Eppure tre anni prima la vita sembrava avergli dato tutto e gli
svolazzava accanto decisa a non togliergli proprio un bel niente. Ci
provavano i giornalisti, ogni tanto, a punzecchiarlo: lo chiamavano il condottiero,
ma anche il contadino. Forse nemmeno era nessuna delle due cose. Era
solo un uomo che faceva paura: ai politici, ai banchieri, ai finanzieri.
Alla Milano da bere. Si era permesso di sfilare sotto il naso la Montedison a Enrico Cuccia, guardava Gianni Agnelli negli occhi e Carlo De Benedetti dall’alto in basso. Colpa dei miliardi a disposizione, della liquidità: quando fu il momento di comprare Montedison
mise 1500 miliardi di vecchie lire come un giocatore piazza sul tavolo
una fiche da dieci euro. Convinto, come fu, che l’avrebbe vinta.
Tre anni dopo in piazza Belgioioso, a Milano, la sera del 22 luglio, c’è un uomo dimagrito di dieci chili. Ha perso l’aria da playboy,
non ha più l’aereo parcheggiato sulla pista di Forlì, non si mette più
al timone delle barche. E rifiuta il pesce, cosa che entusiasmava le sue
colazioni sul molo a Ravenna. Il cognato, Carlo Sama, gli ha soffiato
la guida di tutto il gruppo ereditato dal suocero, Serafino Ferruzzi,
lui si è rifugiato in Francia, in Italia nelle acque minerali e altre
imprese dal basso. Nel guardaroba ha ancora la vestaglia di seta, ma Raul Gardini
non la porta più come tre anni prima. Non ha più la voce perentoria. Di
rado sorride, parla poco e con pochissimi. Non è più niente di quello
che fu. Aspetta che la guardia di finanza bussi alla porta di casa sua e
lo porti in carcere. Forse a San Vittore sarebbe rimasto dalla mattina
alla sera, gli dissero gli avvocati, Giovanni Maria Flick e Marco De
Luca. Non aveva da raccontare nulla di più, forse, che interessasse
l’accusa: dell’affaire Enimont il giovane Di Pietro
aveva saputo quello che voleva da Sama. Gardini però la mattina del 23
luglio del 1993 si alza, fa una doccia. Indossa un accappatoio bianco.
Memorizza il film che è stato la sua vita. Riavvolge tutto e lo ripone
come un calzino. Poi, alle 8, minuto più minuto meno, si spara un colpo
alla tempia con una vecchia Walter Ppk, 65. E mette fine al contadino e
al condottiero che di lì a breve sarebbe stato un carcerato.
La sera prima “Aveva una strana voce”
“Ci
sentimmo che saranno state la otto di sera, capii che non andava. Lo
sentii dalla voce. Lui non disse niente, neanche il solito sto bene,
stai tranquillo”, racconta Vanni Ballestrazzi, ex
inviato del Resto del Carlino, mai dipendente di Gardini, ma suo
fratello, dall’inizio alla fine, dai giorni fasti a quelli bui, a
quelli, prima ancora, dell’infanzia e poi di due vitelloni fatti di
niente, gassose e risate sulla battigia. “Ho vissuto con lui in
simbiosi, una vita intera, anche quando non ci vedevamo. E quella
telefonata ce l’ho ancora nelle orecchie, quella voce che mi trapassa
ogni giorno come una freccia. Perché io gli dissi che sarei andato a
Milano, comunque glielo chiesi. Che l’avrei raggiunto. E Raul non mi
rispose di no. Ma io non partii”. A Ballestrazzi si arrossano gli occhi.
Ha i tratti severi, ma è un galantuomo, cammina a testa alta e avrebbe
potuto molto, ma non cercò mai niente. E soprattutto di Gardini fu l’unico amico sincero.
Lo svago di Ballestrazzi, dicono, erano e sono ancora le donne. Dei
soldi non gli è mai importato un granché. Niente. Figuriamoci che quando
nelle assemblee di redazione prendeva la parola il suo editore non lo
chiamava per nome, si limitava a definirlo quel “giovane decerebrato”.
Era il suo datore di lavoro. Capito l’uomo? “Vabbè, l’editore del
giornale per me era rimasto Attilio Monti, che fu uomo intelligente e leale. Intavolare discussioni con suo nipote mi restava difficile”.
Resta una montagna d’uomo. “È il rimpianto della mia vita. Dovevo salire in auto e partire per Milano.
A me interessava l’amico. Quella sera avevo un appuntamento con
un’amica, da mesi le promettevo che l’avrei portata a vedere Pavarotti. E
così andammo al concerto. Ma non fu per questo che non presi la
macchina per Milano. Sapevo che a Milano c’era sua moglie, Idina, e io
sarei arrivato non prima delle undici di sera. E lo avrei trovato che
dormiva. Come era accaduto mille volte. Fu una serie di cose. Io quella
telefonata me la porto addosso. Anche perché fu lui a chiamarmi. Non so
se aveva già deciso di farla finita, forse no, ma non era più lui, e se
ne rendeva conto. Però mi chiamò per tranquillizzare me di una piccola
sciocchezza”. L’arringa postuma di Ballestrazzi è senza tregua alcuna.
Lui sulla maxi tangente di Enimont ha delle idee ben
precise. “Non potevano imputare a lui cose avvenute negli ultimi mesi
quando lo avevano fatto fuori due anni prima. Comandavano Sama con il
fido Bisignani, e Cusani, o Sergino, come lo chiamavano. Gardini non
c’era più. La storia della tangente da dieci miliardi per gli sgravi
fiscali?
