Circa 163 miliardi di euro, con una perdita potenziale di 37 miliardi.
E' questo il valore dei prodotti finanziari derivati in pancia allo
stato italiano, secondo quanto riportano i giornali dopo un'audizione
alla Camera di Maria Cannata, responsabile per la gestione del debito pubblico
presso il Dipartimento del Tesoro. Da tempo si dibatte sulla questione
dei derivati posseduti dallo stato italiano e qualcuno li ha definiti
una vera e propria "bomba a orologeria" nei nostri conti pubblici, perché potrebbero provocare dei buchi di bilancio
giganteschi. In realtà, la questione è abbastanza complessa e richiede
un po' di approfondimenti, per evitare anche qualche mistificazione di
troppo.
Cos'è un derivato
Per
chi è completamente a digiuno della materia, occorre ricordare
innanzitutto cos'è un prodotto finanziario derivato. Si tratta di un contratto il cui valore dipende da quello di un'altra attività o da un parametro finanziario, per esempio da un indice di borsa ma anche da un tasso d'interesse o da un tasso di cambio. I derivati sono dunque una specie di assicurazione e
di solito, a parte i casi di speculazione finanziaria, vengono
acquistati da chi vuole tutelarsi contro un determinato rischio.
Esempio: se un paese si è fortemente indebitato con dei titoli a tasso
variabile e teme un rialzo dei saggi d'interesse che provocherebbe un
notevole aumento dei costi per il suo bilancio pubblico, può
sottoscrivere un contratto di interest rate swap. In pratica, lo
stato si rivolge a una banca o a un'istituzione finanziaria e firma un
patto: tu banca paghi a me Stato i tassi d'interesse variabili che
gravano sul mio debito (anche se si impennano fino alle stelle) e io,
invece, ti verso in cambio un tasso d'interesse fisso predeterminato.
Se il costo del denaro cresce repentinamente, il paese molto indebitato
evita così di spennarsi per rimborsare gli interessi sui titoli che ha
emesso.
Come tutte le “assicurazioni”, però, i derivati su basano su una scommessa di fondo
che potrebbe rivelarsi alla fine sbagliata. Può darsi che un paese
indebitato si tuteli contro il rialzo dei tassi ma, invece di salire, i saggi d'interesse scendano. In questo caso, i prodotti come gli interest rate swap rappresentano per il bilancio pubblico un costo,
perché obbligano lo stato a sborsare degli interessi fissi, più alti di
quelli che verserebbe senza aver acquistato il derivato, cioè pagando
solo i tassi variabili di mercato. E' proprio quello che è successo al
Tesoro italiano nei decenni passati quando temeva, a torto, che il costo del denaro sarebbe salito,
invece di diminuire. Nulla di drammatico, purché questa scommessa
sbagliata sia stata fatta senza prendere troppi azzardi, cioè senza
acquistare a man bassa derivati che poi riempiono di buchi il bilancio
pubblico.
Il valore nozionale
E
allora, per capire se l'Italia ha in pancia troppi derivati, bisogna
tornare alle cifre esposte da Maria Cannata che, nell'audizione alla
Camera, ha parlato di un valore nozionale di 163 miliardi. Cosa
significa? Il valore nozionale non è, come si potrebbe pensare a prima
vista, il prezzo dei derivati iscritti nel bilancio statale, bensì la
parte di debito pubblico che coprono. Lo stato italiano ha cioè
assicurato 163 miliardi del proprio indebitamento di cui la maggior
parte, cioè 110 miliardi, è protetta dal rialzo dei tassi con gli interest rate swap. La restante quota, invece, è tutelata da altri rischi come le fluttuazioni dei cambi
(con dei contratti che si chiamano cross currency swap). Si tratta
dunque di cifre sensibilmente inferiori al debito pubblico italiano che
supera i 2mila miliardi di euro e inferiori pure ai 250miliardi di Bot e dei Cct in circolazione,
che sono titoli di stato a breve scadenza o a tasso variabile, i cui
interessi salgono quando anche il costo del denaro cresce. Dunque,
secondo Cannata, i derivati in pancia allo stato italiano non sono poi
tantissimi, se raffrontati alle dimensioni del debito pubblico e
all'esposizione in Bot e Cct.
I costi e le clausole dei contratti
Sottoscrivendo gli interest rate swap su 110miliardi di debito, lo stato italiano paga oggi su questa cifra un tasso del 4,4% annuo, mentre riceve dalle banche poco o niente, cioè lo 0,1 circa%, corrispondente al saggio interbancario euribor a 6 mesi.
Se i derivati sui tassi non ci fossero, dunque, lo stato risparmierebbe
forse fino a 4 miliardi di interessi, ma non va dimenticato un
particolare in portante: in passato, quando le previsioni sull'andamento
dei tassi sono state azzeccate, gli stessi derivati hanno portato beneficio al bilancio pubblico
per cifre che, fino al 2005, hanno superato a volte anche il miliardo
di euro all'anno. E allora, viene da chiedersi, perché alcuni giornali
parlano di bomba-derivati e di perdite potenziali per 37 miliardi? Tutto è legato ad alcune clausole contenute in 13 prodotti sottoscritti dallo stato italiano che danno la possibilità alle banche che li hanno emessi di chiudere il contratto prima della scadenza naturale,
facendosi pagare in anticipo le somme concordate con la controparte. Se
le posizioni fossero tutte chiuse in anticipo, per lo stato ci sarebbe
un costo di 36,8 miliardi. Ieri, però, Cannata ha rassicurato la
Commissione Bilancio della Camera dicendo che i derivati con le clausole
sono notevolmente diminuiti negli ultimi anni (da 35 a 13). Inoltre,
per 9 derivati su 13, l'estinzione anticipata potrà avvenire solo dal 2023 in poi,
mentre per un solo contratto la clausola scade quest'anno e per altri 3
tra il 2016 e il 2018. Stando così le cose, per la responsabile del
debito pubblico italiano la bomba-derivati non è affatto pronta a
esplodere.
http://www.panorama.it/economia/soldi/derivati-quanti-sono-stato-italiano/
Nessun commento:
Posta un commento