Privatizzare in nome dell’Europa di Maastricht
Negli anni ‘90 si è verificato in Italia il vero e proprio
processo di privatizzazione con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica
nell’intero sistema produttivo del Paese. Le azioni del governo di questi anni
confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle
aziende pubbliche per risolvere i problemi produttivi ed economici dell’Italia.
Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione
del Mercato Unico Europeo (1992). Gli intensi processi di globalizzazione dell’economia
a livello mondiale hanno portato il nostro Paese a cercare una ipotetica soluzione
dei problemi della concorrenza internazionale con la cessione ai privati di
interi settori di attività, ritenuti inefficienti, con l’obiettivo di risanare
in questo modo una situazione ormai compromessa.
La stessa costruzione dell’Europa, basata sui parametri di
Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto
aperto e diretto dei paesi europei alla partecipazione da protagonisti a quella
economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di
influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense,
quella giapponese e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco.
Una via europea che in nome di un malfigurato progresso, di un liberismo sempre
più selvaggio si apre all’incontro-scontro con l’economia mondiale lasciando
un sempre maggior numero di persone senza protezione, nella miseria, aumentando
le diseguaglianze economico-sociali nel nome della gigantesca mistificazione
europea.
L’Europa di Maastricht, lo stesso scontro in atto nel nostro
Paese fra gli schieramenti politici che, anche se in maniera diversa, rappresentano
e condividono la linea politica e socio-economica assegnate all’Italia dalla
ricomposizione del capitale internazionale in chiave di ridefinizione neoliberista,
sono i rappresentanti dello scontro in atto fra un modello di capitalismo, quale
quello renano-nipponico, fondato più su un’economia sociale di mercato, e il
modello neoamericano-anglosassone che trova una maggiore accentuazione individualista
tendente alla massimizzazione dei profitti a breve e ad uno strapotere dell’economia
finanziaria.
Dagli evidenti risultati che possono essere letti anche nel
nostro Paese sembra prevalere una controffensiva, portata avanti dalla Confindustria
e da varie forze politico-sociali, che tende all’affermazione del modello anglosassone.
Basta ad esempio guardare ai livelli raggiunti dal tasso di disoccupazione in
Italia e in Europa, alle politiche tendenti alla distruzione dello Stato Sociale
e di qualsiasi garantismo solidaristico. Ma lo stesso tasso di disoccupazione
presente in Germania e l’affossamento delle politiche sociali è una diretta
testimonianza dei difetti e delle forti difficoltà dello stesso modello tedesco. [1]
E’ a partire dal 1990 con la costituzione di una Commissione
Ministeriale (Commissione Scogamiglio), seguita poi da altri programmi di governo
(Governo Andreotti 1991) che si è dato l’avvio a una serie di interventi legislativi
atti a delineare un programma di privatizzazione delle imprese pubbliche.
Con la legge del 1992 n.35 erano state previste due fasi; nella
prima si attuava la trasformazione delle Aziende Autonome e degli Enti pubblici
in società per azioni; nella seconda fase invece si procedeva alla vendita delle
azioni pubbliche. Questo programma ha presentato però molte difficoltà, dovute
soprattutto al fatto che le imprese presentavano realtà molto diverse tra loro.
Le Ferrovie ad esempio, in costante perdita, non rappresentavano certo alcun
tipo di interesse per il mercato; l’ENI e l’ENEL avevano, tra l’altro, il monopolio
della ricerca e gestione dei giacimenti di idrocarburi nella Val Padana e del
trasporto e della produzione dell’energia elettrica.
Il programma del Governo Amato
Il piano presentato dal Presidente del Consiglio Amato a metà
del novembre 1992, ha costituito per l’Italia il primo programma politico di
privatizzazione.
Nell’ultimo decennio si erano già avute dismissioni anche importanti
di aziende pubbliche (soprattutto nell’area delle partecipazioni statali: Alfa
Romeo, Lanerossi, Cementir).
