di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 14 novembre 2010
Roma. Le parole dell'ex ministro di Grazia e Giustizia, Giovanni Conso, hanno fatto saltare sulle sedie alcuni dei componenti della Commissione parlamentare antimafia.
E' stato lui stesso a dichiarare un paio di giorni fa che il 4 novembre 1993 aveva deciso di non rinnovare il 41 bis per 140 mafiosi detenuti per fermare le stragi di Cosa Nostra dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano.
Di fronte alle forti perplessità di alcuni parlamentari l'ex Guardasigilli in carica dal febbraio del ’93 all’aprile del ’94 nei governi Amato e Ciampi non si è scomposto. “Non ci fu nessuna trattativa – ha sottolineato Conso – né quella decisione fu l’effetto di un ricatto più o meno diretto. Non ebbi alcuna pressione o invito da alcuno, si tratta di una scelta che feci in solitudine pensando che una soluzione diversa avrebbe dato il destro ad una possibile minaccia di altre stragi. Quella proroga, del resto, non era necessaria”. Nell'aula dell'ex palazzo dell'Inquisizione è chiarissimo a molti dei presenti che quelle dichiarazioni sono un'ammissione indiretta della “trattativa”. Alla domanda del deputato di Fli, Angela Napoli, se della decisione di non rinnovare il 41 bis avesse parlato con qualcuno, l’ex ministro ha ribadito di non averne parlato con nessuno, senza però escludere di aver informato l’ex direttore degli Affari penali del ministero Liliana Ferraro, definita “una collaboratrice importante”. Il primo atto di quella che, se non fosse per tutti i morti che ha causato, potrebbe essere definita una “commedia”, si è quindi consumato davanti ad un Paese sempre più narcotizzato. Ma è nella seconda parte di questo dramma neorealista che si rafforza la tesi di una vera e propria “intesa” tra Stato e mafia. Nell'edizione di sabato 13 novembre di Repubblica i giornalisti Salvo Palazzolo ed Attilio Bolzoni hanno pubblicato ampi stralci di un documento di 75 pagine del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria firmato dall'allora direttore Nicolò Amato dal titolo “Organizzazione e rapporti di lavoro”. Si tratta dell'appunto numero 115077 del 6 marzo 1993, indirizzato al capo di gabinetto del ministro della Giustizia Giovanni Conso, di cui i giornalisti Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci avevano già accennato nel loro libro Il Patto. A pagina 59 Nicolò Amato affronta la questione più spinosa: “Revisione dei decreti ministeriali emanati a partire dal luglio ´92, sulla base dell´articolo 41 bis”. In quell'appunto c'è un'indicazione ben precisa al Guardasigilli: “Appare giusto ed opportuno rinunciare ora all'uso di questi decreti”. Due sono le vie consigliate: “Lasciarli in vigore fino alla scadenza senza rinnovarli, ovvero revocarli subito in blocco. Mi permetterei di esprimere una preferenza per la seconda soluzione”. Il direttore del Dap spiega il motivo: “L'emanazione dei 41 bis era giustificata dalla necessità di dare alla criminalità mafiosa una risposta. Ma non vi è dubbio che la legge configura il ricorso a questi decreti come uno strumento eccezionale e temporaneo”. Le parole di Amato lasciano intendere chiaramente che non si tratta di un'iniziativa unicamente del Dap. “In sede di Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza – si legge nel documento – nella seduta del 12 febbraio, sono state espresse, particolarmente da parte del capo della polizia, riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario. Ed anche recentemente da parte del ministero dell'Interno sono venute pressanti insistenze per la revoca dei decreti applicati agli istituti di Poggioreale e di Secondigliano”. In quel periodo Vincenzo Parisi era al vertice della polizia, mentre il Viminale era retto da Nicola Mancino. Il primo è morto nel '94, il secondo si ostina a negare l'impossibile: dall'incontro con Paolo Borsellino il 1° luglio 1992 fino alla sua diretta conoscenza della “trattativa”. Ma giorno dopo giorno la sua ostentata tranquillità perde sempre di più credibilità. Perché questi due uomini delle istituzioni avevano delle “riserve” sulle proroghe del 41 bis? A quali