Sofia Fraschini per “il Giornale”
Da
titolo per cassettisti, investitori oculati e fondi pensione, Saipem si
è trasformata negli ultimi tre anni in un'azione rischiosa. Una doccia
fredda per chi ha puntato su questo gioiello italiano della tecnica e
dell'ingegneria petrolifera sperando di avere un ritorno sicuro. La
società, braccio operativo dell'Eni (che ne controlla il 42,9%),
costruisce piattaforme petrolifere e ha mezzi che tutto il mondo ci
invidia. Da un paio anni, però, qualcosa si è inceppato. «Il titolo -
ironizza un analista - sembra essere finito ostaggio di Piazza Affari».
Dai
massimi toccati in Borsa il 14 settembre del 2012 a 39,92 euro a oggi
che di euro ne vale poco più di 8, il titolo ha perso l'80%: oltre 14
miliardi di capitalizzazione bruciati da una società indirettamente
pubblica. I corsi dell'oro nero (passato da 110 dollari al barile a 45
nel 2014) e i massicci tagli agli investimenti decisi dalle major di
certo non hanno aiutato. Così, nel confronto con i competitor, emerge
che ci sono altre «oil services» in difficoltà: Technip (dal 2013 è
scesa da 80 euro in area 50)e Petrofac (ha dimezzato il suo valore).
Tuttavia, altri big hanno performato in modo stabile o positivo: Backer
Hughes (da 43 a 63 dollari, Halliburton (dai 37 dollari del 2013 a 41
dollari), Schlumberger (da 70 a 83 dollari). Cosa c'è dunque dietro il
caso Saipem?
Per
il «gioiellino» italiano qualche analista finanziario si spinge a
parlare di una bolla scoppiata su «numeri di bilancio poco realistici
del passato». E il punto zero è collocabile al dicembre del 2012 con lo
scoppio dello scandalo algerino. La Procura di Milano apre un'inchiesta e
accusa Saipem di aver pagato tangenti per ottenere un appalto nel paese
nordafricano. Un'indagine (per la quale è appena stato deciso il rinvio
a giudizio per l'ex ad di Eni Paolo Scaroni e altri 8 indagati) che,
all'epoca dei fatti, portò all'uscita dell'ad di Saipem, Pietro Tali
(anche lui rinviato a giudizio), e alla nomina di Umberto Vergine. Ed è
qui, con il passaggio di testimone, che si può far risalire l'inizio
dello scoppio della bolla.
Paolo Scaroni
A
gennaio, Saipem lanciò il primo profit warning: un allarme sui conti
che non corrispondono più alle previsioni. Cose che possono capitare. Se
non fosse che la Consob ha multato con 80mila euro la società per il
ritardato annuncio. E sia poi partita una causa legale con 64
investitori istituzionali che chiedono un risarcimento da 174,2 milioni.
«Oggi sappiamo - spiega Rosario Marcone consulente della Deminor, la
società che sta portando avanti la causa - che Saipem ha sovrastimato i
profitti di alcuni contratti per oltre un miliardo e che diverse figure
apicali, non solo della società ma anche di Eni, erano ben informate
della situazione.
In
merito a un presunto coinvolgimento, l'Eni spiega che la Saipem è una
società indipendente e che per le «regole applicabili alle società
quotate, normativa sulle parti correlate, temi antitrust e tutela degli
azionisti di minoranza, non entra nella gestione e valutazione delle
commesse Saipem e a tal proposito i flussi informativi che Eni riceve da
Saipem sono aggregati e funzionali solo al consolidamento dei risultati
acquisiti».
Indipendentemente dalle
responsabilità della capogruppo, il 29 gennaio 2013 Saipem lancia
comunque il profit warning (un ebit di 1,5 miliardi in calo del 6% e un
utile netto di circa 900 milioni) causando un bagno di sangue. Una
perdita del 34,3% (da 30,45 euro a 20,01 euro in 24 ore).
Ma
non per tutti. Poche ore prima dell'annuncio, i fondi BlackRock (che
finiranno poi sotto inchiesta per insider trading) vendono poco più del
2%. Per i soci rimasti vanno in fumo 4,7 miliardi. Con ripercussioni
indirette anche sulle casse pubbliche.
Il
ministero dell'Economia è, infatti, azionista di Eni (all'epoca col
4,97%; mentre la Cdp, che è del Mef, controlla il 25,7%), che a sua
volta in Saipem detiene il 42,9%. Dopo il primo profit warning, il 14
giugno 2013, la società replica a causa del radicale deterioramento
della posizione commerciale in Algeria e di una serie di criticità su
due contratti in Messico e Canada (secondo profit warning).
Il
bilancio in Borsa è nuovamente pesante: -29,19 a 14,24 euro; bruciati
2,59 miliardi di capitalizzazione. L'annus horribilis si chiude con una
perdita di 404 milioni (da un utile di 902 milioni) e un debito a 4,7
miliardi. Non va meglio il 2014. L'azienda riporta una perdita netta di
230 milioni. Così, dopo due anni in discesa libera, a fine 2014, la
perdita di valore del gruppo ammonta a quota 10 miliardi. Ma non basta.
Tra 2014 e 2015 un'altra grana piomba sul gruppo. L'affare South Stream.
La
costruzione del mega gasdotto russo vale 2,4 miliardi ed è più che
ossigeno per Saipem. Ma complici le tensioni geopolitiche generate dalla
crisi ucraina e le sanzioni contro la Russia, il primo ministro russo
Vladimir Putin inizia un pericoloso balletto: annuncia una sospensione a
dicembre del contratto, un avvio lavori a maggio 2015 per poi
dichiarare saltato il progetto e dunque l'accordo. Una nuova brusca
frenata al titolo (non priva di responsabilità politiche) con il premier
Matteo Renzi che definisce il progetto «non fondamentale per l'Italia».
Una
debacle, soprattutto per i piccoli azionisti. E non se la passano bene
nemmeno la People Bank of China (oggi al 2,03%) che ha fatto trading
quando il titolo era tra 7-8 euro e il fondo californiano Dodge e Cox
(12,1%) che si è rafforzato il 10 marzo con il titolo poco sopra i 9
euro. Quanto agli effetti sull'Eni, oltre al taglio dei dividendi, «non
aver scorporato prima la società (nel 2013 quando le pressioni in tal
senso arrivavano da analisti e azionisti) ha causato un mancato guadagno
di 4,5 miliardi» spiega Silvio Bona, analista indipendente di Asglobal
prendendo in considerazione il valore attuale e quello medio del
2012-2013 (33 euro).
Numeri
che inquadrano diversamente anche l'opzione di aumento di capitale
Saipem rivelata dal Giornale e che prevede il possibile ingresso della
Cassa Depositi e Prestiti (a oggi Eni ritiene di non commentare il
confronto tra due operazioni non avvenute).
«Potrebbe
generare un ulteriore sell-off del titolo anche fino a 6 euro, ma poi
permettere una ripartenza dei corsi azionari, certo a discapito del
venditore (Eni) che andrebbe incontro a una vera svendita» commenta
Bona. A tutto favore di chi entrando, Cdp e fondi arabi, otterrebbe una
partecipazione decisamente a saldo.
http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/bagno-eni-saipem-tre-anni-allarmi-utili-inchieste-105003.htm
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