Questa strategia, in presenza di una mancata capacità dello
Stato di onorare il proprio ruolo di azionista e nel permanere di rilevanti
aree di perdita (siderurgia, cantieristica, chimica, impiantistica ), ha finito
per ricondurre l’indebitamento dei gruppi pubblici (soprattutto quello dell’IRI)
a livelli di altissima pericolosità. Le nuove ambizioni industriali, in definitiva,
si sono scontrate con una congiuntura economica avversa e, innanzitutto, con
la volontà di mantenere in vita imprese operanti in settori sempre più rischiosi
e difficili.
La prima risposta a questa situazione, nei termini di un programma
politico di privatizzazione, è maturata nel 1991, con l’idea di trasformare
in società per azioni gli enti pubblici economici, collocandone poi le
azioni sul mercato, passo questo obbligatorio per la trasformazione da “capitale
di investimento o di sussistenza” a capitale sociale.
Si voleva, in questo modo dare la priorità al riassetto istituzionale,
creando le premesse per una gestione meno condizionata da interferenze indebite.
La speranza di collocare sul mercato azioni di grandi conglomerati
(la cui economicità prospettica è sempre di difficile percezione ), appariva
però il lato debole del progetto. Si è arrivati quindi alla predisposizione
di un’ampia e dettagliata dichiarazione d’intenti coinvolgente i principali
enti pubblici economici (IRI, ENI, ENEL, IMI, BNL, INA).
Ha preso corpo, così, il primo piano di privatizzazione del
nostro Paese, un programma molto articolato che è stato definito “Piano di riordino”
piuttosto che “Piano di privatizzazione”. In base alla legge 359/1992, il piano
di riordino doveva rispondere a due obiettivi molto generali: predisporre le
operazioni necessarie alla valorizzazione di tutte le partecipazioni pubbliche
e precisare il contributo dei ricavi da dismissioni alla riduzione del debito
pubblico. Il tentativo compiuto è stato quello di rispondere ad entrambe le
esigenze, anche attraverso l’individuazione di due ordini di operazioni di dismissione.
Da un lato quelle strumentali a ricostruire l’equilibrio finanziario dei gruppi
pubblici, dall’altro quelle più direttamente incidenti sul debito pubblico e
quindi riferite ai gruppi stessi.
In altri termini, si sono fornite una serie di indicazioni
per ottenere, nel più breve tempo possibile, un ritorno a gestioni privatistiche,
ancora prima di una effettiva cessione ai privati.
Con il “programma di riordino delle partecipazioni statali
“ della legge 359/92 si stabilisce che occorre:
• valorizzare le partecipazioni con la previsione di
cessione di attività o settori d’azienda , con gli scambi di partecipazioni
e con le fusioni , incorporazioni ed ogni altro atto necessario al riordino;
• quotare le società partecipate e definire
il ricavo destinato alla diminuzione del debito pubblico;
• favorire l’azionariato diffuso con premi di
fedeltà azionaria e agevolazioni fiscali ,evitando assetti proprietari instabili;
• limitare le dismissioni di attività considerate
strategiche sotto il profilo pubblico;
• favorire la nascita di nuovi investitori istituzionali.
La delibera CIPE del 30/12/92 individuava tre tecniche di vendita
:
• offerta pubblica di vendita , sia a prezzo
fisso che con un prezzo determinato da asta;
• asta pubblica con eventuale preselezione dei
partecipanti ;
• trattativa privata.
Successivamente, con il Decreto 389/93 , si è stabilito
che l’alienazione può avvenire solo attraverso l’offerta pubblica di vendita
e la trattativa privata diretta con preselezione degli acquirenti.
Nei successivi decreti vennero confermati tali orientamenti.
Nell’ultimo Decreto 474/94 si è stabilito che i Ministri e gli organi
competenti possono individuare le società a cui fare le cessioni al fine di
costituire un nucleo stabile.
Il Governo Amato ha dato l’avvio effettivo alle operazioni
proposte in precedenza (legge dell’8 Agosto 1992, n.359) con la privatizzazione
dell’IRI, dell’ENEL, dell’ENI e dell’INA, trasformate in società per azioni.
