sabato 31 ottobre 2009

23 maggio - 19 luglio 1992: 57 giorni (parte 1)

Scritto da Marco Bertelli
Mercoledì 05 Marzo 2008 11:50

Scopo di questo lavoro è dare un contributo alla ricostruzione cronologica degli avvenimenti legati in un qualche modo alla vita del Magistrato Paolo Borsellino nei mesi immediatamente precedenti la strage di via D’Amelio a Palermo (19 luglio 1992) nella quale il Dott. Borsellino ed i cinque agenti di scorta Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina furono uccisi. In particolare prenderemo in considerazione il periodo 30 gennaio – 19 luglio 1992, ampliando la ricostruzione a fatti precedenti o seguenti questo intervallo temporale nel caso essi abbiano a nostro avviso rilevanza per la ricostruzione del contesto, della dinamica e dei moventi che portarono all’improvvisa accelerazione della fase esecutiva della strage.

Le fonti di questo lavoro sono per la maggior parte articoli, libri ed interviste. Abbiamo provato ad incrociare i dati e fare per quanto possibile una sintesi dei fatti che ci sono apparsi significativi per lo scopo di questa ricostruzione cronologica. Sono stati selezionati ad esempio solo gli sviluppi dell’inchiesta milanese Mani Pulite che in un qualche modo riteniamo collegati al contesto della strage di via D’Amelio: nella primavera-estate del 1992 le inchieste della magistratura portano alla luce un diffuso e pervasivo sistema di corruzione delle classi dirigenti della vita pubblica italiana ed il rapido sviluppo di queste indagini è strettamente legato alle strategie delle organizzazioni criminali attive in Italia, in particolare Cosa Nostra. L’accelerazione imposta alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio matura dall’incontro delle esigenze di Cosa Nostra e di quei soggetti esterni all’organizzazione “in qualche modo interessati a condizionare i moventi e i ragionamenti dei malavitosi e\o in certe circostanze a svolgere una vera e propria opera di induzione al delitto (sentenza BORSELLINO BIS, cap. V, pag. 778)”. La Magistratura ha raggiunto risultati fondamentali dal punto di vista dell’accertamento delle responsabilità penali di matrice mafiosa nell’ideazione e nella esecuzione della strage, ma forti zone d’ombra rimangono sui volti dei mandanti esterni a Cosa Nostra che non è stato ancora possibile individuare attraverso gli strumenti propri dell’azione giudiziaria.

Questo testo nasce grazie al lavoro di tante persone che vorremmo ringraziare di cuore: innanzittutto Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, dal cui libro “L’agenda rossa di Paolo Borsellino” (Chiarelettere, 2007) abbiamo attinto a piene mani. Il contributo dato dal loro lavoro è stato per noi fondamentale e molti brani presentati in questo testo sono frutto del “saccheggio” del libro pubblicato dai due giornalisti. Un altro contributo determinante per la raccolta di documenti e di conoscenze è venuto da Arcangelo Ferri, giornalista di RAINEWS24 ed autore di alcune inchieste giornalistiche sulla vita di Paolo Borsellino indispensabili per ricostruire la dinamica dei fatti. Ringraziamo poi Salvo Palazzolo, giornalista del quotidiano La Repubblica, autore con Enrico Bellavia di un sito (www.falconeborsellino.net) e di un libro (Falcone Borsellino, Mistero di Stato, Edizioni della Battaglia, 2003) essenziali per lo sviluppo della nostra ricerca. Grazie anche a Leo Sisti e Gianluca Di Feo, giornalisti del settimanale L’ESPRESSO, per lo scambio di documenti e per la ricostruzione cronologica di alcuni fatti accaduti nel giugno-luglio 1992. Un grosso ringraziamento va a tutta la redazione del periodico Antimafiaduemila ed in particolare al giornalista Lorenzo Baldo, attraverso i cui articoli è stato per noi possibile avere un’approfondita visione d’insieme di vicende ed inchieste in un qualche modo collegate alla strage di via D’Amelio. Un forte abbraccio da parte nostra a Letizia Battaglia, che ci ha messo a disposizione documenti unici tratti dal suo archivio fotografico.

Personalmente vorrei infine ringraziare gli altri redattori del sito www.19luglio1992.com: Desiree Grimaldi che ha contributo al lavoro con tutta la parte video, Vanna Lora per la sua capacità di rintracciare dati ed articoli dagli archivi degli ultimi cinquant’anni, il prof. Enzo Guidotto per averci messo a disposizione le sue profonde conoscenze del fenomeno mafioso e per il prezioso materiale da lui recuperato. Infine vorrei ringraziare Salvatore Borsellino per aver fatto nascere questo gruppo di lavoro e per la forza e determinazione con cui dà vita ai suoi ideali e progetti.

La versione preliminare 1.0 di questo documento verrà costantemente aggiornata sul sito www.19luglio1992.com ed è il risultato della prima fase del lavoro, ovvero quella di raccolta dei dati. Le fasi successive comprenderanno l’analisi dei dati, la loro organizzazione in modo sistematico e l’approfondimento di alcuni temi ritenuti particolarmente significativi.

Marco Bertelli



Io ho un concetto etico del giornalismo,

ritengo infatti che un giornalismo fatto di verità

impedisca molte corruzioni,

freni la violenza e la criminalità, pretenda e tenga

continuamente all’erta le forze dell’ordine,

solleciti la costante attenzione della giustizia,

imponga ai politici il buon governo.

Un giornalista incapace per vigliaccheria o calcolo della verità

si porta sulla coscienza tutti i dolori umani

che avrebbe potuto evitare,

le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze

che non è stato capace di combattere, il suo stesso fallimento.

Dove c’è verità si può realizzare giustizia e difendere la libertà.

Giuseppe Fava



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Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Antonino Caponnetto




Agosto-Settembre 1991

I vertici dell´organizzazione criminale denominata Cosa Nostra tengono una serie di riunioni in Sicilia in provincia di Enna durante le quali mettono a punto le strategie future dell´associazione. In particolare viene decisa l´eliminazione fisica di alcune persone ritenute pericolose per il proseguio delle attivita´ dell´organizzazione, tra cui il direttore degli affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia Giovanni Falcone.[1]

Martedí 3 Dicembre 1991

Vincenzo Calcara, mafioso della famiglia di Castelvetrano, arrestato nel mese di novembre e detenuto nel carcere di Favignana, incontra per la prima volta il Procuratore Capo di Marsala Paolo Borsellino, con il quale ha chiesto di avere un colloquio. Calcara sta valutando se iniziare a collaborare con la giustizia e cerca un uomo delle Istituzioni nel quale riporre piena fiducia.[2]

Domenica 15 Dicembre 1991

Gaspare Mutolo, mafioso affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, agli arresti nel centro clinico di Pisa, incontra Giovanni Falcone al quale comunica la sua intenzione di diventare collaboratore di giustizia. Falcone prende atto della scelta di Mutolo ma lo informa che, in qualita´ di direttore degli affari penali al ministero di grazia e giustizia, non potra´ interrogarlo di persona ma trovera´ un valido sostituto al quale affidarlo. Mutolo non sa se iniziare la collaborazione perché é disposto a farlo con una persona di assoluta fiducia e per questo aveva deciso di affidarsi a Falcone. Il giudice spiega allora a Mutolo l´importanza del suo lavoro a Roma al ministero e cerca di convincerlo di non perdere l´opportunitá della collaborazione. Mutolo si riserva di decidere. Falcone e Mutolo si lasciano con l´impegno di non comunicare a nessuno il contenuto della discussione. Mutolo si mostra subito estremamente preoccupato per una possibile fuga di notizie in ambienti istituzionali. “Purtroppo anche nel suo ufficio ci sono amici dei mafiosi”, dice Mutolo al giudice Falcone facendogli espressamente i nomi di “Mimmo e Bruno”. Falcone capisce che si tratta rispettivamente di Domenico Signorino e Bruno Contrada e promette che, in caso Mutolo decida di collaborare, troverá un collega serio e fidato che possa occuparsi del suo caso.[3]

Gennaio 1992

Paolo Borsellino viene nominato Procuratore aggiunto della repubblica di Palermo. Il Procuratore Giammanco gli affida però solo la delega per le indagini antimafia su Trapani ed Agrigento, non su Palermo.

Lunedí 6 gennaio 1992

Vincenzo Calcara si incontra nuovamente con Paolo Borsellino ed inizia ufficialmente la sua collaborazione con la giustizia: gli dissi (a Borsellino ndr) che ero uomo d’onore e gli dissi anche: "Dottore, io sono quella persona che avrebbe dovuto ucciderla, io avrei dovuto essere il killer". Mi guardò incerto poi mi chiese: "Ma dove mi avrebbe dovuto uccidere, a Palermo oppure a Marsala? Perché a Palermo è più facile". Gli dissi che il suo attentato avrebbe dovuto avvenire con un’autobomba. Rimase perplesso, poi mi disse: "Va bene Calcara, mettiamoci a lavorare”.[4]

Mercoledí 5 febbraio 1992

Il Sisde invia una nota al gabinetto del ministro degli interni: “Non e´ da sottovalutare la possibilita´ che frange eversive stipulino con la criminalita´ organizzata accordi di collaborazione ai fini operativi per la destabilizzazione del paese.” [5]

Giovedí 30 gennaio 1992

La prima sezione della Corte di Cassazione presieduta da Arnaldo Valente conferma sostanzialmente la sentenza di primo grado del maxi-processo istruito dal pool di Antonino Caponnetto e rinvia ad una nuova corte d’appello di Palermo le posizioni dei presunti mafiosi assolti in secondo grado. La sezione è composta dal già citato Presidente Valente e dai consiglieri Mario Schiavotti, Umberto Papadia, Giorgio Buogo e Mario Pompa.

Lunedí 17 febbraio 1992

A Milano viene arrestato il presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa. Si tratta del primo arresto scaturito dall’inchiesta Mani Pulite condotta da un pool di magistrati milanesi guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli. L’indagine coinvolgerà in breve tempo tutti i partiti politici ed i rispettivi leader. I reati maggiormente contestati sono quelli di finanziamento illecito ai partiti, corruzione e concussione.

Mercoledi´ 4 marzo 1992

Sul tavolo del giudice istruttore Leonardo Grassi arriva una busta chiusa con questa lettera: "Nel periodo marzo-luglio di quest´anno avverranno fatti intesi a destabilizzare l´ordine pubblico come esplosioni dinamitarde intese a colpire quelle persone "comuni" in luoghi pubblici, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Psi, Pci, Dc, sequestro ed eventuale "omicidio" del futuro Presidente della Repubblica. Tutto questo e´ stato deciso a Zagabria -Yu- (settembre 1991) nel quadro di un "riordinamento politico" della destra europea ed in Italia e´ inteso ad un nuovo ordine generale con i relativi vantaggi economico-finanziari (gia´in corso) dei responsabili di quersto nuovo ordine deviato massonico politico culturale, attualmente basato sulla commercializzazione degli stupefacenti. La "storia" si ripete, dopo quasi quindici anni ci sara´ un ritorno alle strategie omicide per conseguire i loro intenti falliti. Riotrnano come l´araba fenice." La firma e´ di Elio Ciolini, ambiguo estremista di destra implicato nella strage della stazione di Bologna, e legato ai servizi deviati. La lettera non viene presa in considerazione.[6]



Venerdi´ 6 marzo 1992

Paolo Borsellino si insedia ufficialmente a Palermo come Procuratore aggiunto.[7]

Giovedì 12 marzo 1992

Muore a Palermo l’eurodeputato Salvo Lima, vittima di un attentato mafioso. Si spezza un equilibrio tra Cosa Nostra e politica che aveva resistito per lunghi anni. Giovanni Falcone commenta l’accaduto con queste parole: ”E adesso viene giù tutto…”

Venerdí 13 marzo 1992

Sui tavoli del Viminale arriva un´informativa del giudice istruttore Grassi sulle rivelazioni di Ciolini. Viene omesso il nome delle fonte. Il ministro degli interni Vincenzo Scotti lo chiede immediatamente, il magistrato lo nega.[8]



Sabato 14 marzo 1992

Giulio Andreotti partecipa a Palermo ai funerali di Lima. Nelle dichiarazioni che detta ai giornalisti ipotizza la vendetta come movente dell’omicidio mafioso. Afferma inoltre che l’assassinio potrebbe essere un tentativo per scalzare la DC dalla guida del paese e favorire la nascita di una repubblica autoritaria.



(Fonte: CristianCorrini)

Il maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale sostiene che anche Giammanco sarebbe andato ai funerali di Lima se un sostituto della procura non lo avesse fermato.[9]

Lunedì 16 marzo 1992

Il ministro dell’interno Vincenzo Scotti invia a tutti i prefetti d’Italia una circolare in cui denuncia l’esistenza di un piano destabilizzante per la democrazia italiana che comporterebbe l’omicidio di esponenti politici ed il rapimento di un possibile futuro presidente della Repubblica. La circolare si basa sulle confidenze di Elio Ciolini, personaggio molto ambiguo, e su non meglio precisate attendibili fonti.

