irigenti delle multinazionali, governanti dei paesi ricchi e sostenitori del liberismo economico hanno rapidamente compreso che dovevano agire di concerto se volevano imporre la propria visione del mondo. Nel luglio 1973, in mondo allora bipolare, David Rockefeller lancia la Commissione trilaterale, che segnerà il punto di partenza della guerra ideologica moderna. Meno mediatizzata del forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva, attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni.
Trent’anni fa, nel luglio 1973, su iniziativa di David Rockefeller, figura di spicco del capitalismo americano, nasceva la Commissione trilaterale. Cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale, questo circolo chiusissimo e sempre attivo formato da alti dirigenti ha suscitato, soprattutto ai suoi inizi, molte controversie (1). All’epoca, la Commissione si prefiggeva di diventare un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». (2)
La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici. (3)
Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un «buon governo» internazionale.
Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la techné è legge – commenta Gilbert Larochelle. E dove sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggio benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». (4)
All’interno di questa oligarchia della politica internazionale, le cui riunioni annuale si svolgono in varie città della triade, i temi vengono dibattuti in una discrezione che nessun media sembra più voler disturbare. Essi sono oggetto di rapporti annuali (The Trialogue) e di lavori tematici (Triangle Papers) realizzati da équipes di esperti americani, europei e giapponesi scelti molto accuratamente. Questi documenti pubblici, regolarmente pubblicati da circa trent’anni, mostrano l’attenzione che la trilaterale rivolge ai problemi globali che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est- Ovest (all’inizio), il debito dei paesi poveri.
Contro «gli eccessi della democrazia»
Gli interventi ruotano intorno ad alcune idee fondanti, ampiamente riprese dalla politica. La prima è la necessità di un «nuovo ordine internazionale». Il quadro sarebbe troppo angusto per trattare grandi questioni mondiali la cui «complessità» e «interdipendenza» vengono continuamente riaffermate. Un’analisi del genere giustifica e legittima le attività della Commissione che è sia un osservatorio privilegiato sia il capomastro di questa nuova architettura internazionale.
In tal senso gli attentati dell’11 settembre hanno fornito una nuova occasione di ricordare, durante l’incontro di Washington nell’aprile del 2002, la necessità di un «ordine internazionale» e di una «risposta globale» a cui sono esortati a partecipare i più importanti dirigenti del pianeta sotto l’egidia statunitense. Alla già citata riunione annuale della trilaterale erano presenti Colin Powell (segretario americano) Donald Rumsfeld (segretario alla difesa) Richard Cheney (vicepresidente) e Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve). (5)
La seconda idea fondante, che trae origine dalla prima, è il ruolo tutelare della triade, in particolare degli Stati uniti, nella riforma del sistema internazionale. I paesi ricchi sono invitati ad esprimersi con una sola voce e a unire i propri sforzi in una missione destinata a promuovere la «stabilità» del pianeta grazie alla diffusione del modello economico dominante. Le democrazie liberali sono il «centro vitale» dell’economia, della finanza e della tecnologia. Un centro che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ordine che esso si è dato. L’unilateralismo americano sembra tuttavia aver messo a dura prova la coesione dei paesi della triade, i cui dissidenti si esprimono nei dibattiti della Commissione. Nel suo discorso del 6 aprile 2002, durante la già citata riunione, Colin Powell ha quindi difeso la posizione americana sui principali punti di disaccordo con il resto del mondo, ovvero rifiuto di firmare gli accordi di Kyoto, opposizione alla creazione di una Corte penale internazionale, analisi dell’«asse del male», intervento americano in Iraq, appoggio alla politica israeliana, e via dicendo.
L’egemonia delle democrazie liberali rafforza la fede nelle virtù della globalizzazione e della liberalizzazione delle economie espressa dal pensiero della trilaterale. La globalizzazione finanziaria e lo sviluppo degli scambi internazionali sarebbero al servizio del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita di un gran numero di persone. Ma esse presuppongono la rimessa in causa delle sovranità nazionali e la soppressione delle misure protezioniste.
Questo credo neoliberista è dunque spesso centro dei dibattiti.
Durante l’incontro annuale dell’aprile 2003 a Seul è stata trattata in particolare la questione dell’integrazione economica dei paesi del Sud-Est asiatico e della partecipazione della Cina alle dinamiche della globalizzazione. Le riunioni dei due anni precedenti avevano dato occasione al direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) Mike Moore di professare devotamente le virtù del libero scambio. Moore, dopo aver ricoperto di improperi il movimento anti-globalizzazione, aveva dichiarato che era «imperativo tenere a mente ancora e sempre quelle prove schiaccianti che dimostrano che il commercio internazionale rafforza la crescita economica». (6)
La tirata del direttore del Wto contro i gruppi che reclamano una globalizzazione diversa – chiamati «e-hippies» - sottolinea la terza caratteristica fondante della trilaterale: l’avversione per i movimenti popolari, che si era espressa nel celebre rapporto della Commissione sul governo delle democrazie redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki (7). Questo rapporto, del 1975, denunciava gli «eccessi della democrazia», espressi secondo gli autori dalle manifestazioni di contestazione dell’epoca. Manifestazioni che, un po’ come oggi, mettevano in causa la politica estera degli Stati uniti (ruolo della Cia nel golpe cileno, guerra del Vietnam) ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti sociali. Il rapporto provocò all’epoca molti commenti indignati che si scatenarono contro l’amministrazione democratica del presidente James Carter, essendo stato egli stesso un membro della trilaterale (come più tardi il presidente Clinton). (8)
Dall’inizio degli anni ’80, l’attenzione della stampa per questo tipo di istituzioni sembra essersi rivolta più che altro su incontri meno chiusi e soprattutto più divulgabili tramiti i media, come il Forum di Davos. L’importanza delle questioni dibattute nell’ambito della trilaterale e il livello di coloro che in questi ultimi anni hanno partecipato alle sue riunioni sottolineano però la sua persistente influenza. (9)
Note:
(1) Le Monde diplomatique ha dedicato molti articoli all’argomento nel corso degli anni ’70.
(2) Il numero dei «distinti cittadini» ammessi alla Commissione è stato in seguito allargato e oggi comprende più di 300 membri.
(3) Sulle reti di «coloro che decidono» si legga «Tous pouvoirs confundus», Epo, 2003
(4) Gilbert Larochelle, «L’imaginaire technocratique» Montreal, 1990, p.279
(5) I discorsi di questi interventi sono accessibili al sito ufficiale della Commissione: www.trilateral.org
(6) Mike Moore, «The Multilateral Trading Regime Is a Force for Good: Defend It, Improbe It». Riunione della Commissione trilaterale del’11 marzo 2001
(7) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, «The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission», New York University Press, 1975
(8) Zbigniew Brezinski era stato uno dei grandi architetti di questa organizzazione prima di diventare il principale consigliere del presidente Carter sulle questioni di sicurezza nazionale
(9) David Rockefeller, Georges Berthoin e Takeshi Watanabe (1978) Prefazione a «Task Force Reports»: 9-14, New York University Press, p IX
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