Lo Stato ha mantenuto poteri molto ampi in merito alla vendita
e all’acquisto di società, alle trasformazioni, alle fusioni, ecc. ( in precedenza
queste decisioni erano assunte autonomamente dagli Enti stessi); inoltre si
è data facoltà al CIPE di operare trasformazioni di altri Enti in Società per
Azioni, indipendentemente dal loro settore di attività (con questa disposizione
è stato possibile attuare la trasformazione dell’Ente pubblico delle Ferrovie
in Società per Azioni).
Va evidenziato comunque che questo programma di privatizzazione
si è rivelato in sostanza molto debole e poco efficace, anche perché lo scopo
principale era quello di ridurre il debito pubblico con i proventi delle privatizzazioni
(si vedano a titolo d’esempio la Tab. 8 e i Graff. 8 e 9).
E’ noto infatti il drammatico squilibro della nostra finanza
pubblica dovuto soprattutto a quel perverso “equilibrismo consociativo” fra
partiti di governo e di opposizione che ha caratterizzato la nostra scena
politica e le conseguenti scelte politico-economiche in particolare negli anni
‘70 e ‘80. La Tab.8 consente di comprendere come il debito pubblico sia
andato crescendo nel corso degli anni ‘80 e come il rapporto tra debito pubblico
e prodotto interno lordo sia cresciuto di oltre 60 punti percentuali negli ultimi
20 anni (nel 1991 si è superato il 100%).
L’Italia presenta inoltre una percentuale molto elevata anche
con riguardo al disavanzo, che risulta aumentato in termini assoluti, mentre
ha subito una diminuzione del 2% rispetto al PIL.
E’ evidente comunque che la politica di dismissione delle imprese
pubbliche non può portare ad un miglioramento di questa situazione in quanto
le entrate che si possono ricavare dall’intero processo di privatizzazione non
sono in alcun modo sufficienti a coprire significativamente il complessivo debito
pubblico. Un esempio: nel 1994 lo stock di debito era di 1.771.108 miliardi
di lire, le entrate previste per il triennio 1993-95 dalle operazioni di privatizzazione
è di 27.000 miliardi; i ricavi andranno quindi ad incidere sul debito pubblico
solo per l’1,5%. Non è quindi la soluzione ottimale!
L’accelerazione imposta dal Governo Ciampi
A legittimare definitivamente gli strumenti nel nostro ordinamento
per un indiscriminato ricorso alle privatizzazioni, è stato il decreto legge
389 del 27 settembre 1993, reteirato in novembre, con il quale il Governo Ciampi,
ha impresso una brusca accelerazione al processo di definizione del quadro istituzionale
in cui si collocano le strategie di privatizzazioni. Dopo un primo incerto tentativo
con il decreto legge del dicembre 1991, questo processo aveva conosciuto un
avvio più deciso con il decreto 333 dell’11 luglio 1992, poi convertito con
modifiche nella legge 3 59 dell’8 agosto 1992.
Quel provvedimento disponeva, con effetto immediato, la trasformazione
di IRI, ENI, ENEL, e INA in società per azioni, semplificava più in generale
la procedura di trasformazione in S.p.A. degli enti pubblici economici, e individuava
nel Ministero del Tesoro l’azionista unico delle nuove società.
Sempre in base alla legge 3 59/1992, il Ministero del Tesoro
era tenuto a sottopone al Parlamento un “ Piano di riordino e privatizzazione
delle partecipazioni dello Stato”, rispetto al quale le Commissioni Parlamentari
competenti dovevano esprimere un parere non vincolante.
Con il decreto legge 41 del 22 febbraio 1993 (non convertito),
reiterato dal 118 del 23 aprile 1993 (convertito dalla legge 202 del 23 giugno)
è stato soppresso il Ministero delle Partecipazioni Statali ( a seguito del
referendum è stata abrogata anche la legge istitutiva del 1956). Con lo stesso
decreto sono state anche riorganizzate le responsabilità istituzionali disponendo
che: “Il Ministero del Tesoro esercita i diritti dell’azionista secondo le direttive
del Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa con il Ministro del bilancio
e della programmazione economica e con il Ministro dell’industria, del commercio
e dell’artigianato”.
