'eredità della Marcegaglia, soprattutto al nord.
BOMBASSEI
La conferma arriva oggi in maniera clamorosa da Alberto Bombassei, l'industriale vicentino della Brembo che a Bergamo ha fatto gli onori di casa e ha raccolto un referendum quasi unanime sul nome di Gianfelice Rocca, l'imprenditore che nell'organigramma di viale dell'Astronomia occupa la carica di vicepresidente per l'Education.
L'annuncio di Bombassei, che all'età di 71 anni si trova senza eredi in grado di mandare avanti la sua azienda dei freni, è un'autoesclusione dalla rosa dei candidati nella quale fino a poche settimane fa si ritrovava insieme a Giorgio Squinzi e al povero Regina. A questo punto la strada sembra spianata per Rocca, un milanese laureato in fisica che insieme alla sua famiglia è riuscito a costruire la Techint, il maggior produttore d'acciaio dell'America Latina e uno dei primi 30 al mondo.
MONTEZEMOLO DELLAVALLE
"Ci vuole sangue nuovo - dice Bombassei nell'intervista al "Corriere della Sera" - e Rocca è un galantuomo che rappresenta una storia imprenditoriale familiare di assoluta eccellenza, ha l'età giusta (63 anni), è saggio, conosce bene il sistema confindustriale e il lavoro di squadra".
Anche la sua designazione sembra frutto di un lavoro di squadra nel quale convergono oltre alla stima raccolta in salotti importanti come la Commissione Trilateral e l'Aspen Institute, anche i consensi degli elettori forti del Nord-Est. Nessuno ha mai dubitato che la partita di Confindustria si giochi in quell'area geoeconomica che è sempre stata determinante nelle scelte confindustriali, e l'Associazione degli imprenditori ha bisogno che dopo la ferita di Marpionne arrivi il leader di un mondo manifatturiero che guida una multinazionale italiana. In questo modo nessuno potrà dire che la Marcegaglia passerà la mano a una delle tante aziende pubbliche o straniere che negli ultimi tempi hanno guadagnato grande spazio dentro Confindustria.
DRAGHI
L'unico che non sembra aver capito nulla di questi movimenti è Gattobaleno-Regina che fino a sabato scorso si illudeva di avere dalla sua la lobbycontinua di Montezemolo, Dieguito Della Valle e Luigino Abete. A tradire le sue aspirazioni sono stati anche loro, i tre compagni di merenda convinti di poter pilotare il galantuomo Rocca, ed è toccato a Luigino spiegare a Gattobaleno che dovrà rimanere a bordo campo per almeno cinque anni accontentandosi di fare il numero 2.
ANGELA MERKEL
2 - DOPO-DRAGHI: BERLUSCONI DARÀ RETTA AL CANDIDATO DI TREMONTI (VITTORIO GRILLI) O ASCOLTERÀ IL SUGGERIMENTO DI DI GERONZI (SACCOMANNI)?
Dopo le dichiarazioni della massaia di Berlino Angela Merkel in favore di Draghi, si sentono già i primi squilli di tromba suonati da chi vorrebbe attribuirsi il merito della nomina.
Mentre alcuni osservatori come l'economista Mario Deaglio si sforzano di capire la mole dei problemi che il Governatore dovrà affrontare dal 1° novembre a Francoforte, altri come ad esempio Massimo Giannini su "Repubblica" si tolgono il cappello di fronte al "miracolo dovuto al buon lavoro fatto da Giulio Tremonti, l'unico ministro che al di là dei suoi clamorosi limiti nella gestione della politica economica interna, gode di una qualche fiducia sulla scena europea".
DA SINISTRA CARLO BALDOCCI GIULIO TREMONTI E VITTORIO GRILLI
Forse sarebbe il caso di ricordare allo smemorando giornalista le parole che Giulietto pronunciò al convegno di Cernobbio di settembre: "dire che bisogna fare come la Germania è superficiale, è roba da bambini". Il giorno prima Draghi aveva indicato nel modello tedesco la strategia per ritrovare la strada dell'Italia, e l'aveva fatto con lungimiranza ignorando la definizione che in un altro momento Tremonti aveva dato dei banchieri centrali come "topi a guardia del formaggio".
Adesso diventa un gioco facile esaltare le virtù del 64enne romano che fin da quando studiava al liceo Massimo di Roma era il primo a consegnare i compiti e li passava ai compagni di classe Montezemolo e Abete. Se dio vuole la designazione di quest'uomo metterà la parola fine alla fastidiosa dialettica tra via Nazionale e via XX Settembre, una polemica mai sopita che ha visto il Governatore e il ministro esprimere visioni diverse, viaggiare su aerei separati e dormire in alberghi differenti quando dovevano raggiungere Washington.
BINI SMAGHI
E oggi, proprio dall'America, arriva la benedizione del "Wall Street Journal" che assicura in questo modo i lettori: Draghi non sarà influenzato dalle istanze italiane perché secondo i colleghi della BCE lo scorso mese è stato uno dei maggiori fautori del rialzo dei tassi anche se l'Italia era uno dei paesi a pagarne le conseguenze maggiori.
Nella torre di acciaio e di vetro di Francoforte Draghi potrà dimenticare le polemiche miserande e invece di perdere tempo dietro gli sgomitamenti di Corradino Passera e di Ponzellini dovrà affrontare i dossier caldi che si chiamano inflazione, Grecia, Irlanda e Portogallo.
