Vittorio Feltri per "il Giornale"
Ieri, mentre leggevo l'intervista su Raul Gardini rilasciata da Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo per il Corriere della sera , la memoria, non troppo arrugginita, mi ha restituito ricordi abbastanza nitidi sulle 36 ore che precedettero il suicidio dell'imprenditore,risalente alla mattina del 23 luglio 1993, vent'anni orsono, in piena buriana di Tangentopoli.


Spiego perché. La sera del 21 luglio cenai con lui nella sua casa di piazza Belgioioso (vicino a piazza Meda, dove c'è il Disco dello scultore Arnaldo Pomodoro). Ignoravo e ancora ignoro il motivo per il quale mi avesse invitato. Fui sorpreso, ma accettai la sua proposta senza pormi problemi: non volevo essere scortese con un uomo che, oltretutto, era stato fra gli azionisti del giornale che dirigevo a quel tempo, L'Indipendente, quotidiano dedito alla narrazione dei fatti prodromici alla caduta della Prima Repubblica.

Trascorsi alcuni minuti, il magnate si appalesò: abito grigio antracite, capelli bianchi, espressione severa. Dopo i soliti convenevoli- stretta di mano, come sta?, bene grazie, e lei?- si sedette di fronte a me, ma aprì bocca soltanto per ordinare al cameriere di servire l'aperitivo: champagne Veuve Clicquot.
Scuro in volto come uno cui sia stato diagnosticato un cancro che non perdona, Gardini bevve un sorso, deglutì e si accese una Muratti Ambassador. Gli chiesi se potessi fare altrettanto. Con la sigaretta tra le labbra mi illudevo di recuperare disinvoltura. Trovai soltanto il coraggio di rompere il silenzio di tomba, rivolgendogli la domanda più cretina in quella circostanza surreale: «Che ne dice, presidente, di questa mattanza di politici e imprenditori?».

Per fortuna si inserì il cameriere con una variante alla stringata conversazione: «Se lo desiderano, prego, la cena è pronta». Gardini si alzò e mi indicò la sala da pranzo. Con sgomento constatai che la tavola era apparecchiata per due, dal che ebbi a desumere che per un'oretta,forse di più,sarei stato costretto, senza l'ausilio di altri commensali, a escogitare un espediente per sciogliere il rigidissimo padrone di casa.
Provai in ogni modo a stimolare il suo interesse. Non ci fu verso di fargli cambiare espressione: occhi fissi sulla minestrina di alta cucina ospedaliera, la mano destra impegnata col cucchiaio, le dita della sinistra che stringevano la sigaretta come fosse l'ultima,quella di un condannato a morte. Gardini sorbiva un po' di brodino e fumava; ogni tre cucchiaiate e due boccate, beveva champagne. Parole, zero. Un incubo. Non comprendevo il senso di quella serata. Perché mi avrà invitato qui per non dirmi niente?, mi domandavo.

Per cui non mi fu difficile intuire da che cosa dipendesse il suo umore tetro. Rimaneva un mistero: perché convocarmi al suo desco? Forse pretendeva da me qualche dritta. Avendogli però detto, non appena giunto in piazza Belgioioso, che non avevo informazioni fresche, egli si rese conto dell'inutilità della mia presenza, e sprofondò nei suoi cupi pensieri.

2 - I POLITICI, LA MAXI TANGENTE GLI ULTIMI GIORNI DI UN «MORO» VISIONARIO I FIGLI, LA VELA, LE SFIDE
Raffaella Polato per Corriere della Sera"

E però vent'anni dopo dove, in che modo (non) è finito quello in cui, tributata pietà alla morte, un Paese intero aveva creduto come in un rito di autopurificazione? E tanti dei relativi sacerdoti (non solo nella politica)? E le promesse, i giuramenti di una res pubblica e privata fondata sulla pulizia, la trasparenza, il rigore, su confini netti tra i giusti e i peccatori?