interlocutori dovevano rendere conto delle decisioni da prendere? E sull'altare di quale “accordo”? Con le recenti dichiarazioni di Giovanni Conso la lista di coloro che a distanza di anni riacquistano la memoria si è allungata ulteriormente. Ma appare subito chiaro che alcuni nomi chiamati in causa non sono affatto nuovi. Tutt'altro. Se Conso afferma di non poter escludere di aver informato di quelle sue direttive Liliana Ferraro, definita “una collaboratrice importante”, non si tratta di un dettaglio trascurabile. La stessa Ferraro nell'udienza del 28 settembre scorso al processo contro Mario Mori e Mauro Obinu (per la mancata cattura di Provenzano nel '95) ha ammesso di essere stata sentita nel 2002 da Gabriele Chelazzi sul tema del 41 bis. Nel verbale riassuntivo del 10 maggio 2002 il magistrato fiorentino illustra all'ex direttore degli Affari Penali che secondo “alcune concrete e recenti indicazioni” i vertici di Cosa Nostra nel periodo che orientativamente coincide con l'inizio delle stragi del '93 (maggio 1993) “nutrivano ottimisticamente l'aspettativa che il 41 bis gradualmente, perdesse di attualità fino a diventare uno strumento inutile nelle mani dello Stato, con la conseguente soppressione”. “Per quanto riguardava le dinamiche decisionali all'interno del Ministero in tema di 41 bis – si legge nel documento – dal momento che il Ministro aveva riservato a sé l'adozione dei provvedimenti, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria interloquiva direttamente con il Ministro stesso”. Chelazzi si sofferma sul contenuto di una nota a firma del Vicedirettore dell'Ufficio detenuti reparto M.S. del 29 luglio del 1993 e sottopone alla dott.ssa Ferraro quelli che a suo parere sono i punti che “almeno programmaticamente richiedono ulteriore approfondimento”. Quell'annotazione a suo tempo non era stata indirizzata a tutte le strutture di vertice delle Forze di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza erano stati esclusi. Nel verbale viene evidenziato il fatto che la nota “attesti non controvertibilmente che il Dap cercava un'interlocuzione esterna in vista delle proroghe dei decreti che scadevano alla fine del mese successivo, diversamente dalle scadenze, di pochi giorni prima peraltro, del 20-21 luglio”. Nel documento viene ugualmente sottolineato come il Dipartimento “si ripromettesse di proporre le proroghe non per tutti i detenuti gravati dal 41 bis ma chiedesse di conoscere le valutazioni di ordine generale (anche con chiaro, seppur implicito, a parere del pm, riferimento ai fatti di strage di poche ore prima) e anche di origine oggettivo, a valle tuttavia della individuazione di alcuni soggetti che sarebbero rimasti esclusi dalla proposta di proroga”. La visione d'insieme appare subito inquietante. Su quali tavoli in quel periodo si stava giocando la partita del 41 bis? E a quale prezzo? Chelazzi vuole vederci chiaro e sottopone alla Ferraro un'altra nota questa volta del 29 luglio 1993. Il pm fiorentino formula una serie di osservazioni a partire dalla circostanza che “essa attesta l'esistenza di un '41 bis a due velocità'”. Liliana Ferraro replica affermando di non ricordare “che ci fosse un 41 bis attenuato parallelo al 41 bis di rigore”, sottolineando che l'ex Vice direttore Generale del Dap, Francesco Di Maggio, “nutriva convinzioni personali molto nette e molto determinate sul problema del 41 bis, all'insegna della necessità di far funzionare l'istituto in modo serio e senza smagliature”. Cinque mesi dopo è Claudio Martelli a sedersi di fronte al magistrato di Firenze impegnato su un filone di indagini sui mandanti esterni delle stragi del '93. Gabriele Chelazzi rappresenta a Martelli che le attività investigative “volte a chiarire tutte le articolazioni della strategia” (stragista, ndr) e finalizzate ad individuare le eventuali ulteriori responsabilità penali “hanno consentito di mettere a fuoco una sorta di interdipendenza tra la strategia di Cosa Nostra e le deliberazioni che nel corso del tempo hanno alimentato la strategia medesima (da una parte) e l'orientamento che ha alimentato la gestione e l'applicazione del 2°comma dell'art. 