Carlo Alberto Dalla Chiesa
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Carlo Alberto Dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) fu un partigiano, generale e prefetto italiano.
Nato con la divisa [modifica]
Figlio d'Arma (il padre Romano partecipò alle campagne del Prefetto Mori e nel 1955 sarebbe divenuto vice comandante generale dell'Arma), divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942, passò all'Arma in servizio permanente effettivo e completò gli studi di giurisprudenza; dopo l'armistizio quasi subito entrò nella Resistenza, operando in clandestinità negli Abruzzi e nelle Marche[senza fonte]; vi svolse ruoli di un certo rilievo[senza fonte] e nel 1944 partecipò alla presa di Roma con le truppe alleate[senza fonte].
Dopo la guerra fu inviato in Campania, avendo per prima destinazione Casoria (comando di Compagnia), dove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Proprio in questa lotta si distinse e nel 1949 fu pertanto inviato su sua richiesta in Sicilia, dove entrò nella formazione delle Forze Repressione Banditismo agli ordini del Generale Ugo Luca, che oltre ad avere a che fare con criminali come il bandito Salvatore Giuliano, si occupava anche di arginare le tensioni separatistiche attizzate dall'EVIS e da altri agitatori, nonché delle relazioni fra queste due pericolose sacche di illegalità; nell'isola comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza, meritando peraltro una Medaglia d'Argento al Valor Militare.
Da Capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, scoprendone il cadavere che era stato abilmente occultato e giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, che Dalla Chiesa conobbe in tale occasione e che in seguito fu anch'egli ucciso dalla mafia.
Il nome di Dalla Chiesa si sarebbe successivamente legato alle indagini sull'incidente in cui perse la vita il presidente dell'ENI Enrico Mattei, il cui aereo, decollato dalla Sicilia, precipitò mentre si avvicinava all'aeroporto di Linate.
Nell'Arma, negli anni dell'Arma [modifica]
Ebbe una parentesi di servizio sul Continente, a Firenze, Como e presso il comando della Brigata di Roma, parentesi però caratterizzata anche da un asserito contrasto con il generale Giovanni De Lorenzo, che era divenuto comandante generale dell'Arma e che l'aveva destinato, ormai tenente colonnello, al comando di istituti di istruzione in Piemonte.
Da taluni si sostenne infatti che il trasferimento potesse avere alcunché di punitivo o che comunque si trattasse di un allontanamento di comodo, mentre da altri si ribatté che Giovanni De Lorenzo (che aveva in corso la ristrutturazione integrale della Benemerita) veramente volesse che le Scuole Allievi Carabinieri fossero dirette da ufficiali di vaglia e non più (come invece secondo prassi militare) da ufficiali di scarso valore o puniti. Dalla Chiesa, il cui stato di servizio era effettivamente già ben notevole, era considerato "non sgradito" ad un altro importantissimo esponente dell'Arma, quel Generale Giuseppe Aloja che a De Lorenzo aveva vanamente conteso il comando generale dell'Arma e che si trovava ancora in posizioni più antitetiche che collaborative con il comandante generale.
Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'Appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.
La Sicilia, la mafia [modifica]
Dal 1966 (curiosamente in coincidenza con l'uscita di De Lorenzo dall'Arma) al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Trasse notevoli risultati dalle sue studiate tecniche di investigazione, assicurando alla Giustizia boss come Gerlando Alberti o Frank Coppola ed iniziando a seguire piste che almeno per sussurro avrebbero aperto al successivo disvelamento delle relazioni fra mafia e politica.
Nel 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni.
Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi promettendogli materiale che lasciava intendere scottante sul caso Mattei. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, per la quale erano dirette da Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia. Giuliano, peraltro, aveva iniziato ad investigare su molti aspetti operativi ed organizzativi della criminalità organizzata, in una fase in cui venivano alla ribalta personaggi come Michele Sindona e divenivano evidenti (o meno nascondibili) i "nessi" con il mondo politico. Le indagini sul De Mauro, però, non sortirono effetti di rilievo.
Il Continente, il terrorismo [modifica]
Nel 1973 fu promosso al grado di generale di brigata, nel 1974 divenne comandante della regione militare di nord-ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria.
Ad Alessandria, una rivolta dei detenuti che avevano preso degli ostaggi, viene stroncata dal procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio Della Veneria e dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa che ordinano un attacco militare che si conclude con l’uccisione di 2 detenuti, di 2 secondini, del medico del carcere e di una assistente sociale.