Non è solo perché Gardini aveva portato l'Italia nelle case nostre e del mondo con il sogno a vela dell'America's Cup (con il Moro arrivò secondo e, quando venne premiato, il sindaco di San Diego Marylin O'Connor dedicò un quarto d'ora a lui per poi liquidare il vincitore con un sinteticissimo: «E complimenti a Bill Koch»).
Né perché, prima di cadere e perdere tutto come solo un giocatore di poker può, fece ancora più grande l'impero del suocero, Serafino Ferruzzi, e in quell'impero davvero «non tramontava mai il sole». Nemmeno perché casa sua era sempre Ravenna, gli amici erano sempre Vianello il marinaio e il mitico Vanni Ballestrazzi, professione giornalista, la gente di lì, la «sua» gente, quelli con cui sei cresciuto e continui a darti del tu e non smetti di vederti al bar.
È tanto, certo: non spiega comunque tutto. L'altro ieri, venerdì, «il Vanni» stava al ristorante e da un tavolo accanto una signora scuoteva la testa con i suoi: «Ravenna dopo Raul non è più stata Ravenna». Stesse ore, il settimanale della provincia Sette sere qui titolava: «Nostalgia di Gardini». Poi martedì prossimo, c'è da giurarci, la chiesa di San Rocco (quella dove nel 1942 fece la Comunione con «il Vanni») sarà stracolma di ravennati quasi come la basilica di San Francesco lo fu per i funerali.
Solo che adesso saranno passati vent'anni, appunto, questa sarà la cerimonia che la moglie Idina e i figli Eleonora, Ivan, Maria Speranza - loro, soprattutto e soprattutto in pubblico, non hanno mai più voluto parlare di quel che accadde e portò allo sparo di Palazzo Belgioioso - organizzano in intimità ogni 23 luglio.
Non importa più di tanto lì, in città, che politica e business abbiano rimosso Gardini. Dà fastidio che lo si ricordi solo per Enimont. Tranne «Raul» (che semmai giustificano oggi più di ieri) non hanno perdonato niente e nessuno per tutto quel che accadde: non il resto della famiglia della moglie, non certa politica, non quell'averlo saputo sospeso per giorni e giorni e giorni con lo spettro delle manette quando lui, se proprio, in carcere voleva andarci «con le mie gambe» dopo essersi spontaneamente presentato a raccontare la «sua» verità.
Magari non sarebbe comunque finita così. Magari la vecchia Walter Ppk l'avrebbe comunque tirata fuori lo stesso. Ma i ravennati, e chi l'ha conosciuto davvero o avuto amico nel mondo, non è in questo modo che lo ricordano. Nella memoria hanno certo tutte le mille facce del suo carattere: generoso e però spietato negli affari, coraggioso e però fin oltre il limite dell'azzardo, spavaldo e strasicuro e però a suo modo ingenuo (non per niente aveva rubato all'amico Vanni e fatto propria, ma evidentemente troppe volte dimenticata, la seguente massima: «La fiducia nel prossimo è l'unico delitto che non resterà impunito»).
Con tutto ciò - e nel linguaggio di qui è già un unico, immenso complimento raccontato con tenerezza e rimpianto - resta un altro il tributo in cui, dovessero scegliere una sola parola, riassumerebbero Gardini: «Visionario». Ovviamente a partire dal business. Cominciò a parlare con ben più di vent'anni d'anticipo di energia verde, per dire: e a dargli retta, allora, fu quasi solo George Bush padre, con il quale ne discusse e che gli fece costruire il primo impianto americano di biocarburanti. La strada - i cereali, oltre allo zucchero in Brasile: ma questa è un'altra storia - vista dal 2013 non era quella giusta?
Prometteva ricerca. Ci credeva. L'avrebbe fatta (non si fosse perduto nei corridoi più neri della politica, credendo come Enrico Mattei di poterla usare come un taxi, e viceversa: il guaio è che altri taxi hanno mostrato di circolare ancora). L'avrebbe fatta perché era un affare, verissimo. Ma leggete questa frase: «Non si vogliono rendere conto, nei fatti e non solo a parole, che lo sviluppo dell'economia sarà globale o non sarà. E lo sviluppo dovrà ripartire dal primario, cioè dall'agricoltura.
La fase meccano-petrolifera sta toccando il tetto, continuare su questa linea può voler dire consumare il nostro pianeta, avvelenarlo, renderlo invivibile. L'economia funziona quando anche la soluzione dei problemi è un guadagno, o meglio un utile, ed è ricchezza. Se non è così, diventa asfittica, perde futuro. Perciò bisogna innescare uno sviluppo che affronti positivamente problemi globali: la fame nel mondo e l'inquinamento del pianeta». Ricorda qualcosa? Raul Gardini. 1992.
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/feltri-suicidio-gardini-ma-quale-atto-impeto-covo-proposito-59947.htm
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