Guardatevi i ritagli dei giornali di allora, capirete il disprezzo
col quale Gardini guardava ai politici. Dai processi non abbiamo saputo
se li pagasse davvero, perché la sua voce non c’era. Solo quella di Sama
e Cusani, che sepolto il cadavere lo accusarono di
tutto, ma lui era già fuori dal gruppo. Sappiamo che non gli piacevano i
partiti. Li disprezzava. Votò per i Repubblicani, i Liberali e anche
per il Pds. L’Enimont neanche la voleva se non alle sue condizioni, le
cronache hanno raccontato un’altra storia. E comunque certi giornalisti
economici battevano cassa spesso in Foro Bonaparte, sperare che allora
scrivessero la verità sarebbe stato troppo. Eppoi della comunicazione si
occupava Sama, questo è noto. Prima, durante e dopo. Come quando riuscì
a portare il papa al Messaggero che presiedeva e amministrava e gli
fece trovare un assegno da 500 milioni. Lo dicono le carte processuali,
non Vanni Ballestrazzi da Ravenna”. La storia dei giornalisti pagati
la sfiorò anche Di Pietro, poi finì nei cassetti. Se c’è uno che può
conoscere nomi e cognomi è Ballestrazzi. Perché faceva il giornalista. E
perché una volta, in barca, Gardini gli disse, la “venialità di alcuni
tuoi colleghi è incredibile”. Ma nella vicenda Mani Pulite
rimase una favola quella lista di penne sporche. Non sappiamo chi e
come prendesse soldi. Sicuramente, una volta estromesso Gardini, c’erano
cronisti ultrà del giovane Sama. Ma è normale andare nella direzione di
chi comanda. O quasi. Erano le stesse penne che applaudivano il
condottiero, talvolta il contadino. E prima ancora erano ammaliati dalla
figura del vecchio Serafino che, ogni anno, a Natale, faceva recapitare
piccoli lingotti d’oro ai giornalisti che lo seguivano. Non risulta che
siano mai stati rispediti al mittente.
Vent’anni dopo i miliardi scomparsiIl sasso che
pesa come un macigno Ballestrazzi lo lancia ancora nello stagno. Così
come fece, nell’ombra e sottovoce, allora. “Sarebbe interessante capire
dove siano finiti, nelle tasche di chi, i 450 miliardi trasferiti alle Cayman.
Quello è il punto dell’inchiesta. Io al processo non sono mai andato,
ma sui giornali mi accorsi che si parlava d’altro”. Non chiedetegli a
chi si riferisce, perché Ballestrazzi se la ride: “Così mi prendo una
querela. Mica sono matto. Ho una mia idea. So che quei soldi sono
partiti, è nel processo, ma nessuno li ha mai trovati. Non sono andati
dispersi, non si perdono per strada 450 miliardi”.
Sono passati 20 anni. Non era ieri. L’Italia sembrava sull’orlo di
una rivoluzione. Di Pietro e il pool di Milano sconti non ne faceva. A
volte buttavano via la chiave. Altre si facevano firmare i verbali. E
Gardini, il Clark Gable che sembrava essere nato brizzolato perché le
donne gli cadessero ai piedi con più facile consuetudine, era uno dei
bocconi più ghiotti. Perché nel sistema ci stava dentro fino al collo.
Ma non sappiamo la sua versione. Tutto qui. Sosteneva di non avere
versioni da raccontare. Perché, diceva lui, Sama e Cusani gli chiusero a chiave i cassetti.
E non aveva più accesso ai documenti che gli sarebbero serviti. La
moglie, Idina, ogni tanto lo scuoteva: “Ma ti fai trattare così da due
come Sama e Cusani?”. E lui: “Loro hanno le chiavi di quei cassetti, non
io”. Così resta la memoria del condottiero e contadino. Ravenna gli ha
dedicato una via da tempo, presto anche una sede distaccata
dell’università. Ai suoi funerali c’erano ventimila persone. Cesare
Romiti, che a Gardini non è che piacesse così tanto, continua a parlare
“di una verità parziale e della grande figura di imprenditore che egli
fu”. Nei libri si parla di suicidio imperfetto. Sama, dal suo ritiro di
Formentera, evita di nominare il cognato. Lo stesso fanno i Ferruzzi.
Non ne parla più la moglie né i figli. Preferiscono ricordarlo forte.
Pronto a scalare l’Everest fosse stato necessario. Era romagnolo fino
alla punta dei piedi. Fiero. Sapeva di portarsi dietro un profumo di
fascino che non era solo il danaro. Preferì morire prima di vedersi
continuare a dimagrire e in galera. Sicuramente, come racconta
Ballestrazzi, fu un suicidio imperfetto. Perché chiuse
un’epoca sulla quale solo lui avrebbe potuto parlare. La vita gli aveva
dato tutto, no? Prima di togliergli la libertà si tolse lui dai piedi.
Con un accappatoio bianco.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/15/raul-gardini-anatomia-di-suicidio-e-450-miliardi-scomparsi/656406/
martedì 28 luglio 2015
Raul Gardini, anatomia di un suicidio. E il mistero dei 450 miliardi scomparsi Il 23 luglio cade il ventesimo anniversario della morte dell'imprenditore. Vanni Balestrazzi, ex inviato del Resto del Carlino e suo amico personale, racconta a Il Fatto Quotidiano le ultime ore: "Ci sentimmo verso le otto e capii che non andava. Lo sentii dalla voce". E tra ricordi e ritagli di giornale, ripercorre le tappe fondamentali della storia dalla maxi tangente Enimont passando per la lista dei giornalisti pagati fino ai soldi trasferiti alle Cayman di Emiliano Liuzzi | 15 luglio 2013
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