Nel 1993 è stato soppresso il Ministero delle Partecipazioni
Statali ed è stata liquidata l’EFIM; inoltre il nuovo presidente del Consiglio
Ciampi ha affermato l’intenzione di continuare le privatizzazioni avviate da
Amato; va rilevato che le operazioni di vendita non sono state supportate da
una unica legge ma da una sequenza di decreti legge che contenevano le operazioni
necessarie ad una veloce procedura di dismissione. L’intenzione del Governo
di costituire delle public companies (seguendo l’esempio inglese) ha
portato all’introduzione della “golden share”( decreto legge n.389 del 27 settembre
1993). La differenza tra questa azione speciale e quella omonima della Gran
Bretagna si ravvisa soprattutto nel fatto che non si tratta di una riserva azionaria
che permette al Ministero del Tesoro di esercitare dei diritti permanenti sulle
società da privatizzare. I “particolari poteri“ quali il divieto di scioglimento
ed il gradimento di partecipazioni rilevanti, pur essendo inseriti negli statuti
degli Enti alienati, hanno una durata limitata nel tempo (solo per cinque anni);
potranno inoltre essere inseriti solo nei settori strategici della difesa, delle
telecomunicazioni, dei trasporti e dell’energia.
Va rilevato inoltre che le società da privatizzare hanno il
potere di limitare il possesso di azioni in riferimento a qualsiasi socio, compreso
il Ministero del Tesoro; in aggiunta a ciò il decreto legge parla in modo molto
generico della partecipazione dei piccoli azionisti al vertice delle imprese
da privatizzare.
L’articolo 1 del decreto 389/93 elenca le modalità attraverso
le quali è possibile trasferire a privati la proprietà delle partecipazione
dello Stato: si tratta dell’offerta pubblica di vendita (OPV), del concambio
con titoli pubblici, della trattativa diretta.
Il primo e il secondo di questi strumenti, in particolare,
sono destinati nelle intenzioni a consentire il formarsi dell’azionariato diffuso.
Le norme contenute negli articoli 4 e 5 prevedono la possibilità
di introdurre, negli statuti di imprese industriali istituti di credito e assicurazioni,
limiti massimi alle partecipazioni detenute dai singoli azionisti o dai rispettivi
gruppi di appartenenza.
Del gruppo, l’articolo 4 del decreto fornisce una nozione particolarmente
estesa (vi si comprendono non soltanto la controllante e la controllata ma anche
tutte le controllate di una stessa controllante) così da rendere molto stringente
il divieto di superare determinate soglie di possesso azionario.
I limiti citati sono validi per qualunque azionista, pubblico
o privato, derogando la normativa sugli istituti di credito pubblici che prevedeva
una partecipazione minima dello Stato pari al 51 per cento del capitale. L’opzione
a favore dell’azionariato diffuso è stata ribadita, affermando che negli
statuti possono essere inserite clausole di salvaguardia delle minoranze
azionarie e della loro effettiva partecipazione alla nomina delle cariche
sociali.
Se l’OPV e il concambio fra titoli pubblici e azioni favoriscono
il frazionamento della proprietà, la cessione di azioni mediante trattativa
diretta ribadisce l’importanza assegnata ai mercati finanziari quale strumento
fra i possibili impieghi produttivi.
Saranno infatti gli investitori istituzionali, selezionati
secondo le procedure abituali dei mercati mobiliari internazionali, ad acquistare
le partecipazioni cedute a trattativa diretta.
Secondo un’interpretazione suffragata dall’intervento del Presidente
del Consiglio al Senato il 20 ottobre 1993, tutti gli strumenti di vendita previsti
dal decreto potevano essere utilizzati per la cessione di istituti di credito
e aziende gerenti pubblici serviti: entrambe le tipologie, infatti, si prestavano
alla trasformazione in società ad azionariato diffuso.
Per le aziende di servizi pubblici era però impossibile privatizzare
ricorrendo ai mercati mobiliari e alla diffusione dell’azionariato senza appositi
meccanismi che consentivano di evitare trasformazioni delle società in esame
contrarie al pubblico interesse.