Dopo aver selezionato dieci ufficiali dell'arma, creò una struttura antiterrorismo (con base a Torino), che nel settembre del 1974 gli consentì di catturare (a Pinerolo) Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra".
Nel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena; passato generale di divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del ministro dell'interno (Virginio Rognoni, che sarebbe restato tale sino a dopo la morte di Dalla Chiesa), creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.
La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione"), anche per i retaggi sull'opinione pubblica del non tanto remoto periodo buio degli anni Sessanta; ne nacquero polemiche di una certa intensità, via via attenuate e poi smorzate dal ripetersi di brillanti operazioni.
Mise in pratica diverse forme di intervento, in particolare sollecitando ed ottenendo dal governo la formalizzazione di un rapporto privilegiato con la collaborazione interna; nacque così la figura giuridica del pentito, che in qualche modo era sempre informalmente coltivata nella Penisola a partire dai passaggi di ordinamenti spagnoleschi. Facendo leva sul pentitismo, ma sfruttando assai anche le infiltrazioni (ed agendo quindi con modalità di intelligence) si scoprì dell'organizzazione terroristica abbastanza per opporvi un efficace contrasto.
Il generale ebbe successo anche nell'individuare ed arrestare gli indiziati esecutori materiali degli omicidi di Moro e della sua scorta e nell'assicurare alle patrie galere centinaia e centinaia di fiancheggiatori o presunti tali, rassicurando l'opinione pubblica sulla giustezza delle scelte effettuate e riconsegnando al contempo all'Arma una generalizzata fiducia popolare.
Dalla Chiesa e il caso Moro [modifica]
Erano passati pochi mesi dall'uccisione dello statista, e mentre alcuni indiziati (con pubblico scandalo, ma secondo la legge) venivano rimessi in libertà per decorrenza dei termini della custodia cautelare (dandosi poi, in alcuni casi, come quello di Nadia Mantovani, alla latitanza), nelle indagini i Carabinieri parevano aver unito buone deduzioni a qualche inatteso colpo di fortuna; come fu poi meglio reso noto in seguito, il casuale ritrovamento di un borsello che si scoprì appartenente al brigatista Lauro Azzolini, identificazione raggiunta attraverso la collaborazione fra più reparti dell'Arma, condusse i militi all'individuazione di un possibile covo, definito "interessante" e situato a Milano, in via Monte Nevoso. In questo covo, che per un po' di tempo non si riuscì ad individuare per un banale errore sul numero civico, e che fu trovato solo il 1° ottobre, saranno poi incidentalmente scoperti, nel corso di una ristrutturazione nell'appartamento nel 1990 nell'intercapedine vicino ad una finestra, documenti di estrema importanza sul caso Moro.
Ma tornando al '78, entrato nella carica in questo clima, a pochi giorni dall'insediamento il generale incontrò il giornalista Mino Pecorelli, direttore di "OP", che poco tempo prima aveva pubblicato notizie circa presunte fotocopie della trascrizione dell'interrogatorio cui le BR sottomisero Moro ed aveva commentato, suggerendo una possibile influenza di questi atti su alcune scelte politiche: "Le dichiarazioni postume di Moro potrebbero avere un tal peso politico e, al limite, essere talmente gravi nei confronti di alcuni tra i probabili candidati alla Presidenza della Repubblica, da consigliare le segreterie dei partiti a puntare su un candidato laico" (fu eletto il socialista Sandro Pertini). L'incontro, il cui contenuto è ignoto, sarebbe stato procurato, secondo appunti del Pecorelli, dal politico democristiano Carenini, che successivamente dichiarò di non ricordare ma di non poter escludere la circostanza. Un paio di gioni dopo l'incontro, il capo del governo Giulio Andreotti formalizzò la nomina al comando del nucleo antiterrorismo, per una durata prevista dal successivo 10 settembre al 9 settembre 1979.
Nel dicembre del 1978 il giornalista fiorentino Marcello Coppetti si incontrò con Licio Gelli e con un generale del SIOS dell'aeronautica militare, i quali - dichiarò - gli avrebbero confidato, o piuttosto insinuato, che Dalla Chiesa avrebbe in realtà barattato con Andreotti quella nomina: sempre secondo questa voce, come detto de relato, Dalla Chiesa avrebbe appreso tramite un carabiniere infiltrato che le BR sarebbero state in possesso sia di Moro che di materiale definito "compromettente" (per non si sa chi). Coppetti riferì inoltre la "rivelazione" appresa per la quale Dalla Chiesa avrebbe condizionato il recupero di quel materiale alla nomina al nucleo antiterrorismo.