Mercoledì 18 marzo 1992

Ciolini riscrive al giudice Grassi e viene interrogato da due ufficiali del ROS, nel carcere di Bologna. Esordisce cosi´: "Avete visto che cosa e´ successo?", riferendosi all´omicidio Lima. E consegna un altro appunto dove si legge, tra l´altro: "Protezione DC via Mr D´ACQUISTO e LIMA - previsto futuro presidenza ANDREOTTI.” [10]

Un’operazione della Criminalpol di Palermo porta all’arresto di 26 persone implicate in un traffico internazionale di armi e sostanze stupefacenti con la complicitá dell´organizzazione mafiosa. I capi dell’organizzazione risultano essere Ulrich Bahl, ingegnere tedesco, e Giovanni Lo Cascio, trafficante d’eroina e massone. In una quarantina di giorni, un gruppetto ben assortito di trafficanti ha riciclato una quantita' impressionante di denaro. Almeno 500 miliardi. Finiscono in carcere 26 persone, fra cui 18 palermitani. Hanno comprato titoli di Stato boliviani, rastrellato rubli al mercato nero per acquistare in blocco pezzi dell'economia ex sovietica, stampato dollari falsi e falsi Buoni poliennali del Tesoro. Il tutto con la complicita' di notai austriaci, avvocati palermitani, banchieri tedeschi e italiani. Nelle intercettazioni compare anche il nome di Licio Gelli. Lo fa l'ingegnere tedesco Ulrich Bahl in una conversazione telefonica con il presunto boss mafioso Giovanni Lo Cascio, della famiglia di Palermo Centro. Il 23 aprile 1991 l'ingegnere tedesco telefona al boss da Miami in Florida: "Il signor Licio Gelli ti invia i suoi saluti". Una settimana dopo, il 28 aprile, sulla stessa utenza palermitana arriva un'altra telefonata dagli USA. Risponde sempre Lo Cascio, dall'altra parte dell'Atlantico c'e' Saverio Randisi, che tranquillizza Lo Cascio su certi affari, perche', dice lui, ha parlato con l'ingegnere. Tra le altre cose, l'ingegnere gli avrebbe detto "che nell'operazione prevista per domani sono interessati amici comuni tra i quali Licio Gelli". [11]

Il Lo Cascio non è nuovo a vicende di questo tipo perché già Giovanni Falcone si era imbattuto nel faccendiere palermitano nel lontano 1986: seguendo il sospettato gli investigatori si imbatterono nel marzo 1986 in uno strano circolo denominato “Centro Sociologico Italiano” ubicato in via Roma 391 a Palermo. Il centro risultò essere la sede di sei logge massoniche affiliate alla massoneria universale di rito scozzese antico ed accettato. Scorrendo l’elenco dei duemila iscritti alla loggia Camea, Giovanni Falcone scoprì che tra i fratelli massoni, insieme a noti mafiosi, vi erano anche alcuni dei nomi più in vista della Palermo bene: gli esattori di Salemi Nino ed Ignazio Salvo, Michele e Salvatore Greco, l’avvocato Vito Guarrasi, il vecchio editore del giornale di Sicilia Federico Ardizzone, Joseph Miceli Crimi e Giacomo Vitale, cognato del boss Bontade. L’inchiesta purtroppo non ebbe ulteriori sviluppi ed il tutto venne archiviato.[12]



Venerdí 27 marzo 1992

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino partecipano a Palermo ad un convegno su criminalitá e giustizia:



(Fonte: mbartoccelli)

Sabato 4 aprile 1992

Viene ucciso ad Agrigento in un agguato mafioso il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli.

Domenica 5 aprile 1992

I partiti di governo (Dc, Psi, Pli, Psdi) arretrano alle elezioni nazionali, il Pds non brilla, la Lega dilaga al nord. In particolare in Sicilia viene polverizzata la corrente di Lima, si salva solo Mario D’Acquisto. Un ottimo risultato viene invece riportato dal gruppo di Mannino: Giacomino Augello (appartenente al gruppo Lima) dice: ”Adesso bisogna tener conto della realtà politica del gruppo Mannino, gruppo di grande rispetto e grande autorità.”

Il settimanale L’ESPRESSO riporta stralci della relazione inviata dai consiglieri del Csm Gianfranco Viglietta, Alfonso Amatucci e Franco Coccia al ministro di garzia e giustizia Claudio Martelli in cui viene bocciata la candidatura di Giovanni Falcone a Superprocuratore nazionale antimafia in favore dell’altro candidato, il procuratore di Palmi Agostino Cordova: “Va infine rilevato che il dottor Cordova possiede al massimo grado, come dimostrato da una carriera intera vissuta in riservato distacco dall’opinione pubblica e dai mass media, nonostante clamorosi processi contro esponenti politici di ogni parte, amministratori o grandi organizzazioni criminose, estremo equilibrio e grado altissimo di indipendenza. Equilibrio, infatti, non significa tolleranza dell’illegalità, o delle inefficienze, bensì corretto ed imparziale, inflessibile esercizio dell’azione penale e capacità di creare rapporti di collaborazione senza riserva all’interno dell’ufficio: cosa che è avvenuta in tutti gli uffici da lui diretti e presieduti. Indipendenza come scelta interamente giurisdizionale, lontana da qualsiasi centro di potere, tanto più necessaria quanto più alte e penetranti sono le funzioni”.[13]

Venerdì 10 aprile 1992

Torna a Corleone insieme ai suoi 2 figli Saveria Benedetta Palazzolo, moglie di Bernardo Provenzano.

Venerdí 17 aprile 1992

Viene arrestato Leonardo Messina, sottocapo della famiglia mafiosa di San Cataldo a Caltanissetta.[14]

Martedí 21 aprile 1992

Paolo Borsellino, piccolo impreditore del settore edilizio, viene ucciso a Lucca Sicula (AG) per non essersi piegato alle pressioni mafiose dirette a sottrargli il controllo della sua attivita´ economica.[15]-[16]



Venerdì 24 aprile 1992

Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti rassegna le sue dimissioni al presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Giovanni Spadolini viene eletto presidente del Senato con i voti di DC, Psi, Pri, Pli, Psdi, Msi e Lega, e Oscar Luigi Scalfaro presidente della Camera con i voti di Dc, Psi, Pli, Psdi, Verdi, Rete e Pannella. Il Pds vota Napolitano.[17]

Domenica 26 aprile 1992

Cossiga si rivolge alla nazione con un discorso televisivo e si dimette. La nomina del nuovo Governo sarà possibile solo dopo che verrà nominato il nuovo Presidente della Repubblica.

Giovanni Falcone si reca a Vienna dove partecipa ad un convegno nel quale incontra fra gli altri Agostino Cordova. Poi Falcone vola a Washington negli Stati Uniti.

Una traccia di questo viaggio rimane nel databank CASIO di Falcone che verrá successivamente analizzato dal consulente della procura di Caltanissetta Gioacchino Genchi. Il viaggio é stato in seguito confermato dal procuratore di Brooklin Charles Rose.[18]




Lunedí 27 aprile 1992

Salvatore Leanza, socialista, 45 anni ed assessore alla cooperazione ed ai lavori pubblici dell´assemblea regionale siciliana, viene sospeso dal Gip di Palermo dall´incarico perché sospettato del reato di abuso d´ufficio continuato ed aggravato. In seguito alla sospensione la giunta regionale siciliana rassegna le dimissioni.[19]

Mercoledì 29 aprile 1992

Giovanni Falcone rientra in Italia dal viaggio negli Stati Uniti.

Il CSM inizia la procedura per trasferire d’ufficio il Procuratore Capo di Agrigento, Giuseppe Vajola, ritenendolo responsabile di gravi inerzie investigative nella lotta alla mafia.

Un giorno tra maggio e giugno 1992

Ezio Cartotto, politico democristiano che a metà degli anni Ottanta teneva corsi di formazione per i manager di Publitalia, l’azienda che raccoglieva pubblicità per le reti Fininvest, viene ingaggiato dal presidente di Publitalia, Marcello Dell´Utri, per studiare un'iniziativa politica in previsione del crollo dei partiti “amici” a causa di Tangentopoli: «Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell’Utri – dichiara Cartotto - perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell’Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso entrasse in politica per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi».[20] Il progetto di una nuova formazione politica coordinato da Marcello Dell´Utri prende il nome di Operazione Botticelli.

Lunedì 4 maggio 1992

Il sindaco di Palermo Lo Vasto rassegna le dimissioni del tripartito Dc-Psi-Psdi (60 giorni entro cui trovare una soluzione, pena nuove elezioni), la Regione Sicilia è senza governo dopo l’incriminazione di tre assessori, anche la giunta provinciale palermitana, guidata dall’andreottiano Caladaronello, vacilla.

Martedì 5 maggio 1992

Il Governo emana un decreto che di fatto permette ai magistrati di rimanere in servizio con funzioni inquirenti fino al 72° anno d’età. Rimane così al suo posto di procuratore capo di Roma il magistrato Ugo Giudiceandrea, sotto inchiesta al CSM per lo scandalo degli appartamenti di Palazzo Blumensthil. Il decreto viene proposto da Martelli (Ministro di Grazia e Giustizia).

Mercoledì 6 maggio 1992

L’operazione Concorde permette alle forze dell’ordine coordinate da Paolo Borsellino di stroncare la mafia di Castelvetrano. Vengono arrestati fra l’altro il sindaco Antonio Vaccarino e l’impiegato in pensione della cassazione Giuseppe Schiavone, noto come “il cancelliere” per la sua abilità nell’indirizzare i processi ai “giudici più buoni della Suprema Corte” (P. Giammanco)[21]. Schiavone era stato per lungo tempo segretario di cancelleria della prima sezione della Cassazione, la stessa presieduta dal giudice Corrado Carnevale. Dall'inchiesta e' emerso che Schiavone avrebbe favorito l'organizzazione mafiosa passando notizie riservate e forse facendo slittare nel tempo la fissazione dei processi.[22] Il contributo decisivo alle indagini viene dal collaboratore Vincenzo Calcara. Questi era stato incaricato fra l’altro dalla cosca di Castelvetrano di uccidere il giudice Paolo Borsellino con un fucile di precisione o con un’autobomba lungo l’autostrada Trapani-Marsala. Il piano era stato deliberato dalla famiglia di Castelvetrano nel settembre 1991 ma era stato stoppato dalla Cupola di Palermo. “Aspettavo per assassinarla solo il permesso della cupola di Cosa nostra, da Palermo – afferma Vincenzo Calcara - perche' Palermo e' la capitale del mondo. Il permesso pero' non arrivo', e cosi' lei (il giudice Paolo Borsellino, ndr) non fu ucciso. Allora decidemmo di eliminare un altro giudice innocente. Cosi' , per dimostrazione." [23]

Giovedì 7 maggio 1992

Martelli apre un’inchiesta ministeriale e il presidente di Cassazione Brancaccio una amministrativa sulla vicenda del “cancelliere” di Cassazione che pilotava i ricorsi verso collegi “garantisti”.

Il CSM avvia la procedura per il trasferimento d’ufficio del procuratore capo di Trapani Antonino Coci al quale vengono imputate gravi inadempienze nella lotta alla mafia. Tra le sue affermazioni: “bisogna in qualche modo saper registrare la propria vita in ambienti di mafia. Io sono a Trapani da trent’anni e circolo di sera, a qualunque ora, senza scorta e senza che qualcuno mi faccia qualcosa.”[24]

La stampa riporta gli esiti dell´operazione antimafia “Concorde” che il giorno precedente, mercoledí 6 maggio, ha permesso alle forze dell´ordine di assestare un duro colpo alla mafia di Castelvetrano. Oltre ai particolari dell´operazione di polizia, filtrano altre indiscrezioni sul contenuto della collaborazione del pentito Vincenzo Calcara: “traffico internazionale di droga, di armi, massoneria politica, omicidi eccelenti e persino l´attentato a Giovanni Paolo II. C´é tutto questo dietro ad un personaggio come Vincenzo Calcara che, se volesse, potrebbe aprire molti spiragli sui misteri italiani. Lo fará o lo ha giá fatto?” [25]

Venerdì 8 maggio 1992

Si dimette il governo regionale della Lombardia dopo l’arresto di due assessori, la giunta Borghini ha i giorni contati. Il Ministro dell’Interno Scotti scrive al Prefetto di Milano affinché lo informi su situazioni che possano legittimare lo scioglimento del consiglio comunale.

Il Garante per l’editoria Santaniello critica la concentrazione pubblicitaria di Fininvest e congela i ricavi derivanti dagli spot ai livelli precedenti al 9 maggio 1991. Il Governo deve ancora rinnovare le 12 concessioni televisive previste dalla legge Mammì.

I sostituti procuratori della procura di Marsala Alessandra Camassa e Massimo Russo inviano al ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli la richiesta per l´autorizzazione a procedere nei confronti del deputato siciliano Vincenzo Culicchia, ex-segretario DC di Trapani, per concorso esterno in associazione mafiosa.[26]

Nell'arco di dodici ore nella provincia di Catania vengono uccise, in tre differenti agguati, cinque persone. Si tratterebbe di vendette nell'ambito di diverse organizzazioni mafiose non collegabili tra di loro. Le vittime sono il pluripregiudicato Carmelo Mazzola, 41 anni, e lo zio Giuseppe Pappalardo, 59 anni, con pochi precedenti per estorsioni ed assegni a vuoto; due giovani catanesi praticamente incensurati, Giorgio Cristoforo Coppolino, 24 anni, e Francesco Cambria, di 22; il pluripregiudicato Roberto Pistone, 40 anni.[27]

Lunedì 11 maggio 1992

Si insedia la nuove giunta del CSM formata dalle 3 correnti minoritarie di Mi, Proposta88, Md. Resta fuori la corrente più grossa, Unicost. Il nuovo Presidente è Mario Cicala. Il segretario generale Ippolito si schiera subito contro la nascente Superprocura antimafia (DNA), perché vi vede uno strumento di controllo del potere politico sulla magistratura.