41 bis da parte delle istituzioni dello Stato e in particolare da parte del Ministro di Grazia e Giustizia”. Martelli non batte ciglio e ricostruisce la genesi dell'emanazione dei primi provvedimenti dell'applicazione del carcere duro successivi alla strage di via d'Amelio, passando attraverso gli scenari socio-politici di quel periodo storico. Nel verbale vengono affrontati in successione una serie di argomenti sui quali l'ex ministro fornisce la sua chiave di lettura. Uno dei punti fondamentali riguarda la cultura “garantista” dell'allora direttore del Dap, Nicolò Amato (che successivamente sarebbe diventato il difensore di boss mafiosi del calibro di Giuseppe Piddu Madonia e addirittura dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ndr), nei confronti del carcere duro ed anche in merito “alla necessità di impedire un eccesso di tensioni negli istituti carcerari”. Martelli esclude che Amato gli abbia mai esposto il progetto di “smobilitare” il carcere duro, nega che l'allora Capo della Polizia o il Ministro dell'Interno gli abbiano potuto manifestare “critiche o riserve sulla misura del carcere duro”. Durante l'interrogatorio Gabriele Chelazzi fa presente a Martelli come dalle indagini sia emerso “che il 'vertice delle stragi' officiò un'interfaccia, nella persona di un esponente politico con mandato parlamentare, al fine di monitorare, salvo se anche condizionare, la 'gestione amministrativa' del 41 bis”. Nel documento si legge che “Il Pm omette il nome della persona in questione”. Dal canto suo l'ex ministro esclude infine “che la situazione possa coniugarsi a qualcosa di cui sia a conoscenza”. Ma a distanza di 8 anni da quegli interrogatori “l'intesa” tra Stato e mafia sul regime del 41 bis torna prepotentemente alla ribalta con il documento del Dap del 6 marzo 1993. A conferma di quell'appunto i giornalisti del Fatto Quotidiano, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, hanno pubblicato nell'edizione odierna del giornale uno stralcio del verbale di interrogatorio reso da Giovanni Conso a Gabriele Chelazzi il 24 settembre 2002. Il racconto dell'ex Guardasigilli parte dal marzo del '93 quando “il tema del rinnovo dei decreti ex art. 41 bis era in quel momento senz’altro prematuro e quindi mi riservavo di farne oggetto di ulteriori, più aggiornate, meditazioni. E feci, a mio avviso, senz’altro bene, perché gli eventi successivi, e in particolare la strage di Firenze, mi convinsero nel modo più assoluto della necessità di mantenere fermo il 41 bis e di rinnovare i decreti”. Successivamente a dirigere il Dap era stato chiamato Adalberto Capriotti che nella nota del 26 giugno aveva sottolineato la necessità di rinnovare i 41 bis. “Quell’appunto non poteva prescindere dalle stragi del maggio (via dei Georgofili, ndr) – ha specificato Conso – nonché – altro aspetto per me di grande significato – dall’atmosfera vissuta soprattutto nella ricorrenza dell’attentato a Falcone e nell’approssimarsi della ricorrenza dell’attentato a Borsellino, vicende ancora così cocenti da non poter giustificare soluzioni diverse da quella che si andava delineando nelle varie sedi ministeriali, a partire da quella da me diretta. Tanto da risultare ormai praticamente scontato che la soluzione sarebbe stata la proroga”. Per Giovanni Conso quindi la fermezza contro i boss detenuti rappresentava la strada da seguire: “Ribadisco in conclusione che la mia determinazione di rinnovare in linea di massima i decreti emanati dal mio predecessore è sempre stata chiara e convinta – ha aggiunto Conso nell’interrogatorio a Chelazzi – sin dal momento in cui ho cominciato a dedicarmi in modo specifico e responsabile al problema, nell’approssimarsi quindi della scadenza dei decreti”. Ma inspiegabilmente a fine ottobre del ’93 l'ex Guardasigilli inverte le sue stesse decisioni non rinnovando 140 proroghe di carcere duro, a suo dire: per “fermare le stragi”. Incongruenze e ambigui misteri che la procura di Palermo ha intenzione di chiarire una volta per tutte ascoltando al più presto Giovanni Conso, Nicolò Amato e risentendo Nicola Mancino..
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