giovedì 18 giugno 2015

Ci sono al mondo 647 trilioni di dollari in derivati. Contribuenti? Preparatevi a pagarli.

Giuseppe Sandro Mela.
 
                Dopo tanto brutte notizia ne arriva finalmente una buona, anzi, ottima. I Contribuenti sono così ricchi, ma così ricchi, ma così ricchi che nessuno oramai dubita che se li pagheranno loro i 647,000 miliardi di dollari in derivati.
                Maggiore stima di così, proprio non si poteva. Tutti sanno che sotto il materasso del Sig. Dan c’è uno strato di lingottoni d’oro. Ebbene, che li cacci fuori, tanto gli rimanarrà pur sempre la pensione dello stato.
                Andiamo con ordine.
                Un anno fa erano soltanto 466 trilioni. Ma si sa, una ciliegia tira l’altra. Emetti tu che emetto io, e ecco, come dal cilindro del prestigiatore sono usciti altri 181,000 miliardi. Immaginatevi cosa sarebbe successo se Obama non avesse regolamentato il mercato dei derivati.
                Santi derivati! Consentono al mondo ed all’Europa di andare ancora un pochino avanti: di consentirsi ancora qualche piccolo sfizio. In fondo, diciamolo francamente: gli europei sono troppo civile per lavorare. Lo facciano i cinesi. Sono i cinesi che devono adeguarsi a noi, mica noi ai cinesi. Lo dice anche la Sig. Camusso.
                Dunque, 504 trilioni sono costruiti su tassi d’interesse, 63 sulle valute, 6 sulle azioni e 3 sulle materie prime. A ciò se ne aggiungano 28 di credit default swap. Più qualche altra frattaglia.
                Adesso pensiamo che qualche buontempone volesse fare uno scherzo, di quelli di cattivo gusto.
                Per esempio, riscuoterne almeno una piccola parte.
                Oppure una qualche società di rating potrebbe declassare molte grandi banche emittente di tre notches, non é mai detto che succeda, anche se é notorio che le banche sono solide e robuste. E poi c’é sempre il Ltro. Come un inesauribile pompa di benzina. Tuttavia si sa, le società di rating sono delle malpensanti: vorrebbero vedere baiocchi sonanti piuttosto che sane lettere di intenti. Sono certamente delle screanzate, al soldo della più bieca delle speculazioni, ma, diciamolo un po’ tra di noi: dareste loro troppo torto?
                Facciamo anche solo l’ipotesi che siano downgradate simultaneamente UBS, Credit Suisse and Morgan Stanley, tutte di tre  notches. E, magari, Barclays, BNP Paribas, Credit Agricole, Deutsche Bank, HSBC Holdings, and Goldman Sachs degradate di due notches. Poi, tanto che ci siamo e per far buon peso, Unipol Assicurazioni SpA, Mapfre Global Risks, Assicurazioni Generali SpA and Allianz SpA.
                Ve lo immaginate lo sconquasso? Se poi si diffondesse il panic sell tutta quella mercanzia si azzererebbe. E con questa le azioni. E con le azioni i titoli di stato. Resterebbe solo qualche catenina d’oro al collo della moglie, pardon, della compagna, pardon ancora, del compagno.
                Brrr. Per fortuna che non accadrà mai nulla di tutto questo.
 “L’oro è una grande cosa da cucire nei vostri capi d’abbigliamento se foste una famiglia Ebrea di Vienna nel 1939, ma le persone civili non comprano oro – investono in attività produttive.”  Charlie Munger, partner di Warren Buffett.
  