Martedì 12 maggio 1992

Giovanni Falcone partecipa a Roma ad una conferenza sul narcotraffico. Qualcuno riesce ad appoggiare indisturbato un biglietto anonimo sulla sua sedia prima dell’inizio dei lavori. Il biglietto accusa gli apparati dello stato di aver diffuso la droga per stroncare la contestazione giovanile.



Mercoledì 13 maggio 1992

Iniziano le elezioni per il nuovo Presidente della Repubblica. Varie votazioni si succederanno senza che si arrivi ad una scelta.

Venerdi´ 15 maggio 1992

Il Parlamento in seduta comune inizia le votazioni per l´elezione del Presidente della Repubblica.[28]

Paolo Borsellino si reca a Napoli per il convegno di Magistratura Indipendente.

Sabato 16 maggio 1992

Una troupe francese composta dal regista-autore Jean Pierre Moscardo, dal giornalista Fabrizio Calvi e due operatori atterra a Palermo per raccogliere materiale utile alla realizzazione di un film sulla mafia in Italia e nel mondo. I due giornalisti maturano una convinzione: la chiave per il loro lavoro si trova nelle carte della “San Valentino” (l´operazione di polizia scattata il 15 febbraio 1983, 160 persone arrestate a Milano, Torino, Roma, Napoli e Palermo) che ha dato vita all´inchiesta dei magistrati milanesi Pier Camillo Davigo e Felice Isnardi sulla mafia dei colletti bianchi degli imprenditori Luigi Monti ed Antonio Virgilio, ed aperto piste sui canali di riciclaggio con i narcodollari raccolti in scatole di pizza ed investiti in Svizzera, nella borsa americana, in Francia... Tra le carte dimenticate della San Valentino c´é un personaggio che colpisce piu´ di altri i due giornalisti: Vittorio Mangano, un siciliano che lavorava ad Arcore nella villa di Silvio Berlusconi...Ma chi era veramente Mangano? “Sapevamo solo”, spiega Calvi, “che era tra gli indagati nel maxiprocesso istruito dal pool antimafia di Palermo. Pensammo quindi di chiederlo al giudice del pool che conoscevo meglio, Paolo Borsellino.”... Borsellino conosce da anni il giornalista Fabrizio Calvi che gli era stato presentato per la prima volta, nel 1980, da Rocco Chinnici, il consigliere istruttore ucciso con un´autobomba il 4 agosto 1983, quando Calvi era in Sicilia come inviato del quotidiano “Liberation”. [29]

In serata un collega del CSM comunica a Paolo Borsellino che Giovanni Falcone avrebbe ormai la maggioranza per ottenere il capo della DNA. Borsellino, preso dall´euforia, si affretta a chiamare Falcone per rassicurarlo, per comunicargli l´indiscrezione.[30]

Domenica 17 maggio 1992

Paolo Borsellino si reca a Salerno per incontrare il collega ed amico Diego Cavaliero.[31]

Lunedí 18 maggio 1992

Alle ore 8.30 ha luogo il primo incontro tra Paolo Borsellino ed i giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo per concordare i contenuti dell´intervista che il magistrato rilascerá nell´ambito dell´inchiesta giornalistica sul ruolo della mafia in Europa.

Martedí 19 maggio 1992

Alle ore 10 si svolge il secondo incontro preliminare tra Paolo Borsellino ed i giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo.

Il dirigente siciliano del Msi-Dn Guido Lo Porto telefona a Paolo Borsellino cui e´ legato come amico e sonda la disponibilita´ del Magistrato per una possibile candidatura come Presidente della Repubblica affermando che l´idea viene dal segretario del Msi Gianfranco Fini. Borsellino rifiuta in modo cortese ma fermo la proposta.[32]

Mercoledí 20 maggio 1992

I parlamentari del MSI votano Paolo Borsellino alle elezioni per la Presidenza della Repubblica. La replica di Borsellino non si fa attendere: "Avevo gia´ appreso la notizia - ribatte il Procuratore aggiunto con una dichiarazione al Gr1 - perche´ il mio vecchio compagmo di scuola nonche´ amico, l´onorevole Guido Lo Porto, mi aveva telefonato dicendo che il Msi aveva l´intenzione di candidarmi e domandandomi se io gradivo una votazione del genere. Sono del tutto convinto che bisognerebbe procedere sollecitamente all´elezione del Presidente della Repubblica votando ovviamente per candidati seri e non per dare voti soltanto dimostrativi."

Forse il suo rifiuto non é stato riferito con la dovuta convinzione agli organi centrali del partito, o forse il Msi ha voluto comunque giocare la carta del candidato a sorpresa. Fatto sta che nell´undicesimo scrutinio il nome di Borsellino a Montecitorio, dove il Parlamento si é riunito in seduta comune, é stato pronunciato quarantasette volte.

Confidandosi con gli amici piú intimi, il diretto interessato, a Palermo, si mostra davvero seccato. “Chi so io dovrebbe spiegarmi perché del mio diniego non é stato tenuto alcun conto” si sfoga. E a Diego Cavaliero, che gli telefona per chiedergli scherzosamente di trovargli un posto al Quirinale, Borsellino risponde male, bloccando la comunicazione, offeso. Persino a Giovanni Falcone, che non resiste alla tentazione di prenderlo in giro, e lo chiama per chiedergli “ma adesso, per parlarti, ti dobbiamo chiamare al Quirinale?”, Borsellino risponde furibondo: “Giovanni, non é il caso di scherzare, tu non hai capito niente.” Agnese, sentendolo rispondere male ai suoi migliori amici, lo rimprovera bonariamente: “Ma che fai? Non puoi essere cosí duro con loro.” [33]

Il direttore degli affari penali del ministero di grazia e giustizia Giovanni Falcone incontra a Roma negli uffici di via Arenula il ministro della Giustizia venezuelano Mendoza Angulo, alla presenza del Guardasigilli Claudio Martelli. Probabile tema dell´incontro la richiesta di espulsione verso l´Italia dei fratelli Pasquale, Paolo e Gaspare Cuntrera ritenuti dalla magistratura italiana responsabili di un enorme traffico di sostanze stupefacenti con basi in Venezuela, Canada ed Italia. I tre fratelli sono accusati anche dei reati di associazione mafiosa e riciclaggio. Le autoritá italiane hanno giá chiesto tre volte negli ultimi dieci anni la consegna dei Cuntrera ma il governo venezuelano ha sempre bloccato il provvedimento.[34]

Giovedì 21 maggio 1992 [35]

Alle ore 9.00 si svolge il terzo ed ultimo incontro tra Paolo Borsellino ed i giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo per definire gli ultimi particolari dell´intervista relativa all´inchiesta giornalistica sul ruolo di Cosa Nostra in Europa..

Alle ore 15.30 nella sua abitazione di via Cilea a Palermo Paolo Borsellino rilascia a Calvi e Moscardo l’intervista in cui descrive alcuni dei canali di riciclaggio di denaro sporco della mafia al nord Italia. In particolare parla di Vittorio Mangano e dei suoi legami con Marcello Dell’Utri. Dice inoltre che a Palermo è in corso un’inchiesta aperta con il vecchio rito istruttorio che vede coinvolti Mangano Vittorio, Dell’Utri Marcello e Dell’Utri Alberto. Questa inchiesta, della quale Borsellino dice di non occuparsi personalmente (Borsellino ha la delega solo per Trapani ed Agrigento), dovrebbe concludersi entro ottobre dello stesso anno.

La notizia di tale inchiesta è assolutamente nuova. Fino ad allora le vicende processuali di Vittorio Mangano e dei fratelli Dell’Utri erano state sempre separate: Vittorio Mangano era già stato coinvolto in numerosi procedimenti giudiziari (tra cui il maxi-processo) mentre i gemelli Dell’Utri erano stati imputati di bancarotta fraudolenta nel crack di alcune società nel nord Italia (Marcello Dell’Utri: crack Bresciano, Alberto Dell’Utri: crack Venchi Unica), ma i tre non erano mai stati indagati contemporaneamente in un unico procedimento.

La cosa strana è che Borsellino parli di questi temi in un’intervista televisiva e non con i suoi più stretti collaboratori. Ad esempio Antonio Ingroia, PM a Palermo, pur lavorando ogni giorno a stretto contatto con Borsellino ed essendo uno dei più fidati collaboratori del procuratore aggiunto, ha affermato che mai Borsellino gli aveva confidato notizie collegate ai nomi ed ai contenuti dell’intervista ai giornalisti Calvi e Moscardo.[36]

Dell’inchiesta aperta secondo il vecchio rito istruttorio si perderanno le tracce. I nomi di Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano verranno affiancati solo a partire dall’estate 1994 all’interno di due inchieste aperte dalla Procura di Palermo: una a carico di Marcello Dell’Utri che terminerà nell’estate del 1996 (dopo una fuga di notizie sul TG5 di Enrico Mentana) con la richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa dell’imputato, l’altra a carico fra gli altri di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi (procedimento detto “sistemi criminali”) che verrà invece archiviata su richiesta della stessa procura.

A Catania una donna, moglie di un poliziotto, sta “giocando” con un dispositivo per intercettare i cellulari e capta una conversazione fra due siciliani che parlano di un attentato in programma per il giorno successivo: “Lo facciamo saltare al secondo ponte dell’autostrada... gli strizziamo le palle... lo bastoniamo, così capiscono chi comanda…arriva con la moglie”. La telefonata è intercettata a Catania ma i due interlocutori parlano in dialetto palermitano. La donna informa il marito e questo i vertici della questura di Catania, partono i controlli sull’autostrada A18 Catania-Messina ma non viene trovato nulla. Il questore Bonsignore invierà una segnalazione a Palermo solo il 24 maggio, cioè 24 ore dopo la strage di Capaci.

L’agenzia giornalistica Repubblica pubblica un articolo anonimo che risulterà essere di Vittorio Sbardella. In quest’articolo compare la tragica previsione di quello che avverrà di lì a due giorni: C´é da temere, a questo punto, che qualcuno rispolveri la tentazione tipicamente nazionale al colpo grosso. Le strategie della tensione costituiscono in questo paese una metodologia di uso corrente in certe congiunture di blocco politico. Quando venne meno la solidarietà nazionale ed il sistema apparve anche allora bloccato, ci ritrovammo davanti il rapimento di Moro e la strage della sua scorta. Non vorremmo che ci riprovassero: non certo per farci ritrovare un Andreotti a gestire ancora l’immobilismo di un sistema (visto che i tempi sono mutati ed Andreotti è politicamente deceduto) ma magari uno Spadolini od uno Scalfaro quirinalizzati…[37]

Giovanni Falcone partecipa ad una cena presso la residenza dell´ambasciatore statunitense a Roma Peter Secchia.[38]

Venerdì 22 maggio 1992

L’agenzia giornalistica Repubblica pubblica un altro articolo in cui si prevede un “bel botto esterno”. Anche quest’articolo risulterà scritto da Vittorio Sbardella: Avremo dunque la candidatura obbligata e vincente di Spadolini? Manca ancora, perché passi in modo indolore questa candidatura del “partito trasversale”, qualcosa di drammaticamente straordinario. I partiti cioè, senza una strategia della tensione che piazzi un bel botto esterno – come ai tempi di Moro – a giustificazione di un voto di emergenza, non potrebbero accettare di autodelegittimarsi. Per fortuna, le brigate rosse e nere oggi sono roba da museo. E, comunque, i poteri dello Stato hanno accumulato esperienza e dimostrato professionalità…[39]


Sabato 23 maggio 1992

Lungo l’autostrada che da Punta Raisi porta a Palermo, all’altezza dello svincolo per Capaci, esplode una carica di 500 Kg di tritolo al momento del passaggio del giudice Falcone e della scorta. La prima vettura del corteo viene completamente investita dall’esplosione (Speciale LA REPUBBLICA, Speciale CORRIERE DELLA SERA).

Gli agenti di scorta Antonino Montinaro, Vito Schifani, Rocco Di Cillo vengono uccisi sul colpo.
Sulla seconda vettura del corteo viaggiano Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e l’agente di scorta Giuseppe Costanza. Francesca Morvillo muore pochi ore dopo a causa delle gravi lesioni interne riportate, stessa sorte per Giovanni Falcone che spira tra le braccia di Paolo Borsellino. L’agente di scorta Costanza riporta alcune ferite ed un forte choc ma sopravvive all’attentato. Feriti ma salvi per miracolo anche gli alti tre agenti che viaggiavano sulla terza vettura blidata che chiudeva il corteo di scorta a Falcone: Paolo Capuzzo, 31 anni, Gaspare Cervello, 31 anni e Angelo Corbo, 27 anni.