MARIO MONTI
Ai piani alti di via Nazionale i suoi collaboratori esultano per il successo del "tedesco" super Mario e si chiedono chi sarà il successore. E qui si riapre l'ultimo capitolo dell'annoso braccio di ferro tra il Governatore uscente e il governo tremolante. Nella storia della Banca d'Italia solo due governatori, Einaudi e Draghi, non sono stati espressi dalla casta di via Nazionale, ma tutti sanno che Giulietto Tremonti farà fuoco e fiamme pur di piazzare il pallido Vittorio Grilli. Poi c'è qualcuno che aggiunge i nomi del mediceo Lorenzo Bini Smaghi e di Mario Monti, l'altro superMario che muore dalla voglia di ritornare nel gotha della finanza.
CESARE GERONZI
Sarà una battaglia durissima che dipenderà molto dall'esito delle prossime amministrative. Se il Cavaliere uscirà indenne nonostante gli incidenti di percorso organizzati scientificamente dal tandem Santanchè-Sallusti, sarà lui a sciogliere il dilemma. Alle spalle avrà un suggeritore un po' ammaccato come Cesarone Geronzi che alla Banca d'Italia ha trascorso decenni e in maniera improvvida è stato indicato addirittura come futuro ministro del Tesoro. Non bisogna dimenticare infatti che il Leone ferito di Marino è stato determinante nel 2006 per portare Draghi a via Nazionale, e molti ricordano che in segno di gratitudine il neo-Governatore arrivò a piedi e senza cappotto negli uffici di Capitalia per ringraziare il grande elettore.
FABRIZIO SACCOMANNI
Il copione potrebbe ripetersi e allora Giulietto dovrebbe accontentarsi di aver messo Vegas alla Consob e lasciare il passo a Fabrizio Saccomanni, l'attuale direttore generale di Bankitalia.
3 - GIORNI CONTATI PER PONZELLINI ALLA BPM: SAVIOTTI VUOLE AL SUO POSTO IL SUO VECCHIO COMPAGNO DEL FONDO EQUINOX, IL MITOLOGICO SALVATORE MANCUSO
Oggi è un'altra giornata di passione per Massimo Ponzellini, il massiccio banchiere bolognese che non vede l'ora di tagliare la corda dalla Banca Popolare di Milano.
LINGUA BIFORCUTA MASSIMO PONZELLINI
Ormai gli scontri con i sindacati che dentro quell'Istituto hanno voce in capitolo sono arrivati a rendere plausibile l'ipotesi che l'ex-assistente di Prodi tagli la corda in tempi rapidi. Dopo aver sostituito il direttore generale Fiorenzo Dalu con Enzo Chiesa, il povero (si fa per dire) Ponzellini sta cercando di arrivare all'Assemblea del 25 giugno con il consenso intorno all'aumento di capitale e al progetto di Banca Unica che dovrebbe riunire le diverse casse e banchette dentro la Popolare.
Secondo il quotidiano "MF" l'aumento di capitale da 1,2 miliardi, più volte invocato dalla Banca d'Italia, potrebbe essere sottoscritto anche da Matteuccio Arpe che con Banca Profilo rileverebbe una quota intorno al 2%, mettendo così un piedino che fa pensare a una sua scalata al posto di Ponzellini.
PIER FRANCESCO SAVIOTTI
In realtà a Dagospia risulta che al posto del massiccio bolognese stia per arrivare, per la gioia Pierfrancesco Saviotti, amministratore delegato del Banco Popolare, un furbo siciliano dai capelli grigi, dotato di grande charme e noto negli ambienti della finanza: Salvatore Mancuso, l'uomo che nel 2000 ha fondato il fondo Equinox (con Saviotti) in Lussemburgo, e negli anni successivi ha messo i piedi dentro Capitalia fino a diventare nel maggio 2007 presidente del Banco di Sicilia. Poi è entrato in contrasto violento con Alessandro Profumo ed è uscito da Unicredit nel 2008 lasciando il posto all'industriale di Siracusa, Ivan Lo Bello.
SALVATORE MANCUSO
Oltre ad aver ricoperto la carica di vicepresidente di Alitalia, Mancuso, nato nel '49 a Sant'Agata di Militello, ha alimentato le cronache per il suo fastoso matrimonio festeggiato con enormi banchetti a Parigi, Milano e in Sicilia, e per una presunta love story con l'attrice Valeria Marini. Nessuno dubita della sua capacità manovriera che ha ereditato dal padre, notabile socialista nel suo paese d'origine e impiegato alla Cassa di Risparmio di Messina.
GIUSEPPE ORSI
A Ponzellini l'ipotesi di andarsene dalla banca dove prima di lui il democristiano Roberto Mazzotta ha lasciato le penne, non dispiace affatto tanto più che la Lega sembra aver allentato i freni della passione nei suoi confronti.
4 - ORSI SULLE ORME DI GUARGUAGLINI: VOLA NEGLI STATI UNITI PER ACCREDITARSI ALLA CASA BIANCA E MAGARI VENDERE QUALCHE ELICOTTERO (NUOVO ASSISTENTE, ALESSANDRO TOCI)
Avviso ai naviganti: "Si avvisano i signori naviganti che il nuovo amministratore delegato di Finmeccanica, Giuseppe Orsi, è in partenza per l'America.
GUARGUAGLINI VOLA VOLA FOTO MEZZELANI GMT
L'obiettivo del manager è di presentarsi nella nuova veste negli ambienti dove si stanno giocando le grandi partite della difesa e degli elicotteri per la Casa Bianca. Nel frattempo da piazza Monte Grappa trapela la notizia che Orsi avrebbe preso come suo assistente Alessandro Toci, un manager amicissimo di Mastella che ha fatto parte dello staff di Aberto Lina, l'uomo che nel 1996 è stato alla guida di Finmeccanica".
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