di Gerardo PelosiCronologia articolo17 agosto 2010Commenta
Dire che Cossiga non c'è più, che ci sarà requie per quel fax incandescente e quella selva di telefoni e telefonini collegati con "batterie" e "servizi" al terzo piano del palazzone delle Generali in via Ennio Quirino Visconti, nel quartiere Prati di Roma, è solo una mezza verità. Una delle tante cui ci ha abituato negli ultimi anni il presidente emerito con le sue allusioni, la sua memoria eccezionale ma anche la volontà testarda di mettere un po' di ordine nei ricordi e riscrivere la storia laddove c'erano margini sufficienti per farlo.
Perché, se vogliamo dirla tutta, la "fine" di Francesco Cossiga nel senso di morte politica, ma con ferite fisiche tutt'altro che virtuali, ha una data precisa e risale ad oltre 30 anni fa: il 9 maggio del 1978 quando durante la direzione della Dc in Piazza del Gesu' fu comunicato che pochi metri più in là, in via Caetani, era stata ritrovata la Renault rossa con il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio. In quel bagagliaio moriva buona parte della dirigenza democristiana e con essa un'Italia inadeguata ad affrontare le sfide del terrorismo e meno che mai districarsi nelle logiche dei due blocchi.
Ma Moro non era solo il leader democristiano e presidente del Consiglio che si stava recando in Parlamento per ottenere la fiducia a un Governo sostenuto per la prima volta anche dal Pci la mattina del 16 marzo '78. Era anche il punto di riferimento politico all'interno dello scudo crociato per Francesco Cossiga da sempre vicino alle posizioni della "sinistra" di base (anche se con rapporti molto stretti con i dorotei).
La morte di Moro fu vissuta da Cossiga come una sconfitta politica, istituzionale e personale al tempo stesso. Si dimise da ministro degli Interni, in una notte i capelli incanutirono e la vitiligine psicosomatica fece strame della sua pelle. Chi ha raccolto le sue confidenze racconta che nei 55 giorni del rapimento Moro, Cossiga credette in buona fede di poter gestire l'emergenza anche con l'aiuto di esperti americani di antiterrorismo e pure con qualche azzardo come il falso comunicato del lago della Duchessa. Solo poche ore prima dell'ultimo atto delle Br con quel gerundio assassino ("eseguendo la sentenza") Cossiga capì di essere stato "giocato", che gli sforzi fatti erano stati inutili e che le protezioni internazionali sperate si erano rivelate inefficaci.
Certo, la vita politica di Cossiga non si interruppe in quello scorcio del '78. Presidente del Consiglio tra il '79 e l'80, presidente del Senato nell' 83 e poi ottavo presidente della Repubblica dall' 85 eletto al primo scrutino con la quasi unanimità dell'assemblea. Non era solo la Dc a sostenerlo ma anche il Pci di Enrico Berlinguer suo lontano cugino con cui condivideva l'asprezza e il pragmatismo della terra di Sardegna. Ma era vita politica da sopravvissuto, di chi era rimasto ingabbiato per sempre nelle lamiere della R4 rossa, segnato per sempre nella responsabilità di quella tragedia che la moglie di Moro, Nora , non gli aveva mai perdonato in tanti anni.
E se c'è una logica nei destini incrociati, l'uscita di scena di Cossiga a 82 anni, coincide tragicamente con la morte della vedova di Moro, Nora, poche settimane fa. Tante volte negli ultimi anni Cossiga era andato da solo davanti alla tomba di Torrita in Tiberina in preghiera, oppure il 16 marzo in Via Fani o il 9 maggio in via Caetani. Ma quelle parole di comprensione, se non proprio di perdono, che avrebbe voluto ascoltare dalla famiglia Moro rimasero solo una speranza. Non si contano invece le polemiche sferzanti con i figli di Moro in una logica di "cupio dissolvi" di cui le "picconate" da presidente della Repubblica rappresentarono solo la manifestazione più visibile.
Certo, da vecchio leone della politica, Cossiga aveva anche avuto un ruolo determinante nello sponsorizzare il Governo di Massimo D'Alema alla fine degli anni '90 ma per lui era quasi un "gioco" tanto gli sembrava "semplice" la logica della seconda Repubblica.
E un "grande gioco" deve essergli sembrato anche il mondo multipolare del dopo "guerra fredda" degli ultimi anni dopo avere combattuto veramente come firmatario di Gladio (la versione italiana dello Stay Behind Nato) da una parte della barricata, esperto di intelligence e di svariate diavolerie tecnologiche . Era presidente del Consiglio durante l'incidente del Dc9 Itavia e della strage di Bologna del 2 agosto dell'80. Aveva dispensato molte congetture ma nessuna prova decisiva. Vittima di anni difficili, per trent'anni prigioniero della memoria in un Paese cresciuto in fretta e che ha troppa fretta di dimenticare.
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