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Nella foto da sinistra: Francesca Morvillo (47 anni), Vito Schifani (27 anni), Rocco Di Cillo (30 anni), Antonio Montinaro (30 anni)
(immagini tratte da
I caduti della Polizia di Stato)

Paolo Borsellino viene informato telefonicamente poco dopo le 18 da un collega dell´attentato che ha coinvolto l´amico Giovanni. In quel momento Borsellino e´ nella bottega del barbiere Paolo Biondo in via Zandonai a Palermo: appena terminata la telefonata prende due banconote da diecimila lire, quasi le lancia Biondo e balza fuori dalla bottega. Si precipita a casa dove informa i figli Manfredi, Lucia e Fiammetta dell´accaduto. La moglie Agnese non e´ al momento a casa. Borsellino si reca subito dopo con la figlia Lucia all´ospedale civico di Palermo dove sono stati portati i feriti della strage: chiede dov´é Falcone, i medici lo riconoscono, lo prendono sotto braccio, lo accompagnano oltre una porta a vetri. Lucia lo aspetta fuori finche´ lui non ricompare dopo diversi lunghi minuti: e´pallido, curvo, smarrito. Il giudice abbraccia la figlia, dice poche parole: "E´ morto cosi´, tra le mie braccia." [40]

I primi membri del governo ad arrivare a Palermo sono i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, giunti in elicottero nel pomeriggio. Rimangono per circa venti minuti nell´istituto di medicina legale. Insieme a loro anche il Presidente della Commissione antimafia Gerardo Chiaromonte, il procuratore Pietro Giammanco, il prefetto Mario Jovine ed il questore Vito Plantone. Nessuno di loro rilascia dichiarazioni all´uscita della camera mortuaria.[41]


Il TG1 RAI
in edizione straordinaria presenta intorno alle ore 21.30 le prime immagini dal luogo dell´attentato:



(Fonte: Focusstoria)

Molti membri di Cosa Nostra in carcere all´udire la notizia dell´attentato festeggiano. Nel carcere di Spoleto i boss brindano davanti alla televisione e Salvatore Madonia, della famiglia di Resuttana, apre una bottiglia di champagne pronta da tempo: “U sceccu u pigghiaru (l´asino, il ciuccio, l´hanno preso, ndr)”, urlano soddisfatti dandosi pacche sulle spalle.[42]

Domenica 24 maggio 1992:

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Alle 9 del mattino, nell´atrio al pianterreno del palazzo di giustizia viene allestita la camera ardente. Quando arrivano le bare, tutti i magistrati, con la toga sulle spalle, sfilano in silenzio. Con Borsellino c´e´ tutta la famiglia: Agnese, Manfredi, Lucia e Fiammetta. C´e´ Antonino Caponnetto, bianco in volto, con un fazzoletto stretto tra le mani, arrivato in volo da Firenze dove da poco e´ andato in pensione.

Una forte contestazione, al Palazzo di giustizia di Palermo, investe il presidente della Repubblica supplente Giovanni Spadolini ed i due ministri che lo accompagnano: Scotti e Martelli. Quando il corteo entra nel vasto atrio del palazzo, dalle transenne dietro alle quali e´ ammassato un folto pubblico partono fischi e grida: "vergogna", "fuori", "andatevene via", "tornatevene a Roma". Spadolini ed i ministri riescono comunque a raggiungere la camera ardente dove sono esposte le salme del giudice Falcone e della moglie e dei tre agenti della scorta deceduti al momento dell´attentato.[43]

Alla Camera ardente la madre del pugliese Vito Schifani ricorda. "Tante volte tornava a casa all'una alle due di notte. Ora non ricevero' piu' la sua telefonata che mi avvertiva del ritardo". Le e' accanto l'anziano marito e la nuora Rosaria, ventiquattro anni, minuta, capelli castani. La giovane si abbandona alla disperazione ed e' sorretta da un parente. Avvicina alla cassa il figlio di quattro mesi, Antonio Emanuele, e gli dice: "Guarda dov'e' papa' ". La donna ha voluto vedere per l'ultima volta il corpo straziato del compagno. Inutilmente medici e magistrati hanno tentato di impedirglielo nell'Istituto di medicina legale. "Almeno ho potuto accarezzargli le mani, lo amero' sempre". Sabato i coniugi erano stati assieme, fino a tre ore prima dell'agguato della mafia. Sarebbe stato, in quel giorno, l'ultimo turno di servizio per Schifani. Il poliziotto siciliano era molto apprezzato. Spesso gli assegnavano particolari missioni, servizi investigativi speciali contro le cosche.

Erano pugliesi gli altri due agenti morti. Accanto alla bara di Rocco Di Cillo, 30 anni, la fidanzata Alba Terrasi piange sommessamente, poi esplode: "Perche' ti hanno chiamato in turno? Saresti ancora vivo...". E la madre dell'agente ucciso: "Portami con te. Perche' l'hanno fatto, eri bellissimo...". A Treggiano, alle porte di Bari, tutti conoscevano il poliziotto. Di mattina, sotto casa dei genitori, una modesta abitazione vicina alla piazza principale del paese, parenti e amici si raccolgono. La persiana e' chiusa. Qualcuno sta gia' mettendo i manifesti segnati a lutto ai lati del portoncino. Rocco era tornato appena due settimane fa a Triggiano. Aveva presentato alla famiglia la fidanzata palermitana. Il giovane aveva deciso: si sarebbe sposato l'anno prossimo. Ed era gia' pronta la nuova casa nel centro pugliese. Di Cillo aveva chiesto il trasferimento, ma avrebbe dovuto aspettare almeno due anni. Assegnato dall' 88 al servizio scorte, non aveva detto alla madre che sabato pomeriggio avrebbe accompagnato il magistrato. Per tranquillizzarla, le aveva anzi assicurato di essere da tempo impegnato in un ufficio: nessun motivo di preoccupazione quindi, nessun rischio. "Rocco era il migliore di noi - dice Giuseppe Panfilo, un coetaneo che si e' arruolato con lui in polizia - era paziente, gentile con tutti. Lo ricordo quando da ragazzi ci si accapigliava: Rocco era alto e forte, incuteva soggezione; ma usava sempre l'arma della convinzione. Credo che per questo decise di fare il poliziotto, aveva un naturale senso della giustizia, detestava i violenti e i prepotenti. Lo sfottevo: gli dicevo che assieme a Falcone faceva anche lui una vita blindata". "Era venuto anche qui in Comune - dice il vicecomandante dei vigili Nicola Quaranta -. Rocco era orgoglioso della sua ragazza e dell' Alfa 75 che aveva comprato a Palermo". Il sindaco di Triggiano, Nicola Pompilio, ha proclamato il lutto cittadino.

Ancora dolore tra i familiari di Antonio Montinaro, trent'anni, originario di Calimera, nel Leccese. Era l'uomo piu' vicino a Falcone: l'agente incaricato delle perquisizioni. Gli amici ricordano il giovane come un tipo allegro, spensierato, con la battuta pronta. A 19 anni era entrato in polizia. La questura di Bergamo era stata la sua prima sede, poi a Taranto e a Bari prima di essere trasferito a Palermo per le scorte durante il maxi processo. In quei mesi conobbe Tina Martines Mauro: dopo le nozze chiese il trasferimento definitivo nel capoluogo siciliano. Lascia due bambini. Montinaro parlava con entusiasmo delle sue esperienze di lavoro. Piu' di una volta aveva manifestato l'orgoglio di affiancare il giudice Falcone nei suoi spostamenti. Lo diceva anche alle quattro sorelle, raccomandando pero' di non raccontare nulla alla madre Carmela, sofferente di cuore. Nella camera ardente, uno dei fratelli dell'agente riesce soltanto a dire: "Questo dolore e' troppo grande".[44]

Nel pomeriggio Paolo Borsellino torna in procura a Palermo, é come se non riuscisse a staccarsi dall´ufficio, forse per restare piú vicino a Falcone. E si tuffa nelle indagini, iniziando in quello stesso momento la sua marcia di avvicinamento ai misteri di Capaci, alle ragioni per cui Falcone é stato assassinato, e a qulle che, alla fine, cancelleranno anche la sua vita. Parla con i colleghi, legge e rilegge il dossier sull´omicidio di Salvo Lima, assassinato a Mondello due mesi prima. Riprende il rapporto dei carabinieri del ROS su mafia ed appalti, un´inchiesta nata con Falcone procuratore aggiunto e culminata con l´emissione di ordini di cattura firmati dal procuratore capo Pietro Giammanco, a quel tempo al centro di una nuova polemica: é accusato di aver “insabbiato” la parte che chiama in causa alcuni politici nazionali e regionali. Gli stessi personaggi che saranno successivamente indagati od arrrestati in seguito a nuovi accertamenti. [45]

Corrado Stajano intervista Giuseppe Di Lello, componente del pool antimafia palermitano guidato da Antonino Caponnetto nella seconda metá degli anni ottanta. Di Lello racconta che Giovanni Falcone, persona razionale, attenta e coraggiosa, si preoccupo' molto del fallito attentato all´Addaura del 1989 e fece capire che non era stata soltanto la mafia a metterci lo zampino. “Perche' Falcone e' stato colpito oggi, in un momento di paralisi istituzionale?” chiede Stajano. “Proprio per questo. Negli ultimi tempi - risponde Di Lello - i poteri politici hanno inferto duri colpi alla mafia militare. La sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato le decisioni dei giudici dei maxiprocessi e' stata una sconfitta per il braccio armato della mafia, e' come se dicesse: Voi politici vi salvate sempre con i vostri marchingegni, e noi dobbiamo davvero sempre pagare per voi? Chi ci garantisce?

Stajano raccolgie anche le reazioni a caldo di altri protagonisti della vita civile siciliana: "Siamo senza forza", dice Letizia Battaglia, deputato regionale verde. "Sa che cosa dice la gente? Che sono stati loro, loro". "Non vorrei che Falcone fosse caduto per l'appoggio dato ai giudici di Milano", dice Pino Toro, dirigente di Citta' per l'uomo, movimento cristiano di base. "Dopo quell'attentato fallito dell' 89, Falcone disse subito che bisognava cercare un possibile movente sulle indagini per il riciclaggio di denaro sporco in Svizzera. Non per nulla, allora e oggi, i giudici svizzeri erano e sono protagonisti".[46]

Lunedì 25 maggio 1992

Oscar Luigi Scalfaro viene eletto Presidente della Repubblica. Per arrivare all´elezione di Scalfaro sono stati necessari sedici scrutini a partire da mercoledí 13 maggio.[47]

A Palermo si svolgono i funerali di Falcone, della moglie e della scorta. La tensione è altissima. Gli agenti delle scorte di Palermo formano un cordone attorno alle bare e nessuno può avvicinarsi. Uno di loro grida alle autorità in prima fila: ”Vergognatevi, dovete vergognarvi, dovete andare via, non vi avvicinate a queste bare, questi non sono vostri, questi sono i nostri morti, solo noi abbiamo il diritto di piangerli, voi avete solo il dovere di vergognarvi“.

“Mafiosi, io vi perdono, solo dovete mettervi in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare, di cambiare, di cambiare, dovete cambiare, cambiare, cambiare radicalmente i progetti di morte che avete.” É l´urlo straziante di Rosaria Costa, ventidue anni, vedova del poliziotto Vito Schifani, uno dei tre agenti di scorta di Falcone, massacrati nell´attentato.

Rosaria é una donna minuta, vestita di nero, con il volto segnato dal dolore. Con voce che esprime un´immensa dignitá , ad un tratto sale sull´altare, prende il microfono e lancia il suo sconvolgente appello ai mafiosi, che rimbomba tra le navate della grande chiesa:





(fonte: guerrillatelevision)

“A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo stato – scandisce Rosaria – chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia. Adesso, rivolgendomi agli uomini della mafia che sono anche qui dentro, certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c´é possibilitá di perdono. Io vi perdono.”

Rosaria vacilla, é emozionata, stremata, contratta dalle lacrime e dal dolore. Al suo fianco, don Cesare Rattoballi, il cugino sacerdote, che la sostiene quando lei, affranta, sembra venir meno alle sue forze. Nella commozione genrale Rosaria prosegue: "Tornate ad essere cristiani, per questo preghiamo in nome del Signore che ha detto sulla croce: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno".” La giovane donna ha la forza di gridare ancora: “Ti preghiamo per la cittá di Palermo che avete reso una cittá di sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia e la speranza.”

Quella di Rosaria é una preghiera laica, animata da due sentimenti contrapposti: la speranza che gli “uomini della morte” ascoltino il suo appello e “cambino vita”, e la dolorosa convinzione che i mafiosi non siano in grado, non vogliano riappropriarsi della loro dignitá di esseri umani. Quasi parlando con se stessa, tra le lacrime, Rosaria Schifani conclude il suo intervento in chiesa mormorando con un filo di voce: “... ma loro non cambiano, non cambiano”.[48]

Mentre Rosaria si accascia fra le braccia di don Rattoballi, numerosi agenti addetti alle scorte non reggono alla tensione e spingono i cordoni di sicurezza per avvicinarsi agli uomini delle Istituzioni. I poliziotti avanzano minacciosamente verso Spadolini e Scotti per gridare la propria rabbia e reclamare “giustizia”. La urlano piú volte, questa parola, mentre i colleghi in divisa faticano non poco a trattenerli e calmarli.