Anch'egli piduista, Pecorelli sembrava, come al solito, assai ben informato. Col senno di poi, si può definire inquietante il fatto che nel settembre (sempre di questo drammatico 1978), avesse pubblicato su OP commenti che da molti osservatori sono stati - a posteriori - reputati riferiti a Dalla Chiesa: trattò infatti di un generale dei Carabinieri che, in corso di sequestro, avrebbe informato del luogo di detenzione di Moro il ministro dell'interno (Francesco Cossiga), ma che questi (sempre secondo Pecorelli) non avrebbe potuto decidere da solo e fosse quindi in attesa, diciamo per via gerarchica, di "istruzioni" da parte di ciò che il giornalista denominò cripticamente "loggia di Cristo in Paradiso". Anche il generale era indicato solo con l'appellativo di "Amen", ma di questi Pecorelli scrisse con sicurezza che sarebbe stato ucciso, ed alluse ad un collegamento con le lettere di Moro dalla prigione brigatista. Dalla Chiesa era stato effettivamente chiamato al Viminale (il 22 marzo, il 10 aprile ed in altre occasioni) durante le riunioni che Cossiga organizzava fra esperti delle forze di intelligence e di polizia.
Il comando del nucleo antiterrorismo di fatto fu investito a più riprese di polemiche e critiche provenienti da ambienti politici esterni all'arco costituzionale, della sinistra estrema e anche, ma più sporadicamente, della destra estrema. Verso lo scadere dell'incarico anche osservatori più moderati si aggiunsero ai critici e Guido Neppi Modona si scagliò (con un certo séguito) dalle pagine de La Repubblica contro il generale per chiedere che non si prorogasse quel comando, a suo dire di indefinibile "collocazione istituzionale" e caso mai espressivo di una politica "delle istituzioni parallele" che si sarebbe servita di "organismi al di fuori della legalità". Alla scadenza l'incarico fu rinnovato, ma stavolta senza termine.
Sempre nel 1979 Dalla Chiesa fu nominato comandante della divisione Pastrengo a Milano e lasciò l'incarico agli istituti di pena.
Nel 1981, nonostante alcune velenose insinuazioni, con accessorie roventi polemiche, avessero riguardato la scoperta del nome del fratello Romolo, anch'egli generale dell'Arma, negli elenchi della P2, e malgrado le polemiche si fossero spinte al punto da dubitare della genuinità del suo operato, a fine anno divenne comunque vice comandante generale dell'Arma, come già il padre. Le polemiche erano scoppiate violentissime perché solo qualche mese prima della pubblicazione delle liste dei piduisti, Dalla Chiesa era memorabilmente apparso in televisione insieme al comandante generale dei Carabinieri ed al suo vice per rassicurare l'opinione pubblica sulla saldezza e sulla "pulizia" delle istituzioni democratiche. Per soprammercato, proprio nel giorno in cui veniva eseguita la famosa perquisizione di Villa Wanda, fu fatto notare, gli uomini del generale stavano eseguendo una gigantesca operazione in cui sarebbero state arrestate circa 300 persone e fermate e/o indagate altre 2500 e si insinuò addirittura che potesse aver sortito effetti di disturbo sull'altra operazione della Guardia di Finanza. Illazioni ed insinuazioni di vasta portata, ma mai sviluppatesi oltre il rango di illazioni ed insinuazioni, in assenza di prove.
Ma nello stesso anno vi fu ancora un altro episodio poco chiaro, che riguardò un consigliere regionale missino del Lazio, Edoardo Formisano (ex segretario personale di Arturo Michelini), che dichiarò alla magistratura di essere stato contattato dal questore di Roma Angelo Mangano, dal poi senatore Claudio Vitalone e da un ufficiale dell'Arma al fine di raccogliere informazioni sul sequestro Moro presso la malavita. Presto attivatosi - così dichiarò - riuscì a stabilire un contatto con Tommaso Buscetta, allora nel carcere di Cuneo, col quale in pratica si sarebbe convenuto di far trasferire un detenuto "fidato" ad altro penitenziario per poter avvicinare soggetti ritenuti utili alle indagini. Il trasferimento - come confermato anche dall'ufficiale, il tenente colonnello Giuseppe Vitali, e dal questore Mangano - sarebbe stato bloccato da Dalla Chiesa che avrebbe escluso categoricamente la possibilità di dar corso all'operazione. Va detto che Formisano fu in seguito condannato per la messinscena del finto attentato a Bettino Craxi del 1978.