Questi meccanismi altro non sono che i “poteri speciali” di
cui parla l’articolo 2 del decreto, riferendoli obbligatoriamente al comparto
dei servizi pubblici (più precisamente energia, trasporti e telecomunicazioni),
oltre che, per ovvie ragioni, all’industria della difesa.
L’introduzione obbligatoria di poteri speciali negli statuti
di queste società ha consentito di bloccare per cinque anni decisioni concernenti
lo scioglimento o la liquidazione della società, il trasferimento all’estero
dell’azienda e la modifica della sua missione imprenditoriale.
Inoltre, data l’esistenza di un limite massimo alle partecipazioni
detenute dai singoli azionisti, il Ministero del Tesoro potrà esprimere un parere
vincolante sull’assunzione di partecipazioni eccedenti il limite prefissato.
Accanto alla possibilità di difendere l’esistenza dell’azienda e la natura pubblicistica
della sua missione, il governo è quindi depositario della facoltà di bloccare
passaggi di proprietà sgraditi, discrezionalmente ritenuti tali per ragioni
non precisate in questo decreto e dunque interpretabili in maniera estensiva.
L’adozione di strumenti di vendita in grado di favorire la
frantumazione della proprietà e la diffusione dell’azionariato, non è stata
ritenuta sufficiente dalle Commissioni Bilancio e Finanza della Camera che,
in occasione del dibattito sulla reiterazione del decreto, hanno presentato
una proposta di modifica basata sull’asserita inadeguatezza delle norme a
garantire l’intervento dei piccoli azionisti nei processi decisionali. La
proposta prevedeva l’introduzione del voto di lista (che permette ai
sottoscrittori di partecipazioni anche piccole di essere rappresentati nei Consigli
d’Amministrazione delle aziende privatizzate), l’attribuzione agli intermediari
finanziari della facoltà di rappresentare nelle assemblee gli investitori che
affidano loro i titoli in gestione (fermi restando i limiti imposti al possesso
di azioni e al relativo diritto al voto), la natura pubblica dei patti di sindacato
tra gli azionisti.
Infine, le Commissioni Parlamentari, proponevano che la formula
di privatizzazione adottata per i pubblici servizi e gli istituti di credito,
venisse estesa anche alle imprese pubbliche non partecipate direttamente o indirettamente
dal Ministero del Tesoro.
Lo scopo di tale richiesta era quello di allargare l’ambito
di applicazione della formula di cessione mediante diffusione della proprietà
resa più efficace dagli emendamenti in tema di procedure di voto delle assemblee.
Il Governo ha tuttavia preferito reiterare il decreto senza
accogliere le modificazioni proposte: una clausola di retrodatazione avrebbe
comportato, fra l’altro, una revisione delle procedure di privatizzazione già
avviate e un conseguente ritardo nella conclusione delle vendite. Oltre ai dissensi
sui contenuti degli emendamenti proposti, sono risultate determinanti per il
Governo considerazioni relative all’esigenza di procedere rapidamente alle dismissioni
avviate
Va detto, infine, che, oltre alla definizione degli strumenti
di vendita, il decreto ha semplificato le eventuali procedure societarie da
attivare per agevolare le dismissioni e garantirne il successo.
Il quadro di comando, così come viene delineandosi in base
ai provvedimenti di legge e agli atteggiamenti concreti dell’Esecutivo è quindi
caratterizzato essenzialmente da due soli livelli decisionali, ognuno dei quali
gode di maggiore autonomia decisionale rispetto alla situazione precedente il
decreto dell’11 luglio 1992. La transazione dal vecchio al nuovo regime di controllo
sulle partecipazione dello Stato è però caratterizzata da alcune lacune nelle
decisioni prese durante la crisi valutaria del ‘92 che rendono il quadro ancora
non del tutto chiaro. In effetti, è l’Esecutivo a decidere le modalità di privatizzazione
dei principali servizi pubblici (l’ENEL), delle assicurazioni (l’INA), degli
istituti di credito (Credit, COMIT, e IRI) e dei grandi gruppi di rilevanza
nazionale (l’ILVA), mentre il management dell’IRI e dell’ENI procede del tutto
autonomamente nelle decisioni relative alla cessione di imprese estranee al
cuore strategico dell’attività del gruppo. Tuttavia, rimane una zona d’ombra
in cui il confine ha le diverse responsabilità istituzionali è meno nitido.