La tensione sale alle stelle. Il clima di doloroso dissenso si trasmette alla folla che assiepa le navate e che gremisce la piazza antistante alla chiesa di San Domenico: migliaia e migliaia di persone urlano, spingono e contestano con fichi ed insulti l´arrivo dei rappresentnati delle forze politiche ed istituzionali. La ressa é enorme, la gente sembra aver perso la testa, qualcuno sputa; i volti dei politici, anche quelli dei vertici delle forze dell´ordine sono tesi, atterriti.

É il momento piú critico di tutta la cerimonia. La contestazione dilaga e l´incolumitá dei vertici dello stato appare in pericolo. Politici, prefetti, ministri, deputati sembrano in balia della folla inferocita, sono terrorizzati.

Nonostante gli sputi e gli spintoni, i lanci di monetine e gli insulti, le guardie del corpo riescono ad erigere saldi cordoni, per impedire incidenti e consentire agli “uomini degli apparati” di guadagnare l´uscita sani e salvi. Non ci sono feriti.

Le bare vengono portate a braccia fuori dalla chiesa tra urla di proteste, fischi, applausi. Gli applausi sono tutti per i servitori dello stato, per le vittime del terrosrismo mafioso, quattro uomini ed una donna, ormai sigillati in quelle casse di legno avvolte dal tricolore. Le telecamere riprendono tutto, la rabbia della gente, la paura delle istituzioni. É l´immagine di un paese allo sbando.[49]

Al palazzo di giustizia di Palermo si svolge una riunione tesissima fra i membri del CSM, Martelli ed i magistrati di Palermo. Dalla cronaca di Andrea Purgatori per il Corriere della Sera:

Aula Magna del Palazzo di Giustizia. Ore 13.40. Il guardasigilli Claudio Martelli sta leggendo la decima delle tredici cartelle del suo discorso e, fissando la muta platea dei giudici siciliani, adesso scandisce con voce di pietra: "Quel che tecnici improvvisati, magistrati di parte e politici faziosi non avevano capito lo ha perfettamente capito la mafia. Le critiche maliziose, le insinuazioni subdole, i tentativi di delegittimazione...". Su quel "subdole" e su quel "delegittimazione", come una molla, scatta il sostituto procuratore di Sciacca, Lorenzo Matassa: "Come puo' dire queste cose!". Poi un coro: "Taci, mascalzone!". E dal centro della sala, la rabbia che gli gonfia la mascella e gli occhi, il sostituto procuratore di Palermo Gioacchino Scaduto, grida: "Ma come si fa? Usciamo! Andiamocene via!".

Giovanni Spadolini alza lo sguardo, sbalordito. Afferra la campanella, per interrompere il pericoloso circuito di una protesta che, dopo l'omelia della vendetta, dopo gli insulti ai politici sul sagrato di San Domenico, rischia di travolgere anche questa straordinaria seduta del Csm, convocato per commemorare l'ultimo giudice ammazzato nell'ultima strage di mafia. Ma Martelli e' impassibile. Non perde il controllo dei nervi. Continua a scandire le sue valutazioni, durissime. Conclude: "...la mafia ha scritto la parola fine alle polemiche eliminando fisicamente chi meglio l'aveva saputa combattere, confermando agli occhi dei dubbiosi, dei disonesti e dei rivali invidiosi che Falcone restava per la mafia il pericolo numero uno".

Ritorna il silenzio nell'aula magna. Per poco. Questo Palazzo di Giustizia e Veleni e' ormai una pentola a pressione con il coperchio saltato. Lo si era capito gia' domenica, davanti alle bare allineate. Lo conferma la reazione che ai discorsi di Spadolini e di Martelli viene dalla base, dalla truppa sempre sott' organico dei magistrati siciliani. Sbattuti in prima linea e adesso tirati dentro la polemica sulla "delegittimazione" d'un amico, bocciato dal Csm nella sua corsa alla guida d'una Superprocura antimafia proprio alla vigilia della esecuzione. Dunque, Falcone e' stato ucciso anche perche' pubblicamente isolato dai suoi stessi colleghi? Martelli non dice questo. Ma nemmeno tace la sua profonda convinzione. Che "piu' di un magistrato attivo nelle associazioni di categoria e in questo stesso Consiglio lo contesto' apertamente e duramente, anche tra coloro che fino a qualche giorno prima egli riteneva gli fossero piu' vicini". E tuttavia, aggiunge il ministro di Grazia e Giustizia, "non e' perduta" la battaglia di Falcone, come perduta non andra' la sua "lezione di serieta' , di sobrieta' , di professionalita' ". Falcone "vivra' " se ci saranno altri magistrati capaci di "raccogliere il suo testimone facendo rivivere la sua energia morale, la prova del suo coraggio e della sua indipendenza", se "anche superando le nostre incomprensioni, faremo lo Stato piu' forte contro la mafia, i mafiosi, i loro poteri e protettori, a cominciare da quelli che s' annidano nella politica e nei pubblici poteri, spazzando via i polveroni, i depistaggi, le dietrologie fuorvianti", se infine verranno qui in Sicilia e a Palermo "implacabilmente combattuti e vinti" i santuari mafiosi. Pochi applausi, grande tensione. Che nemmeno Spadolini riesce ad allentare, richiamando nel suo discorso d' apertura il Paese alla scelta di una possibile e unica strada: "Quella della lotta per riaffermare il potere visibile della Repubblica contro tutti i centri di potere occulti, inquinatori della vita pubblica e distruttori della civile convivenza". Ricorda la strage di via Fani e l'assassinio di Moro e l'esempio eroico di Falcone, ricorda sua moglie, i tre agenti della sua scorta. "Questo e' il giorno del dolore. E' il giorno dello sdegno e della esecrazione", dice. Ma occorre andare avanti, nell'unita' del Paese: "Occorre far si' che l' intera nazione respinga l'attacco che, una volta di piu', e' stato portato al cuore delle sue istituzioni democratiche. Dalla vittoria contro la delinquenza dipende l'avvenire della Repubblica". E invece gli applausi arrivano con forza polemica a sostegno del discorso del vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni. Che ricorda i tre agenti della scorta di Falcone, tutti gli agenti di scorta, "i nostri collaboratori di ogni giorno, uomini con i quali condividiamo i rischi, che ci sono di esempio nella loro umilta' e dedizione al servizio". Che, rivolto a Martelli, rivendica la liberta' di giudizio del Csm a proposito della Superprocura e nella valutazione di tutti i candidati "altamente titolati" a guidarla, non solo di Falcone. Che insiste: "Vorrei assicurare il ministro che ci siamo mossi ben al di sopra e al di la' della babele delle polemiche. Ma quando un organismo deve decidere, deve essere lasciato libero. Non ci possiamo lasciare vincere dalle passioni".

Piove, su Palermo e sul Palazzo di Giustizia e Veleni. "Sono cinquant'anni che il ministero dell'Interno e' in mano alla Dc. Questo non succede nemmeno nella Repubblica delle banane", grida Matassa in faccia a Spadolini. E Scaduto, con gli occhi arrossati: "Calunnie, quelle di Martelli. Che ministro spero lo resti ancora per poco. Io non condividevo le idee di Giovanni ma ero suo amico, ero amico di Franca. In un momento di dolore, come si fa a dire queste cose...".[50]

Giuseppe di Lello si alza e si allontana: “Dissento dal tentativo del ministro Martelli di collegare le critiche mosse dai magistrati alle scelte di politica giudiziaria fatte ultimamente da Falcone con il suo assassinio. Se c’e’ stata una delegittimazione questa è venuta da parte del potere politico che ha esposto Giovanni Falcone come unico avversario valido contro il braccio armato della mafia. Senza che la classe di governo mostrasse identica determinazione nel fare pulizia al suo interno.”[51]

Andreotti (dimissionario Presidente del Consiglio) dichiara in parlamento: “Il governo non intende in alcun modo deflettere dalla linea perseguita per combattere la piovra mafiosa con gli strumenti dell’ordinamento democratico.” Bossi tuona alla camera sulla “strategia della tensione che non è finita e che riparte dal Palazzo”. Il ministro dell’interno Scotti dichiara che “la mafia punterà su obiettivi sempre più eccellenti e la lotta si farà sempre più cruenta, la mafia vuole destabilizzare lo stato e piegarlo ai propri voleri”. [52] Inoltre ricorda che già all’indomani dell’omicidio aveva lanciato un allarme congiuntamente al Capo della Polizia Parisi basato sulle dichiarazioni della fonte Elio Ciolini e di altre molto più serie ed attendibili fonti.[53] Il capo della polizia Vincenzo Parisi indica i tre possibili moventi della strage di Capaci: fermare l’uomo destinato a guidare la Superprocura, vendetta mafiosa, intimidire il paese.

“Il giorno dopo la strage di Capaci – ricorda quindici anni dopo don Cesare Rattoballi, oggi parroco di Godrano, a due passi da Palermo – Borsellino rimase per quasi tutta la notte a vegliare la salma di Falcone e la cosa che mi colpí fu che portó a spalla tutti i feretri, tranne quello del marito di mia cugina, Rosaria Schifani. A lei si avvicinó abbracciandola e restandole vecino anche nei giorni successivi.”

Prosegue don Rattoballi: “I nostri rapporti si intensificarono da quel giorno. Borsellino era convinto che la lacrme di mia cugina dal pulpito di San Domenico avessero smossoi cuori dei mafiosi. A casa sua, mi disse: Cesare, ho ricevuto segnali dal carcere, anche i piú duri stanno crollando, bisogna insistere.”

Quella cerimonia a San Domenico, finita nel caos della contestazione, viene metabolizzata con difficoltá da Borsellino, come un´esperienza altamente traumatica. Pallido, muto, il procuratore aggiunto resta per tutto il tempo della funzione vicino alla bara di Falcone. Guarda quello spettacolo doloroso con angoscia. La crisi di credibilitá delle Istituzioni, la tremenda crisi che si é manifestata ai suoi occhi tra le navate della chiesa non puó che colpire profondamente un uomo di stato come Borsellino, che per quelle Istituzioni nutre un´autentica venerazione. Gli errori, certo, sono degli uomini, non dei ruoli. Ma quanto la gente onesta di Sicilia, dopo il “botto” di Capaci, é disposta a fare ditinzione tra uomini e ruoli?

La sera, tornando a casa, Borsellino é sconvolto, affranto, rifiuta persino di parlare a suo figlio di quello che ha visto a San Domenico. Ricorda Manfredi: “Mio padre rimase sotto choc per quello che aveva visto in chiesa quella mattina. La contestazione dei palermitani, le urla, il lancio di monetine contro gli esponenti di governo, la rabbia trattenuta a stento dai cittadini, lo avevano turbato profondamente, a tal punto che la sera, tornando a casa, non volle neanche rispondere alle mie domande.” [54]

Enzo Biagi ricorda sul Corriere della Sera il matrimonio di Giovanni Falcone con Francesca Morvillo. “Ero a cena con Giovanni Falcone e con Francesca Morvillo, una sera del 1987, in casa di un amico, Lucio Galluzzo, a Palermo: a mezzanotte andarono a sposarsi. "Come due ladri", dissero poi, solo quattro testimoni, cosi' vuole la legge. Uscivano da tristi vicende sentimentali, e si erano ritrovati, con la voglia di andare avanti insieme, fino in fondo, fino alla strada che dall' aeroporto conduce in citta'. "Perche' non fate un bambino?" chiesero una volta a Giovanni. "Non si fanno orfani - rispose - si fanno figli".” [55]

Sul Corriere della Sera compare un ritratto di Francesca Morvillo:

Ci sono tre cassetti pieni di foto. Dovrebbero raccontare i viaggi, le brevi fughe, le rapide vacanze, le gite in barca, le domeniche casalinghe di Giovanni e Francesca Falcone ma il mare, i paesaggi, gli sfondi s'intravedono appena e non si capisce mai dove sono scattate queste centinaia di istantanee, tutte centrate sul volto, sul sorriso, sugli occhi di un angelo con la piega dei capelli sempre in ordine, dolce e naturale nei suoi tratti pacati, sereni, concilianti. Partivano e tornavano solo con i primi piani di lei che fingeva di protestare, felice perche' quelle erano dichiarazioni d'amore. Ed ogni volta le sembrava di rivivere le stesse esplosioni di quella sera del '79, a casa di amici, quando con uno sguardo comincio' la loro bellissima storia, adesso tranciata nel sacrificio di un massacro temuto nel tempo, esorcizzato con battute spiritose, rinviato ma quasi atteso con il tormento di chi e' costretto a convivere giorno e notte con il terrore di un futuro incerto. I loro matrimoni erano falliti e, insieme, cominciavano unavventura che coincideva con le prime devastanti imprese di una mafia ancora piu' sanguinaria e spregiudicata di quella agraria. Lei, bella ed elegante, al Tribunale dei minorenni doveva combattere ogni giorno contro la disperazione di ragazzi che non avrebbe mai voluto condannare "perche' sono stati gia' condannati dalla vita", come ripeteva ai colleghi. Lui si trovava di fronte una strada tutta in salita perche' un'inedita strategia antimafia imponeva di entrare nelle banche siciliane, violare i santuari della finanza, studiare economia, attrezzarsi culturalmente come mai era accaduto prima e come chiedeva il nuovo capo dell'Ufficio istruzione, Rocco Chinnici, l'uomo che scopri' e difese Falcone anche quando qualche alta toga di questo infido Palazzo palermitano provo' ad infangare la bellissima storia d'amore indicandola come "una tresca". Al presidente della Corte di appello, Falcone rispose sprezzante: "Non abbiamo nulla da nascondere e nulla da rimproverarci. Faccia pure cio' che ritiene di dovere...". Non accadde nulla ma a Chinnici fu consigliato di riempire "di minuzzaglia", di tante piccole indagini, quel giovane magistrato che rischiava di "rovinare l'economia di Palermo", come lo stesso Chinnici annoto' nei suoi diari. Amarezze. Sgambetti a volte provocati da intese inconfessabili fra potenti della politica e della magistratura, a volte da gelosie e rancori personali. Piccolezze umane che Giovanni e Francesca provavano a tenere fuori dalla porta di casa, al quarto piano di un moderno palazzo di via Notarbartolo, una sorta di bunker in pieno centro con tanto di garritta, autoblindo e uomini armati sul marciapiede. Fra mobili e divani Ottocento, bei tappeti, ricordini d'argento alle vetrine, ricercate collezioni di stilografiche e una gamma in continua evoluzione di Tv color, videoregistratori, stereo, e computer avevano costruito un rifugio con i tavoli sempre coperti di codici, fascicoli processuali, schede e sentenze. Qui si e' rafforzata un'intesa perfetta che adesso sembra raccontata dalle foto accarezzate dalla mamma di Francesca, la signora Lina Morvillo, una presenza costante perche' lei abita in un appartamento vicino. In questa bomboniera gia' ammantata dalla nebbia dei ricordi ci sono ancora i divani coperti dai drappi che Francesca aveva adagiato prima della sua ultima partenza per Roma. Un modo per evitare la polvere. Ma la signora Lina proprio sabato mattina era salita per l'acqua alle piante e, vedendo quei divani coperti, ha avuto un attimo di smarrimento: "Mi fanno impressione". Solo un soffio leggero al cuore, poi scoppiato la sera davanti al Tg con la notizia sull'attentato che nessuno le aveva comunicato perche' anche il figlio Alfredo, pure lui magistrato in Procura a Palermo, fremeva in ospedale sperando nel miracolo. Si sono sposati una sera di maggio, cinque anni fa, in municipio, in gran segreto con pochi testimoni e con la complicita' di Leoluca Orlando, il sindaco allora in sintonia con Falcone. Un atto ufficiale per suggellare il tenero intreccio di due personalita' distinte ma ormai dipendenti l'una dall'altra. Lui vulcanico, pronto a gite improvvise e ad una cena fra amici dopo 9 ore di interrogatori. Lei riflessiva, capace di trasmettere serenita' ma attratta da compagnie briose, come ai tempi dell'universita', quando si laureo' giovanissima vincendo il concorso in magistratura a 22 anni appena, felice di questo regalo al papa' magistrato, subito dopo morto sotto i ferri di un medico che per errore gli trancio' la vena iliaca. Un dolore infinito evocato da Francesca per spiegare perche' non poteva lasciare Palermo: "Mia madre senza di me muore". Cosi', aveva deciso di non seguire il marito a Roma, ma di dividere la sua vita e la settimana: da lunedi' a mercoledi' mattina in Corte di appello e subito dopo aereo per Roma con la valigia zeppa di carte processuali. Pur tornando dalla mamma per i weekend, poteva finalmente stare vicino al suo Giovanni, curare quelle due stanzette dell'alloggio ricavato al distretto di polizia, fra il Pantheon e Montecitorio, e rivelare un grande segreto agli amici: "Siamo andati al supermercato e Giovanni ha fatto la spesa con me". Era la conquista di una normalita' sempre negata a Palermo dove lei non poteva chiedere nulla al marito, dove si era rassegnata a fare un abbonamento per la prosa del Biondo e per i balletti del Massimo, ad organizzarsi con un paio di amiche per vedere i film piu' recenti. Fu allora, con la bomba inesplosa nell'89 dell'Addaura, che Francesca tremo' davvero, incerta del destino ma certa del suo ruolo di compagna di un uomo-simbolo. Lo scongiuro' solo una volta: "Parti!". Poi accetto' di vivere in quella villa di giorno, tornando a Palermo tutte le sere e lasciandolo solo, con la scorta, luci e stereo accesi, perche' la mafia capisse che non mette paura, che non puo' vincere.[56]

Martedì 26 maggio 1992

Scalfaro incontra gli agenti delle scorte di Palermo durante una visita nel capoluogo siciliano e si impegna in prima persona nel sostenerli nella lotta alla criminalità organizzata.

Paolo Borsellino rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica in cui indica la coincidenza tra l’omicidio di Falcone e la notizia appresa a Napoli pochi giorni prima da alcuni colleghi del CSM che si era formata la maggioranza per approvare la candidatura di Falcone alla guida della DNA. Borsellino sostiene inoltre che le puntate a Palermo di Falcone si sarebbero presto diradate perché la moglie aveva ottenuto la nomina a commissario esaminatore per i concorsi in Magistratura presso il ministero di Grazia e Giustizia a Roma. La notizia era ampiamente nota al Palazzo di giustizia di Palermo. L’omicidio viene fatto a Palermo perché è un omicidio di mafia e come tale va fatto dove la mafia controlla il territorio. Il controllo totale del territorio assicura al mafioso l’impunità. Borsellino afferma tra l’altro che “non si può affrontare la potenza mafiosa quando le si fa un regalo come quello che le è stato fatto con i nuovi strumenti processuali adatti ad un paese che non è l’Italia e certamente non la Sicilia. Il nuovo codice, nel suo aspetto dibattimentale, è uno strumento spuntato nelle mani di chi lo deve usare. Ogni volta, ad esempio, si deve ricominciare da capo e dimostrare che Cosa Nostra esiste”. [57]

Paolo Borsellino rilascia un´intervista anche al Corriere della Sera in cui sottolinea come il nome di Giovanni Falcone fosse circolato nei giorni immediatamente precedenti alla strage di Capaci come possibile candidato per il ministero dell´interno in un governo tecnico. “Ma Giovanni Falcone ne aveva nemici? Perché a giudicare dalle reazioni di questi giorni si direbbe di no” chiede il giornalista. "Io so che nel 1988 doveva prendere il posto di Caponnetto come consigliere istruttore e gli preferirono Meli. Poi tentó d'andare al Csm e non ce la fece. Non voglio parlare di nemici, peró le cose sono andate in questo modo. Tragga lei le conseguenze" la secca risposta di Borsellino. Il giornalista chiede poi al procuratore aggiunto di Palermo la sua opinione sui moventi della strage: “Anche se la domanda puó sembrarle superficiale, Giovanni Falcone é stato ammazzato per quello che aveva fatto o per quello che avrebbe potuto fare? Per le sue indagini o per la Superprocura?”. "Per quello che aveva fatto, sicuro risponde Borsellino - per la sua capacitá , la sua volontá. Sará pure un' osservazione elementare ma per il momento io proprio non riesco a fare che osservazioni elementari. Certo per le organizzazioni mafiose c' era anche qualcos' altro e di estremamente pericoloso che Falcone poteva fare. Lei sa benissimo che si era parlato di lui come candidato alla Superprocura ma era circolata intensamente anche una voce che lo dava candidato in una soluzione tecnica come ministro dell' Interno". Paolo Borsellino sottolinea infine la scelta di Cosa Nostra di colpire Giovanni Falcone in Sicilia: "Che lui sia stato la persona piu' in grado di condurre indagini penetranti nell' universo mafioso e che quindi per le organizzazioni criminali sia sempre stato un nemico estremamente pericoloso non ci vuole molto a capirlo. E non ci vuole nemmeno molto a capire perche' lo abbiano ammazzato ora: con il prossimo trasferimento della moglie a Roma, un lungo trasferimento, le sue abitudini palermitane, che poi consistevano nei viaggi del fine settimana, si sarebbero diradate o almeno fortemente alterate." [58]

Il Procuratore distrettuale di New York Charles Rose dichiara: ”Il massacro è tutto made in Italy. E’ la filiale siciliana di Cosa Nostra che ha voluto, ordinato ed organizzato l’assassinio. La mafia americana, lo so per certo, disapprova. Perché le famiglie americane non avrebbero mai né tollerato né tanto meno ordinato un gesto terroristico così vistoso e simbolico. La mafia non vuole simboli, vuole potere e soldi. Neppure i boss più feroci di Cosa Nostra hanno mai voluto colpire personalità dello Stato così visibili come era Giovanni, perché essi sanno benissimo quali rischi comporta attaccare frontalmente lo Stato. Quell’attentato terroristico è un gesto di paura. In più è un atto di solitudine della mafia siciliana, perché in questo momento nelle centrali americane di Cosa Nostra, nelle ville dei boss colombiani, dovunque la mafia faccia affari, sono in molti a scuotere la testa e a preoccuparsi di quello che la filiale siciliana ha fatto. Se i boss di Sicilia avessero chiesto a quelli americani la loro opinione, qui gli avrebbero chiesto se stessero diventando pazzi. Le varie organizzazioni collaborano strettamente negli affari. I colombiani e gli americani forniscono di cocaina l’Europa, passando per la Spagna, per l’Italia, per l’Olanda. Gli italiani vendono l’eroina agli americani e periodicamente gli emissari si incontrano per discutere forniture, prezzi, riciclaggi di denaro, banche complici, siano esse nelle isole Caiman, nelle Bahamas o nella Svizzera, oggi un po’ sospetta perché i magistrati elvetici collaborano un po’ troppo con le inchieste. Ma quando si tratta di misurarsi con gli Stati e le leggi delle singole nazioni, ognuno deve sbrigarsela da solo. Qualche tempo fa nel corso dell’istruttoria Musso e della famiglia Lucchese abbiamo saputo che Cosa Nostra in Florida aveva chiesto ai colombiani il favore di eliminare una persona scomoda nella stessa Florida. I colombiani hanno subito risposto “no grazie. Noi vi forniamo la roba, i vostri omicidi ve li fate da voi”. Credo che una mafia che si mette a sparare ai simboli come fanno i terroristi, senza più neppure il coraggio di guardare in faccia le sue vittime, una mafia che deve ammazzare con il telecomando, è una mafia che sta perdendo la guerra, che sente l’alito della legge sul collo. E che è condannata a perdere il bene più prezioso per ogni organizzazione criminale di quel tipo, cioè la complicità attiva o passiva della popolazione entro la quale si muove.”[59]

Sul Corriere della Sera compare un´intervista a Tina Montinaro, vedova di Antonio Montinaro, caposcorta di Giovanni Falcone:

Quarta panca, un posticino per tutti e tre. Lei, fasciata di nero, bella e sfinita nei suoi 32 anni, e' l'immagine di una tragedia che la diretta tv fa rimbalzare di casa in casa come una riproduzione della Pieta'. Alta e immobile, un braccio cinge un bimbo di 17 mesi col ciuccio in bocca e una mano sfiora il capo riccioluto di un altro marmocchio di 4 anni mentre i suoi occhi umidi volano sulla folla e s'aggrappano alla bara del marito, Antonio Montinaro, agente scelto, caposcorta di Falcone, ombra perenne del giudice. Scorrono le parole dei salmi, dell'omelia, delle preghiere e Tina, che ascolta sfiduciata, scuote appena il capo quando l'altra giovanissima vedova chiede dal pulpito ai mafiosi di inginocchiarsi in cambio del perdono. "No, loro non si inginocchiano", commenta Tina con un sussurro carico di diffidenza per questa "citta' senza amore", come spiega senza perifrasi col suo accento napoletano, intatto nonostante i sei anni a Palermo accanto al suo Antonio: "Dopo Falcone la giustizia e' andata a farsi fottere. E quindi non ne chiedero' perche' anche se la chiedessi nessuno ne farebbe. Ai mafiosi magari danno 30 anni, ma poi l'anno appresso glieli riducono a 15 e molti sono gia' liberi dopo qualche mese. La mitraglia ci vorrebbe". Accarezza i suoi piccoli e promette sottovoce: "Non vi faro' vivere qui figli miei, non vi faro' vivere dove hanno ucciso papa'. Dovro' lasciare il mio negozio di detersivi ma andremo via da Palermo". I suoi capelli dai riflessi rossi sono raccolti da un cerchietto sopra la fronte alta, su un viso di cera segnato da grandi occhi neri e dal profilo mediterraneo che conquisto' Antonio a prima vista. Riesce a sorridere e a piangere insieme ricordando l'abbordaggio con quel giovane alto, dinoccolato, riccioluto e anche un po' fiero e pieno di se' : "Lascia i tuoi amici e le tue amiche. Non uscire con loro. Non sai che cosa ti perdi. Con me non guarderai solo le stelle". Gli occhi di Tina brillano con lacrime frenate schiacciando le labbra fra i denti: "Mi disse proprio cosi'. E io andai con lui. Ci sposammo dopo pochi mesi. Ero felice. Avevo trovato il mio uomo per sempre. E invece l'ho perduto, non c'e' piu', c'e' solo il vuoto". Accadde un pomeriggio nella Palermo del primo maxiprocesso quando Antonio arrivo' in missione da Bergamo e trovo' alloggio nelle tre torri, i tre palazzoni affittati dalla Prefettura per i mille uomini di scorta. Era di passaggio e sperava di avvicinarsi presto a Lecce, magari facendo il pendolare con Calimera dove c'era papa', un pescivendolo, e mamma, una vecchina con i capelli colore dell'argento, anche lei ieri stretta nella quarta panca. Ma Antonio non torno' piu' a casa. Anzi brigo' per restare. Perche' nella sua nuova citta' aveva trovato la donna della sua vita, Tina, e un ideale chiamato Giovanni Falcone. "Si' , Falcone per lui era un Dio. E in effetti era uno dei pochissimi uomini puliti. Antonio ha fatto la morte di cui parlava sempre. Lo ripeteva spesso: "Se devo morire voglio morire con lui". Un giorno lo sapranno anche loro...", sospira Tina, dolce nelle carezze per il piccolo Giovanni, riccioli chiari e il ciuccio verde come la tutina con una frase colorata, "Je suis tendre" (sono tenero). Si addormenta sul poggiapiedi Gaetano e lei lo tira su adagiandolo sulla panca, riagganciando con lo sguardo la "sua" bara: "Che mi resta di Antonio? Mi resta il ricordo di venerdi'. Si' , venerdi' scorso, il giorno del mio compleanno. Non e' potuto tornare a pranzo ma poi si e' fatto perdonare. La sera e' rientrato prima del solito e siamo stati fino a tardi insieme con i bambini. Una festa. L'ultima. Sabato mattina e' andato via, un boccone in mensa e poi all'aeroporto per Falcone, il suo ideale, il suo modello". [60]