Il 1982 [modifica]
Dalla Chiesa si assise sulla seconda sedia dell'Arma (il grado più alto cui un Carabiniere potesse pervenire, essendo, a quei tempi, il Comando generale riservato ad ufficiali di altre Armi) e fra le polemiche proseguì il suo lavoro, crescendo la parte pubblica delle sua attività, ma anche consolidandosi la sua immagine di ufficiale efficace ed integerrimo.
Interrogato nel febbraio 1982 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, precisamente dal commissario Leonardo Sciascia, dichiarò le sue convinzioni sulle "prime copie" (allora si scriveva a macchina) delle trascrizioni degli interrogatori di Moro prigioniero: fece notare che esse dovevano pur esistere, visto che erano state trovate le seconde copie, ed escluse che potessero trovarsi in qualche covo, ma suggerì che potessero essere in mano di qualcuno che avrebbe "recepito tutto". Mise in evidenza che, nonostante l'evidente importanza di simili documenti e malgrado la relativa esiguità del numero dei componenti le formazioni terroristiche, nessuno dei tanti brigatisti e fiancheggiatori interrogati ne sapeva alcunché od ebbe mai ad accennarne, neanche incidentalmente. Le cosiddette "borse di Moro" non erano mai state trovate. In pratica, pareva dire fra le righe: "qualcuno le ha prese, le BR non le avevano più". Il fatto che parte di questi documenti siano invece poi stati trovati nel covo di via Monte Nevoso (o almeno, vi furono "reperiti" documenti che furono messi in relazione con quelli indicati dal generale e qualche osservatore ha insinuato che ciò non fosse casuale e che i documenti non fossero quelli ritrovati), incrementa la complicazione sull'analisi di queste dichiarazioni, contemporaneamente compatibili con l'ipotesi che Dalla Chiesa stesse mandando messaggi in codice, con l'ipotesi che il generale sapesse bene ove fossero i documenti cercati e compatibili perfino con le insinuazioni che Licio Gelli aveva affidato a Marcello Coppetti (o, per converso, con l'ipotesi di una totale lealtà dell'ufficiale).
Il 2 aprile scrisse al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che "la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la famiglia politica più inquinata da contaminazioni mafiose".
Il successivo 2 maggio fu improvvisamente inviato in Sicilia come prefetto di Palermo a combattere l'emergenza mafia. Le indagini sui terroristi furono assegnate ad altri, e di fatto si interruppe la precedente successione di risultati prima di riuscire a fare piena luce su fatti e mandanti.
Il 12 luglio in seconde nozze sposò Emanuela Setti Carraro.
A Palermo lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì", città presa come esempio di situazione di lavoro ordinario, non particolarmente difficile), finché fu assassinato dalla mafia.
La morte [modifica]
Per approfondire, vedi la voce Strage di via Carini. |
L'assassinio del generale Dalla Chiesa destò molto scalpore, anche per le modalità "militari" con cui fu eseguito.
L'8 marzo del 2003, la corte d'assise di Palermo, presieduta da Cladio Dall'Acqua, ha condannato all'ergastolo Giuseppe Lucchese e Raffaele Ganci, capomafia del quartiere Noce.[1] Si è trattato del terzo processo celebrato per questo delitto: i giudici avevano già condannato all'ergastolo Antonino Madonia e Vincenzo Galatolo (sentenza divenuta definitiva nel 1995), mentre Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci hanno beneficiato di uno sconto di pena, grazie alla loro collaborazione con la giustizia (14 anni di reclusione per ciascuno).
Quest'ultima ricostruzione giudiziaria ha così descritto il delitto: alle ore 21.15 del 3 settembre del 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini, a Palermo, da una BMW con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci. A sparare sarebbe stato Madonia: i colpi furono esplosi con un fucile automatico AK-47.
Nello stesso tempo l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del prefetto, veniva affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco detto "Scarpuzzedda", che lo freddò. La A112 bianca sbandò e Greco soggiunse a verificare l'esito mortale della sparatoria.