Nell’evolversi del processo di riordino e privatizzazione delle
imprese pubbliche, quindi, rimane a favore del Governo un’area di discrezionalità
che rende mobile il confine tra le responsabilità dell’esecutivo e quelle dei
dirigenti. Il permanere di quest’area di incertezza può essere visto con timore,
spingendo ad auspicare un’ulteriore precisazione normativa del quadro di comando,
oppure può essere considerato positivamente come il margine di flessibilità
necessario a far penetrare nelle privatizzazioni obiettivi di politica industriale.
Il terzo decreto legge emanato dopo la scadenza del secondo
(scaduto il 30 gennaio 1994, che in pratica era una copia del primo) ha introdotto
alcune novità. Tra queste merita attenzione l’introduzione del voto per
corrispondenza degli azionisti di minoranza e la possibilità di acquisto
di azioni a rate (non superiore a tre anni); vi sono inoltre diverse disposizioni
atte ad aumentare la trasparenza delle operazioni di vendita e i poteri del
Ministero del Tesoro.
Di seguito si riporta l’evoluzione del quadro normativo riguardante
le privatizzazioni in Italia per consentire di distinguere le diverse fasi con
le quali questo processo di è attuato.
E’ interessante analizzare in modo più specifico la “filosofia”
e le modalità attuative delle principali operazioni di privatizzazione che si
sono avute a partire dalla fine del 1993 ad oggi, per comprendere e valutare
se queste operazioni siano risultate realmente efficienti o se invece si sia
trattato di un semplice trasferimento delle attività dal settore pubblico a
quello privato, che ha in questo modo ha permesso a MEDIOBANCA , alle grandi
familgie padronali, alle banche e alle assicurazioni, ai grandi gruppi del capitaismo
italiano di accrescere il proprio potere nell’economia.
In Italia la speranza di un rimedio al debito pubblico ha animato
tutta la prima fase del dibattito sulle privatizzazioni, riflettendosi concretamente
negli orientamenti governativi.
Nel discorso programmatico tenuto alle Camere il 6 maggio 1993,
il Presidente del Consiglio Ciampi affermò che le dismissioni non sarebbero
state attuate “per dare qualche sollievo agli oneri finanziari dello Stato”.
In seguito, il comportamento dell’esecutivo si è differenziato concretamente
da quello dei due governi immediatamente precedenti per almeno due ragioni.
In primo luogo, le entrate derivanti dalla vendita di partecipazioni
pubbliche non sono state iscritte nella Finanziaria, riconoscendo a un tempo
la straordinarietà di questi proventi e la difficoltà di prevederne l’esatto
ammontare e il momento di effettivo realizzo. Si ricorderà che la Finanziaria
1992 prevedeva 15.000 miliardi di entrate straordinarie derivanti dalla trasformazione
in società per azioni dei gruppi pubblici e dalla successiva collocazione di
partecipazioni sui mercati mobiliari. Le entrate relative alla cessione di queste
partecipazioni, pur avendo carattere di straordinarietà, non venivano destinate
in maniera esplicita alla riduzione dell’indebitamento. In questo modo si allentava
la spinta al contenimento della spesa, dal momento che implicitamente si confondeva
una beneficio temporaneo per un risanamento strutturale. La Finanziaria 1993
aveva parzialmente innovato rispetto a questa impostazione, destinando i 7.000
miliardi previsti a un Fondo di Ammortamento del debito pubblico. Si trattava
però di una soluzione parziale. Se l’obiettivo resta quello di abbattere l’indebitamento,
l’iscrizione in bilancio degli ipotetici realizzi delle dismissioni, permette
al limite di raggiungere il risultato limitando la riduzione del disavanzo primario.
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