Vincenzo Consola ricorda Giovanni Falcone dalle colonne del Corriere della Sera:

Falcone, il furore di un siciliano giusto

In un torrido fine giugno del 1963, a Ciaculli, un'Alfetta carica di tritolo uccideva, dilaniandoli, sette carabinieri: un tenente, tre marescialli, tre semplici guardie. Fu quell'esplosione il primo, tremendo cambio di linguaggio della mafia: dall'antico, rurale linguaggio dei pallettoni della lupara passava al linguaggio moderno e cittadino del tritolo; dalle vendette contro singoli avversari alle cieche, indiscriminate stragi con l'esplosivo o con le sventagliate di mitra. Ora in quella localita' sopra i colli che circondano Palermo, in mezzo ai fitti giardini di mandarini che in alto lasciano il posto alla scabra nudita' della roccia, si erge una stele che ricorda le vittime: "Alla memoria di coloro - che la mafia stronco' a Ciaculli - e del loro sacrificio - che trasformo' l'esecrazione in un moto di riscatto civile" vi e' sopra inciso. In quell'estate, ai funerali del tenente Mario Malausa e dei suoi uomini, crediamo abbia assistito, sgomento e addolorato, l'allora ventiquattrenne Giovanni Falcone. Fresco di laurea, crediamo che quei morti, il dolore e il furore per quei servitori dello Stato assassinati in quel modo, abbiano spinto il giovane a compiere la sua scelta di vita, a entrare nella magistratura. Era nato Falcone nel cuore della Palermo storica, nell'arabo quartiere della Kalsa, nell'antica piazza della Magione che le bombe della guerra avevano lacerato e ridotto in macerie, in una vaga spianata ancora oggi la' sotto il sole. Era figlio di un chimico, un uomo serio, rigoroso, morto prematuramente, e di Luisa Bentivegna, figlia di un ex sindaco di Palermo. Aveva compiuto gli studi medi al liceo Umberto, dove il bravo professore di storia e filosofia Franco Salvo esercitava una grande influenza sugli allievi. E aveva frequentato l'oratorio di San Francesco, presso i frati della chiesa medievale, dove era divenuto amico di un coetaneo nato nello stesso quartiere, nella piazza Vetreria, del futuro collega Paolo Borsellino. Falcone, Borsellino, il nisseno Giuseppe Ayala, l'abruzzese Giuseppe Di Lello, altri coetanei, sono i giovani di una nuova storia della magistratura palermitana: giudici che per una diversa coscienza civile, per profonda indignazione di fronte alla crescente violenza, alla barbarie vergognosa della mafia, a causa dei grandi delitti degli anni Settanta, degli assassinii di giudici sagaci e onesti, Costa, Terranova, Chinnici..., assassinii di carabinieri e poliziotti, si riunivano attorno al giudice Caponnetto a formare il pool antimafia che portera' all' incriminazione dei capi di Cosa Nostra, al grande processo del febbraio 1986. In quella mattina di vento, di pioggia, di grandine, ero anch'io a Palermo all'apertura del processo, entrai in quell'aula verde, in quel bunker a forma di grande ventaglio, salii sulla tribuna della stampa, fui spettatore e cronista di quella storica liturgia giudiziaria. Vidi, dietro le sbarre delle gabbie, i volti di famigerati mafiosi, di Luciano Liggio, sprezzantemente vestito con tuta da ginnastica e scarpe di gomma, di Giuseppe Bono, di Pippo Calo' ... Ma vidi soprattutto, oltre al presidente della corte Giordano, la figura smilza, il viso scavato di antico cavaliere spagnolo, del pubblico ministero Ayala, il volto olivastro, con la folta barba brizzolata, di Falcone. Mi raccontava un fotografo di Palermo, uno di quelli costretti a fotografare morti ammazzati coperti da giornali, da lenzuola per le strade di Palermo, che l'aveva impressionato in due mesi, mettendo accanto due foto del giudice Falcone, scattate a poca distanza una dall'altra, il rapido invecchiamento di quell'uomo. Incontrai poi Falcone, insieme ad Ayala, qualche anno fa a un ricevimento in casa di comuni amici. Ci presentarono, mi fecero sedere accanto a lui. Non scambiammo che qualche parola. Mi colpi' di quell'uomo, oltre alla sua ritrazione, al suo rifugio nel silenzio, l'immobilita' , del viso e della figura, la rigidita' quasi, in contrasto con quegli occhi neri, mobili e attenti. Capii che a quell'atteggiamento, a quella incapacita' di sciogliersi anche in un ambiente sicuro, in un contesto conviviale, l'aveva ridotto la vita disumana, da segregato, in continuo allarme per ogni rischio, per ogni pericolo che improvvisamente poteva presentarglisi, per l'enorme peso di lavoro, di responsabilita' che era costretto a sostenere. Ayala invece reagiva a quella vita in modo del tutto opposto: con vivace, calorosa colloquialita', con allegria. Falcone non aveva piu' la barba brizzolata, gli erano rimasti solo i baffi sopra quelle labbra dalla parola avara, in quel viso da arabo con quell'espressione pensosa, triste, di uomo "con toda su muerte a cuestas", come dice il poeta. Aveva tanto lavorato e lottato per arrestare quel linguaggio fragoroso e mortifero della mafia, quel linguaggio del tritolo dall'accento ormai da terrorismo basco, da guerriglia libanese. E' stato fermato sulla strada che da Punta Raisi lo portava a Palermo, tra l'alta roccia e il mare. E' morto insieme alla povera moglie, Francesca Morvillo, ai fedeli uomini della scorta. La tonnellata di tritolo e' esplosa nella vacanza della suprema autorita', nel vuoto del governo dello Stato, mentre le forze politiche si staccano sempre piu' dalla realta' di questo Paese, si avvitano in loro stesse nella lotta per il potere. C'e' un famoso romanzo popolare palermitano, I Beati Paoli, scritto all'inizio del secolo da Luigi Natoli, in cui si racconta di una settecentesca setta segreta che nella carenza del "braccio della Giustizia" statale, compiva vendette, faceva eseguire omicidi. La strage di oggi ci fa sospettare che una setta di Diabolici Paoli, massonerie, logge segrete, servizi deviati dello Stato o quant'altro, in questo momento delicato, come in altri simili momenti, servendosi della mafia, o al di la' o al di sopra della mafia, compia simili stragi perche' i misfatti restino impuniti, per gettare il Paese nella confusione, nel terrore. Eliminando questa volta un uomo giusto ed eroico, uno dei siciliani migliori che non finiremo di rimpiangere; eliminando con lui altri quattro innocenti, nobili servitori dello Stato.[61]

Il capogruppo del Psi alla Camera, Salvo Ando', rilancia la accuse rivolte dal ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli ai membri del CSM ed ai colleghi di Giovanni Falcone che ne avevavo criticato la candidatura a Procuratore Nazionale Antimafia. “Quello che hanno fatto al giudice Falcone - ritiene Ando' - impone una discussione franca, vera, innanzitutto dentro il Csm. Cio' per capire quanto la fredda, paziente, distruttrice opera di delegittimazione del magistrato siciliano abbia oggettivamente favorito l'azione criminale decisa dalla mafia. Si pone per il Csm una questione morale che nessuno, in questo momento, puo' illudersi di occultare piangendo "piu' forte" degli altri".[62]

Mercoledì 27 maggio 1992

Paolo Borsellino torna a parlare pubblicamente di Falcone, come se non riuscisse a tenere per sé le riflessioni, come se avesse bisogno di condividere con l´opinione pubblica la sua ansia spasmodica di sapere, di capire, di conoscere. E a chi sostiene che Falcone fosse stato delegittimato e lasciato solo, replica: “Non condivido affatto l´opinione che Falcone fosse persona delegittimata”, dichiara al giornalista del Tg1-Linea notte, e di questa intervista il Tg1 delle 20.30 trasmette uno stralcio.

“Falcone – ammette Borsellino – aveva sicuramente degli avversari all´interno della magistratura, ma manteneva tutta la sua legittimazione e voglio dire di piú; ammesso che gli fosse fallito l´intento di essere nominato procuratore nazionale, come tutti sanno, anche recentemente, grossi esponenti politici avrebbero adirittura fatto l´ipotesi che Falcone avrebbe potuto approdare alla carica ancora piú prestigiosa, finanche come ministro degli Interni.” La voce della possibile candidatura di Falcone per un incarico in un governo di tecnici era stata infatti formalizzata dal segretario del Pri Giorgio La Malfa.

A pochi giorni dalla strage, le indagini girano ancora a vuoto, si fatica a ricostruire la dinamica dell´attentato sull´autostrada, ma l´insistenza sulla carica autorevole mantenuta al ministero dia Falcone, rivela la convinzione di Borsellino che questa autorevolezza, insita nel ruolo di favorito al vertice della Superprocura, o addirittura di candidato in pectore per il ruolo di ministro degli Interni, possa in qualche modo aver costituito un movente per gli stragisti decisi a fermare a tutti i costi questa progressione di carriera.[63]

Il Presidente del tribunale di Caltanissetta Placido Dall’Orto denuncia le gravi carenze di organico della Procura, destinata ad occuparsi delle indagini sulla strage di Capaci: ”Qui è molto peggio di Fort Apache, siamo allo sbando. In una situazione come la nostra la lotta alla mafia è solo una vuota parola, lo abbiamo detto tante volte al CSM.” [64]

Solo il procuratore Celesti ed il sostituto Polino sono titolari dell’indagine sulla strage di Capaci. Tutte le inchieste riguardanti i giudici di Palermo, Trapani ed Agrigento vanno a Caltanissetta per il meccanismo della legittima suspicione (Processi Montalto, Carlo Palermo, Saetta, Addaura, ecc.). Caltanissetta è il terminale più delicato del sistema giudiziario siciliano. Eppure i posti liberi restano senza aspiranti, i concorsi vanno deserti. Per esempio per la carica di Procuratore capo è pendente una sola domanda, quella di Tinebra, già capo della Procura di Nicosia.

Durante la trasmissione televisiva L’istruttoria condotta da Giuliano Ferrara su Italia 1 il ministro della giustizia Claudio Martelli dichiara: ”Bisogna riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore. Ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere alla carica. Non lo avevano fatto perché davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto per quella carica. E’ necessario dare loro la possibilità di concorrere.” [65]

Il ministro Martelli invia una lettera al CSM per suggerire la riapertura dei termini del concorso per il capo della DNA. "In seguito alla tragica scomparsa di Giovanni Falcone - scrive Martelli - segnalo l'opportunita' di riaprire i termini del concorso alla carica di Superprocuratore". E aggiunge: "Prego considerare che la proposta e' dettata da spirito costruttivo in relazione all' esigenza di permettere la partecipazione al concorso" di tutti gli aspiranti. Secondo il ministro, "ci sono decine di magistrati validi e capaci che non avevano presentato domanda per concorrere perche' davano per scontato che nessuno meglio di Falcone era adatto a quella carica".