Oltre a questi sicari, vi erano sul posto altri criminali "di riserva" che seguivano con un'altra auto pronti a intervenire nel caso di una reazione efficace del Russo, che però non ebbe modo di verificarsi.
Le carte del caso Moro, e richieste al governo [modifica]
Le carte relative al sequestro Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, sparirono dopo la sua morte: non è stato accertato se esse furono sottratte in via Carini oppure se trafugate dagli uffici della prefettura.
Dalla Chiesa, non appena insediatosi alla prefettura ed avuta contezza della gravità della situazione della legalità in Sicilia, aveva richiesto al governo italiano, in particolare all'allora ministro democristiano dell'interno Virginio Rognoni, poteri speciali (aggiuntivi) in deroga alla normativa vigente onde poter assumere un controllo o almeno una posizione di coordinamento delle attività investigative dirette alla lotta alla mafia.
Questa richiesta era stata resa pubblica dallo stesso prefetto per mezzo di una intervista ad un'importante testata nazionale.
Rognoni avrebbe in seguito dichiarato di aver fissato proprio per il 3 settembre, giorno in cui Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso, una riunione dei prefetti per conferirgli questi poteri, ma tale riunione, per un impegno in sede europea del ministro, fu rimandata al giorno 7.
In seguito i poteri richiesti da Dalla Chiesa saranno conferiti alla nuova carica di Alto Commissario per la lotta alla mafia istituita dopo l' uccisione del prefetto.
Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria. Il giorno dei suoi funerali una grande folla protestò contro le presenze politiche accusandole di averlo lasciato solo.
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana (quella che, assieme a tanti amministratori locali, faceva a gara a chi ostacolava maggiormente l'operato di Dalla Chiesa e a chi sbandierava di più il fenomeno mafioso come "pura invenzione dei detrattori della Sicilia").
Familiari noti [modifica]
Oltre che fratello del detto generale Romolo, Dalla Chiesa era il padre di Rita, conduttrice televisiva, e di Nando, docente universitario, scrittore e uomo politico, più volte eletto parlamentare, e Simona.
Onorificenze [modifica]
Medaglia d'oro al valor civile «Già strenuo combattente, quale altissimo Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, della criminalità organizzata, assumeva anche l'incarico, come Prefetto della Repubblica, di respingere la sfida lanciata allo Stato Democratico dalle organizzazioni mafiose, costituenti una gravissima minaccia per il Paese. Barbaramente trucidato in un vile e proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sublimava con il proprio sacrificio una vita dedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni, vittima dell'odio implacabile e della violenza di quanti voleva combattere.» — Palermo, 3 settembre 1982 |
Medaglia d'argento al Valor Militare «Durante nove mesi di lotta contro il banditismo in Sicilia cui partecipava volontario, dirigeva complesse indagini e capeggiava rischiosi servizi, riuscendo dopo lunga, intensa ed estenuante azione a scompaginare ed a debellare numerosi agguerriti nuclei di malfattori responsabili di gravissimi delitti. Successivamente, scovati i rifugi dei più pericolosi, col concorso di pochi dipendenti, riusciva con azione rischiosa e decisa a catturarne alcuni e ad ucciderne altri in violento conflitto a fuoco nel corso del quale offriva costante esempio di coraggio.» — Sicilia Occidentale, settembre 1949 - giugno 1950 |
Medaglia di bronzo al Valor Civile «Comandante di Legione territoriale accorreva, in occasione di un disastroso movimento sismico, nei centri maggiormente colpiti, prodigandosi per avviare, dirigere e coordinare le complesse e rischiose operazioni di soccorso alle popolazioni. Malgrado ulteriori scosse telluriche, persisteva nella propria infaticabile opera, offrendo nobile esempio di elevate virtù civiche e di attaccamento al dovere.» — Sicilia Occidentale, gennaio 1968 |
— 2 giugno 1980 |
— 17 maggio 1983 |
2 Croci al merito di guerra |
Medaglia di benemerenza per i Volontari della Guerra 1940–43 |
Distintivo di Volontario della Libertà |
Medaglia al merito di lungo comando nell'esercito (20 anni) |
Croce d'oro per anzianità di servizio (40 anni) |
Sovrano Militare Ordine di Malta, Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta |
Ordine al Merito Melitense, classe militare |
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