    Quando nel 2008 la crisi finanziaria mordeva già gli Stati Uniti, e Lehman Brothers affondava come un moderno Titanic, tutte le autorità Usa invocavano regole più stringenti per i giganteschi mercati dei derivati. Il presidente della Fed, Ben Bernake, chiedeva a gran voce che le normative cambiassero in maniera fondamentale. L’allora presidente della Sec Christopher Cox gli faceva eco, denunciando con tono severo che i derivati non erano regolamentati «nella maniera più assoluta».
    Peccato che gli stessi protagonisti solo pochi anni prima si dichiarassero fermi sostenitori di regole light per i derivati. «Si tratta di strumenti importanti – diceva con disinvoltura nel 2005 Bernanke -, perché permettono di diversificare e spostare i rischi verso chi li sa gestire». «Mi preoccuperebbe se i derivati venissero considerati come il Diavolo dal Congresso», diceva Cox qualche anno prima.
    Ormai sono passati cinque anni dall’inizio della crisi, e anche da quelle invocazioni di regole stringenti. Qualcosa è stato fatto. Ma non abbastanza. E ancora, nel 2012, accade che una banca come JP Morgan usi i derivati in maniera così aggressiva da perdere due miliardi di dollari in sole sei settimane. Facendo riemergere, come fiumi carsici, nuove immancabili richieste di regole. Che, come fiumi carsici, molto presto torneranno nel dimenticatoio. Fino al prossimo scandalo.
    Nove volte il mondo
    Eppure non servirebbe un genio della finanza per capire che i mercati dei derivati andrebbero regolamentati veramente. Non demonizzati, certo. Ma neppure lasciati allo stato brado come lupi affamati. Basta guardare i numeri, per capirlo: le ultimissime statistiche della Bri, aggiornate a dicembre 2011, calcolano che l’intero mercato di questi strumenti ammonti a 647 mila miliardi di dollari di valore nominale. Ancora più dei 466mila miliardi dell’ultima rilevazione (più vecchia) realizzata dall’Isda. Si tratta di un numero 14 volte più grande della capitalizzazione di tutte le Borse del globo. E nove volte più grande del Pil del mondo intero. È vero che il reale rischio, cioè il valore netto, è molto inferiore. Ma queste cifre restano enormi, troppo scollate dall’economia reale.
    Ovvio che non tutti i derivati siano meri strumenti per speculare. Anzi, si tratta in realtà di contratti che sono stati inventati con uno scopo nobile: gestire i rischi. La stragrande maggioranza di questi strumenti, pari a 504mila miliardi di dollari, è costruita su tassi d’interesse: serve dunque a chi vuole trasformare un finanziamento a tasso fisso in variabile, o viceversa. Il resto è dato da derivati su valute (63mila miliardi), su azioni (6mila) e su materie prime (3mila). Ci sono poi i credit default swap (che valgono 28mila miliardi di valore nominale): si tratta di polizze assicurative, usate dagli investitori per coprirsi dal rischio di fallimento di qualunque debitore al mondo. Insomma: non esistono derivati “cattivi”. Cattivo, però, può esser l’uso che viene fatto.
    Finanza distorta
    I derivati di tasso (interest rate swap) sono per esempio finiti in molte inchieste della magistratura: l’accusa, molto spesso, è che le banche li abbiano venduti a Enti locali o a Casse previdenziali facendo “la cresta” con costi occulti. Insomma: aiutavano Comuni e Regioni a trasformare un mutuo o un bond da tasso fisso a variabile, ma nel frattempo si intascavano decine di milioni di euro a sbafo. Ma i più bersagliati dalle critiche sono i credit default swap: perché da strumenti di gestione dei rischi sono diventati mezzi per speculare. Lo dimostra il fatto che troppo spesso esistono più Cds che debiti da assicurare: il gruppo francese Carrefour  prendendo un nome a caso, ha 13 miliardi di euro debiti (dato di Bloomberg) e 28 miliardi di dollari di Cds lordi (dato Dtcc).
    Ovvio che tutto questo non va bene. I derivati sono tutti scambiati over-the-counter, cioè fuori da qualsiasi Borsa regolamentata. Sguazzano nell’opacità più totale: solo le grandi banche americane, che controllano circa la metà dell’intero mercato, sanno veramente cosa ci sta dietro. Loro da questa opacità guadagnano (anche se a volte cascano come JP Morgan). Per questo si sono sempre opposte a vere regole stringenti, facendo leva sulle debolezze del mondo politico più attento agli interessi delle lobby che a quelli dei cittadini. E così siamo arrivati al 2012, con l’ennesimo scandalo. Con gli ennesimi scandalizzati e con le ennesime richieste di regole. Il deja vu continua…

 http://www.rischiocalcolato.it/2012/05/ci-sono-al-mondo-647-trilioni-di-dollari-in-derivati-contribuenti-preparatevi-a-pagarli.html

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