La prima reazione ufficiale da parte del CSM é del consigliere Gianfranco Viglietta (Magistratura democratica), il quale mostra un senso di sorpresa davanti all' iniziativa del ministro. "Nella storia del diritto amministrativo - dice Viglietta - non si é mai vista una cosa del genere. Non ci sono precedenti. Sono molto perplesso. Pero' preferisco non aggiungere altro, perché con l'aria che tira é meglio stare zitti. Ad ogni modo, c'é una richiesta formale, la valuteremo in Consiglio e poi si vedra'.” [66]

Giovedì 28 maggio 1992

Alla presentazione a Roma del libro “Gli uomini del disonore” di Pino Arlacchi al tavolo siedono Vincenzo Parisi, Pino Arlacchi, Vincenzo Scotti, Paolo Borsellino e Leonardo Mondadori. Al termine della presentazione del libro si parla di Falcone e della superprocura, dal pubblico viene una domanda: “Dottor Borsellino, prenderebbe il posto di Falcone?” Borsellino esita alcuni secondi poi replica: ”No, non ho intenzione…”. A sorpresa interviene il ministro Scotti che dichiara: “Lo candido io. Con il collega Martelli abbiamo chiesto al CSM di riaprire i termini del concorso ed invito formalmente il giudice Borsellino a candidarsi.” Borsellino è imbarazzato ma dal suo viso trapela un’indignazione senza confini: ”Non so … comunque, nel caso dovesse esser proposto il mio nome, sarà necessario procedere alla riapertura dei termini per la presentazione delle candidature.” [67]

Appena rientrato a Palermo Borsellino parla con il suocero Angelo Piraino Leto e gli chiede un consiglio sul modo migliore per respingere la proposta di Scotti. L’improvvida uscita del ministro sconvolge Borsellino, perché né il Ministro degli Interni né altri gli hanno chiesto preventivamente un’opinione. Inoltre esporlo in questo modo equivale a metterlo nel centro del mirino mafioso. Uno dei più probabili scopi della strage di Capaci era infatti stato quello preventivo, cioè la mafia aveva voluto bloccare la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Pochi giorni dopo Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il maresciallo Canale con queste parole: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”. [68]

Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, ha testimoniato che la sera di quello stesso giorno era a tavola con altri associati all’organizzazione Cosa Nostra quando il TG3 trasmise le immagini di una conferenza stampa in cui Scotti e Martelli esposero la richiesta al CSM di riaprire il concorso per la Superprocura facendo esplicitamente il nome di Paolo Borsellino. All’udire queste parole Madonia esclamò: ”E murì Bursellinu”. [69]

La proposta di Scotti e Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore (ufficializzata da una lettera inviata dal ministro Martelli al vice-presidente del CSM Galloni e sostenuta dai repubblicani) è peraltro destinata a morire prima di nascere. Infatti la legge prevede che i termini del concorso possano essere riaperti solo nel caso in cui i candidati proposti dalla commissione per gli incarichi direttivi del CSM siano bocciati dal plenum.

Sono pesantemente rafforzate le misure di sicurezza attorno al PM milanese Antonio Di Pietro in seguito ad alcune attendibili minacce ricevute da lui e dalla sua famiglia.

Il CSM nomina Procuratore Capo di Caltanissetta il magistrato Giovanni Tinebra.

Domenico Sica, prefetto di Bologna ed ex-alto commissario antimafia, rilascia un´intervista relativa ai suoi rapporti con Giovanni Falcone. "Una delle storie – afferma Sica - che piu' mi hanno fatto arrabbiare, anche se sarebbe meglio usare una parola piu' greve, e' quella che fra me e Falcone ci fosse continuamente un conflitto e qualche breve periodo di pace. Non e' vero, abbiamo lavorato insieme una ventina d'anni, ognuno facendo la sua parte, in un rapporto di sana dialettica. Se vi erano disaccordi si discuteva, poi a volte qualcuno cambiava idea, perche' solo gli stupidi non la cambiano mai". Falcone, per Sica, non era stato solo. "La solitudine - ha spiegato - e' la condizione obbligata per un giudice che lavora seriamente. Ma nella sua attivita' ministeriale, che e' un lavoro di equipe, non poteva essere isolato. Nelle ultime conversazioni non mi era sembrato angosciato anche se ovviamente aveva messo in conto i rischi della professione. Poteva sembrare accigliato, ma in privato si poteva scherzare di tutto, anche di cose orribili, per sdrammatizzare". Non sa, Sica, se come dicono negli USA l'attentato e' una prova di debolezza delle cosche, sgradito per giunta a Cosa Nostra. "Voglia Iddio che si tratti di un segno di decadenza. Se e' un colpo di coda creera' malumore, e si potrebbe aspettare una serie di morti ammazzati". Non e' stata nemmeno necessaria secondo Sica la presenza di una "talpa": chiunque avrebbe potuto vedere l'elicottero che volava sopra il corteo blindato. Ma contro la mafia il prefetto ha un rimedio: l'infiltrazione nel suo ambiente, la piu' tradizionale opera di intelligence per sapere in anticipo cio' che il nemico ha in mente.[70]

Domenico Sica cita un elicottero che avrebbe sorvolato lo svincolo su Capaci nell´immediatezza della strage il 23 maggio. La stampa ha infatti dato notizia di un veivolo che sarebbe stato notato il giorno della strage, un Piper, in giro sull'asse dell'autostrada per Palermo proprio alle ore 17.58.[71]

Venerdì 29 maggio 1992

Paolo Borsellino riguardo alla sua possibile candidatura alla guida della DNA dichiara: ”Nessuno ha chiesto la mia disponibilità.” [72]

I colleghi della Procura di Palermo che gli sono più vicini invitano Borsellino a respingere l’offerta fattagli dal ministro perché lo ritengono cento volte più utile come procuratore aggiunto a Palermo che come Superprocuratore a Roma. Antonio Ingroia e Vittorio Teresi scrivono un documento in cui chiedono formalmente a Borsellino di rimanere. Lo firmano Roberto Scarpinato, Alfredo Morvillo, Gioacchino Scaduto, Leonardo Guarnotta, Gioacchino Natoli. Paolo Borsellino approva inizilamente l’iniziativa, corregge persino alcune frasi che possono sembrare polemiche. “Finalmente l´appello fu partorito e si decise che sarebbe stato dato alla stampa il lunedí, e poi sarebbe seguita la sua adesione” ricorda Antonio Ingroia.[73]

Il Ministro Claudio Martelli rilascia una dichiarazione a proposito della candidatura di Borsellino alla guida della DNA: “Non intendo fare nomi. Non mi faccio intrappolare.” [74]

Anche il ministro Enzo Scotti precisa di non aver presentato candidature: "Ma come responsabile dell´ordine e della sicurezza, posso auspicare che la Dna sia messa quanto prima in condizione di operare e nel modo migliore. Ho sollecitato Borsellino a candidarsi, mi sono augurato e mi auguro che lo faccia". [75]


A palazzo dei Marescialli, sede del CSM, i magistrati assistono con fastidio al balletto delle ingerenze istituzionali sulla Superprocura, tra riaperture dei termini, candidature e smentite. "La gravita´ della situazione impone determinate scelte, ma certe regole vanno rispettate", avverte Ernesto Stajano, presidente della commissione incarichi direttivi. La candidatura anomala di Borsellino é stroncata. “Se non é certo discutibile il valore dell´uomo, non immagino in quale ordinamento giuridico possa inquadrarsi l´eventuale riapertura del concorso – gli fa eco Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore a Catania – inoltre rimangono immutate le perplessitá sull´utilitá di una struttura come la cosiddetta Superprocura.” Si schiera con il governo, invece, il procuratore di Nicosia Giovanni Tinebra, che a breve sostituirá il procuratore Celesti a Caltanissetta: é l´occasione – dice – per non disperdere ed utilizzare al meglio l´esperienza maturata da Borsellino accanto a Giovanni Falcone in piú di un decennio di lotta alla mafia. Il paese chiede una risposta forte e credo che il CSM saprá darla nell´ambito delle sue responsabilitá istituzionali.” [76]

Il collaboratore di giustizia Antonino Calderone rilascia un’intervista al quotidiano La Repubblica: ”La condanna a morte di Falcone era programmata da tempo. E’ stata anche rinviata ad un certo punto. Poi è diventata improrogabile. E questo per due motivi: la decisione della Cassazione a gennaio di confermare gli ergastoli ai capi della cupola (Michele Greco, Salvatore Riina, Francesco Madonia e Pippo Calò) e la quasi certa nomina di Falcone a superprocuratore. Va precisato che una strage come quella di Capaci, così eclatante, così spettacolare, non è mai nell’interesse della mafia. Chi sta in galera e l’ha ordinata non corre rischi, ma a venire assediati dalla reazione dello Stato sono i mafiosi che stanno fuori e questo altera equilibri ed alleanze. Non ho dubbi che dovremo aspettarci altri delitti eccellenti. Potrà toccare ad un magistrato, ad un ministro, ad un poliziotto. Ci sarà la guerra adesso, un terremoto che potrebbe rovesciare il patto di ferro dei vincenti che dura ormai da 15 anni. E adesso ci saranno sicuramente molte azioni diversive nel resto d’Italia per allentare la pressione dello stato su Palermo.” [77]

Sabato 30 maggio 1992

In un comunicato diffuso dagli uffici di Via Arenula si afferma che “il Ministro Martelli non ha mai avanzato la candidatura del procuratore Borsellino a capo della DNA. Il guardasigilli ha solo chiesto la riapertura dei termini per il concorso a quell’incarico e si rifiuta categoricamente di fare candidature.” [78]

La Commissione incarichi direttivi del CSM boccia la proposta Scotti-Martelli di riaprire i termini per il concorso alla carica di superprocuratore della DNA. La decisione verrá trasmessa al plenum del CSM che delibererá in maniera definitiva.[79]

Domenica 31 maggio 1992

In serata Paolo Borsellino telefona ad Antonio Ingroia: “Sai”, dice, “ho ripensato al vostro documento, è meglio non far nulla. Ho parlato con Giammanco, mi ha dato un consiglio che penso vada seguito. Questa vostra lettera potrebbe farmi diventare il parafulmine del contrasto tra il ministro di Grazia e Giustizia ed il CSM sulla scelta del superprocuratore. Il mio no potrebbe essere strumentalizzato nel braccio di ferro tra il CSM e Martelli sul nome di Cordova. La vostra presa di posizione potrebbe dare spunto ad altri per insistere sul mio nome, è un circolo vizioso in cui non voglio entrare.” [80]

Borsellino, dopo essersi consultato con il suocero Angelo Piraino Leto, ex presidente del tribunale, con fama di insigne giurista, scrive una lettera privata al Ministro Scotti in cui rifiuta in modo cortese ma fermo la candidatura a superprocuratore nazionale antimafia. Lascia poi al Ministro la decisione se divulgare oppure no la notizia ed i contenuti della missiva:

Onorevole signor ministro,

mi consenta di rispondere all´invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l´eventuale assunzione dell´ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorissisimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell´incarico, ovvero si considerarono non leggittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le suesposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che é sicuramente quella piú direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalitá mafiosa.

Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all´eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera.

RingraziandoLa sentitamente

Paolo E. Borsellino

[81]

La lettera rimarrà riservata. Scotti farà cenno al rifiuto di Borsellino solo dopo la strage di Via D’Amelio in un’intervista a Panorama.

Borsellino ha rifiutato, e nessuno lo sa. Contesta il metodo, ma ora inizia a difendere nel merito quella stessa struttura che, vivo Falcone, aveva criticato insieme con la grande maggioranza dei suoi colleghi. La strage di Capaci é lo spartiacque che ribalta i ragionamenti, scardina le convinzioni piú solide, costringe a guardare in faccia una Cosa Nostra mai vista prima, che con il tritolo punta al cuore dello stato.

Borsellino é solo, non c´é piú Falcone con cui scambiare notizie ded impressioni, ma del suo amico, adesso, si sente in dovere di difendere pubblicamente le strategie antimafia. Intervistato dal Gr1 dice: la Superprocura voluta da Giovanni Falcone “avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operó nel suo periodo migliore il pool antimafia di Palermo.”

Borsellino sottolinea la continuitá tra il pool antimafia e la superprocura, nella metodologia di lavoro adottata da Falcone, e ricorda come erano state proprio le conseguenze della gestione “del tutto insoddisfacente” delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone, dopo la dissololuzione del pool, ad avere “inciso enormemente sulla decisione di Giovanni Falcone di lasciare la Procura di Palermo, perché si era reso conto che con una visione cosí parcellizzata del fenomeno mafioso (il procedimento che ne scaturí venne diviso in dodici tronconi ndr) da un´unica sede giudiziaria non fosse possibile ripetere quello che era successo nella fase roiginaria e di sviluppo del maxiprocesso.” [82]

Filtrano le prime indescrezioni su un decreto anticriminalitá che i ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli dovrebbero presentare in consiglio dei ministri la settimana successiva. In primo luogo, nelle inchieste su fatti di mafia sara' concesso un tempo piu' lungo per le indagini preliminari: un anno e non soltanto 6 mesi. Inoltre le forze di polizia avranno la possibilita' di muoversi con una maggiore autonomia. Attualmente hanno l'obbligo di informare l'autorita' giudiziaria entro 48 ore, fornendo tutto il materiale raccolto. Invece verra' loro concesso di operare con piu' tranquillita' e informare "senza ritardo" il magistrato. Poi provvedimenti in favore dei pentiti riguardo la sicurezza personale e la possibilita' di avere una vita al riparo dalle vendette. Infine un rafforzamento degli organici degli agenti di custodia, duemila guardie in piu'.[83]

www.19luglio1992.com

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